DANTE NELLA FIRENZE DEL SUO TEMPO

DANTE E FIRENZE: UN AMORE TORMENTATO

Il rapporto tra Firenze e il suo più noto cittadino, che è anche il suo massimo poeta, è piuttosto burrascoso, tormentato, non ancora del tutto sopito, se si pensa al fatto che lui non vi è sepolto e che non vi troverà mai sepoltura. E le polemiche per questo motivo persistono. Dante è vissuto in anni molto agitati, in cui le lotte intestine alla città erano frequenti, e soprattutto molto sanguinose, tali da travolgere lo stesso poeta, che non vi troverà pace. E tuttavia, per la sua città, Dante coltivò un grande amore, anche a registrarne le degenerazioni, ritenute insanabili. Anche quando sembra che dalle invettive sprigioni odio, risentimento, malanimo, in realtà per Firenze c’è sempre amore, quello che lo fa essere capace di riconoscere, anche agli avversari irriducibili, quella forma di grandezza che fa stagliare bene le figure dei suoi personaggi.

Nei confronti di Firenze egli tende a divenire “Laudator temporis acti”, e perciò ammiratore del buon tempo andato, che sarebbe bello ripristinare, senza mai riuscire a farlo. Evidentemente la città è in fermento e in trasformazione, come ogni realtà umana, in ogni tempo. Ma qui, forse, l’accelerazione per questi mutamenti appariva notevole, anche per gli interessi di tipo economico e finanziario che erano messi in campo.

Firenze era indubbiamente in rapida trasformazione per un accumulo di denaro, che risultava quanto mai consistente e ad ampio raggio dentro la sua popolazione. Gli appetiti apparivano smodati, ma anche le trasformazioni sociali erano rapide e tali da non essere facilmente controllate e controllabili neppure dentro istituzioni politiche forti. Anzi, è proprio il sistema istituzionale che non funziona, e ne sono vittime i cittadini stessi; ne risulterà vittima lo stesso Dante, proprio all’apice della sua carriera politica, che sarà anche la sua rovina.

Dante viene a trovarsi in un periodo di rapide trasformazioni politiche, sociali e soprattutto economiche, mentre sull’orizzonte i sistemi che avevano costruito l’assetto europeo nel Medioevo non tenevano più, e lui pensava di appellarsi ad esse per recuperare un po’ di pace, senza rendersi conto che il mondo andava in ben altre direzioni. Papato ed Impero, le colonne portanti del sistema medievale, vivevano uno scontro che li avrebbe esauriti, mentre i nuovi centri di potere, ma soprattutto le nuove energie economiche, stavano emergendo nei particolarismi diversi, e poi destinati allo scontro, e cioè le città, di notevole vivacità mercantile, e i regni periferici all’impero, che larga parte di storia avrebbero avuto con il loro assetto nazionale. Proprio l’anno della collocazione del grande ideale viaggio nell’oltretomba, narrato nel suo capolavoro, appare come l’anno del tramonto del Medioevo, quando, proprio in occasione del Giubileo, appaiono nuove forze all’orizzonte, per manovrare le quali è necessario un nuovo sistema istituzionale. Dante non sembra rendersi conto; e, forse anche perché travolto dalle circostanze che lo investono personalmente, pensa che sia possibile il rinnovamento facendo appello a ciò che in realtà è al tramonto.

Egli non è di ceto nobile e cerca tuttavia quella nobiltà, non di sangue, ma di sentimenti e di virtù, che è il cuore della sua poesia; si fa strada in una Firenze che mette al centro le nuove forze produttive e tuttavia contesta come degenerato proprio questo stesso mondo che gli appare composto di arrivisti senza scrupoli; entra a far parte del gruppo dirigente che si assume compiti amministrativi e politici, incapace di adattarsi ad un sistema costruito sulla corruzione, sull’inganno e sulla violenza. E tutto questo proprio nella sua città, che egli pensa di conoscere bene e che invece diventa il suo luogo “mortale”, da cui staccarsi, se non vuole perire.

Con la sua visione del mondo, quella che pensa di costruire nella sua “Summa vitae”, rappresentata dalla “Comedìa”, dove l’esistenza umana è colta nella sua verità profonda a partire dalla morte e dal suo “eternarsi” nell’al di là, dove non ci sono più mutazioni di sorta, Dante fatica a comprendere la realtà che lo circonda, la sua stessa città, dove faticosamente ha costruito il suo vivere di cittadino e di poeta. 

Cerchiamo allora di comprendere il rapporto che si stabilisce con la sua città, come la vede, come la vive, come la vorrebbe, come la stessa città si rapporta con lui, cittadino e soprattutto poeta e cantore della stessa Firenze.

COME LA VEDE …

Il legame che Dante ha con Firenze è davvero molto forte e stringente. Anche ad aver ricevuto tanto male, fino a sperimentare un esilio che sarà infinito, il poeta conserva per Firenze un amore “geloso”: è l’amore di chi tiene all’amata e che non può non amare, anche a dover registrare tanto male, tanta cattiveria, tanta ingratitudine. Non mancherà di segnalare i mali della sua città, senza per questo dover giungere ad un odio insanabile, anche quando escono da lui parole forti, accuse gravi, toni minacciosi e sferzanti …

A più riprese emerge questo suo animo contrastato, soprattutto nella Commedia, quando ormai le cose sono tracimate fino alla condanna estrema. Ma già in precedenza si potrebbe dire che le opere, scritte quando ancora non c’era una rottura sull’orizzonte, riflettono il bisogno di uno stile veramente nuovo, non solo nel poetare, ma anche nel vivere, soprattutto a partire dai sentimenti che possono ingentilire e creare un diverso spirito. La stessa cultura deve essere al servizio di un vivere davvero più civile, più signorile, più nobile, perché la nobiltà vera, quella dell’animo, non deriva solo dall’appartenenza ad un ceto “di sangue blu”.

