S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.

S. Clemente nella chiesa di Santa Sofia a Kiev

PREMESSA:

NELL’EPOCA POSTAPOSTOLICA

E LA SITUAZIONE A CORINTO

Fra gli scritti dei primi anni dopo la redazione dei testi neotestamentari (vangeli e lettere apostoliche), spiccano alcuni, che al loro primo apparire vengono catalogati come testi ispirati, e quindi parte integrante del “canone biblico”. Poi però, anche ad essere sempre ben valutati, e a farvi ricorso nelle circostanze che presentano i medesimi problemi, non dovunque sono inscritti nell’insieme dei libri biblici, e di fatto in poco tempo si troverà estromesso da essi. Uno fra i documenti meglio apprezzati e circondati da stima e onore, è la lettera scritta da Clemente, che è il quarto vescovo di Roma, e che assume un rilievo non indifferente nella Chiesa di allora, grazie a questo scritto. Si tratta di una missiva per i cristiani di Corinto, dove continuavano le divisioni già documentate nella prima lettera di S. Paolo ai cristiani di quella città. Siamo comunque a 40 anni circa dal testo paolino; e quindi le persone a cui Clemente si rivolge sono altre; ma il problema persiste, segno di una comunità segnata da questo male, ben radicato. L’apostolo, fin dalle prime battute della sua lettera tocca l’argomento, rilevando la presenza di “partiti”, cioè di gruppi che facevano riferimento all’appartenenza a qualche figura carismatica. Non sembra che ci siano forme di eresie, e quindi di dottrine varie e contrapposte; prevale invece quel tipo di personalismo che non favorisce affatto la familiarità e la fraternità.

1Corinzi, 1,10-12

Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo.

Se anni dopo – siamo alla fine del I secolo – il medesimo clima affiora, vuol dire che un simile malessere è radicato: non basta più la lettera di Paolo, che pur si dovrebbe ritenere un intervento autorevole e da considerarsi indiscutibile; occorre che la figura di spicco in quel periodo prenda posizione, aggiornando la lettura della questione.

Paolo ormai è morto da anni: egli scrive la lettera verso il 58, e scompare dalla scena nel 67, all’epoca delle persecuzioni di Nerone. Corinto era una delle comunità in cui aveva dato il meglio di sé, anche in un periodo particolarmente delicato della sua esistenza. Era arrivato qui, attorno al 49 da Atene, dopo il flop del discorso tenuto all’Areopago, e si era ripreso con l’intervento salutare della coppia, Aquila e Priscilla, che aveva voluto con sé alla ripresa dei suoi viaggi. Poi, però, aveva inviato i suoi ispettori, gli  (= episcopoi, cioè gli ispettori), con l’incarico di sorvegliare l’andamento della comunità. E, non bastando quello che avevano fatto i collaboratori, aveva inviato due lettere, dalle quali era nata una certa corrispondenza. Nella prima, oltre al tema della divisione nella comunità, legata ai personalismi, Paolo affronta diverse questioni, in relazione al fatto che la comunità rivelava in tanti ambiti divergenze che potevano dare adito a spaccature. Anche la questione dell’Eucaristia, per la quale l’apostolo dà il suo primo racconto di ciò che era successo nell’ultima cena, veniva affrontata, perché di fatto non avveniva secondo le ragioni espresse dal Maestro al momento della sua istituzione. L’apostolo rileva che il ritrovo eucaristico aveva perso le sue motivazioni profonde, perché avveniva in un contesto litigioso, o comunque ben poco fraterno, se cia-scuno faceva quel che voleva. In questo modo la comunione, significata dal pane che si mangiava insieme, non era più garantita e prevaleva l’indegnità a presentarsi alla tavola comune.

1Corinzi 11,17-22

Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Come mai vi erano queste divisioni e queste venivano ritenute parti-colarmente gravi sia con Paolo, sia con Clemente? Si potrebbe dire che qui c’è una sorta di “difetto di fabbrica”: Corinto è “un porto di mare”, anche piuttosto importante e frequentato, e la gente che vi soggiornava appariva piuttosto raccogliticcia, provenendo un po’ da ogni dove e risultava in tal modo instabile.

Quindi era facile che anche tra i fedeli della nuova religione potessero annidarsi tipi poco raccomandabili. Del resto la lettera di Paolo segnala un peccato grave da giustificare il suo intervento piuttosto duro: uno vive “more uxorio” con la moglie di suo padre, relazione sgradita e biasimevole anche per chi non è cristiano e inaccettabile per chi lo è, e avverte la cosa come uno scandalo vergognoso.

1Corinzi 5,1-5

Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!  Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù,  questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore.

Siamo dunque in presenza di una comunità dove le divisioni non succedono solo sulla base di questioni dottrinali, come sempre più spesso avviene alla fine del I secolo, e quindi negli anni del pontificato di Clemente. C’è piuttosto quel genere di contenzioso che mette gli uni contro gli altri, nel desiderio di prevalere e nella prospettiva di esercitare appropriazioni indebite, soprattutto nei rapporti personali: questi erano sempre più deteriorati perché prevalevano interessi privati, e di conseguenza esplodevano le forme possessive a danno di altri. Se una simile concezione di vita serpeggia anche fra i cristiani, allora la dottrina stessa è in pericolo, perché si viene meno all’essenziale del Vangelo, che raccomanda apertura agli altri, senso di fraternità, dono vicendevole … Di solito, nell’analisi dei problemi presenti fra i cristiani in questo periodo, si tende ad insistere sul proliferare di dottrine eretiche, legate a deviazioni dalla proposta evangelica che appare molto esigente. Già nei testi neotestamentari dilagano le raccomandazioni a non lasciarsi ingannare da dottrine inconsistenti e fuorvianti, che un po’ dovunque si formano e si diffondono. Questo capita già negli anni in cui sono ancora viventi e operanti gli apostoli: a loro ci si rivolge per avere la garanzia che la Chiesa nel suo insieme non defletta dal Maestro e si mantenga fedele a lui. Quando però essi scompaiono, e in particolare non ci sono più né Pietro né Paolo, uccisi nella bufera neroniana, occorre trovare un ceto dirigente in grado di figurare credibile e autorevole con tutti, anche nelle comunità più dissite.

Nei suoi viaggi Paolo aveva legato a sé le diverse comunità create o incontrate, e, sia mediante lettere, sia mediante gli ispettori da lui inviati, come Timoteo e Tito, aveva tenuto sotto controllo gruppi diversi. Alla fine del I secolo, ultimo fra gli apostoli, rimaneva Giovanni, piuttosto avanti negli anni, secondo tradizioni diffuse sul suo conto. Già a lui ci si era rivolti in mezzo alla stessa persecuzione in cui è implicato Clemente, perché sostenesse le comunità frastornate da una situazione pesante; e lui aveva risposto con l’Apocalisse, una visione del cammino della Chiesa in mezzo ai mostri che la vogliono insidiare, per cui è necessario “togliere la coltre di male” e vedere sotto il disegno di Dio sempre “in fieri”. Il passaggio all’età successiva, post-apostolica, richiedeva la presenza di personaggi autorevoli e tali da risultare accetti anche oltre il proprio territorio. Il caso di Clemente emerge in un simile contesto: egli non è prestigioso solo perché si presenta come vescovo di Roma, e quindi successore di Pietro, ma perché, intervenendo con la sua lettera nei confronti di una comunità instabile e litigiosa, si rivela un punto di riferimento, accettato unanimemente, anche fuori della sua Chiesa. Con lui non abbiamo ancora il “Papa” come lo intendiamo oggi, ma qualcosa del genere sta emergendo: del resto, anche oltre Corinto, questa lettera viene conosciuta e apprezzata. Troviamo per la prima volta che il vescovo di Roma viene consultato e ricercato come riferimento per garantire l’unità alla Chiesa stessa. Così il suo messaggio viene accettato, condiviso e seguito. Ovviamen-te è un testo meritevole, e tale da dar lustro allo scrivente. Nello stesso tempo si inizia a riconoscere che il Papa può essere fatto intervenire per diverse questioni, e così avverrà sempre più già nel II secolo. Non sempre la consultazione del Papa porta alla soluzione del problema messo sul tappeto e alla formulazione di una linea condivisa. Fra Papa Aniceto (155-166) e il vescovo di Smirne, Policarpo (69-155), viene discussa la data della Pasqua, ma non si raggiunge l’intesa; e tuttavia è Policarpo a consultare il Papa. Così l’intervento di Clemente fa riconoscere che in presenza di questioni dibattute e controverse, il referente da consultare è ormai sempre più chiaramente il vescovo di Roma. E Clemente assume un ruolo significativo.

CLEMENTE

Stupisce il fatto che, in presenza di un testo sicuro sotto il profilo storico e di notevole importanza per il contenuto, non siano allo stesso modo sicure le notizie circa il personaggio, sul quale si possono fare alcune congetture e trovare testi di contenuto leggendario. Un personaggio di nome Clemente è citato da Paolo nella lettera ai Filippesi, ma non è possibile che si possa risalire a lui.

Filippesi 4,1-3

Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

C’è chi sostiene che da parte di Pietro gli siano state imposte le mani per divenire vescovo. Se così è, si deve pensare che fosse di Roma, o comunque che abitasse lì. Sulla base di questa supposizione qualcuno lo identifica con un personaggio influente di nome Clemente, che appartiene alla gens Flavia, dominatrice della scena sul finire del I secolo. Il capostipite della famiglia “Flavia” in quel periodo è Vespasiano (69-79), divenuto imperatore, dopo aver fatto la sua carriera come un funzionario scrupo-loso e come un generale rigoroso, capace di imporsi nell’anno dell’anar-chia totale, successiva alla morte di Nerone (68). Già i due figli che gli succedono rivelano la presenza di squilibri: Tito (79-81) non ebbe modo di farli esplodere perché morì presto; Domiziano (81-96) invece, dopo anni di un governo dispotico, fu tolto di mezzo in una congiura. Proprio costui avrebbe eliminato il rivale, appartenente alla medesima famiglia e che portava il nome di Clemente. Si è pure ipotizzato che coincidesse con il Papa, avendo lo stesso nome. Ma di fatto non è così. Del resto Papa Clemente forse è morto in esilio, e la segnalazione di un culto diffuso in Crimea e in Ucraina, avvalora questa tesi. Per questo motivo, essendo lon-tano da Roma, e impossibilitato ad esercitare la sua carica, si ritiene che abbia dato le dimissioni e sia morto lontano dall’Urbe, senza finire martire. Qui interessa il testo della lettera la cui paternità è certa.

PRIMA LETTERA AI CORINZI

DI CLEMENTE

Anche ad essere di un autore originario di Roma, che comunque non si cita con il suo nome, la lettera è redatta in lingua greca, anche perché è riservata ad una comunità di quel mondo. Chi scrive ricorre al “noi”, anche perché rappresenta l’insieme della Chiesa che risiede a Roma, e si rivolge analogamente ad una Chiesa sorella che risiede a Corinto. Vi si respira un autentico senso di fraternità, nonostante l’intervento sia stato richiesto per dirimere le divisioni presenti. Per i riferimenti al martirio di Pietro e di Paolo e di altri esponenti della Chiesa e per il clima persecutorio che ancora aleggia a Roma si deve pensare che questa lettera sia proprio degli ultimi anni del secolo, e riflette il medesimo clima di persecuzione che si avverte nell’Apocalisse di Giovanni, che potrebbe essere coeva. La persecuzione a cui si fa riferimento è quella prodotta da Domiziano, già indotto in modo maniacale a colpire diverse credenze religiose, mentre lui si avviava al riconoscimento di sé come “Dominus et Deus”.

La Chiesa di Dio che è a Roma alla Chiesa di Dio che è a Corinto, agli eletti santificati nella volontà di Dio per nostro Signore Gesù Cristo. Siano abbondanti in voi la grazia e la pace di Dio onnipotente mediante Gesù Cristo. Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l’una dietro l’altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all’empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso. Chi, fermandosi da voi, non ebbe a riconoscere la vostra fede salda e adorna di ogni virtù? Ad ammirare la vostra pietà cosciente ed amabile in Cristo? Ad esaltare la vostra generosa pratica dell’ospitalità? A felicitarsi della vostra scienza perfetta e sicura? Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona, e camminavate secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri anziani. Esortavate i giovani a pensare cose moderate e degne. Raccomandavate alle donne di compiere tutto con coscienza piena, dignitosa e pura, amando sinceramente, come conviene, i loro mariti; insegnavate a ben accudire alla casa, attenendosi alla norma della sottomissione e ad essere assai prudenti. Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Con-tenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi. Così una pace profonda e splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e una effusione piena di Spirito Santo era avvenuta su tutti. Colmi di volontà santa nel sano desiderio e con pietà fiduciosa, tendevate le mani verso Dio onnipotente, supplicandolo di essere misericordioso se in qualche cosa, senza volerlo, avevate peccato. Giorno e notte per tutta la vostra comunità vi adoperavate a salvare con pietà e coscienza il numero dei suoi eletti. Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza rancori. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile. Vi affliggevate per le disgrazie del prossimo e ritenevate le sue mancanze come vostre. Senza pentirvi mai di ogni buona azione, eravate pronti ad ogni opera di bene. Ornati di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i comandamenti e i precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro cuore. Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e prigionia.

Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. Per questo si sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la quale anche “la morte venne nel mondo”. (I-III)

Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. (V)

Già nell’avvio di questa lunga lettera è posta la questione che giustifica un simile intervento: c’è la divisione rovinosa e si suggerisce di seguire l’esempio di coloro che hanno superato il male attraverso il martirio. Poi l’autore, con una serie di citazioni bibliche e di esempi desunti dalla Scrittura, insiste sulla necessità di salvaguardare l’unità, mediante l’umiltà, lo spirito di servizio: proprio le persone dedite al sacrificio sono coloro che devono essere considerate degne di imitazione. Tra i capi c’è sempre il rischio di trovare chi cerca il proprio interesse: di qui la necessità di una scelta giusta e di una formazione adeguata.

I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero.

Sarebbe per noi colpa non lieve se esonerassimo dall’episcopato quelli che hanno portato le offerte in maniera ineccepibile e santa. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse allontanati dal posto loro stabilito. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore. (XLIV)

Qui è affrontato il tema della successione apostolica, che risulta essere l’argomento principale di questa lettera, scritta nell’intento di verificare questo passaggio ormai in atto un po’ dovunque nella Chiesa. Probabilmente anche l’autore, che è a capo della Chiesa madre di Roma, ha riscontrato non pochi problemi circa questo passaggio, se si deve dare peso alla notizia che abbiamo circa la sua consacrazione a vescovo di Roma come successore di Pietro, senza che poi, alla morte di costui, gli subentrasse nel ministero. Tra lui e l’apostolo, di fatto, ci sono di mezzo altre figure che sono prevalse e che lui non avrebbe ostacolato nel diventare vescovi di Roma per conservare la pace nella Chiesa. Questo è comunque il segnale che ci possono essere state, se non delle divisioni, almeno dei contrasti in relazione a chi poteva essere considerato più degno della successione o come l’erede designato dallo stesso Pietro. In effetti i passaggi fra una autorità e l’altra sono sempre delicati, un po’ ovunque; e anche nella Chiesa si richiede che vengano individuati criteri piuttosto chiari per garantire una successione condivisa da tutti. Le parole qui usate ri-flettono comunque una situazione che non si è rivelata facile, soprattutto se alcune persone – come potrebbe essere per lo stesso Clemente – sono state ostacolate, nonostante avessero i requisiti richiesti. E questo vale anche a Corinto: forse è questa la ragione più importante perché il vescovo di Roma intervenga nelle tensioni in atto. Di qui l’accorato appello all’u-nità sulla base dell’appartenenza all’unico Dio e all’unico Cristo. Già dai primi tempi della Chiesa, dunque, le contese si fanno sentire e i richiami all’unità non si contano.

Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore.

Disse, infatti: “Guai a quell’uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che pervertire uno del miei eletti”. Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo. Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all’inizio della sua evangelizzazione? Sotto l’ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo (Apollo) stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna. E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si è ribellata ai presbiteri. E tale voce non solo è giunta a noi, ma anche a chi è diverso da noi. Per la vostra sconsideratezza si è portato biasimo al nome del Signore e si è costituito un pericolo per voi stessi. (XLVI-XLVII)

Sempre più accorato si fa l’appello all’unità, riconoscendo comunque che sono pochi i fomentatori del dissenso. Ciò che sconcerta è comunque il fatto che essi trovino consensi anche fra gente che rimane salda nella dottrina, per quanto segua personaggi non degni della carica che rivestono o che vogliono rivestire. Quindi non siamo in presenza di una divisione sulla base della dottrina, quanto piuttosto sulle forme di arrivismo che trovano spazio anche nella Chiesa, causando in essa la tensione e soprattutto una immagine poco credibile. Di qui l’intervento di Clemente che fa appello alla lettera di Paolo, nella quale si evidenzia il medesimo problema e il medesimo disagio. Si deve riconoscere in queste parole che la soluzione ai problemi va ricercata nei testi divenuti autorevoli degli apostoli e quindi nell’appello alla Scrittura. Il peccato di Corinto è sostanzialmente la ribellione ai “presbiteri”, che fa pensare ad uno scisma in corso, non tanto per questioni dottrinali, quanto piuttosto per il riconoscimento o meno dell’autorità nella Chiesa.

Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della vostra lingua. E’ meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza.

