FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE”

INTRODUZIONE

Religione come spiritualità

Entrare nell’ambito religioso, sia della vita sia delle opere di Dostoevskij, è addentrarsi in un mondo che per l’autore è essenziale ed esistenziale. Non è una religiosità chiara, sicura, adamantina: trattandosi di una ricerca, mai conclusa, essa appare con tutti i dubbi e con tutte i chiaro-oscuri di una materia, che avverte decisiva e nello stesso tempo mai sicuramente decisa. Per il fatto che il suo orizzonte storico e geografico è quello della Russia, è predominante una religiosità che trova le sue forme espressive nell’ortodossia. Ma il suo orizzonte non si limita lì, perché la sua religiosità viene da una profonda esigenza spirituale. E il tema religioso dipende dalle domande fondamentali a proposito della vita: sono le domande che attengono alla cosiddette “cose ultime”. E così le questioni di fondo sono quelle del destino dell’uomo e del suo vivere, il destino che ha il mondo, non solo come realtà naturale, e, più in là, addirittura, il destino di Dio. Poi, di fatto, la riflessione circa quei mali che si identificano con i demoni, legati alle idee provenienti dall’Europa, porta a considerare la necessità di una autentica rivoluzione, quella, naturalmente, dello spirito!

Dostoevskij ha indagato sino in fondo lo spirito rivoluzionario. Il destino storico della Russia ha giustificato le intuizioni di Dostoevskij per il quale la rivoluzione si è compiuta in considerevole misura. E per quanto essa sembri distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia deve essere riconosciuta per russa e tradizionale. L’auto distruzione è un tratto endemico. Tale costituzione della nostra anima nazionale ha aiutato Dostoevskij ad approfondire le cose dell’anima sino alla spiritualità, a uscire dai limiti della mediocrità dell’anima e a scoprire lontananze e profondità spirituali. (Berdajaev, p. 11)

Per una religiosità di popolo

Questo genere di analisi, fatta da Berdjaev a ridosso della rivoluzione ormai in atto, fa capire che la componente spirituale in Russia è stata di fatto sospesa, per una visione “religiosa” – quella messa in atto dai rivoluzionari – che non ha niente a che fare con la tradizione, perché la religione tradizionale viene combattuta come espressione della reazione e della controrivoluzione: essa si oppone non solo al cambiamento delle strutture e delle sovrastrutture, ma all’avvento del “sol dell’avvenire” identificato con il potere al popolo, che è di fatto “potere ai soviet del popolo”. L’indicazione data da Dostoevskij per il recupero della vera anima della Russia è stata disattesa, anche perché non è facile capire che cosa voglia di fatto suggerire lo scrittore con i suoi racconti. La religione di cui egli parla non si identifica di fatto con le forme tradizionali, e nello stesso tempo la religiosità “popolare” non appare sufficientemente elaborata e chiarita, se quanto noi scopriamo messo in bocca ai suoi personaggi risulta più un apparato di idee, che sono ben lungi da essere quelle sulla bocca e nella mente della gente comune, a cui egli fa appello.

Indubbiamente Dostoevskij ha come obiettivo il recupero della componente spirituale, che certamente è nel suo profondo coerente con l’eredità cristiana. Non si potrebbe comprendere pienamente il pensiero dello scrittore senza far riferimento al Cristianesimo e a ciò che di spirituale esso comunica, ben oltre le forme istituzionali e devozionali, ben oltre le forme dottrinarie e morali. Andare oltre qui significa che il suo è un cristianesimo visionario, costruito sulle immagini che egli ha e che egli dà mediante i racconti, spesso scaturenti dai personaggi dello stesso romanzo. Costoro si mettono a raccontare la loro “visione” di Dio, di Cristo, del tipo di mondo che essi vorrebbero vedere sempre ben oltre ciò che la storia o la realtà ci offre. Questo suo Cristianesimo visionario, fatto di immagini e di racconti, è indubbiamente molto suggestivo e nello stesso tempo molto sfuggente: attrae e seduce per la forza espressiva che esso ha, quasi un teatro dentro il teatro della vita, e nello stesso tempo crea forme di disorientamento, perché si fatica a trovare nel racconto qualcosa di ben definito circa la proposta di vita che andrebbe assunta fuori del racconto, quando poi si entra nella vita vissuta. Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE””

FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.