La Firenze dantesca, che non è solo quella in cui lui è vissuto, ma anche quella che lui vorrebbe quasi idealizzare, ben oltre le contingenze storiche, è un habitat umano che sembra somigliare tanto all’ideale ciceroniano della “concordia ordinum”, dove le varie classi sociali sanno costruire un’armonia di interessi e di finalità. Ma questa città ideale non esiste. E Dante deve già provare l’amarezza di un periodo in cui le lotte politiche non erano limitate ad accese discussioni, ma sfociavano in sanguinose faide familiari che hanno rovinato i suoi anni migliori, quando egli era alla ricerca di un ruolo da avere nel contesto sociale e politico.

Gli anni della sua giovinezza, che sono pure gli anni della sua formazione, sono trascorsi fra gli studi, le prove d’armi, la ricerca di amicizie significative soprattutto per coltivare la nobiltà d’animo e la combinazione di rapporti familiari, per i quali i matrimoni erano spesso più contratti di interesse che di vero amore. Sulla base di questo quadro dovremmo dire che Dante vedeva Firenze come il luogo delle combinazioni soprattutto tra le famiglie, che nel quadro in evoluzione cercavano di emergere mediante gli affari, le prove di forza, gli accordi matrimoniali …

La battaglia di Campaldino

Ovviamente, il miglior modo di imporsi, di arrivare ad una piena maturità, è quella, per i tempi suoi, di partecipare ad una battaglia. E Dante vive il suo “battesimo” in quel contesto nella decisiva battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), quando aveva 24 anni. In quello scontro con gli Aretini si decise la sorte dei Guelfi, a cui Dante apparteneva.

L’ultima biografia, quella di Alessandro Barbero, inizia proprio di qui il racconto, come se qui Dante vivesse pienamente la sua appartenenza a Firenze e nel contempo Firenze trovasse in questo episodio la sua migliore immagine per il poeta. Dante partecipa come cavaliere e come “feditore”, dunque come uno che si può permettere il cavallo e che, avendolo a sue spese, possa dire non solo di averne i mezzi, ma anche di poter accedere ai vertici sociali, anche senza avere “sangue blu”. È una delle questioni in cui si addentra lo storico per definire la personalità dantesca, ben oltre gli schemi stereotipi del poeta, tenuto conto che in quel periodo aveva il suo peso la ricerca della nobiltà, come strumento per poter contare nella società. In realtà altri cercavano ben altre vie, riconoscendo che la trasformazione sociale stava facendo emergere la classe, che noi oggi definiamo borghese, legata ai traffici commerciali e soprattutto al possesso di un buon quantitativo di denaro. Se questo può rivelarsi nei capifamiglia, nei figli, ancora in giovane età, si scalpitava per avere gloria e fama in un fatto d’armi, come succede al giovane Dante in questa battaglia. Non fu uno scontro da poco, come lui stesso attesta: “ … mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia” (Barbero, p. 10). Lo storico si introduce con questo episodio, in sé non rilevante nella grande storia, ma assai decisivo per l’acquisizione da parte di Dante di un rilievo in città.

A Firenze chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento, e diventare un cavaliere a pieno titolo … E dunque vedere Dante che monta a cavallo e si cala l’elmo sulla testa prima di imbracciare la lancia e allinearsi con gli altri cavalieri della prima schiera … ci dice, sì, che apparteneva allo strato superiore della società cittadina, ma non si dice che fosse nobile … A Firenze non esisteva la nobiltà nel senso di una qualifica giuridica … Non c’erano registri delle famiglie nobili, o di quelle autorizzate a usare uno stemma, né processi per dimostrare la nobiltà d’una famiglia … anche lì, però, a chi era ricco piaceva far sapere che lui non era un parvenu, ma aveva degli antenati, una gens, e quindi era gentile, parola che in volgare era molto più usata di nobile. (Barbero, p. 16-17).

Certo, la Firenze “nobile”, la Firenze d’un tempo, che si compiaceva di avere origini romane e di essere erede di un mondo più mitizzato che mitico, non è quella in cui vive Dante. È quella piuttosto che Dante immagina d’altri tempi, a cui tuttavia la sua famiglia doveva appartenere grazie al suo trisavolo Cacciaguida. Ne tesse l’elogio nel canto XV del Paradiso. Ciò che troviamo esaltato della Firenze di quel tempo è la ricchezza in umanità, in presenza di una povertà di mezzi e di beni. Lo stesso Cacciaguida così presenta la “sua” città dove egli nasce e vive …

A così riposato, a così bello

viver di cittadini, a così fida

cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;

e ne l’antico vostro Batisteo

insieme fui cristiano e Cacciaguida  (Paradiso, XV, 130-135)

Ecco allora la sua nobiltà: aver tra i suoi avi il cavaliere Cacciaguida, morto da crociato. In realtà, anche ad avere figure di così elevata stima, quelli che Farinata vuol conoscere direttamente da Dante con la fiera domanda a lui posta: “Chi fuor li maggior tui” (Inferno X,42), il poeta è convinto che la nobiltà sia altra cosa.

