FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE”

INTRODUZIONE

Religione come spiritualità

Entrare nell’ambito religioso, sia della vita sia delle opere di Dostoevskij, è addentrarsi in un mondo che per l’autore è essenziale ed esistenziale. Non è una religiosità chiara, sicura, adamantina: trattandosi di una ricerca, mai conclusa, essa appare con tutti i dubbi e con tutte i chiaro-oscuri di una materia, che avverte decisiva e nello stesso tempo mai sicuramente decisa. Per il fatto che il suo orizzonte storico e geografico è quello della Russia, è predominante una religiosità che trova le sue forme espressive nell’ortodossia. Ma il suo orizzonte non si limita lì, perché la sua religiosità viene da una profonda esigenza spirituale. E il tema religioso dipende dalle domande fondamentali a proposito della vita: sono le domande che attengono alla cosiddette “cose ultime”. E così le questioni di fondo sono quelle del destino dell’uomo e del suo vivere, il destino che ha il mondo, non solo come realtà naturale, e, più in là, addirittura, il destino di Dio. Poi, di fatto, la riflessione circa quei mali che si identificano con i demoni, legati alle idee provenienti dall’Europa, porta a considerare la necessità di una autentica rivoluzione, quella, naturalmente, dello spirito!

Dostoevskij ha indagato sino in fondo lo spirito rivoluzionario. Il destino storico della Russia ha giustificato le intuizioni di Dostoevskij per il quale la rivoluzione si è compiuta in considerevole misura. E per quanto essa sembri distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia deve essere riconosciuta per russa e tradizionale. L’auto distruzione è un tratto endemico. Tale costituzione della nostra anima nazionale ha aiutato Dostoevskij ad approfondire le cose dell’anima sino alla spiritualità, a uscire dai limiti della mediocrità dell’anima e a scoprire lontananze e profondità spirituali. (Berdajaev, p. 11)

Per una religiosità di popolo

Questo genere di analisi, fatta da Berdjaev a ridosso della rivoluzione ormai in atto, fa capire che la componente spirituale in Russia è stata di fatto sospesa, per una visione “religiosa” – quella messa in atto dai rivoluzionari – che non ha niente a che fare con la tradizione, perché la religione tradizionale viene combattuta come espressione della reazione e della controrivoluzione: essa si oppone non solo al cambiamento delle strutture e delle sovrastrutture, ma all’avvento del “sol dell’avvenire” identificato con il potere al popolo, che è di fatto “potere ai soviet del popolo”. L’indicazione data da Dostoevskij per il recupero della vera anima della Russia è stata disattesa, anche perché non è facile capire che cosa voglia di fatto suggerire lo scrittore con i suoi racconti. La religione di cui egli parla non si identifica di fatto con le forme tradizionali, e nello stesso tempo la religiosità “popolare” non appare sufficientemente elaborata e chiarita, se quanto noi scopriamo messo in bocca ai suoi personaggi risulta più un apparato di idee, che sono ben lungi da essere quelle sulla bocca e nella mente della gente comune, a cui egli fa appello.

Indubbiamente Dostoevskij ha come obiettivo il recupero della componente spirituale, che certamente è nel suo profondo coerente con l’eredità cristiana. Non si potrebbe comprendere pienamente il pensiero dello scrittore senza far riferimento al Cristianesimo e a ciò che di spirituale esso comunica, ben oltre le forme istituzionali e devozionali, ben oltre le forme dottrinarie e morali. Andare oltre qui significa che il suo è un cristianesimo visionario, costruito sulle immagini che egli ha e che egli dà mediante i racconti, spesso scaturenti dai personaggi dello stesso romanzo. Costoro si mettono a raccontare la loro “visione” di Dio, di Cristo, del tipo di mondo che essi vorrebbero vedere sempre ben oltre ciò che la storia o la realtà ci offre. Questo suo Cristianesimo visionario, fatto di immagini e di racconti, è indubbiamente molto suggestivo e nello stesso tempo molto sfuggente: attrae e seduce per la forza espressiva che esso ha, quasi un teatro dentro il teatro della vita, e nello stesso tempo crea forme di disorientamento, perché si fatica a trovare nel racconto qualcosa di ben definito circa la proposta di vita che andrebbe assunta fuori del racconto, quando poi si entra nella vita vissuta.

Realismo o visionarietà?

Lo stesso Berdjaev insiste sul fatto che se l’arte non può essere realistica, ma visionaria, allora è comprensibile che si abbia qualcosa del genere in Dostoevskij, anche se lo scrittore è stato ritenuto un autore di tal genere, solo per il fatto che i suoi racconti, sempre di inventiva, avevano comunque agganci con la realtà, che l’autore trova nelle cronache dei giornali e più ancora nei resoconti derivati dai processi nei tribunali, allora con notevole impatto sull’opinione pubblica.

Dostoevskij è stato un realista? Prima di risolvere la questione bisognerebbe sapere se l’arte vera e grande possa essere realistica.

Dostoevskij stesso si compiaceva talvolta di chiamare sé realista e considerava il suo realismo come realismo della vita effettiva. Certamente, non è mai stato un realista nel senso in cui la nostra critica tradizionale sosteneva l’esistenza della scuola realistica di Gogol’. Un realismo simile non esiste in generale, e meno di ogni altro era una realista del genere Gogol’, né lo è stato, si capisce, Dostoevskij. Ogni arte autentica è simbolica: un ponte fra due mondi; ed esprime una realtà più profonda, che è la vera realtà … L’arte non rispecchia mai la realtà empirica, essa penetra sempre in un altro mondo, ma questo mondo è accessibile all’arte solo attraverso i riflessi simbolici … Non la realtà della vita empirica, esteriore, del modo di vivere, non la realtà dei personaggi concreti sono “reali” in Dostoevskij. Reale in lui è la profondità spirituale dell’uomo, reale il destino dello spirito umano. Reale è il rapporto dell’uomo con Dio, dell’uomo col diavolo, reali sono in lui le idee di cui l’uomo vive. (Berdjaev, p. 15-16)