FEDOR DOSTOEVSKIJ nel 1876

INTRODUZIONE

La questione del male continua

Sempre e solo il male. Ciò che domina nella vita e nelle opere di Dostoevskij è il male. E tuttavia non è qualcosa di disperato e di disperante. Si potrebbe dire però che esso diventa ossessivo, anche perché tra l’epilessia che lo assale frequentemente, il demone del gioco che lo prende e lo seduce senza scampo, e la necessità di sfuggire ai creditori e agli editori, egli si sente attanagliato e sempre più avvinto. Se rifugge dall’idea che il male debba essere cercato e trovato in un sistema che corrompe, che annienta, che tritura, volendo addossare le colpe e le responsabilità del proprio male a chi attorno appare irretito in ideologie perverse e pervertitrici, non può comunque negare che siano in corso in Europa e in Russia delle trasformazioni che hanno in sé il germe della rovina.

I mali nell’ambito familiare

Ma le sue ossessioni non vengono solo dal sottosuolo di un mondo in ebollizione, perché la società, sempre inquieta, è alla ricerca di un equilibrio, mai totalmente raggiunto. C’è pure un sottosuolo che gli appartiene, che è il suo stesso vivere contrassegnato da una serie di vicende con le quali è messo a dura prova chiunque, in modo particolare lui, già toccato da esperienze al di là di ogni limite immaginabile.

Al principio del 1865, Dostoevskij scorgeva attorno a sé soltanto morte, deserto e fantasmi. Il 15 aprile del 1864 era morta la prima moglie, di tisi, dopo una lenta agonia. Negli ultimi mesi di vita, mentre nella stanza accanto il marito modulava la voce grottesca e furibonda dell’“uomo del sottosuolo”, Mar’ja Dmitrievna sputava sangue. La morte tornò presto a visitare Dostoevskij. Nel luglio dello stesso 1864, scomparve suo fratello Michail, il più amato, in-sieme al quale aveva pubblicato due riviste, “Il tempo” ed “Epoca”. Dostoevskij rimase sconvolto della nuova perdita. “Letteralmente non m’era rimasto nulla per cui vivere” scrisse più tardi. “Stringere nuovi legami, creare una nuova vita! Mi ripugnava anche il solo pensarci. E per la prima volta sentii che non c’era nulla con cui sostituirli, che al mondo amavo soltanto loro, e che un nuovo amore non si può avere e neppure si deve averlo. Tutto, intorno a me, fu freddo e deserto”. Morendo, Michail aveva lasciato quindicimila rubli di debiti. Dostoevskij si impegnò a pagarli, e a mantenere la vedova del fratello con quattro figli, l’amante del fratello con un figlio, un altro fratello alcolizzato, e il figlio della prima moglie, Pasa, insolente e presuntuoso, che divideva il suo appartamento di Pietroburgo. (Citati, p. 281) Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.”

Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte

INTRODUZIONE

Le diverse letture dello scrittore

Il II centenario della nascita di Dostoevskij è un’occasione per cercare di comprendere meglio lo scrittore difficilmente catalogabile con gli schemi di certa storia della letteratura. È anche l’occasione per rileggere testi, indubbiamente non facili, che, data la complessità delle vicende e soprattutto dei personaggi che vi si trovano, con tutti i loro tormenti interiori, possono disorientare chi vi si accosta senza una appropriata introduzione. C’è chi vi trova la vena autobiografica, che, senza alcun dubbio, permea molte pagine di quest’uomo, tanto inquieto e tanto toccato dal dolore, dal male, dallo stesso azzardo che lui ha conosciuto a partire dalla frenesia del gioco. C’è chi vi legge il tormentato ottenebramento, a cui va incontro un’Europa avviata ad un progresso industriale con l’illusione, coltivata, di poter godere del benessere, mentre invece essa scivola inevitabilmente verso una catastrofe, poi dilagata nelle tragedie del Novecento. C’è chi vi legge la ricerca spasmodica di una salvezza, tanto desiderata e nel contempo così difficilmente perseguita, mentre, con i contorcimenti psicologici che muovono verso la follia, imperversa una specie di “cupio dissolvi”, derivata dalla perdita della spiritualità, quella cristiana, a cui egli punta decisamente come la sola fonte di autentico rinnovamento.