Così parla la sapienza maestra di virtù: “Ecco, io emetterò per voi una parola del mio spirito e insegnerò a voi il mio discorso. Poiché chiamai e non ascoltaste, prolungai i discorsi e non foste attenti, ma frustraste i miei consigli e disobbediste ai miei richiami. Anch’io riderò della vostra rovina, e mi rallegrerò se arriverà lo sterminio su di voi e se improvviso giungerà il tumulto e sovrasterà la catastrofe simile al turbine e quando avverranno l’angoscia e l’oppressione. Accadrà che voi m’invocherete e non vi ascolterò; i cattivi mi cercheranno e non mi troveranno. Odiarono la sapienza, non vollero saperne del timore del Signore, né vollero ascoltare i miei consigli e disprezzarono le mie esortazioni. Per questo mangeranno i frutti della loro condotta e si sazieranno della loro empietà. Saranno uccisi per aver commesso ingiustizie contro i fanciulli e il giudizio distruggerà gli empi. Chi mi ascolta riposerà fiducioso sulla speranza e vivrà tranquillo lontano da ogni male”. (LVII)

Qui il tono si fa duro e assume il linguaggio ben noto nei testi scritturistici da parte dei profeti che si appellano al Mosè del Deuteronomio, preoccupato lui pure che al suo venir meno sia garantita nel popolo ebraico, sempre diviso, un’autorità indiscussa e indiscutibile; proprio per questo Mosè ricorre al giovane Giosuè, che appare dominato dai suoi trascorsi militari e che dunque interviene con mano pesante. Qui non si arriva a tanto e tuttavia l’autore si fa sentire con una certa forza, perché il male presente appare come una cancrena da togliere con il bisturi.

LA PREGHIERA

Segue una lunga preghiera, che viene introdotta come se l’autore venisse ispirato da ciò che sta dicendo in maniera accorata, perché solo da Dio è possibile scongiurare questo male nella Chiesa. È uno dei primi testi di preghiera, che troviamo al di fuori delle fonti bibliche …

Noi saremo innocenti di questo peccato e chiederemo, con preghiera assidua e supplica, che il creatore dell’universo conservi intatto il numero dei suoi eletti che si conta in tutto il mondo per mezzo dell’amatissimo suo figlio Gesù Cristo Signore nostro, col quale ci chiamò dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso, a sperare nel tuo nome, principio di ogni creatura: Tu apristi gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te, il solo altissimo nell’altissimo dei cieli, il santo che riposi tra i santi, che umilii la violenza dei superbi, che sciogli i disegni dei popoli, che esalti gli umili e abbassi i superbi.

Tu che arricchisci e impove-risci, che uccidi e dai la vita, il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne, che scruti gli abissi, che osservi le opere umane, che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati, creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra, e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo, l’amatissimo tuo figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato. Ti preghiamo, Signore, sii il nostro soccorso e sostegno. Salva i nostri che sono in tribolazione, rialza i caduti, mostrati ai bisognosi, guarisci gli infermi, riconduci quelli che dal tuo popolo si sono allontanati, sazia gli affamati, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, consola i vili. Conoscano tutte le genti che tu sei l’unico Dio e che Gesù Cristo è tuo figlio e “noi tuo popolo e pecore del tuo pascolo”. Con le tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo. Tu, Signore, creasti la terra. Tu, fedele in tutte le generazioni, giusto nei tuoi giudizi, mirabile nella forza e nella magnificenza, saggio nel creare, intelligente nello stabilire le cose create, buono nelle cose visibili, benevolo verso quelli che confidano in te, misericordioso e compassionevole, perdona le nostre iniquità e ingiustizie, le cadute e le negligenze. Non contare ogni peccato dei tuoi servi e delle tue serve ma purificaci nella purificazione della tua verità e dirigi i nostri passi per camminare nella santità del cuore e fare ciò che è buono e gradito al cospetto tuo e dei nostri capi. Sì, o Signore, fa’ splendere il tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la tua mano potente e scamparci da ogni peccato col tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l’onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da te. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen. (LIX-LXI)

Qualcuno arriva a considerare la preghiera come una specie di anafora (o preghiera eucaristica), nella quale ha il suo peso anche il riferimento alle autorità civili. Per esse i cristiani sono chiamati a pregare, anche quando queste si rivelano ostili. Sulla base di ciò che troviamo raccomandato anche nelle lettere di Paolo, in cui i cristiani sono invitati a supplicare Dio per chi governa, chiunque egli sia, si deve ritenere quanto mai necessaria la preghiera come appello a Dio, perché la funzione e l’esercizio del governo siano vissuti a favore del bene comune, che è innanzitutto la salvaguardia dell’unità e della fraternità. Così la questione che sembra circoscritta alla Chiesa e in particolare a quella locale, con il richiamo all’autorità civile si estende a comprendere un po’ tutti, per la custodia del mondo, la sua pace e la sua tranquillità. È davvero un bell’esempio dello stile di preghiera solenne che i capi ecclesiastici di quel tempo esprimevano nelle riunioni per il culto. Ritenere che sia una preghiera di tipo eucaristico non sembra avere riscontro nella realtà, perché manca ogni riferimento all’eucaristia, perché non si trovano le parole della consacrazione, perché non si trovano le espressioni proprie e inconfondibili delle anafore, laddove si invoca la presenza dello Spirito e si fa riferimento al sacrificio di Cristo. Tuttavia nelle preghiere eucaristiche ancora in uso si trovano invocazioni per l’unità della Chiesa, per la fraternità fra gli uomini, per il richiamo al servizio dell’unità da parte di autorità ecclesiastiche e civili. Si tratta dunque di un testo considerato di valore un po’ sempre. La lettera si conclude con le esortazioni finali che richiamano i temi fondamentali della lettera e con l’invio di una delegazione che permetta di conservare i rapporti con la comunità secondo lo stile dell’apostolo Paolo, nella speranza che si possano avere i frutti sperati.

Fratelli, vi abbiamo scritto abbastanza sulle cose che convengono alla nostra religione e sono utili a una vita virtuosa per quelli che vogliono osservare la pietà e la giustizia. Abbiamo toccato tutti i punti che riguardano la fede, la penitenza, la vera carità, la continenza, la saggezza e la pazienza.

Vi abbiamo ricordato che nella giustizia, nella verità e nella magnanimità bisogna piacere santamente a Dio onnipotente, amando la concordia, dimenticando le offese, nell’amore e nella pace con una benevolenza continua, come i nostri padri, di cui abbiamo già parlato, si resero graditi con l’umiltà verso il Padre, Dio e creatore, e tutti gli uomini. E questo abbiamo ricordato con piacere, perché eravamo certi di scrivere a fedeli eccellenti che hanno approfondito le parole dell’insegnamento di Dio. E’ giusto che noi con tali e tanti esempi sottostiamo, prendendo il posto dell’obbedienza. Desistiamo dalla vana sedizione per raggiungere senza biasimo lo scopo propostoci nella verità. Ci darete esultanza di gioia se, divenuti obbedienti a ciò che vi abbiamo scritto mediante lo Spirito Santo, smorzerete la collera ingiusta della vostra gelosia, secondo l’esortazione fatta in questa lettera alla pace e alla concordia. Vi abbiamo inviato uomini fedeli e saggi, vissuti in mezzo a noi con modi corretti dalla gioventù alla vecchiaia, che saranno testimoni tra noi e voi. Abbiamo fatto questo perché sappiate che ogni nostro pensiero è stato ed è che ritroviate presto la pace. Dio che tutto vede ed è padrone degli spiriti e signore di ogni carne, che ha scelto il Signore Gesù Cristo e noi mediante Lui ad essere suo popolo, conceda ad ogni anima che implora il suo mirabile e santo nome, fede, timore, pace, pazienza e magnanimità, continenza, purezza e prudenza. E sia gradita al Suo nome per mezzo del sommo sacerdote e nostro protettore Gesù Cristo, per il quale sia a lui la gloria, grandezza, potenza e onore, ora e nei secoli dei secoli. Amen. Rimandateci presto nella pace e nella gioia i messaggeri da noi inviati, Claudio, Efebo e Valerio Bitone con Fortunato perché ci annunzino quanto prima la pace e la concordia invocate e desiderate, e presto noi ci rallegriamo della vostra serenità. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi e con tutti quelli ovunque chiamati da Dio per mezzo Suo e a Lui sia gloria, onore, potenza e maestà e regno eterno, dai secoli nei secoli dei secoli. Amen. (LXII-LXV)

La lettera appare conclusa con la segnalazione dell’invio della delegazione; ma poi viene riaperta, perché l’autore si premura di sollecitare il rinvio della delegazione, dalla quale ci si aspettano risultati positivi e quindi la notizia del ritorno all’unità, dopo aver estirpato le divisioni e soprattutto le cause che l’hanno creata. Ciò significa che è possibile comminare degli anatemi, mediante i quali chi fomenta lo scisma, possa essere, secondo il significato della parola “anatema”, tagliato via dalla comunità per farvi ritornare la concordia. Il richiamo è fatto con S. Paolo, che aveva parlato così con i Corinzi di 40 anni prima. Clemente appare nella finale meno duro, volendo fare appello alla coscienza dei Corinzi.

SECONDA LETTERA DI CLEMENTE

Questa lettera viene attribuita a Clemente, ma già nei primi tempi della Chiesa non era considerata sua, e veniva ritenuta posteriore di circa 50 anni. È S. Girolamo a dire che “si riporta una seconda sua lettera, che fin dai tempi antichi non viene riconosciuta sua”. Di fatto è un testo della metà del II secolo: la lettera, anche se appare nei toni come un’omelia, viene attribuita a lui, perché nei codici appare associata alla prima lettera. È di fatto un sermone su vari argomenti e con diverse citazioni evangeliche dedotte da Matteo e Luca, che hanno fatto pensare ad un testo in cui i due evangelisti vengono come armonizzati per dare origine a un nuovo vangelo. I temi trattati riguardano principalmente l’autocontrollo, il pentimento e il giudizio.

Fratelli, questo è il concetto che dobbiamo farci di Gesù Cristo: considerarlo quale Dio, quale giudice dei vivi e dei morti; e non dobbiamo tenere in poco conto la nostra salvezza. Se noi abbiamo un meschino concetto di Lui, è meschino anche l’oggetto della nostra speranza. Chi ascolta queste cose e le reputa piccole, pecca; e noi pure pecchiamo, se ignoriamo donde fummo chiamati e da chi e a quale luogo destinati e quante sofferenze volle sopportare Gesù Cristo per noi. Qual compenso gli daremo noi, o quale frutto, degno di quello che ci fu donato da Lui? Di quali benefici non siamo debitori a Lui? Egli ci prodigò la luce; come un padre ci chiamò suoi figli e ci salvò quando perivamo. Quale lode dunque o quale compenso, daremo noi a Lui per le grazie ricevute? Noi eravamo ciechi d’intelletto, adoravamo oggetti di pietra, di legno, d’oro, d’argento e di bronzo, opere umane; e tutta la nostra vita non era altro che morte. Eravamo circondati da oscurità, i nostri occhi erano pieni di nebbia; per volere di Lui riacquistammo la vista e dissipammo la nube in cui eravamo avvolti. Egli ci usò misericordia e ci salvò, mosso a compassione alla vista dei nostri molteplici errori e della rovina in cui giacevamo senza alcuna speranza di salute fuori di quella che viene da Lui. Egli ci chiamò quando ancora non eravamo, e dal nulla volle che passassimo all’esistenza.

Dà l’impressione di un testo che raccoglie, a mo’ di frasi fatte, una specie di apoftegmi, cioè di detti sentenziosi, che possono far presa per la loro brevità ed essenzialità. Anche per questo la lettera si conservò …

CONCLUSIONE

La prima lettera, più che il suo autore, rappresenta un documento notevole circa il cammino della Chiesa, con la visione qui espressa dell’autorevolezza legata al successore di Pietro. Noi oggi abbiamo una visione del “primato petrino” che fa leva su aspetti di natura giuridica, legata anche ad una tradizione storica, in cui la missione di Pietro si è ammantata di un potere giurisdizionale che sconfina poi nella natura politico – istituzionale: il Papa ha un ruolo primaziale, che l’ha fatto persino diventare un sovrano con tanto di territorio da governare e dei sudditi a cui provvedere. Certamente questo ha pure giovato al suo servizio nella Chiesa, ma di fatto ha creato non pochi motivi di divisione, che si sono trasformati in scismi. Sono ben noti quelli che la storia registra come fenomeni traumatici, che hanno prodotto scomuniche, incomprensioni e confini invalicabili nella dottrina, come si vede con il mondo orientale; ma non è da meno quello che si ebbe al tempo del superamento della cattività avignonese, quando si giunse ad avere addirittura tre papi e a far prevalere la tesi conciliarista della superiorità del Concilio rispetto al Papa, senza comunque giungere ad una situazione ancor più traumatica. Questa si produsse con l’avvento della Riforma e con lo strascico delle guerre di religione. Simili venti rovinosi sono un po’ sempre presenti nella Chiesa e spesso si rafforzano proprio sulla figura e sull’azione del Papa, nonostante che si sia tentato di rafforzare la sua missione con la tesi dell’infallibilità: problemi simili a quelli segnalati nella lettera di Clemente tormentano la Chiesa nella storia e anche nel momento attuale. I tentativi di dissociarsi dal Papa, di non riconoscerne l’autorità e le parole, hanno contribuito, e contribuiscono ancora, alla creazione di gruppi scismatici, dove possono allignare eresie e dottrine, che si sono allontanate dalla retta fede. Secondo l’autore della lettera la causa di simili rotture dipende dalle forme di personalismo e di soggettivismo che stanno trionfando anche nell’ora presente. Inoltre il peso di una tradizione che ha fatto prevalere una visione di natura giuridica nel ruolo del Papa, più che un suo servizio primaziale nell’ambito spirituale ha ulteriormente prodotto tensioni di non facile soluzione. La visione di tipo giuridico, dunque, non ha giovato a conservare e ad accrescere l’unità della Chiesa. In questo primo intervento autorevole avvenuto al di fuori della propria Chiesa, Clemente rivela che con l’autorevolezza, senza mai sconfinare in un potere giuridi- camente inteso, si può operare nella linea evangelica di confermare i fra-telli nella fede, come Cristo afferma nel vangelo, sostenendo di volere Pietro con questo servizio nella Chiesa.

È una indicazione significativa, che anche recentemente, con Giovanni Paolo II, si è fatta strada per una rivisitazione della missione di Pietro nella Chiesa, in cui si confermi ciò che è scritto nel vangelo, senza le sovrastrutture che si sono create nel corso dei secoli, quando di fatto si è rischiato di snaturare il compito di Pietro. Così la lettera induce a ritenere il compito del Papa, davvero necessario per garantire l’unità nella Chiesa, e nel contempo chiede che il Papa, con il suo intervento, di fatto richiesto, deve contribuire a costruire un più forte senso dell’unità e della comunità, senza cadute in avanti con gli arrivismi e i personalismi. L’unità, costruita con la convergenza e non mediante l’allineamento conformistico, e la comunione, che non impedi-sce il pluralismo e le diversità, non sono salvate solo difendendo la pu-rezza della dottrina, perché di fatto risultano più devastanti gli scismi, rispetto alle eresie. E nella lettera si fa riferimento soprattutto ad essi, facendoli derivare da una accentuazione dei personalismi, un male presente non solo nella Chiesa, ma divenuto, anche oggi, un problema non indifferente, pure nell’ambito civile, nel causare l’indebolimento della democrazia e di una partecipazione che è assolutamente necessaria a conservare il sistema democratico. È un po’ inevitabile che emergano le figure autorevoli, e queste sono indubbiamente necessarie per la conduzione della Chiesa e della società, anche a diversi livelli. Tuttavia sono necessari quei contrappesi che permettano a chi ha responsabilità di governo di non gestire la cosa pubblica come se fosse privata, e comunque di favorire il comune sentire, senza il quale non ci può essere la ricerca del bene comune. È dunque una salutare riflessione da non circoscrivere solo entro le mura della Chiesa, anche se qui la questione è circoscritta ad un gruppo ancora ristretto nella società di allora, destinato comunque ad accrescere il suo peso: tutto questo si pone nei periodi di passaggio e non lo è da meno il periodo nel quale viviamo. La lettera mette in guardia da fenomeni già diffusi al tempo di Paolo e ben radicati ed emergenti nei tempi di passaggio, come è quello vissuta alla fine del secolo I, quando scompaiono gli apostoli e coloro che sono i testimoni diretti del primo cammino della Chiesa. Con la nuova generazione è necessaria una impostazione che metta in guardia dalle degenerazioni già in corso. Di fatto si fa appello ad una autorità riconosciuta come preminente.

APPENDICE:

LA CHIESA DI S. CLEMENTE

Come contributo alla conoscenza di S. Clemente si può pensare alla chiesa romana che lo ricorda. Oggi la basilica si erge sopra le rovine di quelle che l’hanno preceduta e in particolare di quella che viene fatta risalire ai primi tempi: l’attuale, che sta fra l’Esquilino e il Celio, deve la sua struttura di base all’edificio del secolo XI. Qui già prima si onorava la memoria di Papa Clemente. Le mura erano (e ancora lo sono, in parte) affrescate con la storia del santo, derivata da racconti leggendari. È rimasta famosa la scena in cui si riscontrano parole scritte, quasi come in un fumetto attuale, e messe in bocca ai personaggi. Esse documentano il passaggio dalla lingua parlata latina, che già sconfina nel volgare, ad un nuovo modo espressivo.