In che cosa consiste questo “realismo”, se esso non si riscontra semplicemente nel fatto che le sue vicende prendono spunto dalla realtà, dai fatti quotidiani, quelli che possono essere desunti dalla cronaca, o possono essere, come succede nei romanzi dell’Ottocento, almeno “verosimili”, per il fatto che quanto viene narrato potrebbe effettivamente succedere? La realtà in Dostoevskij è data dalla vicenda dolorosa, in cui si rivela il mistero dell’uomo e il mistero di Dio: proprio la sofferenza e nel contempo la ricerca di “salvezza” danno “realismo” alle storie narrate dallo scrittore, anche quando esse escono dalla sua “fantasia”. Ecco come Berdjaev legge lo scrittore russo:

Vi è una grande gioia nel leggere Dostoevskij, una grande liberazione dello spirito. È la gioia attraverso il dolore. Ma tale è la via del cristianesimo. Dostoevskij restituisce la fede nell’uomo, nell’uomo interiore. Non c’è questa fede nell’umanitarismo puro e semplice (così in genere si intende quella forma di socialismo che storicamente si identifica con quello utopistico). L’umanitarismo perde l’uomo. L’uomo rinasce quando crede in Dio. La fede nell’uomo è la fede in Cristo, nel Dio uomo (Dostoevskij è contro l’utopia dell’uomo che pensa di diventare Dio, quando invece la religione cristiana ci rivela Dio che si fa uomo!). Per tutta la vita Dostoevskij portò in sé un sentimento unico, eccezionale di Cristo, quasi un amore furioso. In nome di Cristo, per infinito amore di Cristo, Dostoevskij ruppe con quel mondo umanitario, profeta del quale era stato Belinskij(1811-1848. Costui è un filosofo e critico letterario russo; per il possesso di una sua lettera d’accusa verso il governo zarista Dostoevskij fu accusato e condannato!). La fede di Dostoevskij in Cristo è passata per il “crogiolo” di tutti i dubbi e s’è temprata nel fuoco … Dostoevskij perdette la fede umanitaria nell’uomo, ma rimase fedele alla fede cristiana nell’uomo, approfondì, rafforzò e arricchì quella fede. Perciò non poteva essere uno scrittore tetro, disperatamente pessimista. Una luce salvifica brilla anche nel Dostoevskij più oscuro e tormentoso. È la luce di Cristo che splende anche nelle tenebre. (Berdjaev, p. 19)

I FRATELLI KARAMAZOV

Trama e intreccio di racconti

Come al solito, Dostoevskij non ci dà in modo chiaro, con precise definizioni, la sua concezione religiosa. Ci offre, come sempre, un romanzo in cui è condensato il suo pensiero. E con l’ultimo romanzo (che nelle sue intenzioni non sarebbe dovuto essere affatto l’ultimo!), più che altrove, entra nei meandri dei discorsi di argomento religioso. Lo fa da abile narratore, perché nel dipanarsi della trama, come si muovono storie collaterali, in un succedersi che si fa sempre molto avvincente, così affiorano altre vicende narrate dai protagonisti della storia, in una specie di ebollizione continua di riflessioni, che in genere si muovono sul filone religioso. Sembra quasi che per arrivare a ciò che più gli preme, egli debba ricorrere al racconto, perché quello è il modo più realistico di affrontare i grandi temi e i grandi valori della vita. Così accanto alla trama fondamentale della storia dei fratelli Karamazov emergono alcuni racconti dal forte sapore popolare, come se fossero apologhi o leggende, in cui si condensano i temi dalla intensa carica religiosa, perché lì affiorano le figure spirituali o i messaggi di carattere etico che l’autore ritiene importante rendere più evidenti. Lui stesso scende in campo personalmente con alcune note esplicative che vorrebbero chiarire il senso da dare alla lettura del romanzo. La nota iniziale, ad esempio, deve chiarire che per lui il protagonista è Aleksej Karamazov, l’anima innocente, una figura che si vorrebbe assolutamente positiva e aperta al bene, per quanto egli pure sia uno della famiglia, in cui domina la passione. Tra eventi travolgenti e dominate dalle passioni si segue anche la sua storia, che l’autore vorrebbe continuare con un secondo romanzo, mai comunque scritto, perché sopraggiunge la morte dello scrittore. Anche a trovarsi immersi e sommersi da vicende tragiche dovute alla forte passionalità dei personaggi, soprattutto del padre e dei quattro fratelli, qui più che nei romanzi precedenti affiora la componente religiosa, in modo particolare nel dibattito infervorato sulla questione della libertà dell’uomo e del suo anelito alla felicità, che sembra non poter essere disgiunta dalla soddisfazione dei propri desideri. Ma la ricerca della libertà comporta dolore e questa amara realtà è essa pure una questione ineludibile, soprattutto quando essa ha a che fare con gli innocenti, i piccoli. Rimane sempre la possibilità di coltivare la speranza, perché anche dalla peggiore abiezione l’uomo può risalire e trovare la sua “risurrezione”. Se non è così evidente qui, come ne “I Demoni”, il riferimento alla situazione politica e sociale della Russia negli anni sessanta dell’Ottocento, non si può negare che in questo capolavoro, senza lasciar esplodere le ideologie aberranti provenienti dall’Europa, emerga invece il dramma di chi si ritrova alle prese con un ateismo radicale, da cui deriva che ogni cosa può divenire lecita; questo dramma si tramuta nel totale ed estremo smarrimento che conduce a perdizione. Per lo scrittore la vicenda narrata va inquadrata su ciò che la Russia sta vivendo nel suo traviamento generale.