Essere nobili significa essere nati con la predisposizione alla virtù, alla pietà, alla misericordia, al valore, e questo è un dono che appartiene ai singoli individui, non alle famiglie. (Barbero, p. 21)

Ora, dove queste virtù non sono più coltivate, perché altri criteri imperversano, la nobiltà di spirito viene a mancare, e la stessa città degenera, anche quando essere “spiriti buoni” che coltivano il ben vivere non è più il criterio a partire dal quale si giudica chi fa davvero grande la città.

Ora, lo stesso Dante vede la sua città imbarbarita, proprio perché non esiste più la nobiltà degli spiriti grandi, e la città è preda delle peggiori cupidigie, quelle per le quali, a partire dall’accumulo di denaro e allo scopo di mantenerlo, non si ha timore di giungere alla perfidia e alla violenza.

È significativo che il canto politico dell’Inferno, il canto VI, abbia come protagonista la stessa città di Firenze, vera “città di Dite”, ormai divenuta infernale. E chi ne può parlare da dannato, volendola rappresentare, è il goloso Ciacco, diminutivo di Jacques, e tuttavia, nella parlata fiorentina del tempo, sinonimo di “porco”, soprattutto per il male della gola che lo voleva con la bocca sempre affamata e sempre presente a feste e godimenti della tavola. Ma qui il male è ben più grave, perché rappresenta l’ingordigia di chi non è mai sazio di ricchezze. Proprio a lui Dante chiede conto della città, perché sia lui a descriverla, proprio nel massimo momento della sua degenerazione:

Ed elli a me: “Dopo lunga tencione

verranno al sangue, e la parte selvaggia

caccerà l’altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia

infra tre soli, e che l’altra sormonti

con la forza di tal che testé piaggia.


Alte terrà lungo tempo le fronti,

tenendo l’altra sotto gravi pesi,

come che di ciò pianga o che n’adonti.


Giusti son due, e non vi sono intesi;

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’ hanno i cuori accesi”. (Inferno VI, 64-75)

Così dunque la vede Dante, divisa, piena di violenza e di sangue, sempre in balia degli scontri fra le parti, ma soprattutto dominata dai peggiori vizi.

Ed in effetti così è nell’ultimo decennio del secolo XIII e nel primo del secolo XIV, quando, nella perversione che domina in città, Dante stesso ne farà le spese. Neppur la vittoria dei Guelfi sui Ghibellini porta la pace e la concordia, perché poi la divisione si trasferisce all’interno della parte guelfa, fra Bianchi e Neri. Dante si trova in quegli anni partecipe del governo, e dunque responsabile dell’ordine pubblico. La ricerca di pacieri per scongiurare il peggio dice comunque l’incapacità dei partiti locali di trovare la concordia per quello che noi oggi definiremmo il bene comune.

COME LA VIVE …

Dante si inserisce in un quadro sociale e politico, che, via via, muta, deteriorandosi. Ma per tutto il tempo che vi abita trascorre anche momenti importanti di formazione, di cultura, di amicizie umane, di un clima spirituale, compresa la componente religiosa, che segnano fortemente l’animo dell’uomo e del poeta. Senza questo clima, senza questo habitat non si può spiegare né l’uomo, né l’opera che lascia alla posterità. Questa Firenze storica è corredo essenziale ed esistenziale, da cui non si può prescindere per capire il personaggio e anche per capire la sua poesia. E questo vale anche per gli anni in cui egli è lontano fisicamente dalla città, senza che ne sia lontano il cuore.

La sua città è quella che si presenta divisa nei sestieri che la formano, come pure nei raggruppamenti sociali che diventano come tanti corpi, detti poi “Corporazioni”, legate a mestieri, attività lavorative, ma soprattutto lucrative, e che diventano l’assetto fondamentale, a cui si deve appartenere, se non si vuole di fatto l’esclusione. Anche a far altro nella vita, come nel caso di Dante, il poeta, che dedicherà gran parte dell’esistenza e della sua attività proprio alle Lettere, si trova a dover anche partecipare a questi corpi, che costituiscono l’essenziale della società fiorentina, sia per l’attività economica, ormai destinata a crescere vertiginosamente, sia per l’attività politica, che è il corollario essenziale, perché la città possa continuare a svilupparsi sotto il profilo economico.

Dante nasce nel cuore della città e abita fino all’esilio in una casa di sua proprietà.

La casa era ubicata nel sesto di Porta San Pietro, presso la Chiesa di san Martino del Vescovo … a pochi passi da Piazza della Signoria. (Inglese, p. 29)

Qui nasce nel mese di maggio, costellazione dei Gemelli, del 1265.

Nel sabato santo del ’66 era stato condotto al fonte battesimale (Altomonte, p. 41)

Il padre, Alaghiero il giovane, compare in alcuni atti notarili per compravendite. E risulta che abbia avuto due mogli. Da Bella, la seconda, venne al mondo Dante, il quale ebbe questo nome dal nonno materno, che si chiamava “Durante”. Ne abbiamo conferma in un documento “post mortem” del poeta, in cui è implicato suo figlio: qui si fa cenno al padre denominato “Durante, olim vocatus Dante, cd. Alagherii de Florentia …

Era il 1269. Adesso Dante aveva quattro anni: ancora uno o due, e inizierà a salire i gradini dell’istruzione elementare, frequentando una scuola privata nel “popolo” di san Martino del Vescovo, tenuta da un doctor puerorum, forse un certo Romano. (Altomonte, p. 56).