ISCRIZIONE DI S. CLEMENTE

Affresco (XI secolo)

Basilica di S. Clemente al Laterano – Roma

L’episodio qui riprodotto in immagine è derivato dalla Passio Sancti Clementis (un testo anteriore al secolo VI): il nobile Sisinnio, che ha catturato il santo e lo vuole trascinare in prigione, interviene in modo rozzo e volgare a costringere i suoi servi, perché, prendendo con la forza il santo, lo conducano al luogo della sua pena. Costoro, accecati come il loro padrone, sentono molto pesante quel corpo e faticano a sostenerne il peso: di fatto essi hanno tra mano una colonna di marmo.

Per dare vivacità alla scena il pittore ha pure scritto le parole che dobbiamo pensare in bocca ai personaggi, e ne vien fuori un dialogo molto vivace, con parole che appartengono al linguaggio popolare. Siamo a Roma e quindi i vocaboli sono quelli della parlata romanesca della gente comune, compresi i termini poco consoni all’ambiente di una chiesa, che ancora hanno una certa forma derivata dal latino, ma di fatto appartengono maggiormente alle espressioni comuni, che stanno arrivando al volgare. Questa sarebbe una delle prime testimonianze del volgare, che sta diventando lingua italica. Non tutto è chiaro di quel concitato dialogo, ma la ricostruzione condivisa da gran parte degli esperti, potrebbe essere questa:

Sisinnio:

Fili de le pute, traite! Gosman, Albertel, traite!

Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!

S. Clemente:

Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis!

Sulla bocca del nobile stanno di fatto parole ormai vicine al “volgare” e anche con la classica espressione di volgarità. Sono il segno che ormai è dominante questo modo di parlare, il solo che possa essere compreso da chi vede la scena dipinta. Ciò che viene messo in bocca al santo è invece una frase che ancora appartiene al mondo latino, anche se alcune forme non rispettano più la grammatica (“duritiam” dovrebbe essere un complemento di causa, che andrebbe preceduta da “ob”) e neppure la forma fonetica (“traere” nel fonema latino prevede l’h in mezzo e quindi la forma corretta è “trahere”). Questa parte latina si avvicina molto a ciò che si può leggere sul documento scritto; non tutto è stato riportato perché sulla parete non poteva stare. Riferendola in latino, per quanto non totalmente corretto, si voleva creare la distanza fra il santo che parla il latino e i persecutori che invece si rivelano volgari nei modi e nel loro parlare.

Propriamente non interessa alla ricerca sulla lettera di S. Clemente, ma completa il quadro a proposito del santo, di cui era rimasta ormai famosa, a livello popolare, la narrazione del martirio. E ancora di più diventava ben nota in presenza di espressioni simili, probabilmente usate anche in chiesa, per raccontare il fatto, in cui doveva prevalere la componente del miracolo, accompagnata dai modi rozzi e violenti dei personaggi che devono essere denigrati agli occhi e alle orecchie degli spettatori.

AL SEPOLCRO DI GESÙ.

E FU SEPOLTO

Ancora oggi nella formula di fede, con cui pubblicamente i cristiani esprimono la loro adesione al Signore Gesù, essi dicono di credere a tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo percorso terreno, compresa la conclusione della sua sepoltura, mediante la quale “si mette una pietra sopra”, per dire così che tutto è finito. Ma quel fatto, pur così importante, se ancora viene segnalato nella professione di fede, non è affatto l’ultima parola con cui viene chiusa l’esistenza terrena di Gesù. La sepoltura risulta sola-mente un passaggio che introduce ad un mondo diverso: se Gesù è vis-suto dentro uno spazio preciso, come quello della Palestina, e dentro un periodo storico, come quello dell’Impero di Augusto e di Tiberio, con la morte noi dovremmo considerare chiusa definitivamente la sua esistenza, e così lo spazio è solo quello di una tomba che lo racchiude e il tempo, che continua a procedere, per lui si è fermato. Eppure questa sepoltura non è affatto la parola definitiva per Gesù: la nostra fede ci dice che lui ha superato le barriere della morte, per entrare in un’altra condizione di vita. Fa in modo di essere visto, e alcuni possono raccontare di averlo incontrato, perché lui si è mosso a cercarli. Ma egli vive in una dimensione nuova, se non altro perché lo vedono contemporaneamente in luoghi diversi, perché la sua presenza fisica non risulta spiegabile secondo criteri scientifici, anche se c’è gente che dice di averlo visto vivo, quando in precedenza avevano dovuto costatare che era morto e che era stato sepolto, per quanto la sua tumulazione risulterà essere stata provvisoria. Non lo è stata, perché chi ha fatto questa operazione aveva già in mente l’ipotesi della risurrezione, come un dato sicuro ed incontestabile sulla base di ciò che Gesù aveva anticipato. La ragione della fretta di depositarlo nella tomba derivava dal fatto che non avevano lassi di tempo per una operazione del genere, essendo imminente la festa di Pasqua e il comando rituale del riposo più rigoroso. Comunque nella tomba viene collocato ed era destinato a rimanere, così come erano assolutamente certe le donne di ritrovarlo disteso e pronto per le azioni necessarie a ripulirlo e a comporlo secondo le usanze, ma più ancora secondo le esigenze dell’affetto che le legava a quell’uomo. E se esse conservavano il desiderio di intervenire per lui, questa loro attesa spingeva ad affrettarsi, perché di buon mattino fossero sul posto a continuare la loro opera di devozione.

Non ci andavano in fretta, come se si aspettassero qualcosa di inedito e di assolutamente improbabile; non c’era in loro convincimento alcuno nella direzione di un evento tanto inaspettato, quanto impossibile. Non sembravano credere a quello che poi nei vangeli scritti risultava una ben definita conclusione di quegli eventi, visto che il Maestro ne aveva parlato con estrema chiarezza. Ma per i discepoli e, con loro, per le donne, i discorsi che volevano anticipare la passione e presentarla non come fatale eventualità, ma come un disegno ben noto ed accettato, non venivano affatto creduti e non ci aspettava che andasse a finire così e che in maniera inattesa ci si doveva adattare all’idea che il Maestro dovesse finire male e soprattutto dovesse lui pure subire la sorte di tutti. Grande era stata la fede in lui, ma ora, in presenza di una morte certa, bisognava accettare l’irreparabile: se lui aveva riportato in vita altri, lui, ormai morto, non avrebbe potuto risvegliare se stesso. Accettando, seppure con tanta amarezza e forse anche disillusione, la realtà della morte, era poi inevitabile che ne seguisse la sepoltura. Anche a rimandare la parola definitiva su tali incombenze, non si poteva evitare che l’atto del depositare il corpo in una caverna chiusa, dovesse costituire l’ultima parola con cui avere riguardi per un uomo davvero finito. L’evento successivo, che indubbiamente fatica ad essere creduto, poi sbalordisce, risultando affatto inatteso. E quando l’evento appare nei suoi contorni più chiari e inequivocabili, perché sempre più gente ne viene coinvolta, la scena della sepoltura viene dimenticata e il sepolcro non è più luogo per contenere un cadavere, ma sito per rivelare un risorto: come la croce, da sempre patibolo di una morte atroce, è oggi richiamo di gloria, la tomba, ricetto di un corpo destinato ad andare in fumo, è destinata a diventare segno di una vita nuova e diversa, tutta da capire, da scoprire, da credere. Ma qui non si crede solo all’evento che in effetti si fatica a spiegare nella logica umana, costruita su coordinate ben definite; qui si è chiamati a credere anche tutto quello che ha una sua naturale spiegazione nei canoni della storia elaborata nel pensiero umano. Per quest’uomo ogni momento della sua esistenza terrena è un “mistero”, cioè un evento di cui è possibile dire molto, ma non se ne può dare una lettura piena, perché c’è sempre da cercare e da scoprire. Proprio per questo ogni mistero va sottoposto ad una visione di fede. E in questa medesima visione deve essere inquadrato l’evento della sepoltura, passato e ancora inteso come qualcosa di così provvisorio, che è naturale trascurarlo, quasi evitarlo.

Che cosa significa credere che Gesù sia stato sepolto? È così necessario fare una simile affermazione? Da una parte dobbiamo rilevare che ogni evento della vicenda terrena di Gesù è da considerarsi un mistero, e cioè una vicenda da inquadrare nel grande disegno di Dio e come tale da non lasciare al caso, ad una piega degli avvenimenti, che a noi può sembrare fortuita. Inoltre a valutare bene ciò che viene scritto nel vangeli e la modalità con cui viene descritto il fatto, si deve riconoscere che siamo in presenza di un episodio sempre significativo e quindi carico di senso e di valore, da scoprire a da chiarire. Qualcuno può pensare che la segnalazione della sepoltura di Gesù è finalizzata a dare valore al racconto della sua risurrezione: Gesù è indubbiamente uscito dalla tomba, perché lì vi era stato depositato; ed essendo stato calato in quel luogo, la sua morte doveva essere considerata certa; soprattutto doveva essere confermata dal colpo di lancia inferto al cuore, per quanto l’uomo fosse già morto. Ma la fede nella sepoltura di Gesù non viene richiesta, e nel contempo data, per far capire che certamente lì Gesù è stato messo e che, se, ora e in seguito, non c’è più stato, ciò significa che è certamente risorto. Il fatto che la sepoltura sia definita un mistero, come lo sono anche altri eventi della vicenda terrena di Gesù, ci deve rendere edotti che non può bastare una simile affermazione per avere la conferma di un fatto che ha coinvolto più persone: quell’episodio va letto anche in una prospettiva che non lo riduca ad un semplice evento di cronaca. Esso va letto in una maniera più profonda, come si dovrebbe cogliere nei testi che lo raccontano e nelle descrizioni iconografiche che sono state elaborate, non solo per completare una narrazione, ma soprattutto per offrirne un senso che dobbiamo pensare sia più grande, più alto, più forte … Il racconto della sepoltura è dunque non solo una cronaca del fatto, ma diventa un evento in cui credere, perché anche lì si rivela il mistero di Dio e il mistero dell’uomo. In che senso noi dovremmo pensare che questo episodio va riconosciuto come mistero rivelatore di Dio? Noi dovremmo sostenere piuttosto che qui si riconosce l’estrema fragilità umana, per il solo fatto che un corpo rac-chiuso e sigillato è destinato a consumarsi e a decomporsi e che invece la risurrezione sia un evento da lasciare alla sola fede senza riscontri nella realtà. Tuttavia la conservazione del cadavere dentro una caverna e con una pietra pesante sull’imboccatura, per rendere impossibile la sua rimo-zione, lascia supporre che ci si aspetti altro, che si coltivi una speranza, una visione che vada oltre, sempre oltre.

In effetti questa sepoltura potrebbe sembrare secondo gli schemi previsti, ma in realtà essa appariva come un caso inedito. La stessa relazione che abbiamo dai vangeli presenta indizi di anomalie che fanno diventare l’evento come qualcosa di speciale, di diverso rispetto a ciò che ci si poteva aspettare in simili circostanze. Gesù era stato condannato a morte secondo un rituale che lo assimilava al peggior furfante o comunque uno da segnalare per aver ingannato sia il potere religioso, da cui era partita l’iniziativa di perseguirlo, sia il potere civile, che aveva l’obbligo di intervenire in presenza di un reato quanto mai pericoloso. Finendo sulla croce, sarebbe dovuto rimanere esposto fino alla consumazione del suo cadavere anche mediante l’intervento di animali e di agenti atmosferici. Quindi, non c’era posto per la sepoltura! Per essa si fa avanti un personaggio finora sconosciuto, ma destinato a divenir famoso per questa incombenza a cui si sottopone come per una precisa assunzione di responsabilità. Nel riferire la cosa gli evangelisti, d’accordo sull’essenziale, ma discordanti sui dettagli, descrivono la scena, come se essa fosse destinata a divenire, come altri episodi, un “vangelo”, e cioè una notizia particolare, che avrebbe dovuto dare risalto a quell’uomo morto, e rivelare in esso l’agire di Dio. In effetti se si dà una particolare attenzione a questo cadavere, bisogna supporre che qui ci sia in gioco qualcosa di diverso dal solito e naturalmente un evento che dobbiamo qualificare fra le buone notizie: è vangelo il fatto che Gesù vive la nostra morte fino a essere deposto nella sepoltura e che Dio, considerato “abitatore del cielo”, entri e si “sprofondi” nella nostra terra …

GIUSEPPE D’ARIMATEA

Il protagonista della scena della sepoltura non è affatto Gesù, anche se si tratta di trovare un posto per il suo cadavere: non era possibile per i condannati a morte avere una sepoltura privata, come succede a Gesù: per lui si fa un’eccezione, perché Pilato concede la rimozione del cadavere e perfino la sua sepoltura. Lo fa perché la richiesta è avanzata da colui che qui si rivela come il vero protagonista dell’episodio: se ne parla qui e solo qui. Esce ora allo scoperto; ma già prima appariva interessato a Gesù. Torna poi nell’anonimato, visto che scompare totalmente dalla scena. Ma il nome viene ricordato, e per chiunque abbia un minimo di familiarità con i vangeli, questo nome è ben noto ed associato, sempre e solo, a questa scena. Così il suo gesto è famoso; e per quel gesto si fa il suo nome, divenuto testimone della sepoltura, ma non della risurrezione.

Sappiamo ben poco di lui, se non quello che dicono i quattro vangeli canonici; abbiamo pure l’aggiunta di altri dettagli nei vangeli apocrifi. Ogni vangelo dà comunque importanza a qualche aspetto di quest’uomo, che in tal modo assume una sua precisa personalità.

NEL VANGELO DI MATTEO

Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro, se ne andò. Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Màgdala e l’altra Maria. (Matteo 27, 57-61)

Matteo segnala che si tratta di un uomo ricco, dove la ricchezza non è solo data dal possesso di tanto denaro o di proprietà, fra cui il terreno in cui si trova un sepolcro, il suo, completamente nuovo, e non ancora occupato. La segnalazione della ricchezza serve soprattutto a definirlo un uomo influente, uno a cui non si può negare nulla: e in effetti Pilato interviene mediante un ordine perentorio, con il quale il cadavere di Gesù viene passato senza alcun ostacolo nelle mani di quest’uomo. Non si precisa quale sia il suo ruolo nella società e quali possono essere i meriti acquisiti per poter contare nel giro dei potenti. All’evangelista interessa rilevare che era pure discepolo di Gesù; e questo potrebbe spiegare il suo intervento in una simile circostanza. Così l’iniziativa di avanzare la richiesta del cadavere di Gesù, quando tutti gli altri sono scomparsi dalla scena, dimostra quanto sia profondo il suo attaccamento al Maestro: in un mo-mento critico, in un contesto per nulla favorevole alla sua professione di fede, non ha esitazione a presentarsi. E riempie lui la scena perché di fatto le azioni, mediante le quali dà sepoltura a Gesù, sono svolte da lui, senza che vi sia la segnalazione di aiutanti o di collaboratori: lui, dunque, prende il corpo, lo mette dentro un lenzuolo, che ha la premura di portare pulito, e lo deposita nel sepolcro che, se viene definito suo, si deve ritenere che fosse stato scavato e costruito per la sua persona e proprio per questo appariva non ancora usato. Una pietra rotonda viene messa sull’imboccatura, come se si trattasse di un’azione con la quale tutto viene concluso. Non per nulla Giuseppe poi se ne va, e di fatto scompare per sempre, visto che neppure in occasione della notizia della risurrezione, egli si fa avanti per rientrare in possesso di ciò che è suo e che tale non sarà più.

NEL VANGELO DI MARCO

Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto. (Marco 15,42-47)

Nella versione di Marco la notizia sembra identica, ma ci sono dettagli aggiuntivi. Non è definito ricco, ma è considerato un autorevole personaggio del sinedrio, e dunque una figura di prestigio nel mondo ebraico. Non per questo è vicino al governatore romano, se l’evangelista deve dire che si è preso coraggio, che ha avuto l’ardire di farsi avanti con la richiesta del cadavere. Pilato non lo concede, se non dopo gli opportuni accertamenti espletati dal centurione, tenuto conto che non si aspettava affatto la morte in così poche ore. Le operazioni di staccare il corpo morto dalla croce, di avvolgerlo in un lenzuolo che sembra comprato nella medesima circostanza della sua comparsa davanti a Pilato, di portarlo ad un sepolcro, che non si dice affatto fosse suo e fosse nuovo, e l’azione di depositarlo lì, risultano fatte dal solo Giuseppe, mentre la chiusura dell’imboccatura della tomba con il masso rotolato è fatta fare ad altri, come a dire che uno da solo non lo potrebbe fare. Va pure ricordato che il suo rapporto con Gesù derivava dal fatto che, senza necessariamente riconoscerlo come figlio di Dio, egli era rimasto colpito dall’annuncio del Regno fatto da Gesù. Qui si dice che lui pure aspettava la venuta di questo Regno, e, probabilmente, il suo intervento per seppellire Gesù, va inquadrato in questa sua attesa, che si doveva ancora coltivare, nonostante fosse morto colui che aveva messo al centro della sua predicazione un Regno ormai imminente. Così la sepoltura assume un rilievo non da poco e questo fatto richiedeva una figura di riferimento nella quale riconoscere presente questa aspettativa.