La riflessione sui destini della Russia, che tanta parte ha nell’ultimo Dostoevskij, è imprescindibile dall’analisi delle circostanze storiche russe del periodo postriforme: “Viviamo probabilmente nel momento più torbido, più inopportuno, più di transizione e più fatale di tutta la storia del popolo russo”. Nel monastero del famoso starec (era un monaco particolarmente autorevole che aveva all’interno del monastero compiti di guida spirituale) Zosima si raduna la famiglia Karamazov (padre e tre figli) per cercare di dirimere una contesa del figlio maggiore Dmitrij e del padre su questioni di eredità. Sono anche presenti il liberale occidentalista Miusov, un parente dei Karamazov, il seminarista Rakitin e alcuni monaci. Fin da subito è introdotta la frattura tra giurisprudenza e coscienza perché le pretese di Dmitrij sono giuste (il padre gli ha sottratto l’eredità materna) senza, tuttavia, aver alcun supporto legale. I rapporti di Fedor Pavlovic Karamazov, uomo meschino e debosciato, un autentico “antico romano dei tempi della decadenza” e il figlio Dmitrij sono tesi anche a causa di una donna, Grušen’ka, per la quale entrambi nutrono un’ardente passione. Dmitrij esprimerà più volte il desiderio di uccidere il padre: “un rettile si mangerà l’altro” commenta velenosamente queste intemperanze il fratello Ivan. (Ghidini, p. 273)

Qui troviamo il nodo cruciale di tutto il romanzo, perché di fatto le vicende vedono padre e figlio in un antagonismo sempre più esasperato che dovrà sfociare nella tragedia: la morte violenta del padre e l’incriminazione e la condanna del figlio, per quanto ne sia totalmente estraneo. Ma non tutto si esaurisce su di loro: sono implicati anche gli altri figli e una serie di personaggi, tutti di fatto comprimari e non semplicemente “di spalla” ai due. Anche per la presenza di monaci e di aspiranti monaci, direttamente coinvolti, va riconosciuta la priorità data alla questione religiosa, che altrove non appare affatto decisiva, come lo è qui. A latere, ma nient’affatto estranea alla vicenda principale sta pure la storia di Iljuša, un ragazzo segnato dal dolore e dalla morte, mediante il quale viene introdotta e affrontata la tematica del dolore innocente, che è alla base del tormento religioso. Proprio questo tormento appare continuamente presente in questa storia in cui si sviluppano vicende intrecciate fra loro e su questo argomento è opportuno soffermarsi, per cercare di comprendere come Dostoevskij intenda la religione, la fede, la spiritualità. Si potrebbe dire che dentro lo scorrere del romanzo si incontrano come delle isole, fatte di apologhi, nei quali ha il suo sviluppo la questione religiosa. L’apologo più noto e quello indubbiamente più impressionante è dato dalla Leggenda del Grande Inquisitore.

IL GRANDE INQUISITORE

Racconto introdotto da apologhi sulla sofferenza

Nel libro quinto, che porta il titolo “Pro e contro”, si ha l’incontro tra Ivan e Alëša in una trattoria, occasione per una conoscenza tra i due fratelli, così diversi e, nello stesso tempo, così attratti l’uno dall’altro per le questioni che dovrebbero vederli distanti. I temi che essi introducono nella loro conversazione sono sempre accompagnati da apologhi, ognuno dei quali è indubbiamente un affascinante racconto con forte intonazione popolare, secondo i modelli medievali. Trattandosi di apologhi si avverte l’intento etico, in genere; ma non manca neppure la forte connotazione filosofica, quando vengono messe in campo le grandi questioni, le grandi domande esistenziali che riguardano la religione. Il racconto più significativo, e anche quello più noto del romanzo, è la leggenda del Grande Inquisitore, narrata da Ivan. Costui la fa precedere da altri apologhi, tutti all’insegna della violenza perpetrata secondo la giustizia umana, quella per cui non solo si ha la condanna a morte, ma anche la tortura, giustificata dal fatto che essa serve a raddrizzare, a trovare la verità, ad operare la conversione. Ivan stesso ne parla presentandosi come “un appassionato collezionista di certi fatterelli”. La collezione che lui fa è di racconti segnati dalla violenza, come il caso di Richard, giovane giustiziato a Ginevra sulla ghigliottina, dopo aver ucciso ed essersi convertito in carcere. L’esecuzione avviene in una specie di delirio da parti di quanti lo accompagnano al patibolo come se dovesse morire un martire e dovesse morire nel Signore. Segue il racconto sul cavallo frustato a sangue, premessa per parlare poi del papà che picchia con la frusta sua figlia: con esso viene introdotto il discorso del dolore innocente, quello che scandalizza, quello che tormenta, quello che fa desiderare punizioni esemplari, invocate anche da Alëša nel fervore del discorso tenuto dal fratello. Quando il giovane seminarista si accorge di aver detto una assurdità, Ivan risponde: “Devi sapere, novizio, che le assurdità sono necessarie sulla terra. Il mondo si regge sulle assurdità e senza di esse forse non sarebbe mai accaduto niente sulla terra. Noi sappiamo quello che sappiamo!” (Karamazov, p. 323). E in un crescendo di tono Ivan continua sul tema con una presa di posizione che non possiamo non condividere e che porta ad affermazioni che appaiono deliranti …

Finché c’è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l’armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stanzino, piangendo lacrime irriscattate al suo “buon Dio”! Non vale perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere, invece, riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l’inferno per i torturatori, che cosa può riparare l’inferno in questo caso, quando i bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c’è l’inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l’aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l’aguzzino per l’incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma la sofferenza del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell’aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l’armonia? C’è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l’armonia, è per amore dell’umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se dovessi aver ragione(Karamazov, p. 325-6)

La figura dell’Inquisitore

In questa premessa che già pone terribili interrogativi circa la questione davvero drammatica e dolorosa della sofferenza dei piccoli, si apre il grande racconto dell’Inquisitore.