Boccaccio nel suo “Trattatello” tende a esaltarlo in questo suo lavoro di studente, già in grado di manifestare il suo ingegno, particolarmente vivace.

lasciando stare il ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della futura gloria del suo ingegno, dico, che dal principio della sua puerizia, avendo già li primi elementi delle lettere impresi, non secondo i costumi de’ nobili odierni si diede alle fanciullesche lascivie e agli ozii, nel grembo della madre impigrendo, ma nella propria patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo insieme con gli anni l’animo e lo ‘ngegno, non a’ lucrativi studi, alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispone … ( Prose antiche, p. 39)

Non sembra avere molti mezzi, ma l’intelligenza e la volontà non mancano …

Succede precisamente al punto in cui non si è più ragazzi senza essere ancora entrati tra i grandi: l’età nella quale il corpo si assesta nelle sue strutture, rivelando a volte un senso improvviso di gravità, come se si appesantisse tutt’uno con lo spirito, prima che, trovata la giusta forma, ritorni a una sua nuova disinvoltura, a una sua leggerezza di toni, proprio della gioventù … Leggeva romanzi popolati di eroi imbattibili, vinti solo dall’amore per la propria donna … e cominciava a scrivere poesie. Studiava i classici … (Altomonte, p. 76-7)

Accanto agli studi, o proprio per il genere di studio fatto, che non è solo finalizzato all’utile, si sviluppa nell’età dell’adolescenza la stagione degli amori, favorita anche dal fatto che era in uso nella città la forma contrattuale dei matrimoni, perché il matrimonio era, anche, o, forse, soprattutto, un affare e proprio per questo era necessario il notaio … Ecco come avviene …

Si chiamava Gemma la ragazza … per il momento, però, quel giorno era abbastanza lontano: si era al 9 febbraio del ’77. E lei non aveva ancora dieci anni. Suo padre, Manetto Donati, apparteneva a una famiglia con torri, quindi con una posizione di rilievo a Firenze. Ma la dote assegnata a Gemma non è elevata. Si potrebbe dirla poco più che modesta; duecento lire in fiorini piccoli (Altomonte, p. 90)

E tuttavia, più degli studi scolastici, più della necessità di accasarsi secondo le convenienze della famiglia, Dante vive la “sua” Firenze, buttandosi nell’arengo, quello politico, che seguiva immediatamente quello militare, sperimentato sui campi di battaglia di Campaldino. La carriera richiedeva una gavetta e questo si poteva fare facendo parte …

di quelle “liete brigate” di giovani facoltosi che trascorrevano il loro tempo occupati a divertirsi. Costituivano uno spettacolo abbastanza frequente. Capitava che le strade risuonassero dei loro canti, delle loro musiche. La città vi si era abituata, ed era pronta a riscaldarsi del loro calore più di quanto fosse disposta a invidiarle e a censurare. C’erano, sì, dei religiosi che tuonavano dai pulpiti, ma dopotutto loro non facevano che il proprio mestiere. E qualche volta, addirittura, con risultato controproducente. (Altomonte, p. 107)

Ma non è facendo bisboccia che si può pensare ad un futuro da politico, o comunque da uomo interessato alla cosa pubblica. Queste “liete brigate” servono indubbiamente a entrare nel giro di quelli che contano, a farsi conoscere, a sostenere dei ragionamenti nei dibattiti in piazza e nelle case. Ci vuole parecchio tempo perché Dante si ritrovi nei luoghi del potere o dove si devono prendere le decisioni. Nel frattempo c’è anche da vivere in una città che sempre più è fatta di affari e che richiede sempre più una partecipazione diretta. Per entrarvi occorre naturalmente avere proprietà, ma soprattutto saper gestire denaro. Dante ha qualcosa in eredità da parte del padre: lo possiamo sapere anche a partire dai contratti di compravendita nei quali compare il suo nome. Se vende, è evidentemente in possesso di proprietà; ma in quel momento ha bisogno di liquidità, e della stessa liquidità entra in possesso mediante prestiti, spesso anche cospicui. È segno che il denaro non basta mai e che comunque non ne ha mai abbastanza.

Più che negli affari, dei quali tanta parte del popolo fiorentino si occupa, nonostante le divisioni politiche e soprattutto il clima di continua guerra civile con violenze e faide, Dante si butta nelle questioni politiche, prendendo posizione nelle dispute, con tutti i rischi che ne derivano.