Il pensiero dello scrittore: il senso della vita in mezzo al male

Non è facile seguire il suo pensiero, anche perché egli propriamente non è un filosofo, per quanto appaia sottesa, nei suoi testi, una certa filosofia della vita. E non è neppure un pedagogista o uno psicologo che si premura di scandagliare l’animo umano, soprattutto quando è in formazione, perché possa crescere secondo criteri ragionevoli, se non sono di fatto razionali. Egli è principalmente uno scrittore di romanzi, avendo trovato questa vena espressiva non solo come fonte di guadagno per vivere, ma come la sola modalità per lui di comprendere e spiegare il suo vissuto, estremamente tormentato, anche da una serie di circostanze drammatiche che hanno segnato la sua esistenza. Ciò che racconta sono indubbiamente vicende umane che lo sfiorano, se non altro perché molti dei suoi personaggi vivono qualcosa che appartiene alla sua stessa esistenza e riflettono mali e tormenti che lo toccano: chi ben conosce quanto egli ha vissuto, non fatica a trovare molti elementi autobiografici. E tuttavia, come succede a tanti scrittori, le sue storie sono pur sempre vicende umane, scandagliate soprattutto nel tormento interiore. Esse riflettono il parto travagliato di un umanesimo, soprattutto russo, che era in corso, in un mondo da troppo tempo in letargo e vorticosamente avviato a trasformazioni se-gnate poi dalla tragedia. Per quanto egli rifletta il mondo russo, di cui è figlio, e di cui, soprattutto, è espressione, tutto quello che scrive a proposito dell’uomo travalica comunque quel particolare mondo, e, per tanti versi, anche la sua epoca, così travagliata e sottoposta a cambiamenti, come sempre succede, non facilmente gestiti e soprattutto gestibili. Leggi tutto “Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte”

DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA

LECTURA DANTIS IN LIMINE VITAE

La celebrazione centenaria in corso deve far pensare soprattutto alla morte di Dante. È indubbiamente un evento doloroso, e, certamente, anche inaspettato, se non altro perché avviene quando il poeta, ormai famoso per la sua grande opera, avrebbe potuto godere forse qualcosa di questa sua fama. Se il cammino era posto “nel mezzo” a 35 anni, e questi suoi anni cadevano mirabilmente nel 1300, anno giubilare, ma soprattutto anno carico nei simbolismi numerici del suo totale riferimento a Dio, la vita sua si sarebbe dovuta compiere a 70 anni. Ed invece Dante sparisce a 56 anni con un tracollo che avviene in poco tempo, senza che ci siano avvisaglie. Ma questo suo inabissarsi nella morte, che tutto vorrebbe assorbire e sfiorire, diventa in realtà l’ingresso in un mondo che gli dà giustamente fama ed eternità. È quello che lui stesso avverte di meritare, pur in mezzo all’amarezza di un esilio che diventa di giorno in giorno sempre più duro e senza sbocchi. Mentre la sua situazione di esiliato si incancrenisce e addirittura si fa senza speranza con la condanna a morte, non solo sua, ma anche dei figli, dopo la battaglia di Montecatini (1315), oltre a cercare la sua pace fra chi lo ammira e lo desidera, si dedica con tutte le sue forze ad ultimare la grande opera, ormai salendo sempre più fino all’ultimo cielo. C’è dunque anche in questo suo cammino come un’aspirazione alla pace eterna, senza per questo che egli si possa augurare la morte o possa cercarla. Semmai è a Firenze che si insiste nel volere la condanna alla pena capitale. Egli piuttosto aspira al riconoscimento pubblico della sua grandezza di poeta e forse anche per questo cerca chi lo possa comprendere e sostenere in questa sua aspirazione, accogliendo l’invito del Signore di Ravenna, che ha pure interessi e sensibilità per la poesia.

Dante esprime con chiarezza di essere consapevole che la sua opera gli possa meritare il “cappello” di poeta, e si augura sempre che la sua incoronazione avvenga a Firenze …

Se mai continga che ’l poema sacro

al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m’ha fatto per molti anni macro, Leggi tutto “DANTE “S’INDÌA” E “S’ETTERNA”- IL COMPIMENTO DELLA VITA E DEL POEMA”

PASQUA DI LUCE

Non è facile parlare della risurrezione di Gesù, perché nessuno ha potuto vedere l’evento nel suo svolgersi, nessuno potrà mai raccontare che cosa sia veramente successo in quella tomba nell’attimo in cui il cadavere riprendeva vita.

Nessuno lo ha visto rialzarsi, aprire l’imboccatura della porta con la lastra fatta rotolare davanti e addirittura sigillata. Nessuno lo ha visto uscire. Nessuno ha ricevuto la rivelazione di come si sono svolti i fatti …Tanti però possono dire di averlo visto vivo, di averlo incontrato. Solo perché lui si è fatto presente, si è fatto riconoscere, si è fatto toccare.