NEL VANGELO DI LUCA

Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto. (Luca 23,50-56)

Luca segnala lo stesso dettaglio di Marco; ma prima di questo aspetto, più che marcare la sua autorevolezza nel sinedrio ebraico, lo definisce “uomo buono e giusto”. Dovremmo ritenerle qualità di ordine morale, come si tende spesso a pensare; ed invece nel vocabolario evangelico, soprattutto in Luca (dove lo stesso Gesù, al momento della morte, dal centurione viene definito “uomo giusto”), questi aggettivi definiscono la sostanza e non solo le qualità; e dovremmo ritenere che quest’uomo ha ormai assunto la bontà e la giustizia di Dio, staccandosi, come qui si dice con chiarezza, dal resto del sinedrio che aveva voluto la morte di Gesù. Così egli non ha bisogno di avere coraggio per stare al cospetto di Pilato e per fare la sua richiesta. Le operazioni svolte da Giuseppe non devono ridursi alla sola pietà umana, perché fatte da un uomo “buono e giusto”; esse rappresentano, da parte sua, la concreta adesione al Regno che lui aspetta in questo modo.

NEL VANGELO DI GIOVANNI

Giovanni 19, 38-42

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato an-cora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

Giovanni nella sostanza si adegua alla notizia data dai sinottici; e tuttavia qui Giuseppe non è più dalla parte del mondo ebraico in una posizione di prestigio, come non è l’uomo buono e giusto ormai da ritenersi con le medesime definizioni con cui è indicato Gesù. Egli è definito “discepolo di Gesù” seppur di nascosto, quasi a dire che tale diventerà con la fede dichiarata nella sua risurrezione. Anche per Giovanni è lui a chiedere il corpo a Pilato, ed è lui a prenderlo dalla croce. Ma nell’operazione di sep-pellirlo è affiancato da Nicodemo, già altre volte segnalato da Giovanni nel suo vangelo. La sua presenza è importante per il ricorso agli unguenti, usati dai due, anche se la sepoltura deve essere stata fatta di fretta, per le poche ore che rimanevano prima del riposo sabbatico.

FUORI DEI VANGELI

Nonostante la concordanza dei quattro evangelisti circa la figura di Giuseppe d’Arimatea, la cui città di origine è problematica, perché si fatica a individuarla nella geografia di allora, vengono avanzate delle riserve sulla sua autenticità storica, anche perché né prima né poi questa figura viene citata. Ed anche nei testi successivi non si ha la presenza di quest’uomo e del suo ruolo in un momento particolarmente delicato. Nella prima predica di Paolo, esposta negli Atti degli Apostoli, quando il neoconvertito parla della condanna a morte di Gesù, che secondo lui è da inquadrare nelle profezie e non è perciò una situazione capitata per una serie di accidenti perversi, segnalando la sua morte, adempiuta secondo “quanto era stato scritto di lui”, dice che i capi fecero deporre Gesù e lo misero nel sepolcro. La figura di Giuseppe non esiste affatto! Se davvero ha rivestito un ruolo così importante come pare dai vangeli, Paolo a-vrebbe dovuto parlarne.

Atti 13,26-31

Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme infatti e i loro capi non l’hanno riconosciuto e, condannandolo, hanno portato a compimento le voci dei Profeti che si leggono ogni sabato; pur non avendo trovato alcun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che egli fosse ucciso. Dopo aver adempiuto tutto quanto era stato scritto di lui, lo deposero dalla croce e lo misero nel sepolcro. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti ed egli è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono testimoni di lui davanti al popolo.

Così la figura di Giuseppe, nonostante le qualifiche che troviamo nei Vangeli, appare in un alone che lo fa stare sospeso fra storia e leggenda. Da una parte egli serve nei vangeli per offrire al condannato Gesù un sepolcro tutto suo – e si sottolinea che è nuovo ed è proprietà dello stesso Giuseppe –, quando per quella situazione egli non poteva affatto trovare una tomba sua e sarebbe dovuto finire in una specie di fossa comune. Col senno di poi e quindi con la notizia della sua risurrezione, era necessario avere un luogo in cui verificare che quel cadavere non c’era più, e che in compenso era necessario conservare – come è fino ad oggi – un luogo da segnalare come il suo sepolcro. Per queste ragioni era necessario ricorrere ad una figura che avesse il compito di seguire l’operazione della sepoltura. In effetti costui appare qui, e di qui scompare, una volta compiuta la sua missione. Ma l’alone di leggenda prende il personaggio, soprattutto nel periodo medievale, quando ogni località europea cerca agganci con personaggi presenti nei vangeli. Nasce così nella terra europea più periferica, ma non per questo meno cristiana, come è l’Inghilterra, ormai normanna, la leggenda del Santo Graal, il calice di Cristo dell’Ultima Cena, portato qui proprio da Giuseppe d’Arimatea, divenuto il primo vescovo nell’isola.

Ecco perché le immagini costruite per lui lo rappresentano con il calice che sembra sepolto sotto un cumulo di pietre, sopra le quali spunta una pianta che diventa verdeggiante e che potrebbe rappresentare il Regno di Dio, che Giuseppe aspettava, secondo ciò che è scritto nei vangeli.

NICODEMO E LE DONNE

Nei racconti evangelici, soprattutto nei sinottici, accanto a Giuseppe d’Arimatea si fa riferimento anche alle donne: si mette in risalto che stavano davanti alla tomba, ormai chiusa, con l’intento di “osservare”: sembra quasi che vogliano capire il senso di ciò che era successo, soprattutto in questa particolare operazione che aveva avuto come protagonista Giuseppe. Il suo lavoro di sepoltura, andava portato a compimento con il gesto tipicamente femminile dell’unzione, che serve a conservare più a lungo il cadavere, ma vuole anche onorare quel corpo già sufficientemente martoriato. Non hanno a disposizione il materiale da usare, diversamente da Nicodemo che viene segnalato da Giovanni con il quantitativo di mistura che ha portato con sé. Le donne si ripromettono di tornare quando, superato il sabato, potranno finalmente prestare la loro opera pietosa. Matteo le descrive sedute di fronte alla tomba; Marco le segnala mentre osservano dove Gesù veniva messo; Luca pur dicendo le stesse cose, fa notare che osservavano “come” era stato posto Gesù. Marco usa il verbo “” (= Theoreo), con cui si dice che anche in quell’atto si deve riconoscere Dio, si deve vedere lo scorrere della vita di Dio, anche quando essa sembra fermata dalla morte. In realtà in quel sepolcro dove c’è in effetti un corpo morto, quel seme “germoglia” e, come dice il “Credo”, c’è la discesa agli inferi.

Così anche la sepoltura è un “mistero” di fede, in quanto è un fatto con il quale continua l’agire di Dio, che nulla può fermare, se davvero l’amore è più forte della morte. Luca usa il verbo “” (=Theaomai), con cui le donne appaiono come a bocca aperta davanti a questa scena: esse si rispecchiano e colgono che Gesù vive il nostro medesimo percorso di morte e di sepoltura. Ora va letto con gli occhi di Dio, il quale mettendo se stesso come la Vita ricarica la nostra e contribuisce a dare speranza. Non conta dove viene messo, ma, secondo il vangelo, “come” viene deposto: egli è il seme, che pur morto, dà vita nuova e piena. Volendo rispecchiarci anche noi, abbiamo bisogno di immagini.1.

LA DEPOSIZIONE (1602-1604) di CARAVAGGIO (1571-1610)

Pinacoteca Vaticana – Roma

Qui non compare Giuseppe di Arimatea, ma Nicodemo che si presenta curvato in perfetto parallelismo con il corpo orizzontale del Cristo. Costui, nonostante sia morto, è la vera fonte di luce di un quadro che è, secondo lo stile caravaggesco, avvolto nell’ombra. È una scena fortemente drammatica e nel contempo perfettamente “misurata”, con una disposizione in linee geometriche dei personaggi e dei loro gesti che vogliono offrire a chi guarda lo “spettacolo” della pietà, ciò che fa piegare sul corpo morto di Cristo.

Al centro di questa “pietà” sta colei che è per antonomasia la Pietà e cioè Maria, la madre, per quanto sia come sommersa dagli altri personaggi: i due uomini (Giovanni e Nicodemo) sono ulteriormente piegati, mentre accanto a lei, stanno due donne, la Maddalena, descritta con una mano che sembra sciogliere i capelli, e Maria di Cleofe con le braccia alzate in un gesto di disperazione. Il corpo di Cristo sta per essere depositato sulla pietra tombale, quella che viene mostrata anche oggi nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dove Gesù venne unto per essere poi messo nella tomba. Questa pietra sta proprio in primo piano, corrispondente allo sguardo del visitatore, che vede una lastra messa di sbieco per farla apparire come la “pietra angolare”, identificata con Cristo stesso. Al suo corpo morto corrisponde in parallelo il corpo di Nicodemo rivestito di marrone con il gomito nella stessa posizione che ha la pietra sottostante. Lo sguardo di quest’ultimo, posto al centro della scena sembra richiamare l’attenzione dello spettatore, perché rifletta su ciò che sta succedendo. La sepoltura di colui che è la fonte di luce, getta sul mondo un manto di oscurità, che tutto ricopre. Ma sotto la lastra fredda c’è una pianta a richiamare il seme di vita. Se ora tutti si piegano su di lui, poi tutti si rialzeranno con lui, proprio perché questa particolare deposizione è la collocazione sulla pietra angolare, destinata a diventare il nuovo edificio. È interessante che il vero protagonista qui non sia Giuseppe d’Arimatea, ma Nicodemo; il nome che costui porta dice che il popolo è destinato a divenire vittorioso, nella misura in cui, piegandosi su colui che è morto, potrà rialzarsi sempre con colui che è la Vita e che dà la Vita, perché la vita umana possa sempre risorgere. Così la sepoltura è un richiamo molto forte alla “vittoria” di colui che qui sembra sconfitto e che è invece la fonte della luce e quindi la speranza continua, continuando la sua passione in coloro che la condividono. Con Nicodemo al centro, il messaggio della sepoltura è carico di speranza, anche se qui la scena teatrale della donna che alza le braccia farebbe pensare ad altro: forse, più che disperazione, qui si vede l’implorazione a Dio che sa risollevare chi noi andiamo a depositare..

IL CRISTO MORTO (1475-1478) di ANDREA MANTEGNA (1431-1506)

Pinacoteca di Brera – Milano

E’ una scena impressionante per lo scorcio ardito con cui viene mostrato il corpo morto di Cristo e già depositato sulla lastra tombale, sulla quale, prima di essere collocato nel sepolcro viene unto. Accanto al cuscino su cui sta adagiata la testa reclinata c’è il vasetto del profumo. Il corpo nudo è velato sull’inguine e quindi messo nelle condizioni perché si possa fare l’operazione dell’unzione rimandata a dopo il sabato. Sul lato destro del Cristo si vedono due volti, quello di Maria, che si asciuga gli occhi per le molte lacrime versate, e quello di Giovanni che a mani giunte continua a piangere. Dietro il volto di Maria si intravede quello della Maddalena con la bocca aperta in un atto di disperazione.

Soprattutto nel cadavere irrigidito si ha l’impressione di essere in presenza di una scultura, per la quale il telo davanti ha tutto l’aspetto di un “panneggio bagnato”: così si rivela ancora di più il freddo della morte che ha preso questo corpo; impresse ci sono le ferite delle piaghe, che però non emettono sangue. Ciò che il quadro deve suggerire, anche per questo scorcio così impressionante, è un senso di desolazione che può solo suscitare pietà e pianto, sconforto e amarezza inconsolabile.

LE GUARDIE

NEL VANGELO DI MATTEO

Attorno al sepolcro vengono segnalate anche le guardie, quelle che il potere religioso, intervenendo con forza sul potere politico, mette per assicurarsi che non possa succedere quanto si ventilava con le parole messe in giro da Gesù stesso. L’unico evangelista a segnalare la presenza del picchetto di guardia è Matteo. Costui, poi, in occasione della notizia della risurrezione, è costretto a parlare ancora dei soldati, che non considera testimoni di quell’evento – che non sarebbe affatto possibile né vedere né raccontare e che, per la loro stessa ammissione di aver dormito, non avevano potuto osservare e poi descrivere -. Essi non hanno visto nulla, neppure i discepoli venuti a trafugare il cadavere: come presidio armato non sono stati affatto efficienti. Qui sono solo testimoni che in quella tomba c’è il cadavere di Gesù, che essi devono custodire.

Matteo 27,62-66

Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei,  dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: «Dopo tre giorni risorgerò». Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: «È risorto dai morti». Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». Pilato disse loro: «Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». Essi andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi lasciarono le guardie.

Secondo ciò che scrive Matteo è la tomba che va vigilata, perché nessuno possa entrarvi, ben sapendo che di lì nessuno in realtà può uscire. La custodia, dunque, riguarda ciò che succede fuori e non ciò che potrebbe capitare dentro. Di per sé i capi hanno paura per le parole dette da Gesù circa la sua risurrezione, anche se essi ritengono che una simile notizia falsa dipenda solo da ciò che possono dire e fare i discepoli, trafugando il cadavere. Così sono essi stessi a certificare la chiusura della tomba mediante sigilli; le guardie invece diventano un ulteriore mezzo per garantirsi contro le imposture che – a dire dei capi – erano macchinate da Gesù e dai suoi. Ma queste guardie di fatto servono a ben poco: non tengono alla larga i discepoli, che pur non vengono al sepolcro, e non vedono nulla di quanto succede, neppure la risurrezione di Gesùe neanche lo potrebbero, dato che l’evento non è catalogabile come dato storico, se non perché Gesù si fa vedere ai suoi – e ciò che capita nelle ore successive con l’andirivieni delle donne e dei discepoli. Eppure Matteo, nella sua unica testimonianza circa queste guardie, scrive che esse riferiscono “tutto quanto era accaduto”. Ciò che possono raccontare è solo che la tomba è aperta e vuota e che alla tomba sono venute alcune donne e successivamente si erano presentati alcuni discepoli, ma quando già essa era aperta.

Matteo 28,11-15

Mentre le donne erano in cammino, ecco, alcune guardie giunsero in città e annunciarono ai capi dei sacerdoti tutto quanto era accaduto. Questi allora si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: «I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo». E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazio-ne». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi.

Sulla base di ciò che scrive Matteo, queste guardie avrebbero dovuto impedire che i discepoli mandassero in giro notizie false, mentre in realtà sono poi loro a fare questa cosa, divulgando ciò che essi non avevano visto, se effettivamente stavano dormendo.

NELL’ICONOGRAFIA

Le immagini che ci vengono date delle guardie nelle rappresentazioni della risurrezione mostrano degli armati accovacciati a dormire e quindi con ben poca consapevolezza del ruolo che erano chiamati a rivestire. Operando così, essi non hanno custodito “un bel niente”. La liturgia ambrosiana ci offre nei giorni pasquali un’antifona, derivandola da testi della liturgia bizantina, in cui viene stigmatizzata la sprovvedutezza dei militari posti a custodia del sepolcro di Gesù.

O sprovveduti militi!

Custodivate un sepolcro e avete perso il Re;

vigilavate una lastra tombale

e vi è sfuggita la pietra di giustizia.

O ci ridate il corpo o celebrate il Risorto,

e uniti a noi cantate: Alleluia! Alleluia!

Con non minore ironia sono rappresentati dagli artisti …

GIOTTO (1267-1337)

Noli me tangere – Cappella degli Scrovegni – Padova

Sullo sfondo del marmo rosa della tomba aperta, su cui si è posato l’angelo (e qui si vede l’orlo della veste bianca) si stagliano le figure delle guardie, che dormono pesantemente, due addossati al sepolcro e due distesi sul terreno. Con gli occhi chiusi e con l’elmo calato sugli occhi, essi non vedono nulla, ma neppure sentono il dialogo che si sta svolgendo fra il Risorto e Maria di Magdala inginocchiata e tesa con le braccia avanzate ad abbracciare il Maestro. Sembra che il pittore si sia sbizzarrito con le decorazioni sugli abiti dei militari, decorazioni del tutto inutili a qualificare questi personaggi, che del resto non hanno neppure le armi in dotazione, come se fossero del resto fuori luogo in quel luogo e in quella circostanza..

PIERO DELLA FRANCESCA (1412-1492)

La Risurrezione di Borgo San Sepolcro

Anche in questa famosa raffigurazione della risurrezione di Cristo, celebrativa in realtà della rinascita di Borgo San Sepolcro (AR) liberatosi dal giogo fiorentino, le guardie accovacciate sotto la tomba indossano armature dell’epoca del capoluogo toscano per farle riconoscere in questo modo. Sulla loro posizione che le fa sembrare cadute o comunque appesantite dal sonno, si erge la figura imponente di Cristo, che ben rappresenta l’uomo emergente dal sepolcro e quindi rinato a vita nuova, come succede alla vegetazione circostante. Così la forza non è data dal possedere armi, dall’ostentare muscoli, dal mettere in evidenza una vigoria che non può esserci senza la padronanza di sé. La rinascita è da cercare nella direzione di uno Spirito che si rivela nel dominio di sé.