Se Dante si occupava poco di affari, è anche perché, oltre agli studi in cui s’era buttato a capofitto, al più tardi verso i trent’anni aveva cominciato a partecipare attivamente alla vita politica della sua città. Il comune di Firenze era governato da un regime di popolo, il che vuol dire che la partecipazione agli organi decisionali era allargata a una vasta fascia della popolazione produttiva. Il governo vero e proprio era costituito dai sei priori delle Arti, espressione del mondo imprenditoriale e artigiano, e dal gonfaloniere di giustizia, incaricato di far rispettare gli Ordinamenti di giustizia che difendevano i popolani dalle violenze dei magnati; erano chiamati anche i Signori, e restavano in carica appena due mesi, per scongiurare qualunque concentrazione di potere nelle stesse mani …

La partecipazione di Dante alla vita politica di Firenze è attestata da molti documenti nell’arco di sei anni, dal 1295 al 1301, ma ebbe inizio certamente già prima. (Barbero, p. 116-7)

Questi anni sono particolarmente turbolenti per Firenze; e Dante, che vive dentro il sistema politico, assumendo cariche e compiti di rilievo, è nel vortice delle tensioni. Così potremmo dire che egli vive la sua città, vivendo in particolare il fermento delle lotte politiche, che finiranno per trasformare l’assetto sociale e di conseguenza anche l’assetto politico della città. Più che cavalcare quel dramma, magari anche solo barcamenandosi in mezzo alle tante bufere che vi scoppiavano, Dante ne è travolto, anche perché la sua visione politica non riesce ad intendere e a controllare i cambiamenti che sono in corso, mentre egli vorrebbe evidentemente altro …

Seguire le continue burrasche di quegli anni non è facile neppure per chi le osserva dal di fuori. Ma anche lui che ne è coinvolto, di fatto risulta sempre più travolto! 

Quando lui entra, se non da protagonista, almeno da comparsa, come membro del Consiglio di Capitudini delle dodici Arti maggiori, ne esce uno, divenuto più famoso di lui, quanto a protagonista della politica fiorentina, e cioè Giano della Bella, autore degli Ordinamenti di Giustizia (18 gennaio 1293).

Con tali Ordinamenti i magnati vengono esclusi dalle alte cariche dello Stato fiorentino, a favore del popolo, che in realtà è costituito di fatto dai più abbienti sul piano economico e imprenditoriale. Neppure lui si salva dai tumulti e dall’esilio, anche se le sue riforme gli sopravvivono.

Dante interviene in quel periodo tumultuoso, dando il suo parere, che si muove nella direzione dell’appoggio alla classe borghese contro quella considerata nobiliare. I termini usati nella “Cronica” di Giovanni Villani (1280-1348) lasciano intendere che il suo parere era di fatto una decisione (consuluit) a cui la maggioranza dà parere favorevole. Ma non mancano i voti contrari che poi prendono il sopravvento.

Un netto peggioramento dello stato di cose fu provocato dallo scontro di due stirpi di magnati, i Donati, “antichi di sangue”, e i Cerchi, “buoni mercatanti e gran ricchi” e molto meno avversi al popolo … I tratti della faida familiare non debbono occultare il soggiacente conflitto tra “due agguerriti e opposti gruppi di banchieri facenti capo in particolare gli uni alle compagnie dei Cerchi e degli Scali-Mozzi e gli altri soprattutto alla compagnia degli Spini. Il conflitto spaccò la Parte Guelfa coinvolgendo anche i “popolani grassi” più legati ai magnati da comuni intraprese commerciali o finanziarie. (Inglese, p. 62)

Il dramma, che si consuma in quel breve periodo, raggiunge due persone di spicco allora, ma anche legati in maniera diversa a Dante. Si tratta di Guido Cavalcanti, poeta amico di Dante. E dall’altra parte c’era Corso Donati: sua moglie Gemma apparteneva alla famiglia.

L’episodio più drammatico avviene il 1 maggio 1300

i giovani de’ Cerchi – scrive Dino Compagni (1246-1324) nella sua Cronica – si riscontrarono con la brigata de’ Donati … i quali assalirono la brigata de’ Cerchi con armata mano. Nel quale assalto fu tagliato il naso a Ricoverino de’ Cerchi da uno masnadiere de’ Donati(Inglese, p. 63)

Qui cominciano i suoi guai … che così sono descritti e narrati … nell’epistola apologetica Popule mee … che conosciamo grazie a Leonardo Bruni (1370-1444), umanista aretino, ma vissuto a Firenze.

Furono nell’offizio del priorato co lui messer Palmieri Altoviti e Neri di messer Iacopo degli Alberti e altri colleghi; e fu questo suo priorato nel MCCC. Da questo priorato nacque la cacciata sua e tutte le cose avverse ch’egli ebbe nella vita, secondo lui medesimo scrive in una epistola della quale le parole sono queste: “Tutti e’ mali e tutti gl’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio; del quale priorato, bene che per prudenzia io non fussi degno, niente di meno per fede e per età non ne era indegno, però che dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta, dove mi trovai non fanciullo nelle armi, ove ebbi temenza molta e alla fine grandissima allegrezza per li vari casi di quella battaglia” … Essendo dunque la città in armi e in travagli, i priori per consiglio di Dante provvedono di fortificarsi dalla moltitudine del popolo; e quando furono fortificati ne mandarono a’ confini gli uomini principali delle due sette … Questo diede gravezza assai a Dante … fu riputato che pendessi in parte bianca … E accrebbe la ‘nvidia perché quella parte de’ cittadini che fu confinata a Serezzana (Sarzana) (= i Bianchi) subito ritornò a Firenze; e l’altra ch’era confinata a Castello della Pieve si rimase di fuori. A questo risponde Dante che, quando quelli a Serezzana furono rivocati, esso era fuori dell’oficio del priorato e che a lui non si debba imputare; più dice che la ritornata loro fu per infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana e poco appresso morì. (Inglese, p. 65)