Nella Siviglia del XVI secolo, Cristo ritorna, fa risorgere una bambina e viene riconosciuto dalla folla. In questa esplosione luminosa di vita fa la sua comparsa il vecchio e scarno Inquisitore, che arresta Cristo. Di notte, lo visita nelle segrete del carcere e anche lui si confessa. Lasciando gli uomini liberi (per non aver accettato nessuna delle tre tentazioni del diavolo nel deserto: le pietre tramutate in pane, il miracolo, il potere), Gesù li ha caricati di un fardello troppo pesante per loro, quello della scelta. L’inquisitore se ne è dolorosamente fatto carico, ha lasciato che gli uomini rimanessero bambini, togliendo la libertà e permettendo loro di essere felici. (Ghidini, p. 277)

Proprio un ateo, uno che si professa tale, elabora un racconto nel quale il protagonista è di fatto l’Inquisitore, che difende lo “status quo”, anche nell’ipotesi di un ritorno di Cristo, per ribadire e riproporre la sua vicenda, il suo vangelo. La decisione di mettere in prigione il misterioso personaggio che riveste il Cristo rivela una Chiesa che non è più a servizio del vangelo stesso. La giustificazione non deriva tanto dal fatto che essa riveste, soprattutto nella forma cattolica, un potere al pari di quello politico, quanto piuttosto dal fatto che il vangelo stesso, costruito per comunicare una felicità che vada ben oltre il tempo e lo spazio, non incontra il consenso della gente che preferisce il pane che si moltiplica e con esso l’assicurazione del soddisfacimento dei desideri immediati. Tutto il racconto è uno sviluppo incalzante di idee stringenti che portano inesorabilmente a riconoscere come la passione di Cristo continui e questo ad opera, ora, dell’autorità della Chiesa, la quale ha costruito un sistema di potere che ha come suo scopo la felicità umana. Ma l’umanità, proprio perché non la raggiunge mai con la sua continua sofferenza, deve abdicare alla propria libertà. Di qui, secondo logica ferrea, la scelta del grande Inquisitore che sottopone il Cristo, non ad un processo pubblico, quanto piuttosto ad una stringente requisitoria durante la visita che egli fa in carcere.

Tu lo sapevi, non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, eppure rifiutasti l’unico infallibile vessillo che ti veniva offerto per costringere l’umanità a venerarti incondizionatamente – il vessillo del pane terreno – e lo rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda che cos’altro hai fatto tu. E tutto sempre in nome della libertà! Ti dico che per l’uomo non c’è assillo più tormentoso di quello di trovare qualcuno al quale trasmettere al più presto quel dono della libertà con il quale il disgraziato essere viene al mondo. Ma solo colui che acquieta la coscienza degli uomini per dominare la loro libertà. Con il pane ti veniva dato un vessillo inconfutabile: dagli il pane e l’uomo si inchina, giacché non c’è nulla di più inconfutabile del pane, ma se qualcun altro al di fuori di te s’impadronisce della sua coscienza – oh, allora egli sarà persino capace di gettare via il tuo pane e di seguire colui che seduce la sua coscienza. In questo avevi ragione. Giacché il segreto dell’esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere. Se l’uomo non ha ben fermo dinanzi a sé il fine per cui vive, egli non accetterà di continuare a vivere e distruggerà se stesso piuttosto che rimanere sulla terra, anche se avesse pani in abbondanza intorno a sé. Questo è vero. Ma che cosa è accaduto? Invece di assumere il dominio della libertà degli uomini, tu hai reso quella libertà ancora più grande! Oppure hai dimenticato che all’uomo la pace, e persino la morte, sono più care della libertà di scelta nella conoscenza del bene e del male? Nulla è più seducente per l’uomo della libertà di coscienza, ma, nel contempo, non c’è nulla che per lui sia più tormentoso. (Karamazov, p. 338)

La grandezza del brano è anche in questo incalzare di idee e di parole da parte del Grande Inquisitore. Costui in effetti non ammette repliche, perché il suo è un monologo che vede Cristo sottoposto al processo ed essere completamente in silenzio, come già davanti ai suoi accusatori e giudici. Potremmo dire che qui si ripete il processo evangelico, perché a Gesù viene contestato il suo volersi fare Dio non sulla base di miracoli, come la moltiplicazione dei pani che avrebbe assicurato da vivere, ma sulla base del sacrificio di sé. Quel segno, come sostiene il vangelo, è un richiamo al pane del cielo, il pane che dà la vita eterna. E questo rimanda al richiamo della coscienza, perché chi mangia del pane celeste, e non di quello terrestre, ha davvero la vita eterna, quella che dà la libertà, perché fa vivere secondo la coscienza dei liberi figli di Dio. Ma l’uomo vuole il pane terreno.

Gesù poi viene condannato anche per la sua pretesa di farsi re, per quanto il suo Regno sia di un altro mondo. Nel suo Regno non c’è un sistema di potere come nei regni della terra. Come dice il Vangelo di Giovanni: “A chi lo ha accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio …”; per questo chi lo segue, chi lo accoglie come re, diventa figlio di Dio e proprio per questo gode della libertà di coscienza. Ovviamente, secondo una simile impostazione, un Cristo così appare molto pericoloso, proprio in nome della libertà che vuol portare. E l’ateismo, quello che si erige non solo nelle ideologie diffuse, ma anche nelle costruzioni politiche che lo acquisiscono come dottrina di base, deve proprio opporsi a quanto la religione propugna, nella misura in cui è espressione dello Spirito e non del sistema di potere umano. Evidentemente qui si sta parlando non dell’ateismo come di fatto si impose all’epoca della rivoluzione bolscevica, ma dell’ateismo che proveniva dalle ideologie “demoniache” diffuse all’epoca di Dostoevskij e che diventavano rovinose in Russia. C’è il rischio di cadere in un dispotismo peggiore dell’autocrazia zarista, proprio perché questo ateismo si costruisce sulla negazione della coscienza individuale, quella che rende gli uomini figli di Dio. Ne ha la chiara percezione Berdjaev ormai nel vortice della rivoluzione d’ottobre.