E da allora il “passa-parola” è proprio questo: il Signore è risorto e io l’ho visto perché lui si è fatto vedere a me. La Pasqua da vivere è l’esperienza di vederlo negli occhi stupiti e folgorati di quanti hanno avuto il dono di essere raggiunti da Lui. Non per nulla si parla anche di una specie di illuminazione, come se nello sguardo rimanesse questa luce intensa che sfolgora, che affascina, che abbacina.

LA PASQUA VISSUTA

IN UNA COMUNICAZIONE DI LUCE

I RACCONTI DEI VANGELI E DEI TESTIMONI

Naturalmente questa luce avvolgente non appare come una esperienza diretta, quella che le donne e i discepoli possono dire di aver provato davanti al sepolcro o nel momento dell’apparizione del risorto. Non risulta mai che il Risorto sia visto da loro avvolto di una luce abbagliante. Pur pensando di avere a che fare con un fantasma, perché sapevano amaramente che era morto, questa sua apparizione non risulta esserci in un alone di luce. Non lo vedono, come alcuni di loro lo hanno visto in occasione della Trasfigurazione, dentro un fenomeno che non riescono neppure a descrivere dettagliatamente. Qui non c’è nulla di clamoroso a segnalare il risorto, che del resto faticano a riconoscere. Leggi tutto “PASQUA DI LUCE”

DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO

DANTE E LA POLITICA

Il canto VI di ogni cantica del suo poema ha un contenuto politico. Questo rivela, se già non si aveva a sufficienza da quanto Dante ha coltivato e ha fatto nella sua giovinezza, che l’argomento sta particolarmente a cuore al poeta. Del resto egli fu parte in causa nei giochi politici che poi lo travolsero, e dedicò alla politica molte delle sue energie, sia quando era nell’agone, sia quando ne fu estromesso.

Per Dante la politica è partecipazione diretta alla società, in quella forma di governo che non è solo direzione degli affari, ma è soprattutto corresponsabilità, in qualunque posizione sociale uno si trovi e qualunque sia il lavoro che uno svolga. Dante ha pure esercitato funzioni direttive, essendo stato priore a Firenze; ma la sua politica non è vissuta solo in quelle che noi chiameremmo oggi “le stanze dei bottoni”, dove si prendono decisioni; è vissuta sul campo e nelle discussioni anche animate. Anche quando ne risulterà estromesso – e lo sarà in modo drammatico e infamante – egli avverte sempre la sua responsabilità nel contribuire alla “cosa pubblica”. E ci sarà sempre, anche se poi i giochi si fanno duri ed egli sarà costretto, un po’ sdegnosamente, a “far parte per se stesso”, fuori dagli schemi di partito, fuori dalle leve di comando, mai del tutto fuori da quell’amor di patria, che lo farà sentire sempre fiorentino, pur a darne giudizi feroci, sempre italiano, pur a provare amarezza e sdegno per le condizioni in cui si trova la “serva Italia”.

FLORENTINUS O YTALUS

Se Firenze lo mette al bando e lui rimarrà “bandito”, Dante amerà sempre la sua “Fiorenza”, anche da esule ferito nel suo onore, sempre firmandosi come exul inmeritus perché egli ritiene di non aver mai “meritato” quel genere di condanna. Per lui essere fiorentino è invece un titolo di merito e come tale e gli si ritiene sempre, dovunque si troverà a vivere. Solo quando deve richiamare l’attenzione nei confronti dell’Italia, si firmerà con il titolo di “ytalus”. E tale Dante è non perché abbia a cuore un’Italia unita, come noi oggi la intendiamo, ma perché in essa riconoscerà la presenza più unificante possibile dalla lingua volgare, che naturalmente è tutta da costruire e che indubbiamente gli contribuisce a creare

Andando ramingo per tante città italiane, senza mai trovare un’ospitalità sicura, se non in modo temporaneo, egli più che mai avvertirà lo stato miserevole di queste città, divise al loro interno: ciò sarà motivo di tanta miseria, anche in presenza di cospicui guadagni negli affari. E perciò il suo disegno politico si amplierà anche oltre le mura cittadine per cercare di costruire con una doverosa purificazione un mondo diverso da quello in cui c’è solo da perdersi, come si è perso lui, come è smarrito ogni uomo, incapace di risorgere in presenza delle belve affamate che impediscono la salvezza. Solo la guida della ragione, rappresentata da Virgilio; solo la guida della grazia, rappresentata da Beatrice, può condurre alla purificazione e alla beatitudine. È questo il percorso che ritiene di dover fare lui, come rappresentante dell’umanità smarrita, perché tutti possano ricostruirsi in un mondo davvero quanto mai desolato. Leggi tutto “DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO”

MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI

NEL GETSEMANI: Padre, se possibile, passi da me                       questo calice! La tua volontà sia sempre fatta!