CONCLUSIONE

È piuttosto raro che ci si soffermi sul momento vissuto da Gesù nel sepolcro: si tratta di un periodo molto breve e del resto racchiuso fra due eventi che attirano maggiormente. Per il fatto che Gesù sia rimasto poco e ovviamente ci sia rimasto “morto”, e racchiuso in uno spazio molto ristretto, non si è ritenuto opportuno dire niente, o quasi. Eppure la fede, proclamata pubblicamente, esige che si faccia menzione anche di questo episodio, a cui si aggiunge che “ … discese agli inferi”. Di questo non possiamo dire nulla, se non immaginare quello che poi certa iconografia orientale ci svela con Gesù che abbatte le porte degli Inferi, per liberare le anime prigioniere dell’Ade, a partire da Adamo ed Eva. Sono pochi gli eventi e ben pochi i personaggi che si muovono attorno al sepolcro nel breve lasso di tempo che sta fra la morte e la sepoltura: continua l’affetto dei suoi, anche se molti rimangono rintanati, e continua la preoccupazione degli avversari che sembrano aver paura ancora, pur sapendo che è morto. Ma una volta calato il sole e iniziato il sabato, tutto tace: per quelle ore fino alla costatazione del sepolcro aperto, nessun si vede, nessun si muove, se non il picchetto di guardiani: e questo devono solo custodire un morto. Questi particolari ci vengono detti del fatto della sepoltura. Esso è da ricordare e celebrare come un “mistero”: si tratta, dunque, di un fatto storico, la cui narrazione in parole umane non riesce ad esaurire tutto il profondo significato che esso ha nell’ambito della Pasqua cristiana e nel vivere di coloro che dicono di credere e quindi di costruire il loro vivere sulla figura di Cristo. Anche in questo fatto sta il “vangelo” e quindi quella buona e bella notizia, che invece vorremmo pensare tremenda, drammatica e da dimenticare. La tomba, qualunque tomba, è di fatto il luogo su cui si concentrano le attenzioni nel momento in cui viene deposto il cadavere, se non altro per l’affetto che ci lega; ma ben presto esso rimane, se non dimenticato ed incustodito, come la memoria di chi non torna più e quindi un segno, freddo, spento, oscuro, ricercato per far pensare al passato, ma non certo per poter guardare con speranza al futuro. Al sepolcro di Cristo invece si è portati a pensare che, pur in presenza di una vita stroncata nel peggiore dei modi, c’è ancora da attendere, c’è ancora da coltivare la speranza che spinge sempre la visuale oltre i limiti dell’orizzonte terreno.

Ovviamente è l’annuncio di risurrezione che apre a questa prospettiva, anche se, a ben considerare ciò che è scritto nei vangeli, non sono i discepoli a vedere il Risorto, perché lo vanno a cercare; è piuttosto il Maestro che si fa vedere a loro perché è lui a cercarli. Essi continuano a cercare un sepolcro, che scoprono vuoto; essi cercano segnali che appartengono a questa nostra realtà umana, ma devono andare oltre per trovare uno che porta ancora i segni della passione, senza che però essi facciano soffrire; anzi, inducono a mettersi dentro un mondo ancora segnato dal male, ma toccato dallo Spirito di colui che non si è lasciato imbrigliare dal male e, per quanto sia morto, continua a riaccendere la vita, la sua e quella dei suoi, che hanno sempre bisogno di rimettersi in gioco.

PREGHIERA

Sei scomparso, Signore, ma non per sempre:

lo avevi detto che sarebbe stato per poco tempo, e così è avvenuto.

Ora sei ancora in giro, sempre vivo, sempre più appassionato,

e vuoi tu raggiungerci,

diversamente da noi che vorremmo star fuori dai tanti fastidi.

Chi ti ha cercato, ancora morto e messo da parte,

ha avuto la sorpresa di vederti vivo e ancora impegnato con noi;

chi ti ha desiderato per continuare negli affetti di un tempo,

ha scoperto che l’amore vero impegna di più;

chi ti ha accompagnato alla tomba, sconsolato,

si è ritrovato con la consolazione di sapere che tu ci sei ancora,

come hai promesso e come hai dimostrato di essere con noi.

A venire qui, ti scopriamo sempre appassionato,

e ci prende la tua passione,

a stare da te, la passione della vita continua, ed è un vero bene.

Nella tomba abbiamo messo un corpo morto,

ma ora da quella tomba esce uno spirito vivo,

e così ci insegni che anche alle tombe dei nostri cari,

noi attingiamo il loro spirito che vive nel tuo,

e così possiamo proseguire la loro passione,

possiamo sentire che in noi continua il loro vivere.

Coltivando la fede nel fatto che tu sei stato sepolto,

sentiamo, davanti alle tante tombe di persone, che ci sono care,

come pure loro, anche a consumarsi, non spariscono del tutto,

e continuano a lasciarci lo spirito che non muore mai.

MARCIA SU ROMA

Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con i quadrumviri:

da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi.

Il militante in primo piano a sinistra copre la figura di Michele Bianchi.

La foto fu scattata il 30 ottobre

quando Mussolini arrivò a Roma, convocato da Vittorio Emanuele III.

GLI EVENTI

E IL GIUDIZIO STORICO:

UN FATTO EVERSIVO

E COSTITUZIONALE

1

INTERPRETAZIONE DEL FATTO

Questo evento (la marcia su Roma) e questa data (il 28 ottobre 1922) sono ormai entrati nei libri di storia come l’avvio del regime fascista in Italia. Contribuì a questa lettura già lo stesso regime, che nella nuova datazione, obbligatoria sui documenti ufficiali, si faceva partire tutto da lì e naturalmente tendeva a presentare i fatti successi con un alone mitico e, per certi versi, addirittura epico, quasi fosse stato concepito e realizzato un evento grandioso e glorioso, come se fosse stata combattuta una battaglia degna di essere enfatizzata, e di lì derivasse qualcosa di decisivo che segnava una sorta di spartiacque. Il fascismo già esisteva e la sua nascita è da far risalire al 1919, quando a Milano vengono fondati i Fasci di combattimento. Invece il regime, inteso come sistema totalitario, non è propriamente realizzato qui, se il governo presieduto da Mussolini è ancora di coalizione e i partiti hanno pur sempre voce in Parlamento. L’azione, considerata di forza e messa in campo con manipoli di milizie non inquadrate nell’esercito, si rivela di fatto una manifestazione, che poteva diventare eversiva e che in realtà non ha prodotto alcunché. Piuttosto il fatto mediante il quale si può dire che prende avvio la dittatura fascista è il famoso discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Tuttavia già nell’insediamento del suo primo governo le parole usate da Mussolini non lasciano dubbi circa la maniera con cui egli vuole prendere e tenere il potere e di fatto dall’incarico ricevuto nell’ottobre 1922 egli diventa Capo del governo, che poi presiedette fino al Gran Consiglio del 25 luglio 1943. I giudizi storici, che furono – e sono ancora – emessi sugli inizi della dittatura, sono di fatto legati a questo episodio, che fu ingigantito dal regime stesso e che invece deve essere meglio riletto, anche per capire la natura di certi eventi. Il partito, che qui pretende di avere la gestione del governo, nonostante l’esigua rappresentanza in Parlamento, sulla base dei risultati elettorali, proprio per questa sua determinazione, e per i fatti che accompagnano la sua richiesta di avere e di esercitare direttamente il potere, con il ricorso alla violenza, esprime parole e azioni che devono essere considerate di natura eversiva. Lo dimostra mettendo in campo uomini armati che convergono su Roma; nello stesso tempo si deve riconoscere che sia i dirigenti di partito, sia gli affiliati che vengono messi in campo esprimono la volontà di andare contro la legalità. E tuttavia non viene prodotto nulla di anticostituzionale, se di fatto è il re a chiamare Mussolini al governo. Insomma, la lettura da fare circa quanto è successo in quei momenti, non può essere lasciata alla retorica usata dal regime, quando lo diventa; e neppure va considerata a partire dalla retorica opposta che maschera la reale incapacità dei partiti di opposizione di comprendere i fenomeni in corso e di porvi gli argini necessari. Una lettura più attenta di ciò che è successo in quel giorno deve servire a comprendere eventi analoghi, mai identici, che possono generarsi e dare origine a fenomeni sicuramente aberranti. Se davvero questa “marcia”, poi ostentata con la figura possente del capo del fascismo che sta avanti alle sue “truppe di occupazione” – ma questo non avvenne affatto – è da considerarsi l’episodio emblematico della nascita di una dittatura, come il regime voleva e come i partiti d’opposizione hanno pure pensato, allora noi dovremmo vedervi una occupazione di stampo militare che non ci fu.

FU UN COLPO DI STATO? Leggi tutto “MARCIA SU ROMA”

Pasqua 2023: Il Signore è risorto!

CRISTO SIGNORE E’ RISORTO!

Non sta rinchiuso nelle viscere della terra. Vuole raggiungere i suoi.

Si fa vedere ai suoi. Si fa incontrare. Entra nel cuore di ciascuno …

Io l’ho visto! Io l’ho incontrato! Io lo porto con me!

Non è cambiato il quadro del mondo, sempre segnato dal male …

Ma a chi si fa vedere e a chi arriva a vederlo, a incontrarlo, cambia il cuore.

E tu l’hai visto? Tu lo hai incontrato sui tuoi passi? E ti senti cambiato?

Non fa cose prodigiose per convincere. È lui già un prodigio!

La sua “passione” è affascinante, perché lui ci mette e ci rimette …

Qualcuno l’ha davvero visto in giro? E l’ha visto con la passione nel cuore?

Allora ce ne sono altri come lui a portare attorno la passione.

Allora questa sua passione sta diventando il nuovo vivere per tutti.

Veramente è stato visto! Veramente chi l’ha visto si sente più vivo che mai

CRISTO RISORTO E’ ANCORA TRA NOI!

Se ne accorge chi non si lascia sgomentare dal tanto male diffuso …

Lo fa vedere chi invece di lamentarsi si rimbocca le maniche per il bene …

Lo porta con sé chi, credendoci davvero, si fa credibile agli altri …

Lo vive chi non si lascia umiliare e risponde sempre con la passione …

Lo può dire chi ce l’ha dentro e lo sa comunicare come la vera gioia …

Lo testimonia chi, anche a passare dal dolore, ha la speranza di uscirne …

RISORGIAMO ANCHE NOI CON LUI!

HA VINTO E VINCE ANCORA LA MORTE

Questa icona bizantina è la celebrazione della risurrezione con la discesa di Gesù agli Inferi: lì, dopo aver scardinato le porte, che ha sotto i suoi piedi, e che nella voragine aperta rivelano il mondo sotterraneo nel buio più completo, dentro il quale tutti i suoi elementi (chiavi, chiodi, bulloni e cardini …) sono gettati via, il Risorto fa uscire dalle loro tombe i progenitori, Adamo ed Eva, afferrati per i polsi ed elevati a sé con la sua grande energia. Egli è il Risorto immerso nella mandorla divina, simbolo di fertilità e di rinascita, come è l’uovo di Pasqua, e rivestito di un abito luminoso e splendente. Attorno i santi patriarchi e profeti lo indicano come colui nel quale si compiono le promesse divine. Così il mondo può rinascere, come ben si vede nella montagna che sta dietro e che sembra spaccarsi per far uscire il nuovo seme di vita, colui che è davvero, come Vincitore della morte, il Dio della Vita.

IL RISORTO CI PRECEDE

(Omelia di Pasqua di don Primo Mazzolari)

Chi ci rimuoverà la pietra dall’ingresso del sepolcro?” (Marco 16,3). Così di-cevano Maria Maddalena, la madre di Giacomo, e Salome, mentre la mattina del primo giorno della settimana, molto per tempo, andavano al sepolcro per imbalsamare Gesù. Quando si oscurano in noi le grandi certezze della fe-de e della speranza, i nostri problemi divengono meschini, e banali le nostre preoccupazioni. Guardiamoci intorno, o meglio consultiamo noi stessi. Il vecchio mondo s’inabissa, il nuovo faticosamente emerge da un mare di do-lori e di sangue: e noi quasi non ci facciamo caso … Nessuno e niente fer-merà il crollo: nessuno e niente arresterà la novità che cammina con passo sicuro. È come la Pasqua; è la Pasqua: poiché ogni cosa che muore, come o-gni cosa che incomincia a vivere nella morte, è un aspetto della Pasqua. Nes-suno e niente può fermare la Pasqua: non la paura coagulata dei piccoli uo-mini, non le coalizioni dei più divergenti interessi e dei più contrastanti sen-timenti, non le guardie più o meno prezzolate poste a custodia dei sepolcri della storia. Credo ai terremoti che scuotono le profondità della storia, e agli angeli, che li guidano e che siedono sereni sulle pietre rovesciate dei sepol-cri per gli annunci che fanno paura soltanto agli uomini senza fede. A nessu-na delle tre donne che camminano verso il sepolcro canta in cuore l’Alleluia della grande speranza. L’Alleluia è nato spontaneamente dall’infinita bontà del Signore, che, invece di guardare alla nostra mancata attesa, pone il suo sguardo pietoso sul nostro bisogno di vita. La Pasqua si ripete. Quanti cre-dono veramente al Risorto? Quanti, fra gli stessi che in questi giorni affol-lano le chiese, sentono negli attuali avvenimenti il ritorno del Cristo, come sentiamo nell’aria e nei campi il ritorno della primavera? Chi di noi vuole la Pasqua, come un impegno, preso nell’Eucaristia, per la giustizia, la pace e la carità di Cristo nel mondo? Come le donne ci mettiamo in cammino all’alba verso le chiese. Non sappiamo sottrarci a certi misteriosi richiami e abbiamo gli aromi per imbalsamare Gesù … Il nostro sacramento pasquale è ancora u-na volta un atto di pietà, come se il Signore avesse bisogno di piccole pietà: i morti vogliono la pietà, il vivente vuole l’audacia. “Non vi spaventate. Gesù è risorto, non è qui. questo è il luogo dove era stato deposto”. Le civiltà, le culture, la tradizione, le grandezze, perfino le nostre basiliche, possono essere divenute il luogo ove gli uomini di un’epoca l’avevano posto. Il comanda-mento è un altro: “Andate, dite ai discepoli e a Pietro che egli vi precede”. Do-ve? Dappertutto in Galilea e in Samaria, a Gerusalemme e a Roma, nel cena-colo e sulla strada di Emmaus … “Egli vi precede”. Questa è la conseguenza della Pasqua. Se, alzandoci dalla tavola eucaristica, avremo l’animo disposto a tenergli dietro ove egli ci precede, lo vedremo, come egli disse.

IL RISORTO CI ACCOMPAGNA

Signore Risorto, togli anche noi dalle catene della mortalità, che appesantiscono il nostro vivere imprigionato dal male, a tiraci a te, riconoscendo che la tua passione è vita vera.Signore Gesù, apri questo mondo ad accogliere il seme di vita, perché sia più accogliente con chi nasce e con chi si sta formando, più benevolo con chi soffre e vuol vivere meglio, più incoraggiante con chi è debole e sfiduciato.

Tu che trionfi sulle oscurità infernali che ci vogliono mortificare, dona la tua pace di Risorto, perché possiamo portare la vera pace, dona il tuo perdono, perché diventiamo più misericordiosi, dona il tuo amore, perché ora diventi il nostro, quello che dona sempre.

Tu che sei l’eterno Vivente, il comunicatore di Vita, quella vera, raggiungi ciascuno di noi con la viva passione del cuore, riaccendi la speranza, anche a trovarci dentro tanti segni di morte, risveglia quella fede che ci fa sentire la tua persona accanto a noi: con te, solo con te, possiamo rinnovarci e rinnovare questo mondo!

La Pasqua di Cristo nel mondo religioso e culturale russo

MORS ET VITA DUELLO

CONFLIXERE MIRANDO

Sul “fronte russo” continuano a udirsi rumori di guerra, e di lì ci vengono im-magini impressionanti di rovine, lasciate sul territorio ucraino, anche se i morti e i feriti sono da entrambe le parti, in un conflitto dal forte sapore di scontro tra popoli “fratelli”, che hanno avuto una lunga storia in comune. È inevitabile inoltre che siano coinvolte anche le diverse confessioni religiose, le quali si rifanno al comune mondo cristiano: qui i credenti nel Signore, morto in croce e poi risorto, celebrano i medesimi misteri pasquali, pur con forme liturgiche diverse. E tuttavia essi non sanno superare le divisioni e ricercare l’intesa che deve impedire inutili distruzioni, ma più ancora i troppi morti, e più ancora sopire i risentimenti che si fatica a contenere e a impedire. Davanti ad un quadro desolante e sempre più imbarbarito da tanta violenza “gratuita” e selvaggia, non c’è molto spazio per discorsi di natura religiosa, per letture e visioni che parlino di rinascita, di risurrezione. Anzi, a volte anche simili auguri appaiono fuori luogo, intrisi di un sapore molto amaro. Come si fa a di-re che Cristo è risorto, in un quadro di devastazione, che pur si assicura di vo-ler ricostruire come prima? Non sarà più come prima! Non può essere come prima! Come si fa a ripetere l’augurio di pace del Cristo risorto? Raccontando l’evento della risurrezione e più ancora il suo farsi vedere ai discepoli il mattino di Pasqua nel cenacolo, dove entra a porte chiuse ed augura loro la pace, la sua pace, noi osiamo credere che tutto questo si rinnova anche oggi. Ma dove lui appare? Dove lui viene visto? Dove lui irrompe come allora con il suo augurio di pace? Se nel nostro non lontano oriente, invece di veder sorgere un nuovo sole di speranza, vediamo sempre più infittirsi le nubi tenebrose della disperazione, mentre noi vorremmo altre nubi cariche di pioggia, come facciamo a sperare? Ancora sentiamo a noi lontana questa guerra, come se non ne fossimo coinvolti. Ed invece il rischio di sentirci trascinati nel baratro è non molto dissimile da ciò che per le guerre precedenti si avvertiva, pur nella spensieratezza di chi non ci pensa mai, di chi si convince che non potrà mai succedere. Eppure è già successo. E può succedere ancora. Già a partire dalle esperienze passate di conflitti nel cuore dell’Europa ci siamo chiesti come siano stati possibili, laddove una civiltà secolare si era formata sull’umanesimo più che su altre considerazioni. Eppure anche allora si era scatenata l’assurdità del male, poi letta come “banalità”, nonostante la presenza di tanti pensatori animati dallo spirito umanistico. Leggi tutto “La Pasqua di Cristo nel mondo religioso e culturale russo”

Pietro il Grande.