La rivoluzione che ha alla base l’ateismo, deve portare fatalmente al dispotismo illimitato. Lo stesso principio sta alla base dell’inquisizione cattolica e del socialismo costrittivo, la stessa sfiducia per la libertà dello spirito, per Dio e l’uomo, per il Dio-uomo e il Dio-umanità. (…) La libertà dello spirito umano non è compatibile con la felicità degli uomini. La libertà è aristocratica, esiste per pochi eletti. E il Grande Inquisitore accusa Cristo perché, onerando gli uomini con una libertà superiore alle loro forze, Egli ha agito come se non li amasse. Per amore degli uomini sarebbe stato necessario privarli della libertà. (Berdjaev, p. 149-150)

Prosegue incalzante il ragionamento di Ivan sull’argomento della libertà. Esso rappresenta il cuore del pensiero dello scrittore, convinto, per le sue esperienze, della necessità per l’uomo di raggiungere la piena libertà. Essa, nel contempo, diventa l’assillo di tutta una vita, come è stata la sua, combattuta fra ideologie diverse e dominata dal demone del gioco che non gli ha mai fatto assaporare la vera libertà, perché irretito dal bisogno del denaro, ricercato nel modo più sbrigativo e più assillante, come è ben rappresentato da Dmitrij, il primo dei Karamazov. Ivan appare invece un puro, uno che non è irretito in questa spirale; e tuttavia anche per lui c’è un demone ideologico che lo tormenta e lo porta a queste lucide affermazioni. Chi parla è di fatto il Grande Inquisitore. Egli, accusando, incalza il “suo” Cristo subissato da una requisitoria che non dà scampo.

Ignoravi che gli uomini alla fine avrebbero gridato che non in te è la verità, giacché non avrebbero potuto essere abbandonati in uno stato di confusione e tormento peggiore di quello che tu hai causato, lasciando sulle loro spalle tanti affanni e tanti problemi senza risposta? Così facendo tu stesso hai posto le basi per la distruzione del regno tuo e non puoi biasimare nessuno più di te stesso. E invece che cosa ti veniva offerto? Ci sono tre poteri, solo tre poteri sulla terra che possono sconfiggere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli e renderli felici; essi sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu rifiutasti il primo, il secondo e il terzo e ne desti l’esempio per primo. Quando il terribile e saggissimo spirito ti pose sul pinnacolo del tempio, e ti disse: “Se vuoi sapere se sei Figlio di Dio, gettati di sotto, poiché di lui sta scritto che gli angeli lo afferreranno e lo sosterranno affinché egli non cada e non urti, allora saprai se sei Figlio di Dio, e darai prova di quanto è grande la tua fede nel padre tuo”, tu, ascoltata la proposta, la rifiutasti, non cedesti e non ti gettasti di sotto. Oh certo, agisti con magnifico orgoglio, come un vero Dio, ma gli uomini, la debole schiatta ribelle, sono forse essi stessi dei? Oh, tu in quel momento comprendesti che se avessi fatto un passo, se solo avessi accennato il gesto di buttarti di sotto, in quello stesso momento avresti tentato Dio e avresti perso tutta la tua fede in lui, e ti saresti schiantato in pezzi su quella stessa terra che eri venuto a salvare e l’acuto spirito che ti aveva tentato se ne sarebbe rallegrato. Ma torno a ripetere: sono molti quelli come te? E potresti davvero immaginare, anche solo per un attimo, che pure gli uomini sarebbero in grado di affrontare una simile tentazione? La natura umana è forse fatta in modo da rifiutare il miracolo e, nei terribili momenti della vita, nei momenti delle più decisive e tormentose crisi spirituali, rimanere solo con il libero verdetto del proprio cuore?

Oh, tu sapevi che il tuo gesto sarebbe stato conservato nelle Scritture, sapevi che sarebbe stato tramandato a tempi remoti e ai confini estremi della terra e tu hai sperato che, seguendo il tuo esempio, l’uomo sarebbe rimasto con Dio, e non avrebbe avuto bisogno del miracolo. Quello che non sapevi è che nel momento in cui l’uomo avesse rifiutato il miracolo, immediatamente avrebbe rifiutato anche Dio, giacché l’uomo cerca non tanto Dio, quanto i miracoli. E dal momento che l’uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si sarebbe creato da sé miracoli nuovi, con le proprie forze questa volta, e si sarebbe inginocchiato dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera, pur rimanendo cento volte ribelle, eretico e miscredente. Tu non scendesti dalla croce quando ti gridavano per ingiuria e per beffa: “Scendi dalla croce e allora crederemo che sei tu.”. Tu non scendesti allora, perché ancora una volta non volesti rendere schiavo l’uomo con il miracolo e anelavi alla fede libera, svincolata dal miracolo. Bramavi l’amore spontaneo e non gli entusiasmi servili dello schiavo dinanzi al potente che lo ha atterrito una volta per tutte. Ma anche in quel caso hai sopravvalutato gli uomini, giacché, infatti, essi sono schiavi per quanto creati ribelli. Guardati intorno e giudica da te come sono passati questi quindici secoli, da’ un’occhiata ai tuoi uomini: chi si è innalzato sino al tuo livello? L’uomo ha una natura più debole e più vile di quello che tu credevi, te lo giuro! È forse egli in grado di fare quello che hai fatto tu, eh? Dando prova di cotanta stima per lui, tu hai agito come se non ne avessi più compassione, perché hai preteso troppo, e questo proprio tu, che hai amato gli uomini più di te stesso! Se avessi avuto meno stima dell’uomo, avresti anche preteso di meno, e in questo saresti stato più vicino all’amore, giacché il fardello sarebbe stato più leggero. L’uomo è debole e vile. Che importa che ora, dappertutto, gli uomini si ribellino contro il nostro potere e siano fieri di ribellarsi? È una fierezza da ragazzino, da scolaretto. Sono come i ragazzini che fanno chiasso in classe e cacciano via il maestro. Ma anche questo entusiasmo da ragazzini avrà fine e costerà loro caro. Essi abbatteranno templi e inzupperanno la terra di sangue. Ma alla fine capiranno, gli stupidi ragazzini, che anche se sono ribelli, sono dei ribelli deboli, che non reggono il peso della loro stessa ribellione. Grondanti delle loro stupide lacrime, riconosceranno infine che chi li ha creati ribelli aveva senza dubbio voluto prendersi gioco di loro. Ammetteranno questo nella disperazione e le loro parole saranno blasfeme e questo li renderà ancor più infelici, giacché la natura umana non tollera la bestemmia e finisce col vendicarla a proprie spese.