.

INTRODUZIONE1

Il percorso tradizionale della “Via Crucis” teneva presente la strada percorsa da Gesù per arrivare al Calvario e dunque solo il momento finale della sua Passione. Ma la Passione per Gesù ha richiesto anche altri momenti non meno dolorosi. E comunque essa non si riduce alle sole ultime ore di vita, come se il Signore avesse sofferto solo in quei momenti. Certamente quelle ore di violenza, che si potrebbero definire senza senso, come lo sono le tante ancora presenti nelle vicende di molte persone, hanno rivelato un uomo che, a fronte di tanto accanimento ingiusto, risponde sempre con dignità e soprattutto con l’amore di chi si dona, manifestando così l’amore di Dio che è possibile all’uomo. E noi dobbiamo considerare la sua passione soprattutto a partire dall’amore, che in una cornice di violenza brutale, Gesù continua ad esprimere: questo suo insegnamento deve essere raccolto come vita secondo lo Spirito, quanto mai necessaria alla nostra esistenza perché sia davvero più umana. Più che piangere o disperare per queste violenze che lo travolgono, noi dobbiamo cogliere come “vangelo”, e quindi come bella ed edificante notizia, la sua volontà di andare fino in fondo nel disegno del Padre, che lo vuole come espressione della sua “giustizia”, per noi uomini e per la nostra salvezza. La giustizia di Dio non è affatto quella forma di castigo con cui noi vorremmo vedere l’intervento di Dio che volendo riportare le cose a posto, punisce gli avversari, riversando su di loro la sua giusta ira. Dio invece esprime la sua giustizia tendendo la mano all’uomo, compreso colui che fa del male e lo fa anche alla sua persona, perché si ravveda, si converta, si rinnovi. Già nell’atto del tradimento di Giuda e nel rinnegamento di Pietro e dell’abbandono da parte dei discepoli, Gesù ha una parola amichevole per colui che lo consegna, ha uno sguardo pietoso per colui che dice di non conoscerlo, ha un intervento di difesa per i discepoli che si disperdono senza essere inseguiti e colpiti, mentre il pastore va a morire per loro. Così l’esercizio della “Via Crucis” non deve essere solo una lamentosa considerazione dei dolori di Gesù, ma una riflessione salutare sul suo modo di affrontare il male e le cattiverie, mediante l’amore che si dona, mediante la risposta coraggiosa alla volontà di Dio, che chiede sempre il dono d’amore come risposta al male dell’uomo, perché l’uomo conosca un’altra maniera di vivere. Impariamo allora a considerare la passione di Gesù, che è pure la passione di tante persone, come il momento nel quale ci viene rivelato il vivere di Dio che può diventare il miglior vivere per l’uomo ….

Continuiamo la lettura del testo di LUIGI SANTUCCI, addentrandoci in uno dei momenti più significativi della Passione di Gesù, quello che in genere noi definiamo la sua “agonia”. Essa è il combattimento, tutto interiore, che può prendere ciascuno di noi, quando, attorno, il male e la violenza, l’inganno e la cattiveria hanno il sopravvento e sembrano schiacciare. Allo sconforto, allo smarrimento, può subentrare l’angosciosa prospettiva di non farcela e magari anche la dolorosa reazione di chi si sente abbandonato da Dio e di finire disperato nella propria solitudine amara. Anche Gesù nei momenti di preghiera che precedono le ore drammatiche del processo e della esecuzione della condanna, avverte il completo abbandono dei suoi e soprattutto quel silenzio misterioso del Padre, che non gli rinnova, come in altre occasioni, il suo compiacimento, il suo appoggio. La mano, tesa a sostegno, sembra mancare; la risposta alla sua implorazione d’aiuto non si fa sentire; solo un angelo compare con il calice da bere, a confermare che non c’è altra strada se non quella del sacrificio personale. Seguendo attentamente Gesù in questa sua preghiera, ci rendiamo conto del vero significato della preghiera: non viene avanzata per chiedere qualcosa a Dio, ma per disporre la propria volontà alla volontà di Dio, in un esercizio che lo porta ad essere davvero Figlio, cioè “tutto suo Padre”. E poi davanti al traditore, davanti a chi lo cattura, vien fuori ancora colui che si rivela disponibile, come è sempre Dio con noi. Gesù sembra preso nel vortice di avvenimenti che lo risucchiano; in realtà il vero vangelo si riconosce laddove si dice che è lui a consegnarsi nelle mani, perché è lui a vivere quel momento in piena disponibilità. Noi ci lasciamo impressionare da quanto succede, per sottolineare la perfidia di Giuda, la debolezza dei suoi, la brutalità di gente che pensa di essere forte solo perché, in gruppo e col favore delle tenebre, riesce ad avere la meglio su di uno. Ma il più grande è Lui e lo è nel dono che fa di sé!