LA RUSSIA ENTRA NEL MONDO EUROPEO

Il regno di Pietro il Grande coincise con la più grande trasformazione vissuta dalla Russia fino alla Rivoluzione del 1917. A differenza della Rivoluzione sovietica, tuttavia, la trasformazione imposta alla Russia da Pietro ebbe uno scarso impatto sull’ordinamento sociale, poiché il servaggio rimase e i nobili mantennero tutte le loro prerogative. Ciò che Pietro cambiò fu la struttura e la forma dello Stato, trasformando il tradizionale regno zarista in una variante della monarchia europea. Pietro impose al tempo stesso profondi mutamenti alla cultura russa, con un lascito che persiste tutt’oggi accanto alla sua nuova capitale San Pietroburgo. (Bushkovitch, p.93)

In questa breve presentazione del capitolo dedicato alla figura e all’opera di Pietro il Grande, si coglie il grande ruolo che ha avuto questo personaggio nella storia della Russia, diventando pure egli una sorta di mito. Anche ad avere molte informazioni ed anche a riconoscerle veritiere, il personaggio si staglia nella storia russa come una figura unica e gigantesca per il ruolo che ha giocato. Molto è dovuto a lui circa l’apertura nei confronti dell’Europa, dalla quale ha cercato di ricavare il meglio per un ammodernamento delle strutture statali della Russia. Pietro il Grande ha sempre cercato di inserire la Russia tra le potenze europee, non solo per competere con i vicini, che sotto il profilo territoriale non potevano vantare il medesimo spazio vitale della Russia, ma potevano comunque ostacolarne il passaggio per competere con le grandi potenze centrali, come la Prussia, l’Austria, o, ancora più in là, la Francia e l’Inghilterra. Se evidentemente voleva competere con esse, la Russia avrebbe dovuto attrezzarsi di strumenti che risultavano in quel tempo, come assolutamente indispensabili alla costruzione di un Paese dalle pretese imperialiste. Una struttura appesantita dalla zavorra di tipo feudale, come era il sistema dei boiari, non avrebbe mai consentito la costruzione di un Paese più moderno, che sarebbe potuto diventare con la crescita della classe borghese, quella che cerca di allargare il campo del mercato e insieme anche un tipo di produttività che permetta il commercio fuori dei confini nazionali. Lo zar si rende conto che una simile struttura è possibile solo con la libera imprenditoria, quella che va alla ricerca di nuovi spazi, di nuovi mercati, di nuove attività, costruite grazie all’ingegno, alla concorrenza e ai capitali finanziari.  Leggi tutto “Pietro il Grande.”

La Russia verso l’Europa.

LA RUSSIA E IL MONDO CIRCOSTANTE

Nel corso della sua storia la Russia si presenta “tirata” ad oriente e ad occidente, perché il suo immenso territorio la spinge o da una parte o dall’altra in base alle convenienze del momento e soprattutto alle scelte politiche che vengono operate da chi la guida. Ovviamente le motivazioni sono da ricercarsi soprattutto nell’ambito economico, perché le sue risorse e le sue esigenze la spingono nell’una o nell’altra direzione in cerca di materie prime, ma anche di manufatti da vendere, soprattutto, o da acquistare. A dominare la scena in questo, sono ovviamente coloro che detengono gli interessi di natura economica, che tuttavia sono pur sempre una parte minima della popolazione: i ceti sociali più numerosi sono di fatto in prevalenza i lavoratori della terra, e sopra di loro ci sono i grandi latifondisti in possesso di estensioni notevoli di terreni da coltivare. La classe che noi definiamo “borghese”, quella cioè che troviamo nei “borghi”, nelle città, a capo di attività manifatturiere, è minoritaria, anche perché le città che si sviluppano sul criterio prevalente nel resto dell’Europa, e cioè sul ricorso al denaro, appaiono veramente poche e in prevalenza sono quelle che stanno maggiormente vicino ai Paesi dell’Europa occidentale. In particolare sono in contatto con le città baltiche, le sole dotate di un certo spirito imprenditoriale, ma comunque dislocate su un mare interno, dove si affollano altri competitori. L’espansione, poi, di natura territoriale, come succede nel medesimo periodo anche per altri Paesi europei, esige che ci sia pure l’esercito ben organizzato e tenuto efficiente anche con armamenti adeguati. Se per i Paesi europei occidentali la conquista di nuove terre richiede una buona rete di colonizzatori, che aprano nuove strade, ma soprattutto che siano in grado di sfruttare al massimo le regioni acquisite, altrettanto si deve dire per la Russia in espansione ad est. Ovviamente l’espansione richiede anche il supporto dell’esercito, che, anche a non essere composto di un numero cospicuo di soldati, deve comunque risultare dotato di mezzi che permettano di imporsi su una popolazione non ancora in grado di opporre strumenti adeguati. Lo Stato europeo in genere interviene garantendo la difesa, ma anche controllando con le “Compagnie” tutti gli affari economici che si possono aprire e incrementare. Il medesimo fenomeno si ha in Russia. Anche qui le imprese di tipo coloniale appartengono a buoni imprenditori che hanno investimenti da fare; essi però dicono di farlo in nome dello Stato a cui appartengono. Leggi tutto “La Russia verso l’Europa.”

La Russia di Mosca: LA TERZA ROMA

CORONA DI MONOMACO SIMBOLO DELL’AUTOCRAZIA RUSSA

Una leggenda narra che tale corona ( che questa piattaforma non consente di riportare qui)sia stata regalata dall’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco al nipote Vladimir, fondatore della città di Vladimir e antenato di Ivan III, il primo ad essere zar.

La leggenda serve come fondamento per costruire la teoria politica di “MOSCA – TERZA ROMA”.

Questa corona, detta di Monomaco, viene così definita per la prima volta in un documento del 1518, durante il regno di Vasilij III.

GLI INIZI DI MOSCA

La città che noi oggi riconosciamo come capitale della Russia e che nel corso della storia è sempre stata considerata come strettamente legata alla Russia stessa, molto più della successiva Pietroburgo, è divenuta un centro aggregatore per i Russi solo a Medioevo inoltrato, quando le altre città all’intorno si sono avviate ad un lento ma inesorabile tramonto. Dobbiamo ritenere che gli stessi Russi non avevano la percezione di essere un popolo con la vocazione nazionale e imperiale, come si è costruita successivamente. Solo dopo il 1000, solo con la scelta del Cristianesimo le diverse tribù che abitano il bassopiano sarmatico, cercano anche di avviare quel senso di appartenenza, che finora le vedeva legate alle figure emergenti, soprattutto nell’ambito militare. Più che un popolo unito, qui c’erano popolazioni diverse, che si aggregavano nei centri abitati, dando origine ad una città con in mezzo un’altura o una fortificazione, chiamata “cremlino”. Lì aveva spazio colui che di fatto deteneva il potere, espresso soprattutto con le armi. Alcune città avevano dominanti i proprietari terrieri, o, nel caso di una ben avviata attività mercantile, si trovava a guidarle una sorta di corporazioni di mestieri, che di fatto dettavano la conduzione della politica locale. Fra tutte le città, quella che ha avuto una storia gloriosa ed orgogliosa, è Novgorod, fiera di ritenersi e di essere effettivamente “libera”: lì non poteva esserci nessun potere di natura monarchica, cioè un autocrate destinato a governare senza alcun controllo. E tuttavia anche qui, a volte, si avverte la necessità di avere un principe in grado di condurre le truppe contro i nemici: per questa città libera essi sono di fatto gli Svedesi e i Teutoni, i quali impedivano il libero accesso ai traffici sul Baltico. Di qui lo scontro, affidato ad Aleksandr Nevskij. Con lui entrambi i nemici sono bloccati, anche se poi l’eroe liberatore non potrà diventare il leader dei Russi, il capo riconosciuto con poteri monarchici. Anzi, da nessuna parte, in nessuna città, possiamo riscontrare qualcuno che porti questo titolo e che abbia un simile potere. Sulle città russe domina sempre un principe, a volte un duca o un granduca, qualcuno insomma che gestisce il potere grazie alla sua milizia e che ha il proprio riconoscimento con un titolo di stampo feudale, perché un altro potere superiore lo riconosce. In quest’area geografica la ricerca di un riconosci-mento viene fatta a partire da Bisanzio; ma ormai dopo la IV crociata (1202) anche quest’alta autorità ha perso il suo prestigio e soprattutto la sua forza.  Leggi tutto “La Russia di Mosca: LA TERZA ROMA”

La figura mitica di Aleksandr Nevskij

Il primo grande eroe della storia russa, colui nel quale i Russi stessi si identificano, soprattutto nei momenti più difficili della loro storia, è senz’altro Aleksandr Nevskij, che appare circondato da un alone “mitico”. È pur sempre un personaggio storico, le cui vicende sono note a partire dalle cronache coeve; ma nel corso dei secoli si tende a proporlo come un eroe nazionale, un cavaliere “senza macchia”, un lottatore gigantesco, un uomo senza pari, capace di raccogliere attorno a sé i Russi nella difesa della patria. Così, dalla storia egli trapassa al “mito”, e come tale sarà sempre proposto in diversi momenti della lunga storia russa; anche quando figure simili, proprie di un epoca autocrate o monarchica, dovrebbero essere demitizzate o addirittura cancellate, egli affiora, perché anche nell’epoca dell’ideologia bolscevica prevale la necessità di ricorrere all’appartenenza del mondo russo. In questo modo non è facile ricostruire nel modo più oggettivo possibile chi sia stato davvero quest’uomo, che a noi arriva sempre con una fisionomia che lo vuole santo, eroe epico, condottiero vittorioso.

Il personaggio di Alessandro Nevski sembra aver conosciuto, ancora in vita, un’apoteosi epica e morale e un’idealizzazione che il tempo doveva rafforzare e la cui linea di sviluppo è nettamente rintracciabile nelle successive Vite che gli sono state dedicate. (Durand- Cheynet, p. 9) Leggi tutto “La figura mitica di Aleksandr Nevskij”

ECCO L’UOMO SEMPRE VIVO NELLA PASSIONE

PASQUA 2022

LA PASSIONE DELL’UOMO

E’ LA PASSIONE DI CRISTO

COME GESU’ VIVE LA PASSIONE

La Passione di Gesù non finisce mai, anche quando finisce il suo soffrire fisico. La passione che deve animare il vivere umano non finisce mai, anche quando il singolo muore, e, a quel punto, non soffre più. Si trasmette invece quella forma del patire che deve essere l’anima di ciascuno nella sua esistenza, non perché dobbiamo soffrire – bisogna sempre combattere con tutte le forze il dolore che attacca il nostro essere e lo consuma! – ma perché non devono venir meno l’impegno e la responsabilità. Col tempo abbiamo affievolito quel genere di “passione” che dovrebbe accompagnare sempre il nostro vivere, sapendo che in ogni circostanza siamo chiamati a dare “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”: dovunque, sempre, con tutti, dobbiamo metterci tutto di noi stessi, dobbiamo “giocare” le nostre risorse umane, dobbiamo impegnare quanto di meglio abbiamo e di meglio noi siamo. Se viene a mancare questa passione, e ogni cosa viene fatta senza più quel genere di entusiasmo che ci fa anche patire, non passa, a chi ci segue, un vivere che sia degno di essere vissuto. E così in quel “male di vivere” che diventa noia, stanchezza, adattamento al “particulare” si trascina l’esistenza che non si qualifica mai. Magari “non facciamo niente di male”, ma non c’è neppure la ricerca di qualcosa di meglio, che – se ci pensiamo – deriva dalla passione che abbiamo e che ci mettiamo. Guai se manca la passione, quella che si esercita come entusiasmo, impegno, generosità, anche se c’è di mezzo una malattia, se c’è da far fronte al male in ogni sua manifestazione. Senza l’esercizio della passione vera, in presenza di un momento doloroso e difficile, facciamo fatica a far fronte al male, non siamo in grado di tener testa ad un problema che si fa pesante e aggrovigliato. Se la passione viene vissuta sempre, nelle ore prospere come in quelle avverse, essa permetterà di far fronte al male, anche ad aver la sensazione di esserne talmente travolti da venirne schiacciati. La passione, che ha vissuto Gesù in ogni momento, ha permesso a lui di essere il vero protagonista della scena, anche nelle ore drammatiche in cui sembrava fosse travolto da una serie di avvenimenti che apparivano imprevisti e imprevedibili. Ma lui in quei frangenti ha continuato ad amare, a servire, a rendersi disponibile, a comunicare il meglio di sé e sempre vivendo la passione. Noi ci siamo soffermati a considerare il lato visibile delle sue sofferenze fisiche, pensando che fosse questo il suo patire, quello che lui voleva indicarci. Gesù voleva invece offrire l’esempio di chi, anche ad essere bersaglio di violenze inaudite, non viene meno alla sua passione, quella che lo fa amare sempre, “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”, proprio come ama Dio e come Dio vuol essere amato da parte nostra. Il risvolto delle sofferenze fisiche, delle violenze che si sono accanite su di lui, non è da sottacere; e tuttavia non deriva di qui la passione che il Signore vuole considerare per noi e vuole proporre a noi come insegnamento. Proprio perché si tratta di un “mistero”, dentro quel fatto drammatico, dobbiamo leggere più in profondità l’impegno con il quale Gesù affronta quella situazione, insegnando all’uomo a fare altrettanto, e quindi non propriamente a soffrire, ma a vivere, dentro anche tanto dolore, l’impegno per superare il patire con l’amore che si dona.

COME L’UOMO VIVE OGGI LA PASSIONE

Questa proposta va considerata proprio sullo sfondo delle situazioni di disagio e di sofferenza, che si sono accumulate in questi anni e che ora sembrano assommarsi in una valanga dirompente e travolgente. Anche solo a considerare questo scorcio di nuovo millennio, abbiamo conosciuto un susseguirsi di crisi che ha lasciato dietro di esse morti e devastazioni. Siamo divenuti bersaglio del terrorismo internazionale che ha fatto scatenare la guerra contro i “santuari” di gruppi armati: per i tanti morti nei diversi attentati compiuti nel nostro Occidente, l’Occidente ha risposto con altri morti fra la gente civile nei paesi considerati “canaglia”. Sono scoppiate guerre locali, che hanno fatto sorgere la “terza guerra mondiale a pezzi”: morti e profughi a migliaia senza mai riuscire ad arrivare ad una intesa che possa dare sicurezza per il futuro; anzi, nell’impotenza dell’ONU e di altre organizzazioni, abbiamo assistito a tentativi di pulizie etniche. Non sono mancate malattie epidemiche disseminate un po’ ovunque fino all’ultima, non ancora del tutto debellata. Non sono mancate le crisi economiche che hanno ulteriormente divaricato le distanze fra ricchi e arricchiti e la massa sempre più ampia di poveri e di impoveriti. Evidentemente tutto questo impone una visione diversa rispetto agli schemi elaborati e attuati negli scorsi decenni, ma più ancora che si costruisca, non una logica di contrapposizione, ma un percorso che veda i diversi raggruppamenti umani convergere in un disegno di integrazione e non di assimilazione. Non per nulla la crisi attuale ha rivelato l’impotenza di quella istituzione che avrebbe dovuto mantenere e costruire la pace: l’ONU va evidentemente rifondata, ma più ancora va chiarito che le varie crisi “umanitarie”, devono mettere al centro la persona, le singole persone, per la cui realizzazione tutte le istituzioni sono a servizio. Ogni sistema di aggregazione sociale deve considerare la persona umana come il bene principale, quello per cui, secondo la visione evangelica, Dio si è messo a disposizione e lo ha fatto con la sua passione, quella vissuta dal Figlio di Dio, non solo nel momento culminante del suo sacrificio. 

La passione per l’uomo deve dunque diventare l’obiettivo da perseguire, mentre dobbiamo constatare che ancora si fanno patire le persone, perché ci sono, prima e più di queste, altri obiettivi.

NELLA PASSIONE EVANGELICA VIENE MOSTRATO L’UOMO

Nella Pasqua cristiana viene sempre presentato l’Uomo: è colui che pende dalla croce, colui che è messo nel sepolcro, colui che, risorto, si aggira in cerca dei suoi amici perché lo vedano, lo tocchino, lo riconoscano. In quella sua umanità egli si rivela Figlio di Dio e ci rivela Dio. Succede così anche a Natale, quando non c’è altra indicazione data ai pastori circa il Salvatore, se non un bambino avvolto in fasce, quasi a ricordarci l’essenziale da riscoprire, che, forse, anche in certe considerazioni di natura religiosa, abbiamo perso di vista. Nella lettura dei testi evangelici della Passione i momenti culminanti sono quelli in cui si dichiara la vera natura di colui che è sottoposto al giudizio degli uomini e che non viene riconosciuto per quello che veramente è. Il Vangelo, con espressioni significative, cerca di andare oltre quanto succede nella cronaca di quelle ore drammatiche, e fa risaltare la persona, che, pur condannata, pur colpita con le percosse, pur torturata con i flagelli, pur devastata nello sfinimento, appare sempre nella grandezza della sua fisionomia umana. Anche se non ha più quelle sembianze, tanto è abbruttito dalle violenze, di lui si dà sempre questa immagine: “Ecco l’uomo!”. E questa immagine dobbiamo imparare a vedere nei tanti uomini e nelle tante donne che ancora si vorrebbero abbruttire e che invece, soprattutto se si fa loro tanto male, devono essere sempre riconosciute per ciò che sono e per ciò che hanno di essenziale.