La situazione si complica con l’intervento di forze esterne alla città, che, invece di portar pace, prendono posizione per la parte nera. Questa appariva più decisamente guelfa, rispetto alla parte bianca, fra le cui fila si trovava Dante. Egli voleva tenersi a distanza rispetto all’autorità papale rappresentata dalla persona, ritenuta intrigante, di Bonifacio VIII (1294-1303). Il poeta, in effetti, nelle assemblee cittadine aveva sostenuto con forza che ci si doveva opporre ad una sorta di servitù militare da offrire al Papa nelle sue guerre. Nell’ambasceria, inviata a Roma, per discutere della questione, era compreso anche Dante. Non si venne a capo di nulla. Nel frattempo a Firenze la situazione degenerava con la presenza in armi di Carlo di Valois (1270-1325), inviato dal Papa a dirimere la contesa fra Bianchi e Neri, naturalmente a favore dei Neri. Seguono violenze e condanne. Dante si trovava a Roma e così scampa alle violenze, ma non alla condanna.

Di qui l’impossibile ritorno alla città natale …

COME LA VORREBBE …

Comincia così un’altra fase della vita di Dante, caratterizzata dalla dolorosa separazione da Firenze. Non c’è spazio per alcuna forma di accomodamento; anzi, si arriva alla condanna a morte in contumacia, che costringerà il poeta a vivere ramingo, con la taccia di “Ghibellin fuggiasco”.

E comincia anche la sua amara considerazione sulla città.

Se di essa parla nel canto VI dell’Inferno, come se anche la città, non solo i singoli, meritasse quella collocazione, anche altrove nella sua Commedia il giudizio è sempre, quanto meno, amaro, pungente, invelenito dall’acredine.

Non poteva sopportare soprattutto l’accusa, che gli era stata fatta, e che aveva poi comportato la sua condanna. Dante non ritiene affatto di essere colpevole di un reato infamante, che sa bene di non aver commesso e di non poter considerare come una sua debolezza. Anzi, sull’argomento era quanto mai tenace assertore e difensore della perfetta onestà di intenzioni e di comportamenti nel suo agire politico per il bene della città. Essa è, sì, toccata dal male della disonestà e della corruzione, e proprio per questo merita la sua veemente accusa, con la quale cerca di stornare da sé quanto gli veniva scaricato con il malanimo. In effetti il processo, intentato nei suoi confronti, venne dirottato dai giudici su una accusa, che non poteva avere attenuanti e che lo infamava per sempre.

Uno di quei giudici, messer Paolo da Gubbio, venne deputato a processare i casi di baratteria, il termine con cui genericamente si indicavano corruzione, concussione e peculato. La baratteria era l’incubo della vita politica italiana (nel Medioevo, s’intende) e Dante la stigmatizza rabbiosamente nell’Inferno, dove riserva una bolgia ai barattieri, costringendoli a nuotare nella pece bollente. Nel gennaio 1302, però, fu lui ad essere processato … (Barbero, p. 155).

E soprattutto, le epurazioni colpirono in modo selettivo: la maggior parte dei priori in carica in quegli anni vennero lasciati tranquilli. È inevitabile concludere che si vollero trascinare in giudizio soprattutto quelli che potevano essere condannati con qualche verosimiglianza. Dante barattiere, per lucro privato? Certo no; ma un Dante che trovandosi al governo accetta di fare qualche pressione nell’interesse del partito, per evitare che un certo incarico vada alla persona sbagliata, o per garantire un finanziamento agli amici, be’, questo francamente non appare proprio impossibile. Non essendosi presentati, tutti e quattro gli imputati vennero considerati rei confessi e condannati alla colossale multa di 5000 lire ciascuno, oltre alla restituzione delle somme estorte, se qualcuno si fosse presentato a reclamarle … Ma al nuovo regime non bastava. Il 10 marzo 1302 il podestà pronunciò una nuova sentenza contro i quindici condannati per baratteria nei processi dei mesi precedenti, quasi tutti ex priori degli anni 1299-1301. Nessuno di loro si era presentato né aveva pagato la multa; il podestà, appellandosi agli statuti e agli Ordinamenti di giustizia, ma di fatto agendo d’arbitrio, dichiarò che se fossero caduti in potere del comune di Firenze sarebbero morti sul rogo. Fra i quindici c’era Dante insieme ai suoi quattro coimputati (Barbero, p. 157)

Se da una parte comincia per lui l’amara esperienza dell’esilio, dall’altra, dopo i tentativi non riusciti di poter ribaltare la situazione a favore suo e della sua parte, non gli resta che ridursi a “far parte per se stesso”, rivendicando la sua innocenza totale. Poi, nel rovesciare sulla città, amata, ma non ricambiata, l’accusa di essere corrotta, ha inizio per lui anche quel cammino di purificazione, che lui, ma non solo lui, deve fare, e che si augura possa servire al ravvedimento e alla rinascita di tutti. Vi è in lui l’auspicio che anche Firenze possa essere diversa da come si presenta ormai, con un sistema, sociale e politico, in cui trionfa l’ingiustizia, dopo aver trionfato la violenza.

Se è necessaria la purificazione, è necessario riconoscere il male! Per questo non può non immaginare che vi sia tanta gente destinata alla condanna definitiva. E questo non vale solo per la sua parte politica, perché il male coinvolge davvero tutti e per certi versi appartiene a quel genere di sistema a cui ci si è adattati.