                                                   1- GESU’ E’ TUTTO SOLO

Qui lo scrittore vuole mettere in risalto la completa solitudine di Gesù nelle ore notturne della preghiera. Gli amici non ci sono perché dormono. Il Padre non si fa sentire in quel momento. Gesù è davvero solo, con la sua angoscia!

IL SILENZIO

Incominciò ad aver paura e a rattristarsi. Leggi tutto “MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI”

DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO

DANTE E FIRENZE: UN AMORE TORMENTATO

Il rapporto tra Firenze e il suo più noto cittadino, che è anche il suo massimo poeta, è piuttosto burrascoso, tormentato, non ancora del tutto sopito, se si pensa al fatto che lui non vi è sepolto e che non vi troverà mai sepoltura. E le polemiche per questo motivo persistono. Dante è vissuto in anni molto agitati, in cui le lotte intestine alla città erano frequenti, e soprattutto molto sanguinose, tali da travolgere lo stesso poeta, che non vi troverà pace. E tuttavia, per la sua città, Dante coltivò un grande amore, anche a registrarne le degenerazioni, ritenute insanabili. Anche quando sembra che dalle invettive sprigioni odio, risentimento, malanimo, in realtà per Firenze c’è sempre amore, quello che lo fa essere capace di riconoscere, anche agli avversari irriducibili, quella forma di grandezza che fa stagliare bene le figure dei suoi personaggi.

Nei confronti di Firenze egli tende a divenire “Laudator temporis acti”, e perciò ammiratore del buon tempo andato, che sarebbe bello ripristinare, senza mai riuscire a farlo. Evidentemente la città è in fermento e in trasformazione, come ogni realtà umana, in ogni tempo. Ma qui, forse, l’accelerazione per questi mutamenti appariva notevole, anche per gli interessi di tipo economico e finanziario che erano messi in campo.

Firenze era indubbiamente in rapida trasformazione per un accumulo di denaro, che risultava quanto mai consistente e ad ampio raggio dentro la sua popolazione. Gli appetiti apparivano smodati, ma anche le trasformazioni sociali erano rapide e tali da non essere facilmente controllate e controllabili neppure dentro istituzioni politiche forti. Anzi, è proprio il sistema istituzionale che non funziona, e ne sono vittime i cittadini stessi; ne risulterà vittima lo stesso Dante, proprio all’apice della sua carriera politica, che sarà anche la sua rovina.

Dante viene a trovarsi in un periodo di rapide trasformazioni politiche, sociali e soprattutto economiche, mentre sull’orizzonte i sistemi che avevano costruito l’assetto europeo nel Medioevo non tenevano più, e lui pensava di appellarsi ad esse per recuperare un po’ di pace, senza rendersi conto che il mondo andava in ben altre direzioni. Papato ed Impero, le colonne portanti del sistema medievale, vivevano uno scontro che li avrebbe esauriti, mentre i nuovi centri di potere, ma soprattutto le nuove energie economiche, stavano emergendo nei particolarismi diversi, e poi destinati allo scontro, e cioè le città, di notevole vivacità mercantile, e i regni periferici all’impero, che larga parte di storia avrebbero avuto con il loro assetto nazionale. Proprio l’anno della collocazione del grande ideale viaggio nell’oltretomba, narrato nel suo capolavoro, appare come l’anno del tramonto del Medioevo, quando, proprio in occasione del Giubileo, appaiono nuove forze all’orizzonte, per manovrare le quali è necessario un nuovo sistema istituzionale. Dante non sembra rendersi conto; e, forse anche perché travolto dalle circostanze che lo investono personalmente, pensa che sia possibile il rinnovamento facendo appello a ciò che in realtà è al tramonto. Leggi tutto “DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO”