Quando Gesù è sottoposto al giudizio del Sinedrio, dichiara pubblicamente chi egli è: il Figlio dell’Uomo. Proprio per questo viene condannato.

Matteo 26,63-64

Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l’hai detto – gli rispose Gesù -; anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».

Marco 14,61-62

Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».

Bastano queste due testimonianze per dire che se i capi volevano a tutti i costi la confessione, definendosi Figlio di Dio, Gesù risponde con la citazione di Daniele, il quale in realtà riconosce nel Messia venturo la fisionomia umana, quella che lo fa essere “Figlio dell’uomo”. Ovviamente questo figlio d’uomo, e dunque “uomo”, per il fatto che è seduto alla destra della Potenza, ha pure in sé la natura divina.

Non di meno succede davanti all’autorità politica romana, come se, oltre alla condanna di tipo religioso, si dovesse dare spazio alla condanna di natura politica, quella che lo porta al patibolo perché ha voluto farsi re. Pilato dovrà trovare in questo l’appiglio per giustificare la sua condanna, come appare nel testo di Giovanni, dove però Pilato fa pure una dichiarazione con la quale noi possiamo dire che qui viene sempre messo al centro un uomo, anzi colui che viene definito “l’uomo”, come se divenisse qui il prototipo, colui che rappresenta ogni uomo.

Giovanni 19,5

Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Proprio questa fisionomia, per quanto sfigurata nel contesto di una tortura che mortifica la persona fino a renderlo uno davanti al quale si rimane disgustati e non si può più considerarlo un uomo degno di stima, merita invece attenzione, rispetto e ammirazione. Eppure il profeta lo aveva già raffigurato così:

Isaia 53,3

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

La Pasqua di quest’anno è segnata dai rumori di guerra, ma soprattutto dalle notizie dell’ennesima violazione del rispetto della persona con i tanti atti di violenza. Fanno orrore le brutalità che affiorano negli scontri armati e che aumentano, quando la violenza viene esasperata fino al disprezzo dell’altro, soprattutto se inerme, soprattutto se non ha colpa alcuna, se non quella di passare o di trovarsi nel bel mezzo degli scontri e naturalmente di essere considerato il nemico su cui prevalere. Quando si arriva a queste nefandezze, in una guerra che è già nefanda per se stessa, allora veramente si calpesta l’uomo, togliendo, insieme con la vita, la sua dignità, il rispetto che gli è dovuto, sempre. Si vuole dunque, cancellare la persona, mortificarla, vanificarla. Ma essa si afferma sempre più, anche dentro questo orrore.

Se Gesù appare sempre più come l’uomo, nel momento in cui Pilato lo presenta alla folla, che lo vuole morto, e lo definisce così; se nel momento della morte, ma soprattutto nel modo stesso con cui muore, il centurione, secondo la testimonianza evangelica, lo riconosce pienamente, allora proprio in simili circostanze va cercato e va riconosciuto l’uomo, pur risultando umiliato e spento per sempre.

Marco 15,39

Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

Luca 23,47

Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto».

Chissà se davvero il centurione ha detto queste parole. Quello che conta è il fatto che l’evangelista vuol dare risalto a una simile lettura, perché chi legge, impari a vedere quell’uomo così, e lo faccia a partire proprio dal modo con cui quell’uomo muore.

Così dovremmo anche oggi “guardare” queste fisionomie umane che sono individui ben definiti, persone con una storia particolare: la loro “passione”, quella vissuta tutti i giorni nell’anonimato e quella ultima della loro morte che le vorrebbe cancellare per sempre, fa emergere un essere umano, che pur si è voluto umiliare e annichilire, come spesso si è fatto nel corso della storia.

Anche la tragedia della Shoah, come pure i tanti genocidi perpetrati in questi ultimi anni, ci avevano già messo in guardia a proposito dell’uomo ridotto ad una larva da schiacciare e da mandare in fumo, perché nessuno se ne ricordi mai. Ed in effetti quell’immagine spesso viene rimossa, da qualcuno addirittura negata, come se non ci fosse mai stata, per qualcuno non è tale da suscitare quel tipo di interesse e di attenzione che spinge a meditare, a considerare, a ritrovare proprio lì la figura dell’uomo che non deve mai scomparire dal nostro orizzonte.

PRIMO LEVI (1919-1987) ci ha lasciato nel suo testo più famoso l’impegno di ricercare anche dentro le fisionomie abbruttite di chi cercava la sopravvivenza nel lager di Auschwitz ciò che rimane di un uomo.

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

considerate se questo è un uomo,

che lavora nel fango

che non conosce pace 

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi:

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

Senza essere mai stato un credente e sentendosi piuttosto un ricercatore, anche per la sua natura di studioso di chimica, l’autore ci interpella, perché dal nostro vivere bene, sicuri e appagati, ci domandiamo, davanti al sopravvissuto del campo di concentramento “se questo è un uomo”, se, anche a vederlo nella sua magrezza, nella sua fragilità, nel suo smarrimento, si possa ancora definire un uomo. I toni espressi e le immagini usate hanno un forte sapore biblico, perché le potremmo ritrovare nella Scrittura, compresa la “chiusa” del testo dove si fa strada una sorta di maledizione, se l’appello alla meditazione viene disatteso.

Con una lettura che tiene conto di quanto il vangelo dice a proposito dell’uomo della croce, da riconoscere come l’uomo realizzato, come l’uomo che può risultare, in quella sua condanna, il solo giusto, in quella sua posizione colui che appartiene a Dio e che ci richiama Dio, anche qui dobbiamo imparare a vedere e a riconoscere che dall’inferno del lager nazista, come dai tanti altri campi di concentramento di molte parti del mondo e degli anni recenti, dobbiamo far riaffiorare l’uomo, ciò che di umano si voleva far sparire e che invece resiste più che mai. Anzi, proprio in quel genere di passione, la medesima vissuta dal Signore Gesù nei suoi giorni di dolore, deve emergere quel lato umano che si vorrebbe offuscato e da lasciare all’oblio: noi spesso siamo incapaci di vedere, di leggere, di considerare anche in quella “valle di lacrime” ciò che dell’essere umano, non solo è sopravvissuto, ma – si potrebbe dire – è quanto mai affiorato ed è quanto mai da conservare come l’acquisto più prezioso, perché il futuro sia ancora umano, sia e diventi sempre più umano. Nella passione di Gesù noi dobbiamo riconoscere il Figlio dell’Uomo e di conseguenza, dalla croce, per il modo con cui egli, morendo, dà il meglio di sé, noi dobbiamo vedere il Figlio di Dio. Altrettanto dobbiamo fare circa le persone che ancora vivono la passione, un dolore immenso e disumano, una violenza brutale e annientatrice; mai tale, comunque, da impedire che anche lì si possa ritrovare l’essere umano e ritrovare noi un po’ più umani.

LA CROCE, SCANDALO O STOLTEZZA?

Eppure l’immagine del Cristo morto non sempre ci conduce a cercare e a trovare l’uomo pienamente realizzato, quello che il vangelo definisce come la sua “glorificazione”. Anzi, la croce e, soprattutto, il crocifisso sono immagine dell’apice della violenza e nello stesso tempo della sconfitta più umiliante e della morte più vergognosa. Anche Paolo segnala la croce come scandalo per gli Ebrei e stoltezza per i pagani, perché così è sentita al di fuori del mondo cristiano, mentre al suo interno la si dovrebbe considerare sorgente di vita e di vittoria. C’è in effetti chi rimane scandalizzato dall’immagine del Cristo morto, soprattutto quando si pensa che, ormai chiuso nel sepolcro, sia lasciato al suo destino, che è il destino di tutti e cioè la sua decomposizione, il suo annientamento. Se già la morte in croce appare come l’annullamento di quell’uomo, la sua riduzione a larva d’uomo, a uno che non ha più un’immagine difendibile, la sua stessa collocazione nel sepolcro, per giunta affrettata, deve far pensare ad un inesorabile sfacelo. E così è nel dipinto di Holbein, citato nel romanzo, L’idiota, di FEDOR DOSTOEVSKIJ (1821-1881). Questa sua opera, segnata, come le altre, dall’azione negativa del male, che corrompe e distrugge l’uomo, vede come protagonista colui che è definito “l’idiota”, per la sua semplicità e bontà d’animo. Così lo scrittore presenta la sua opera e il suo protagonista:

L’idea fondamentale del romanzo è quella di raffigurare un uomo positivamente bello. Non c’è niente di più difficile al mondo, soprattutto ora. Tutti gli scrittori, non solo i nostri, ma anche quelli europei, che si sono cimentati nella raffigurazione di un uomo positivamente bello, hanno dovuto lasciare. Perché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale non è nostro e anche la civilizzata Europa è ben lontana dall’elaborarlo. Al mondo c’è soltanto una persona positivamente bella: Cristo, così che l’apparizione di questa persona smisuratamente, infinitamente bella è, naturalmente, un miracolo infinito (Tutto il Vangelo di Giovanni è in questo senso: egli trova il miracolo tutto nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello). Ma mi sono spinto troppo in là. Ricorderò soltanto che di tutte le persone belle della letteratura cristiana, la più compiuta è Don Chisciotte. Ma lui è bello esclusivamente perché allo stesso tempo è anche ridicolo … Entra in gioco la compassione per il bello deriso e che non conosce il proprio valore: e, dunque, anche nel lettore entra in gioco la simpatia. Questo risvegliare la compassione è il segreto dell’umorismo.

(Ghidini, p. 193)

Non è facile per noi entrare in questa logica, soprattutto per il fatto che qui lo scrittore persegue ciò che nella spiritualità ortodossa è l’apice della santità: il solo e vero santo è dominato dalla “stoltezza”, quella della croce; è il folle per Cristo, così come appare folle lo stesso Cristo, soprattutto nelle ore concitate della sua passione. Ma proprio lì emerge l’uomo vero, l’uomo giusto, l’uomo santo. Ecco perché il protagonista del romanzo non può che essere “l’idiota” per eccellenza: questo è per lui l’uomo da considerare; è da valorizzare per quella sua condizione, che, anche a farlo apparire “menomato”, ha comunque una sua intrinseca bellezza e questa bellezza, cioè l’uomo stesso per ciò che è, salverà il mondo. Perciò, proprio considerando il Cristo nella follia della croce, noi abbiamo l’uomo, così come lo riconosciamo in chi viene giudicato “idiota”, mentre possiede la sola vera sapienza del vivere. Anche ROMANO GUARDINI (1885-1968), teologo tedesco, coglieva questo messaggio di Dostoevskij:

Ora qui Dostoevskij sembra essersi accinto al compito immenso, e non potrei dire con certezza fino a che punto ne fosse consapevole, non di narrare la vita di Cristo direttamente e in se stessa, o raccontando come un uomo abbia cercato di riviverla nella fede e nell’imitazione, ma di far apparire l’immagine dell’Uomo-Dio nella trasparenza di una personalità umana. Può la vita dell’Uomo-Dio essere tradotta in una vita d’uomo ed esservi raccontata senza che quest’uomo cada nel ridicolo o il Figlio di Dio venga spogliato della sua divinità? Se la nostra interpretazione non è errata, a Dostoevskij è stato concesso di risolvere questo problema (Ghidini, p. 198)

La pagina più emblematica de “L’idiota”, per cercare di comprendere il pensiero di Dostoevskij circa la bellezza che traspare da Cristo, soprattutto a partire dalla sua umanità, è quella in cui si parla dell’immagine che lo stesso scrittore ha avuto la possibilità di vedere a Basilea e che lo ha fortemente impressionato. Quel corpo, già sfatto dalla violenza brutale che si è accanita su di esso, si sta avviando alla necrosi, e quindi ad un ulteriore disfacimento. Come è possibile continuare a credere in colui che oltre ad essere stato sconfitto nella vita, si avvia a sparire del tutto nella morte?

Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogožin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore (secondo il mio calcolo) prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo, fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: «Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Cristo in quello stato, come potevano credere all’imminente resurrezione? Se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle quando la loro prima vittima è stato proprio Colui che, da vivo, impartiva i suoi ordini alla stessa natura, Colui che disse: “Talitha cumi!”, e la bambina morta resuscitò; Colui che esclamò: “Alzati e cammina!”, e Lazzaro, che era già morto, uscì fuori dal suo sepolcro?». Guardando quel quadro, si è presi dall’idea che la natura non sia altro che un mostro enorme, muto, inesorabile, una macchina immensa ma sorda e insensibile, capace di afferrare, lacerare, schiacciare e assorbire nelle sue viscere un Essere che, da solo, valeva come la natura intera con tutte le sue leggi e tutta la terra che, forse, fu creata solo perché potesse nascere quell’uomo! Il quadro dà proprio l’impressione di questa forza cieca, crudele, stupida, alla quale tutto è fatalmente soggetto. Dentro di esso, non c’è nessuno fra quelli che erano soliti seguire Gesù. In quella sera, una sera che annientava tutte le loro speranze e forse anche tutta la loro fede, coloro che seguivano Gesù dovettero provare un’angoscia senza nome. Atterriti, si dileguarono, sostenuti soltanto da una grande idea, un’idea che nessuno avrebbe più potuto togliergli o cancellargli: se il Maestro, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì? Le parole di Ippolit non fanno altro che avvalorare la tesi inizialmente accennata dal principe Myškin, insinuando alla fine una spaventosa ipotesi: se Cristo, il giorno prima della sua morte, avesse visto il suo corpo ridotto in questo macabro stato, probabilmente, non avrebbe avuto la forza di salire su quella croce, gli sarebbe mancato il coraggio necessario. Lo stesso Gesù, nonostante i miracoli, avrebbe dubitato di se stesso, della sua natura divina, dell’esistenza di suo Padre. Attraverso questi due giudizi, Dostoevskij dimostra di avere colto tutta la grandiosità del dipinto del pittore tedesco. E non è certo un caso che a possederne una copia sia proprio Rogožin. Quello stesso Rogožin che, alla fine de L’idiota, uccide la meravigliosa Nastas’ja Filippovna trafiggendola con un coltello. (Simone Germini)

Ecco l’immagine del cadavere di Gesù come lo vede HANS HOLBEIN il Giovane (1497-1543). Indubbiamente sembra uno spettro, anche se la descrizione è quella realistica di un uomo morto, e quindi di un cadavere non ancora in decomposizione, ma già avviato ad essa, come si vede nelle estremità degli arti. Proprio questa fisionomia realistica porta a immaginare che qui non si possa affatto attendere la futura risurrezione, o che comunque questo corpo già scavato dalle vicende della passione, non possa dare alcuna speranza di vita ulteriore.

Gli stessi dettagli rendono sempre più evidenti i segni di un disfacimento avviato e, dunque, di un quadro umano, che non permette di avere qui il prototipo della bellezza, ma neppure di offrire quel tipo di umanità che la corrente culturale dell’Umanesimo quattrocentesco consegnava come il prodotto migliore. Non abbiamo qui le belle fisionomie di archetipi di uomo, come poteva essere l’Uomo di Vitruvio di Leonardo, con una fisionomia bella, ideale, costruita con l’equilibrio delle dimensioni; abbiamo invece l’uomo che si va decomponendo e che dunque non può restare. Eppure anche qui si dovrebbe imparare a leggere ciò che di essenziale l’uomo è, e comunica, anche a venir “maltrattato”. 

La stessa immagine del particolare della mano, resa sempre più livida dal sangue che si è fermato, e come disseccata dalla carne che già sfiorisce, serve ad accentuare il venir meno di quell’Umanesimo che ormai appartiene al passato e che non è più riproponibile in un tempo segnato da forti tensioni a causa dei conflitti religiosi. In effetti in quel periodo tante persone vengono travolte e tolte di mezzo senza più rispetto, senza onore, senza amore. Eppure proprio questo dramma richiede un soprassalto di attenzione e di cura per la fisionomia umana, che si continua a credere con la possibilità di redenzione, con la possibilità di una risurrezione, la quale è sempre da considerare, secondo la fede cristiana, come risurrezione della carne.

Tenendo sullo sfondo questa immagine, senza la quale non è neppure comprensibile il brano del romanzo, dovremmo pensare che anche per lo scrittore russo, si pone la questione di risvegliare quel senso di umanesimo, piuttosto disatteso un po’ ovunque, ma soprattutto in quel mondo europeo, da cui la Russia si lascia conquistare, seguendone le ideologie che Dostoevskij giudica diaboliche. Il recupero dell’umanesimo è quanto mai necessario se non si vuole la catastrofe, che è sull’orizzonte.

L’IDIOTA, Parte II, Capitolo IV

Ripassarono per le stanze che il principe aveva già attraversato: Rogòžin faceva da guida. Entrarono nel salone, ornato dai soliti quadri anneriti e poco decifrabili: paesaggi e alti dignitari ecclesiastici, per lo più. Sulla porta della stanza confinante si vedeva una tela molto particolare, lunga e sottile. 

Era una Deposizione dalla croce. Il principe, osservandola, parve ricordarsi di qualche cosa; ma aveva fretta di uscire da quella casa, dove si sentiva a disagio, e non volle fermarsi.