E però, se Firenze è dentro il “suo” Inferno (e con essa ci stanno tanti suoi cittadini), allora dovremmo concludere che non esista affatto la possibilità di rovesciare le cose e di vedere una rinascita, come si potrebbe auspicare nella purificazione provata dentro il Purgatorio. Nell’Inferno i dannati ci stanno per sempre, e non possono esserci per loro né ravvedimento, né perdono. Nel “suo” Inferno non può essere diversamente, e così anche la sua condanna è radicale e senza ripensamenti possibili. Proprio negli anni amari di un esilio senza più speranza di ritorno, Dante scrive la prima cantica, nella quale i peccati più gravi si trovano nelle bolge più profonde. Lì, sprofondando nell’abisso della dannazione eterna, stanno i barattieri, ma più ancora coloro che sono fraudolenti, soprattutto nei consigli, cioè nelle decisioni che prendono.

Il canto XXVI, rimasto famoso anche nelle aule scolastiche per la bella figura di Ulisse, inizia proprio con una tremenda invettiva nei confronti della sua città:

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

e tu in grande orranza non ne sali. (Inferno XXVI, 1-6)

Vi è indubbiamente il riconoscimento della grandezza di Firenze, nella consapevolezza che essa ha un posto d’onore nel mondo, evidentemente perché il poeta non solo ama la sua città natale, ma perché ne vede crescere la potenza, sia per la ricchezza economica, sia per quella culturale. E non siamo che agli inizi di un periodo destinato a dare ancora di più nei secoli successivi … Ma il nome di Firenze è celebrato anche … all’inferno! E questo Dante lo dice con molta amarezza: la sua non è, e non può essere, soddisfazione o compiacimento! Il fatto che vi segnali cinque cittadini tra quelli che risultano essere “ladroni”, sembra quasi la ritorsione sua all’accusa mossa nei confronti dei cinque, fra i quali lui pure si trova, che sono stati condannati in contumacia con l’accusa di aver … rubato. Evidentemente continua il rimpallo delle accuse e il clima non può essere favorevole ad una visione più distesa dei rapporti. Perché vi sia una lettura meno invelenita, deve ancora passare del tempo e bisognerà elevarsi, anche entrando in una cantica superiore perché ne venga fuori una Firenze ben diversa da quella che Dante vede, che Dante vive; una Firenze che egli vorrebbe diversa da come si presenta e che richiede una profonda purificazione!

A questo proposito possono essere utili i saggi raccolti nell’opera dello storico Raffaello Morghen (1896-1983), che legge Dante non sotto il profilo linguistico e letterario ma – come dice lui stesso – “nell’espressione autentica delle sue passioni di uomo; nelle confessioni dei suoi errori e dei suoi ideali civili e morali; nella stretta aderenza alla concreta realtà degli uomini e delle cose del suo tempo, pur nel rimpianto nostalgico del “buon tempo antico” …(Morghen, p. 10). Lo storico lo vede come un “profeta biblico”, uno cioè che ha una missione quasi affidatagli da Dio: quella di portare l’umanità, ormai già tralignata dietro l’errore, e quindi persa, come lui, nella selva oscura, verso un vivere nuovo e beatificante, che proprio il Giubileo del 1300 poteva far sperare. La rievocazione del “buon tempo antico” nel saggio dedicato a questo tema, dice quale potrebbe e dovrebbe essere la Firenze auspicata da Dante. Anche a “cacciarla all’Inferno” c’è sempre da sperare in una sua risurrezione, che tuttavia sembra più il ritorno ad un passato che non c’è più e che non può più ritornare. Anche Morghen pone l’accento sulla condanna impietosa che Dante fa della sua Firenze: “ … se in parte potremmo attribuire la condanna che Dante pronunciò su molti rappresentanti del tempo all’odio politico e ad una specie di rivalsa morale contro coloro che l’avevano bollato con l’accusa di baratteria e di malgoverno del denaro, è indubbio che i riferimenti precisi dei documenti attestano l’aderenza stretta che il poeta ebbe con gli uomini e le cose del suo tempo”. (Morghen, p. 62)

È vero – sembra dire l’acuto osservatore del poeta, che vuol leggere sul piano storico, – che i suoi grandi personaggi, compresi quelli che popolano l’Inferno e quindi destinati alla condanna eterna, hanno colpe e peccati riprovevoli; e tuttavia essi giganteggiano nei loro valori umani, anche ad essere senza remissione colpevoli sotto il profilo di una morale religiosa. Se lo iato fra i due mondi, o fra le due realtà, quello della virtù morale e civile e quello della virtù morale e religiosa, portava alla tragedia della dannazione, ciò era dovuto al venir meno delle due autorità preposte da Dio per la pace e per il benessere umano.

tra i due mondi per Dante non v’era contraddizione, se non per il venir meno dei due supremi poteri che avevano avuto da Dio il compito di conciliare, in una suprema sintesi, l’esercizio delle virtù terrene, le esigenze della felicità e della pace universali con le aspirazioni supèreme dell’eterna salvezza. (Morghen, p. 64)