Per una riflessione al tempo del Coronavirus

A 50 ANNI DALLA MORTE DI GIUSEPPE UNGARETTI

A 100 ANNI DALLA “SPAGNOLA” LA POESIA CI SALVA ANCORA

Introduzione

In questa forzata pausa che ci costringe tutti a casa, ma soprattutto ci vede isolati, non c’è spazio se non per la parola, la nostra e la sua, quella di Dio. E’ la parola semplice e ricca della poesia, quella di sempre e quella che si rinnova in presenza di realtà che impongono all’uomo di non perdersi, di non lasciarsi andare, di non rinunciare ad essere, ad esistere. E l’uomo c’è, soprattutto per la parola, quella che l’ha creato e quella che lui stesso crea, quella che l’ha salvato e quella che lo continua a salvare, perché non abbia a cadere nel nulla. Questa parola, anche a non poterla dire, perché isolati e perché il nostro parlare, aprendo la bocca, potrebbe veicolare il male, può e deve diventare comunicazione di vita, come lo fu anche in altri tempi, in cui la morte ballava vorticosamente mietendo con la sua falce, sia con la violenza, stupida, degli uomini, sia con la violenza, cieca, dei virus. Lì sembrava morta la parola, come se essa avesse il solo spazio della bocca, della gola, dei polmoni pieni d’aria: ma se la morte spegneva ogni alito, allora anche la parola rimaneva spenta. Eppure ci rimane la parola scritta, quella a cui si affida anche Dio per raggiungerci. E la parola scritta risveglia la speranza, fa risorgere la vita, ridona l’alito dello Spirito … purché sia una parola creatrice, come quella di Dio; purché sia una parola salvatrice, come quella del Signore risorto che fa risorgere. E questa parola, proprio perché crea, produce, rivitalizza, procede, come è nell’agire delle persone divine. È la parola della poiesis (=  poiesis), cioè del verbo greco poiew (= poieo), con cui si indica il fare che procede dal cuore, lo stesso fare che appartiene a Dio e che Dio partecipa all’uomo. E’ la parola della poesia, quella innata in ciascuno, perché ognuno di noi, anche senza tecniche particolari, può generare da sé la parola con cui è stato generato e con cui può continuare a generare.

In tempi di morte, o, meglio, di una vita sempre più flebile, perché la morte vorrebbe trionfare, facciamo venir fuori la parola ricreatrice, rivelatrice, rigeneratrice, perché anche così possiamo vincere quel silenzio e quel caos che vorrebbe travolgerci e spegnerci. Si è parlato nel secolo scorso della morte della poesia, perché nessuno più poteva cantare, come diceva l’antico salmista, in presenza di un disastro che aveva annientato la vita di tanti e la speranza di tutti. Si è aggiunta poi la constatazione che insieme con la poesia si era pure spento il poeta, come dava ad intendere nel suo film, “La tigre e la neve”, Roberto Benigni, quando l’amore appare calpestato e, con esso, il senso della giustizia, che è prima di tutto il rispetto e l’onore da tributare ad ogni persona, soprattutto a chi è più debole. E, se pure il poeta si appende “ai salici di quelle terre” insieme con la sua cetra, allora non resta più chi possa elevare la voce, quella del cuore, voce creativa e quindi operativa. Ma la poesia non è mai del tutto spenta, anche quando risultano morti quelli che la creano, perché la poesia alberga nel cuore di chiunque conserva lo spirito vitale, lo spirito creativo e anche in tempi oscuri è capace di far parlare la voce del cuore. Ed è questa poesia, così “naturale”, che dobbiamo far emergere dal cuore, perché questa comunicazione ci è ancora possibile, proprio mentre ci viene richiesta la distanza, la segregazione, l’isolamento. Ci resta la parola. E non è cosa da poco. Soprattutto quando pensiamo che in principio a tutto ci deve essere sempre la parola; anzi, la Parola, quella che facendosi carne assume la fisionomia di ciascuno di noi e ci viene a dire che la Parola, cioè la vita, cioè la persona vivente, va conservata, sempre, anche quando, spegnendosi, non avendo più respiro, verrebbe negato di esserci. Ma la Parola che ha creato l’essere vivente è la stessa Parola che lo fa rivivere, o comunque sentire sempre vivo. E noi così vogliamo sentire anche coloro che in queste ore ci sono stati portati via, davvero strappati anche nella lacerazione già dolorosa della morte, di una morte che non consente più nessun saluto, in quella fisicità che per noi è tanto importante, è davvero di valore. 