(Karamazov, p. 339-341)

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La religione come spiritualità e non come potere

Insomma, da questa requisitoria dovremmo pensare che anche la religione cristiana sia di fatto un sonoro fallimento nel procurare un vivere che possa essere definito umano e felice, perché alla radice di tutto c’è la scelta della libertà. Così in effetti scrive Berdjaev …

Il socialismo ateo accusa sempre il cristianesimo di non aver reso felici gli uomini, di non aver dato loro tranquillità, di non averli saziati. Così il socialismo ateo predica la religione del pane terreno, dietro a cui andranno milioni e milioni, contro la religione del pane celeste, dietro a cui andranno solo pochi. Ma il cristianesimo non ha reso felici gli uomini e non li ha saziati perché non ammette la costrizione sulla libertà dello spirito umano, sulla libertà di coscienza, perché si rivolge alla libertà umana e da questa attende che la volontà di Cristo sia compiuta. Non ha colpa il cristianesimo, se l’umanità non ha voluto seguirlo e l’ha tradito. È colpa dell’uomo, non del Dio-uomo. Per il socialismo ateo e materialistico non esiste questo tragico problema della libertà. Esso attende la sua attuazione e la “liberazione dell’umanità da un ordinamento costrittivo materiale della vita. Vorrebbe sopraffare la libertà, soffocare il principio irrazionale della vita in nome della felicità, della sazietà e della tranquillità degli uomini. Gli uominidiventeranno liberi quando rinunceranno alla loro libertà (…). Noi daremo loro una felicità quieta, umile, la felicità degli esseri deboli, quali essi sono stati creati. Oh, noi li convinceremo infine a non insuperbire, perché tu li innalzasti e con ciò insegnasti loro la superbia … Noi li faremo lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro ordineremo loro la vita come un gioco di fanciulli, con canti, cori infantili e danze innocenti. Oh, consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e impotenti. (Berdjaev, p. 151-2)

Non dobbiamo però dimenticare che questo apologo vede al centro l’inquisitore spagnolo del XVI secolo e quindi qui dovremmo registrare l’accusa di Dostoevskij al sistema religioso occidentale, costruito attorno alla Chiesa romana, che appare di fatto come un potere sovrano, accanto, se non con la pretesa di essere superiore, agli altri poteri sovrani. Ma questo non riguarda solo la Chiesa romana, se anche altrove si insegue e si persegue una finalità di potere, rispetto a quella del servizio. Dovremmo dunque ritenere che nel pensiero dello scrittore vi sia l’esigenza di una purificazione radicale, perché la religione possa essere ancora a servizio del suo fine, quello di elevare lo spirito, perché possa raggiungere la piena libertà, quella di una coscienza, che naturalmente non è solo di carattere morale. Occorre cioè andare oltre le esigenze materiali, quelle che spesso imbrigliano e imbrogliano l’uomo, riducendolo al solo soddisfacimento dei bisogni immediati. Occorre elevarsi alle dimensioni dello spirito, anche se qui, proprio perché a parlare è il grande Inquisitore, non si va, appunto perché chi parla è dentro schemi di potere. Non per nulla interviene Alëša a dire la sua correggendo il tiro …

Ma questa … questa è un’assurdità! – gridò arrossendo. – Il tuo poema è un inno di lode a Gesù, non una denigrazione … come volevi che fosse. E chi ti crede, quando parli della libertà? È forse questo, questo il modo di intenderla? Non è forse questa la concezione che ne ha la Chiesa ortodossa. Quella è Roma e neppure la Roma intera, è la parte peggiore del cattolicesimo, gli inquisitori, i gesuiti! E poi non può esistere un personaggio così fantastico come il tuo inquisitore. Quali sarebbero i peccati degli uomini che ha preso su di sé? Chi sono questi depositari del mistero che si sarebbero accollati una specie di maledizione per la felicità degli uomini? Dove si sono mai visti? Conosciamo i gesuiti, di loro si dicono tante cose cattive, ma sono davvero come li descrivi tu? Nient’affatto, non sono così … Sono soltanto l’esercito romano che combatte per fondare su questa terra il futuro regno universale, con il papa romano in testa in qualità di imperatore; ecco il loro ideale, ma senza tanti misteri o nobili afflizioni da parte loro … E’ pura e semplice ambizione di potere, di vili vantaggi terreni. Di asservimento … qualcosa di simile a una futura servitù della gleba, con loro che fanno da proprietari terrieri … ecco quello che vogliono, niente di più. Essi non credono neanche in Dio, forse. Il tuo inquisitore sofferente è pura fantasia …(Karamazov, p. 346)

Sulla base di questo apologo vien da ritenere che Dostoevskij richiami il grande valore della religione, soprattutto come spiritualità, perché solo in essa l’uomo ridesta la sua coscienza, e con essa può vivere davvero nella libertà.

C’è chi effettivamente la ricerca. Ma se si cerca di vivere secondo una coscienza libera, non si può affatto pensare di volere nel contempo “Mammona”, e quindi il soddisfacimento dei bisogni materiali. È quello che succede nella tentazione di Cristo, quando gli si chiede di dare soddisfazione alla fame che ha, ricorrendo alle sue proprietà miracolistiche. Ma Cristo è capace di uscirne libero, rinunciando al pane materiale.