Tutte queste cose – disse – sono acquisti fatti da mio padre nelle aste pubbliche. Provava un gusto speciale nel fare simili acquisti, sempre a patto che un dipinto non gli dovesse costare più di due rubli. Un intenditore ha detto che si tratta di robaccia, tranne questa qui sulla porta, che pure non fu pagata più di due rubli. A mio padre, non so più chi, offrì trecento cinquanta rubli, e Ivan Dmitric Saval’ev, un mercante d’arte, arrivò fino a quattrocento.”.

E’ una copia di Hans Holbein – disse il principe – una copia eccellente, per quanto io non sia certo un intenditore. Ho visto l’originale all’estero e non me ne scorderò mai. Ma … che ti succede?”.

Senza più pensare al quadro, Rogòžin andò avanti. Distratto e irritabile com’era, il suo comportamento poteva pure essere preso per normale; ma il principe trovò strano che Rogòžin, appena iniziato un discorso, troncasse di botto la conversazione.

Da un pezzo volevo chiederti una cosa, Lev Nikolaevic. Tu credi in Dio, sì o no?” domandò Rogòžin che aveva già fatto alcuni passi avanti.

Che strana domanda! E in che modo, mi guardi, poi!”.

Mi piace restare davanti a quel quadro molto a lungo” mormorò Rogòžin dopo un po’, dimenticando la domanda fatta.

Quel quadro! – esclamò il principe, colpito da un’idea subitanea -. Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede”.

E infatti si perde” confermò Rogòžin.

Intanto, erano arrivati alla porta di uscita.

Come? Che hai detto? Io ho quasi scherzato, e tu la prendi in un modo così serio. E perché mi hai domandato se credo in Dio?”.

Così, per niente. Sono sempre stato curioso di saperlo. Al giorno d’oggi c’è un sacco di gente che non crede in Dio. Una volta, non mi ricordo più chi, un mezzo ubriaco, forse … mi disse che qui in Russia gli atei sono più numerosi che dalle altre parti. È vero? Tu che sei vissuto all’estero dovresti saperlo. Qui in Russia, diceva quell’ubriaco, siamo più progrediti in tutti i campi”.

Così dicendo, Rogòžin aprì la porta e, tenendo una mano appoggiata alla maniglia, aspettò che il principe uscisse. Poi lo seguì sul pianerottolo, si tirò dietro la porta, e si fermò davanti a lui, confuso.

Addio dunque” disse il principe, porgendogli la mano. 

Rogòžin, meccanicamente, gliela strinse forte.

Addio”.

Il principe scese il primo gradino e si voltò indietro. Non voleva separarsi da Rogòžin così bruscamente.

A proposito di fede – disse sorridendo – io, la settimana scorsa, in due soli giorni, ho fatto quattro incontri che mi hanno dato da pensare. La mattina, in treno, percorrendo un nuovo tratto di ferrovia, feci conoscenza con il signor S. e rimasi a parlare con lui per quattro ore di fila. Avevo sentito raccontare molte storie sul suo conto, aveva la fama di essere un ateo perfetto, uno scienziato autentico, e io ero lietissimo di poter discorrere con lui. Educatissimo, mi rivolgeva la parola come a un suo pari. In Dio non crede. Una cosa però mi colpì, cioè che, parlando di fede, pareva che parlasse di tutt’altro; e mi colpì, perché anche prima, discorrendo con atei e leggendo i loro libri, avevo sempre avuto la stessa impressione. In apparenza trattano l’argomento, ma in realtà, lo lasciano da parte. Glielo dissi sinceramente, ma forse non molto chiaramente, perché il signor S. non mi capì. La sera mi fermai a dormire in una cittadina di provincia, e capitai in una locanda dove, la notte precedente, era stato consumato un omicidio; e, naturalmente, se ne discorreva ancora quando io arrivai. Due contadini, attempati, non ubriachi, vecchi amici, avevano bevuto il tè e domandato una camera per passarvi la notte. Uno di loro si era accorto solo da tre giorni che il compagno possedeva un orologio d’argento, attaccato a un nastro giallo con gemme di vetro. Non ci aveva mai fatto caso prima. Quest’uomo non era un ladro, anzi, era molto onesto e, per essere un contadino, abbastanza agiato. Ma quell’orologio gli piacque tanto che alla fine non poté più resistere alla tentazione. Prese un coltello e, mentre l’amico era voltato di spalle, gli si accostò in punta di piedi, alzò gli occhi al cielo, si fece il segno della croce e recitando mentalmente un’ardente preghiera: “Signore, per-donami per amore di Cristo!”, con un colpo secco ammazzò l’amico come si ammazza un montone e gli tolse l’orologio”.

Rogòžin si teneva la pancia dal ridere: era in preda a delle vere e proprie convulsioni: una strana ilarità, la sua, dopo l’umore nero di poco prima.

Questa sì che è buona! Questa è impagabile! – gridava, quasi soffocando. – C’è chi non crede a Dio, e va bene, lasciamo stare: un altro invece ci crede fino al punto da scannare il prossimo recitando le preghiere. No, dite quel che volete, ma non si può inventare niente di più bello, di più originale, drammatico e comico allo stesso tempo. Ah, ah, ah!”.

La mattina dopo, ero uscito a fare due passi – proseguì il principe, non  appena Rogòžin riuscì a calmarsi un po’ (il riso gli faceva ancora tremare convulsamente le labbra), – vedo camminare barcollando sul marciapiede un soldato ubriaco. Mi si accosta. “Signore, comprami questa croce d’argento: te la do per pochi spiccioli”. Aveva in mano una crocetta appesa a un nastrino azzurro, che si era appena tolto dal collo: una croce bizantina … e si capiva subito che non era d’argento ma di stagno. Io gli diedi i soldi che chiedeva, presi la croce e me la misi al collo. Seguendolo con gli occhi, lo vidi allontanarsi, tutto soddisfatto per aver gabbato il signore, e di sicuro se n’andò immediatamente a bersi la sua croce d’argento all’osteria. Io, allora, ero sempre suggestionato dal nuovo; perché tutto, in Russia, mi sembrava una novità. Ero cresciuto come uno che non capisce niente della vita che gli si svolge intorno; e durante i cinque anni passati all’estero, mi ricordavo della patria come in un sogno fantastico. “Ebbene – dissi fra me – andiamo piano, non ci affrettiamo a condannare questo venditore di Cristo. Dio solo sa quello che si nasconde in queste deboli creature ubriache”. Dopo un’ora, tornando alla locanda, incontrai una donna con in braccio un bambino lattante. La donna era giovane, il bambino non aveva più di sei settimane. Il bimbo le sorrideva, forse per la prima volta da quando era venuto alla luce. E io la vidi commossa e compita che si faceva il segno della croce. Le dissi: “Perché fai questo, brava donna?”. A quei tempi non facevo che domandare. “Ah, signore! – mi rispose – non c’è gioia più grande per una madre del vedere per la prima volta un sorriso sulle labbra del suo bambino. La stessa gioia deve provare Dio ogni volta che vede dal cielo un peccatore che gli s’inginocchia davanti e con tutto il cuore gli rivolge una preghiera”. La giovane madre parlò proprio in questo modo, esprimendo un sentimento così profondo, così delicato e così autenticamente religioso da racchiudere dentro di sé la sostanza stessa del Cristianesimo, cioè il vero concetto di Dio. Un Dio che è padre, un padre che prova gioia nel contemplare il proprio figliolo, proprio come ha fatto Gesù Cristo. E una simile profondità veniva da una donna tanto semplice! Era anche madre, certo … e, forse, chi sa, era la moglie del soldato che mi aveva imbrogliato con il trucchetto della croce di stagno. Senti, Rogòžin, ecco la risposta alla domanda che mi hai rivolto poco fa: il sentimento religioso è completamente estraneo a tutti i sillogismi, a tutte le colpe, a tutti i delitti, a tutti gli ateismi. Nel sentimento religioso c’è qualcosa di indefinibile che gli atei sfiorano appena, discorrendo di tutt’altro e divagando. Ma il fatto più importante è questo, che il sentimento religioso è la caratteristica più importante del cuore russo: questa è la mia conclusione, una delle prime idee che mi sono fatto della Russia. C’è molto da fare nella nostra Russia, credimi Rogòžin … Ricordati di quello che ci siamo detti a Mosca … E io non volevo, proprio non volevo tornare qui adesso; né pensavo che ci saremmo incontrati in questo modo … Ma lasciamo perdere … Addio. E che Dio ti protegga!”. (L’idiota, p. 193-196)

Papa Francesco richiama il dipinto e il passo del romanzo di Dostoevskij nella sua prima enciclica “Lumen Fidei”: lo fa ricordando che in realtà proprio l’immagine del Cristo nella passione, l’immagine spesso così cruda e così dura da accettare e da sostenere, è invece quella da contemplare per riconoscervi l’amore vero e quindi il modo con il quale l’uomo può diventare più autentico, più vivo, più credibile.

LUMEN FIDEI (29 giugno 2013) n. 16

La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore, Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto: « Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate » (Giovanni 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno». Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo.

LA RISURREZIONE DI CRISTO

E’ LA RISURREZIONE DELL’UOMO

L’abbruttimento a cui è sottoposto l’uomo, soprattutto nelle tante tragedie che si compiono lungo il cammino storico, non è mai tale da impedire all’uomo stesso di risultare sempre grande e di valore. Chi pensa di mostrare la propria superiorità, facendo del male, e magari anche avendola vinta, in realtà mortifica se stesso e quanto potrebbe mostrare di sé autenticamente umano; e chi, brutalizzato, scompare nella totale desolazione della fisionomia umana, quando viene cancellato e, soprattutto, viene annientata la sua immagine, data dal volto, in realtà noi possiamo ritrovarlo nello spirito. Lì avvertiamo che una persona, anche se tolta di mezzo, e magari pure in modo brutale, continua a vivere, continua ad esserci; e quindi è con noi, davvero risorta, soprattutto se è in grado di far risorgere noi da quella mortalità che ci abbruttisce, quando ci lasciamo andare ad un vivere sopportato e non appassionato. Abbiamo bisogno di ritrovare chi non c’è più con quella vitalità che abbiamo conosciuto in vita o che troviamo negli scritti rimasti, dove lo Spirito appare “disseppellito” e il vero senso di umanità è ritrovato anche da quelle situazioni dentro le quali noi potremmo pensare che esso non esista più. Ma l’amore, che è sempre più forte della morte, fa riemergere la vita; e così la risurrezione è possibile. E lo è già fin da ora! Se nella passione di Cristo vediamo la passione dell’uomo e quindi troviamo ancora l’uomo per quanto brutalizzato, nella sua fisionomia di risorto sentiamo che chi non vediamo più continua a vivere, quando noi ne assorbiamo lo spirito, cercato nella passione, nelle piaghe, nel dolore, nella morte.

Lettera di Etty Hillesum al suo amato Julius Spier (luglio 1942)

Sulle cose ultime e gravi della vita e della sofferenza non si può parlare, la voce non ce la fa. Comprendo tutto di te e con te condivido ogni peso, e ho di nuovo ringraziato Dio che ci sia nella mia vita una persona come te. Devi aver cura della tua salute: se vuoi aiutare Dio, questo è il tuo primo, sacrosanto dovere. Una persona come te, una delle poche ancora in grado di dare autentico ricetto a un po’ di vita, di sofferenza e di Dio – i più hanno già da tempo rinunciato, e per loro “vita”, “sofferenza” e “Dio” sono solo parole vuote – ha il sacrosanto dovere di mantenere il più possibile in buona salute il proprio corpo, la propria “casa terrena”, per poter offrire ospitalità a Dio quanto più a lungo possibile. La fine è ancora lontana. Anch’io avrò buona cura di me. Ho tante energie. Puoi prenderle tutte, e in me ne sorgeranno di nuove. Ti voglio un bene immenso, la mia anima vuole un bene immenso alla tua anima. A poco a poco non ha più nulla a che fare con il desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei poter distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato, accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato – e in questo modo avrei solo la sensazione che la mia anima potrebbe distendersi accanto alla tua. Se in un’epoca come questa non si crolla per la tristezza o non ci si indurisce e si diviene cinici, o non si tende alla rassegnazione – e tutto ciò per proteggere se stessi –, allora si diventa sempre più teneri e dolci, e sciolti, comprensivi e affettuosi. So come questo accade dentro di te, e tu mi hai accolta nel tuo percorso e io vivo con te – in tutto, fino al tuo ultimo respiro. Sono sempre con te e vicino a te e, se mai qualcuno ci separerà, continuerò a seguire il tuo stesso cammino sino alla fine. La mia fermezza e il mio amore hanno mille anni, e di mille anni invecchiamo ogni giorno. Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, e di portarlo tutto sulle spalle senza crollare sotto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!! (p. 27-28)

Così, nonostante i tanti dolori, nonostante le numerose vittime della storia, la vita continua, sempre più forte della morte, se evidentemente continua ad esserci l’amore che è più potente dell’odio. La risurrezione è sempre possibile, come vediamo anche dopo ogni terremoto, ogni cataclisma, ogni disastro, ogni guerra. Il flusso della vita procede, appunto perché è sostenuto dallo Spirito, che dà la vita. I segni delle ferite prodotte dal male rimangono ed è giusto che vengano considerati, se vogliamo continuare questa esistenza, fatta anche di situazioni dolorose, sempre affrontate con il desiderio di superarle grazie ad un surplus di umanità, di passione autentica, di vero spirito nuovo. Il Cristo risorto compare in mezzo ai suoi e mostra loro le ferite, che ora non lo fanno più soffrire. Ma così facendo egli indica loro la via da seguire, perché la sua passione possa continuare nella loro passione, perché la sua vita risorta possa continuare in loro che pure risorgono, appassionandosi ad una vita più vera di quella che si lascia condizionare dal male. Noi vorremmo indagare come novelli Tommaso che non credono fino a quando non vedono le ferite, prodotte dal male; eppure siamo circondati da tante sofferenze, o, meglio, da tante persone sofferenti, dentro le quali continua la passione di Cristo, e dunque il suo vivere, e anche il suo amore. Se le consideriamo, se le curiamo, se le accompagniamo, possiamo scoprire, ben oltre le pur doverose diagnosi e le pur necessarie terapie, che in esse ci sono persone, la cui esistenza è di valore ed è tale da far crescere in umanità anche la nostra. Ecco il senso di questa immagine che è la XVI stazione della Via Crucis del III millennio, elaborata dall’artista polacco JERZY DUDA GRACZ (1941-2004) per Jasna Gora presso Częstochowa. Oltre le tradizionali egli ne ha elaborate altre quattro, che propongono alcuni episodi della Risurrezio-ne. Qui avendo sullo sfondo la torre di Babele, da cui è derivata la confusione delle genti e quindi la loro incomprensione, si descrive quella particolare lettura della Risurrezione, per la quale Cristo si fa presente in mezzo a tanti malati (piccoli e anziani, in prevalenza), perché con le cure mediche e l’assistenza religiosa, possano avere tutti i conforti umani che li aiutino a vivere, a trovare, soprattutto nella solidarietà dentro il dolore, la forza di continuare. Il medico in prima fila che mette il dito nella piaga, come Tommaso, e vuol credere così, è chiamato a dare la sua parte per far trionfare sempre la vita.

BIBLIOGRAFIA

Fedor Dostoevskij – L’IDIOTA – Newton Compton, 2021

Maria Candida Ghidini – DOSTOEVSKIJ – Salerno Editrice, 2017

Etty Hillesum – LETTERE – Adelphi, 2013

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PREGHIERA

Signore Gesù, tu sei davvero glorioso sulla croce,

dove la tua umanità risplende nel dono supremo della vita.

Ridotto in condizioni pietose nel tuo corpo martoriato,

ti riveli grande e dignitoso, forte e nobile,

nel grido accorato verso il Padre che ti abbandona,

nella parola delicata e amorevole verso il ladro pentito,

nel consegnare a tutti noi tua madre.

Non hai nulla da dire a quanti ti hanno condannato ingiustamente:

li perdoni, perché non sanno quello che fanno!

Non hai nulla da lasciare, perché tutto ti è stato tolto:

comunichi a noi il tuo Spirito nell’ultima consegna!

Non hai nulla da operare in quell’ora,

se non aprire il cuore e dare davvero tutto di te!

Lì ti vediamo vero Dio, perché hai solo da dare.

Lì ti vediamo vero uomo, realizzato nel dono supremo della vita.

Adesso comprendiamo perché questo è il tuo insegnamento:

ci hai voluto segnare così,

perché anche noi ci dimostriamo veri uomini nel dono della vita,

per essere partecipi della vita di Dio, che ci fa più umani.

Considera, Signore, questo mondo che tu ami,

che tu vuoi rendere più umano con la tua presenza,

che tu vuoi salvare, ancora crocifisso e ancora risorto,

che tu vuoi elevare dalle miserie che lo rovinano.

Aiutaci a vedere il bene ancora possibile e ancora realizzato,

aiutaci a costruire una umanità migliore, e un mondo più libero,

aiutaci a coltivare con te la speranza per un futuro più pacifico,

aiutaci a risorgere dalla mortalità che ci attanaglia.

Come hai cercato uno ad uno i tuoi amici dopo la risurrezione,

cerca anche noi, che ci siamo allontanati da te,

e che inseguiamo vie distorte e verità insensate,

per farci riscoprire un vivere migliore,

nella verità che sei tu e nella libertà che dai tu!

La tua presenza di Risorto, con i segni del dolore sempre impressi,

ci incoraggi a dare il meglio di noi stessi,

per una pace vera e per una fraternità più grande e più forte.