La Firenze, che Dante vorrebbe, è naturalmente quella di un passato, che potrà anche essere glorioso, ma è di fatto impossibile. È un ritorno all’indietro, che non può essere considerato come una profezia, propriamente. E tuttavia più che un ritorno all’essenzialità contro il sistema affaristico, emerso nei suoi anni e degenerato in arrivismi pericolosi , la sua indicazione sembra muoversi in quella nobiltà dello spirito, in quella forma della “gentilezza” e della “cortesia”, che deriva dall’amore coltivato a partire pur sempre da una creatura, che è tuttavia dono dall’alto, dono beatificante. La salvezza non può che venire dall’alto, non può che venire da Dio; ma essa arriva all’uomo mediante la creatura che ne incarna le virtù somme. È insomma una visione indubbiamente religiosa, tenuto conto dello spirito medievale da cui è intrisa, ma che non può fare a meno delle stesse creature che ne comunicano lo spirito. Chi però aveva questa missione, come poteva essere la figura del Papa nell’ambito religioso e dell’Imperatore nell’ambito civile, aveva perso la sua vera anima. 

E di lì era tracimata ogni forma di male. Se un po’ ovunque si era insinuato il male, soprattutto con l’avidità e la cupidigia, per lui questo male aveva colmato la sua misura nella realtà che gli era più cara, nella sua Firenze. Qui si insisteva sul fatto che la ricchezza, accresciuta con i commerci, sembrava diventare l’anima del vivere, che faceva star bene, perché dava benessere, mentre in realtà portava alla discordia e alla rovina di persone e di famiglie. Ovviamente una siffatta visione del mondo, che è affidata al solo meccanismo economico, al crescere della liquidità finanziaria e, insieme, dei beni da produrre e da consumare, al gioco della domanda e dell’offerta, che mette al centro i beni e non il bene, le cose e non le persone, è destinata a far degenerare il mondo, che ha bisogno di altri valori e di altre prospettive di vita, con al centro la persona, quella di Dio e quella dell’uomo: così Dante continua ad essere figlio del Medioevo che pone al centro Dio, ma diventa anche l’apripista del nuovo mondo umanistico, sviluppato nel secolo successivo con l’Umanesimo, che fa dell’uomo centro e misura del mondo.

Il mondo vagheggiato nella visione del canto di Cacciaguida fa pensare ad un Dante conservatore e sognatore di tempi che furono, non più proponibili; in realtà noi lo dovremmo considerare davvero come un profeta, quando, in nome di una visione religiosa che pone Dio al centro, come persona e non solo come principio teorico, si muove a recuperare la centralità della persona; e poi dalla persona di Dio ci porta a alla persona umana, intesa in modo particolare come mediatrice o “beatrice” per far elevare l’uomo a Dio. In questo senso ragione e fede, che si incarnano in Virgilio e Beatrice, proprio perché non sono concetti filosofici, ma esperienze umane, possono condurre alla beatitudine, qui e nell’altra vita.

Conclude Morghen nel suo saggio “Dante tra l’umano e la storia della salvezza”:

I risultati conseguiti dagli studi più recenti … ci danno … la possibilità di avvicinarsi oggi a Dante e all’opera sua con una più estesa coscienza critica e umana, poiché il miracolo della grande opera non vive avulso dalla vicenda spirituale del poeta, che seppe dare forma di altissima poesia al travaglio della sua grande anima, combattuta tra l’“umano” delle sue passioni terrene e le aspirazioni urgenti delle sue attese di cristiano, trasfigurando la rappresentazione concreta della realtà umana in immagini di una potenza fantastica che raggiunge quasi i limiti della rivelazione … La terra e il cielo, l’umano e il divino, sono, così, strettamente congiunti nell’ordine supremo della creazione, che ammette deficienze e limiti, dovuti alla libertà degli esseri umani, dotati della facoltà responsabile di scelta tra bene e male, ma non comporta fratture manichee tra natura e spirito, ché un fondamentale istinto riconduce tutte le cose a Dio, e la Sapienza divina, che è Amore e Giustizia, ricompone nell’eternità l’ordine sconvolto dall’errore e dal peccato, punendo i malvagi e accogliendo nella sua luce i redenti in Cristo. Sì che anche l’“umano” ha per Dante i suoi valori, quei valori che paradossalmente circonfondono ancora di una loro particolare dignità, le figure di Ciacco, di Brunetto Latini, di Francesca da Rimini, di Farinata, pur condannati all’eterna perdizione. Il mondo umano vive, così, nel pensiero di Dante, quasi di una sua vita autonoma d’impegni, subordinati, sì, ai valori eterni della rivelazione ed esaltati nella loro adesione alle verità della fede, ma sempre validi anche quando la giustizia di Dio ne condanna le deficienze, gli eccessi, le deformazioni dovute all’amore soverchio di sé e delle cose terrene. D’altro canto, per Dante, natura e spirito risultano strettamente congiunti in una concezione unitaria e gerarchica che sale dal mistero della vita vegetativa e dell’istinto, e dalla materialità della vita animale, alle espressioni più alte dello spirito, nella sua tensione verso l’eterno.

(Morghen, p. 159-161)

BIBLIOGRAFIA

Antonio Altomonte –DANTE – UNA VITA PER L’IMPERATORE – Rusconi, 1985

Raffaello Morghen – DANTE PROFETA – tra la storia e l’eterno –Jaca Book, 1983

Alessandro Barbero – DANTE – Laterza, 2020

Giorgio Inglese –VITA DI DANTE – Una biografia possibile – Carocci, 2015