C’è pure chi cerca di acquisire una qualche forma di potere, per garantirsi una certa sicurezza: anche qui si esercita la tentazione diabolica, e se chi è chiamato ad essere autorità nella Chiesa si lascia irretire dallo schema di potere, di fatto non si rivela fedele al Cristo, che ha resistito anche a questa tentazione, quella costruita sulla spettacolarità del miracolo o sull’adorazione e quindi sul riconoscimento di una sudditanza che non può coesistere con la libertà interiore. La conclusione dell’apologo è inaspettata e nello stesso tempo lascia intendere che ancora coesistono le due forme religiose che si contendono il percorso con cui assicurare il vivere e la felicità degli uomini.

Vorrei dargli questa conclusione: quando l’inquisitore termina di parlare, aspetta per un po’ di tempo che il prigioniero gli risponda. Gli pesa tutto quel suo silenzio. Egli si è accorto di come il carcerato lo abbia ascoltato con attenzione, tranquillamente, guardando dritto negli occhi e, evidentemente, senza alcuna intenzione di replicare. Il vecchio avrebbe voluto che quello gli dicesse qualcosa, per quanto amara e tremenda potesse essere. Egli invece si avvicina lentamente al vecchio e lo bacia piano sulle esangui labbra di novantenne. Ecco, è questa tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Un leggero fremito gli contrae gli angoli della bocca, egli va alla porta, la apre e gli dice: “Va’ via e non tornare più … non tornare più … mai, mai più!”. E lo lascia andare “nelle scure piazze della città”. Il prigioniero scompare.

(Karamazov, p. 349)

Il bacio inaspettato del Cristo rimasto sempre in silenzio è la risposta di uno che non ricorre ai sofismi, ai ragionamenti, ad una logica stringente. Il gesto appartiene alla sfera del sentimento e dell’amore con cui egli comunque insiste nel proporre la sua via di salvezza. Ma il vecchio inquisitore, come del resto Ivan, continua a rimanere sulle sue convinzioni. Anche se Ivan non è poi così sicuro delle sue convinzioni, presentando quella storia da lui raccontata come “un poema balordo di uno studente altrettanto balordo che non ha mai messo insieme due versi in vita sua”.

Insomma, Ivan, che dovrebbe qui rappresentare la logica, perversa nella sua assurdità e assurda nella sua perversità, con cui tutto deve risultare spiegabile, perché razionalizzato fino all’estremo, poi è, lui pure, dominato da quella che egli stesso definisce “La forza … dei Karamazov, la forza dell’abiezione dei Karamazov!”. Nella complessità del personaggio noi dobbiamo registrare un uomo dominato da una logica ferrea, con la quale comunque non è possibile dare e avere … salvezza. Di fatto egli segue il criterio per cui … “tutto è permesso!”. Il fratello Alëša interviene con il gesto d’amore che il Cristo ha usato per salvare il suo Inquisitore dalla logica fredda che tutto vorrebbe spiegare e che invece tutto finisce per condurre a perdizione. Ivan, turbato come la creatura del suo racconto, reagisce sostenendo che si tratta di un plagio letterario. Ma comunque egli ringrazia.

Il racconto e l’esito di esso nella discussione finale tra i due fratelli ci rivelano uno scrittore che è dilaniato all’interno fra le esigenze di una logica sempre coltivata in mezzo alle traversie della vita come strumento per stare a galla, per sopravvivere, e nel contempo il bisogno d’altro che gli deriva dal mondo religioso, ritenuto essenziale perché appartenente all’anima profonda del popolo russo.

La spiritualità ortodossa, quella del popolo

Non è stata fatta qui l’analisi del romanzo conclusivo dell’autore, anche perché non è l’oggetto in esame. Certamente siamo in presenza di un’opera molto complessa, in cui si muovono tanti personaggi, tutti di notevole forza e ciascuno con i suoi tormenti interiori. Ma ci sono pure anche tematiche diverse, che rappresentano il tormento interiore dello scrittore alla ricerca di un vivere più sereno, mai raggiunto. Soprattutto si deve ritenere che egli stesse cercando una composizione, una pacificazione interiore, una sintesi, in mezzo ad un vivere che risultava drammatico e per tanti versi anche dannato. Le urgenze che lo tormentavano, soprattutto quelle legate al problema del denaro, mai sufficiente, e quelle dovute ai mali e ai lutti che lo assillavano, avrebbero dovuto trovare una “uscita di sicurezza” nella religione, in quella forma che egli riteneva presente nel popolo russo e non negli apparati. Ecco perché diventa utile cercare qualche linea lucida e ben definita in quel mondo complesso e tormentato che è la sua ricerca religiosa.

Dostoevskij è sempre stato affascinato dalla spiritualità ortodossa, che non è solo nelle forme liturgiche del mondo orientale, ma è soprattutto nell’anima profonda di quel popolo russo, che lui vede in modo particolare nella gente comune, in quella che abita il mondo rurale, fatto di povertà, di semplicità, di genuinità. E nello stesso tempo, anche per le vicende che lo coinvolgono in una esistenza segnata sempre dal male, egli è di fatto alle prese con le correnti di pensiero che incontra in città, in coloro che vorrebbero rinnovare strutture politiche e sociali dell’universo russo, così arretrato rispetto al resto d’Europa, e che di fatto possono realizzare solo con le forme violente e con le ideologie estremizzate. Lì egli si incontra con idee in cui l’etica va rovesciata, se non addirittura fatta sparire e dove, alla fine, tutto diventa lecito, proprio perché con essa viene fatto sparire quel Dio che è il principio della morale stessa.