La parola con la poesia di Ungaretti

Recuperiamo allora la Parola e anche la nostra parola, quella che ci esce spontanea dal cuore e che può essere poesia, non come artificiosità, ma come espressività profonda, che le attuali circostanze possono far affiorare.

Ci fa da guida un grande poeta, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), che aveva a cuore proprio la parola, mentre aveva sull’orizzonte del suo tempo uno sfacelo, un dissolvimento, una consumazione dell’essere umano. Eppure, anche sul fronte di una guerra insensata, proprio davanti alla carneficina che si consumava sotto i suoi occhi, trovava le parole, semplici e pure per reclamare un sussulto di umanesimo nella totale disumanizzazione di una guerra spietata. Proprio quelle sue poesie, dove le parole non sono puro suono, ma un suono puro, fanno risorgere quella fisionomia umana che sembrava morire insieme con tutta la gioventù mandata al macello. Lui su quel fronte, anche a dover combattere con i fucili, diveniva di giorno in giorno la sentinella per il sorgere di un nuovo mondo, grazie alla poesia. Le liriche composte in trincea diventano poi, dopo la fine del conflitto, la raccolta “Allegria di naufragi”, dove nella catastrofe devastante la sua voce e la sua parola infondono speranza a cui aggrapparsi come ad un relitto, ciò che rimane, insomma, perché un naufrago si salvi, per riprendere poi il suo cammino. Così in effetti troviamo scritto in una sua poesia che apre la sezione de “I Naufragi”.

ALLEGRIA DI NAUFRAGI (Versa il 14 febbraio 1917)

E subito riprende

il viaggio

come

dopo il naufragio

un superstite

lupo di mare

Con lui vogliamo tentare di stare a galla in questo “naufragio” a cui siamo sottoposti da un nemico invisibile e temibile che ha già messo a dura prova tutta la nostra ostentata sicurezza di poter dominare ogni cosa, senza limiti, senza timori, senza freni, senza inibizioni. Leggi tutto “Per una riflessione al tempo del Coronavirus”

LEGGENDO MANZONI LE TRAGEDIE: I CORI DELLE TRAGEDIE

 

INTRODUZIONE: Il limite delle tragedie manzoniane

È opinione diffusa che le tragedie manzoniane siano sperimentazioni ne-cessarie per arrivare poi a risultati migliori. In effetti lo scrittore successivamente si dedica ad altro, individuando il suo campo d’azione. Con le tragedie noi siamo in presenza di lavori che non ebbero seguito, anche perché non ebbero successo. E questo non dipende solo della buona accoglienza al momento della loro apparizione in pubblico con la messa in scena delle opere, come se il successo venisse conferito dal fatto che a teatro ci fossero molti spettatori e questi tutti entusiasti nell’assistere alle scene; il ripensamento dello scrittore circa questo genere letterario fu determinato anche dal fatto che la critica ebbe subito delle valutazioni non punto lusinghiere, e lo stesso scrittore, per quanto cercasse di spiegarsi, dovette riconoscere il limite dei suoi lavori. Tuttavia noi oggi possiamo considerare queste opere come assolutamente necessarie nel percorso che Manzoni compie per giungere al suo capolavoro: esso ebbe pure una gestazione prolungata nel tempo. Non era in discussione la storia, come racconto di eventi, ma come concezione da avere per far meglio comprendere il senso degli eventi in relazione alle grandi questioni che si ponevano e che si cercava di affrontare nel dibattito politico e culturale, presente in quegli anni. La critica di fondo, quella più lucidamente sottolineata, compare tempo dopo con le lezioni napoletane di De Sanctis, già più volte citate. Costui rileva che “nella sua tragedia l’azione è chiusa in un atto solo, e il rimanente sono discorsi. Questo è il lato difettivo della tragedia”. (De Sanctis, p. 211) Sta parlando del “Carmagnola”. La tragedia viene di fatto resa esplicita a partire dai discorsi contrapposti dei due personaggi, che sono quelli di pura invenzione e che l’autore inserisce perché essi possono rappresentare al meglio le due visioni diverse e contrastanti che sono all’origine della tragedia.  Leggi tutto “LEGGENDO MANZONI LE TRAGEDIE: I CORI DELLE TRAGEDIE”