Se Dio non c’è, tutto è permesso, se l’uomo non crede all’immortalità non ha alcun senso amare il prossimo. Dalle elucubrazioni di Ivan, questo fatale paradosso si materializza nell’azione scellerata del parricidio e il ragionamento così ben articolato del giovane Karamazov ha conseguenze che sfuggono al suo controllo: Smerdjakov è la prima sua confutazione. Il tema era entrato nel romanzo di soppiatto, introdotto da un personaggio secondario, Miusov, che riporta le parole di Ivan come un pettegolezzo, oziose chiacchiere in società. Miusov, imbevuto di ideali umanitari e progressisti (per andare sulle barricate a Parigi si dimentica del bambino affidatogli, il piccolo Dmitrij), ritiene che l’amore per l’umanità sia una legge di natura e l’etica fodnata sulla ragione. In questa visione, dunque, l’uomo sarebbe intrinsecamente filantropo: non è un caso che Dostoevskij non usi questa parola, che forse gli era stata tanto cara in gioventù e che ora gli pare vuota, se non addirittura pericolosa … Alla filantropia astratta della modernità, l’onesto Ivan risponde con l’orribile serie di violenza sui bambini, fatterelli del male, che svelano il confine dell’umano, la bestialità che l’uomo si porta naturalmente dentro … E’ Zosima che capovolge il paradosso di Ivan, per poi nei suoi insegnamenti, porre una base per l’etica di comunione che Alëša tenterà di instaurare con i ragazzini: nella sua conversazione con la Chochlakova, “la signora di poca fede” … egli lega in nodo stretto la questione dell’immortalità e quella etica: l’amore attivo, infatti, è l’unica via alla fede in Dio e viceversa, nel circolo misterioso di dono e accoglienza che regola la relazione tra il divino e l’umano. (Ghidini, p. 291-2)

L’amore, che si fa azione soprattutto in mezzo alla miseria morale e materiale, permette di vedere e di far vedere Dio, creando quella solidarietà che consente di vivere da fratelli, nonostante le passioni rovinose, come quelle che dominano nei Karamazov.

Conclusione

Non è mai facile sintetizzare il pensiero di Dostoevskij, proprio perché egli ricorre al racconto e non si lascia sedurre dalle riflessioni di natura etica o filosofica. E tuttavia anche nei suoi racconti c’è ampio spazio per tematiche che egli vorrebbe in questo modo dibattute nella società e non solo nei salotti dell’aristocrazia o degli intellettuali, che avverte lontani dalla realtà della più ampia società russa. D’altra parte non è neppur facile raggiungere quel popolo della profonda “provincia” russa, che qui appare un territorio smisurato. Se egli si prefigge di cercare la religiosità popolare, come vorrebbe far credere nei suoi scritti, quando in realtà l’attenzione è rivolta a personaggi dominati dai demoni, l’intendimento non risulta raggiunto, proprio perché la religiosità popolare risulta più di contorno, quando si entra nei monasteri, dove non tutto è comunque positivo, dove la stessa salma del santo monaco che si vorrebbe incorrotta si fa sentire nel fetore della sua corruzione. Ci sono indubbiamente anche per-sonaggi positivi, figure che, senza essere angeliche per i costumi, sembra-no dominati da principi onesti, da carica interiore, da aneliti veramente spirituali. E tuttavia il realismo sempre dominante nel sottofondo, rende tutti più guardinghi anche nei confronti di simili figure, che non risultano così eroiche o esemplari come si vorrebbe pensare. Così la religiosità, mai da identificare comunque con la semplice correttezza morale o con la frequentazione di ambienti sacri, affiora come anelito, come un bisogno insopprimibile, come ricerca di una elevazione che permetta un vivere migliore, un vivere più umano. E più che una linea indicata ad altri, ad una società ormai corrotta e avviata su strade sbagliate, questa sembra essere un bisogno molto personale, in un uomo che sente di essere stato salvato dalla grazia e che continua ad aspirare ad essa, mentre domina la miseria e l’attrattiva per un male che lo rende schiavo. A dover enucleare alcuni aspetti della sua religiosità dovremmo suggerire l’attenzione che lo scrittore dà a Dio e all’affermazione della sua esistenza, mai data solo per teorica, ma sempre cercata e affermata con “realismo”, soprattutto quando lo si cerca – va sempre cercato Dio! – nella realtà della miseria e in modo particolare della sofferenza e del dolore innocente. Più che il miracolo, invocato come espressione di fede, per avere le soluzioni che l’uomo non sa dare ai mali derivati dalle sue passioni, occorre quel genere di fede che esprime la solidarietà nel dolore, analogo a quello di Cristo nella sua croce e nella croce dei tanti che continuano a soffrire.

Proprio per questo Cristo è sempre presente nel mondo e a volte capita di “vederlo”, come succede nel racconto dell’Inquisitore. Ma lì non vuole essere riconosciuto per il miracolo che fa, quanto per la solidarietà che lui ha con chi soffre fino a soffrire lui stesso, senza necessariamente porsi questioni di carattere filosofico, come la ricerca del senso della vita.

Realista in Dostoevskij è contrapposto a teorico e ideologico e designa chi vive secondo un senso immediato della realtà: “amare la vita più che il senso della vita”, si dicono Alëša e Ivan nella trattoria. (Ghidini, p. 283).

Se è la vita che davvero conta per l’uomo, questa non è data da un principio filosofico, ma dal realismo di persone viventi, quelle con cui si ha a che fare giorno per giorno. Lì, vedendo la persona umana, soprattutto il piccolo e il povero, si vede Dio: nell’amore dunque c’è la fede viva e la fede viva non può prescindere dall’amore. Questa è la religiosità di Dostoevskij nella sua essenzialità.

Dio e l’uomo sono coinvolti in una storia di male e di dolore, peccato ed espiazione, perdizione e salvezza, entro cui si dischiude il senso ultimo della sofferenza, il cui significato redentivo non solo accomuna tutti gli uomini sullo sfondo della solidarietà universale nella colpa e nel dolore, ma anche li lega al Dio della kenosis: il Dio che si fa uomo e porta entro di sé il momento del dissidio e della contraddizione … Questo è il fondo oscuro della fede di Dostoevskij. (Ghidini, p. 295)

BIBLIOGRAFIA

  1. Nikolaj Berdjaev, LA CONCEZIONE DI DOSTOEVSKIJ – Einaudi, 2002 (il saggio è stato scritto nel 1923)

2.Maria Candida Ghidini, DOSTOEVSKIJ – Salerno Editrice, 2007

3. Fedor Dostoevskij, I FRATELLI KARAMAZOV – Crescere, 2018