Per una riflessione al tempo del Coronavirus

A 50 ANNI DALLA MORTE DI GIUSEPPE UNGARETTI

A 100 ANNI DALLA “SPAGNOLA” LA POESIA CI SALVA ANCORA

Introduzione

In questa forzata pausa che ci costringe tutti a casa, ma soprattutto ci vede isolati, non c’è spazio se non per la parola, la nostra e la sua, quella di Dio. E’ la parola semplice e ricca della poesia, quella di sempre e quella che si rinnova in presenza di realtà che impongono all’uomo di non perdersi, di non lasciarsi andare, di non rinunciare ad essere, ad esistere. E l’uomo c’è, soprattutto per la parola, quella che l’ha creato e quella che lui stesso crea, quella che l’ha salvato e quella che lo continua a salvare, perché non abbia a cadere nel nulla. Questa parola, anche a non poterla dire, perché isolati e perché il nostro parlare, aprendo la bocca, potrebbe veicolare il male, può e deve diventare comunicazione di vita, come lo fu anche in altri tempi, in cui la morte ballava vorticosamente mietendo con la sua falce, sia con la violenza, stupida, degli uomini, sia con la violenza, cieca, dei virus. Lì sembrava morta la parola, come se essa avesse il solo spazio della bocca, della gola, dei polmoni pieni d’aria: ma se la morte spegneva ogni alito, allora anche la parola rimaneva spenta. Eppure ci rimane la parola scritta, quella a cui si affida anche Dio per raggiungerci. E la parola scritta risveglia la speranza, fa risorgere la vita, ridona l’alito dello Spirito … purché sia una parola creatrice, come quella di Dio; purché sia una parola salvatrice, come quella del Signore risorto che fa risorgere. E questa parola, proprio perché crea, produce, rivitalizza, procede, come è nell’agire delle persone divine. È la parola della poiesis (=  poiesis), cioè del verbo greco poiew (= poieo), con cui si indica il fare che procede dal cuore, lo stesso fare che appartiene a Dio e che Dio partecipa all’uomo. E’ la parola della poesia, quella innata in ciascuno, perché ognuno di noi, anche senza tecniche particolari, può generare da sé la parola con cui è stato generato e con cui può continuare a generare.

In tempi di morte, o, meglio, di una vita sempre più flebile, perché la morte vorrebbe trionfare, facciamo venir fuori la parola ricreatrice, rivelatrice, rigeneratrice, perché anche così possiamo vincere quel silenzio e quel caos che vorrebbe travolgerci e spegnerci. Si è parlato nel secolo scorso della morte della poesia, perché nessuno più poteva cantare, come diceva l’antico salmista, in presenza di un disastro che aveva annientato la vita di tanti e la speranza di tutti. Si è aggiunta poi la constatazione che insieme con la poesia si era pure spento il poeta, come dava ad intendere nel suo film, “La tigre e la neve”, Roberto Benigni, quando l’amore appare calpestato e, con esso, il senso della giustizia, che è prima di tutto il rispetto e l’onore da tributare ad ogni persona, soprattutto a chi è più debole. E, se pure il poeta si appende “ai salici di quelle terre” insieme con la sua cetra, allora non resta più chi possa elevare la voce, quella del cuore, voce creativa e quindi operativa. Ma la poesia non è mai del tutto spenta, anche quando risultano morti quelli che la creano, perché la poesia alberga nel cuore di chiunque conserva lo spirito vitale, lo spirito creativo e anche in tempi oscuri è capace di far parlare la voce del cuore. Ed è questa poesia, così “naturale”, che dobbiamo far emergere dal cuore, perché questa comunicazione ci è ancora possibile, proprio mentre ci viene richiesta la distanza, la segregazione, l’isolamento. Ci resta la parola. E non è cosa da poco. Soprattutto quando pensiamo che in principio a tutto ci deve essere sempre la parola; anzi, la Parola, quella che facendosi carne assume la fisionomia di ciascuno di noi e ci viene a dire che la Parola, cioè la vita, cioè la persona vivente, va conservata, sempre, anche quando, spegnendosi, non avendo più respiro, verrebbe negato di esserci. Ma la Parola che ha creato l’essere vivente è la stessa Parola che lo fa rivivere, o comunque sentire sempre vivo. E noi così vogliamo sentire anche coloro che in queste ore ci sono stati portati via, davvero strappati anche nella lacerazione già dolorosa della morte, di una morte che non consente più nessun saluto, in quella fisicità che per noi è tanto importante, è davvero di valore. 

La parola con la poesia di Ungaretti

Recuperiamo allora la Parola e anche la nostra parola, quella che ci esce spontanea dal cuore e che può essere poesia, non come artificiosità, ma come espressività profonda, che le attuali circostanze possono far affiorare.

Ci fa da guida un grande poeta, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), che aveva a cuore proprio la parola, mentre aveva sull’orizzonte del suo tempo uno sfacelo, un dissolvimento, una consumazione dell’essere umano. Eppure, anche sul fronte di una guerra insensata, proprio davanti alla carneficina che si consumava sotto i suoi occhi, trovava le parole, semplici e pure per reclamare un sussulto di umanesimo nella totale disumanizzazione di una guerra spietata. Proprio quelle sue poesie, dove le parole non sono puro suono, ma un suono puro, fanno risorgere quella fisionomia umana che sembrava morire insieme con tutta la gioventù mandata al macello. Lui su quel fronte, anche a dover combattere con i fucili, diveniva di giorno in giorno la sentinella per il sorgere di un nuovo mondo, grazie alla poesia. Le liriche composte in trincea diventano poi, dopo la fine del conflitto, la raccolta “Allegria di naufragi”, dove nella catastrofe devastante la sua voce e la sua parola infondono speranza a cui aggrapparsi come ad un relitto, ciò che rimane, insomma, perché un naufrago si salvi, per riprendere poi il suo cammino. Così in effetti troviamo scritto in una sua poesia che apre la sezione de “I Naufragi”.

ALLEGRIA DI NAUFRAGI (Versa il 14 febbraio 1917)

E subito riprende

il viaggio

come

dopo il naufragio

un superstite

lupo di mare

Con lui vogliamo tentare di stare a galla in questo “naufragio” a cui siamo sottoposti da un nemico invisibile e temibile che ha già messo a dura prova tutta la nostra ostentata sicurezza di poter dominare ogni cosa, senza limiti, senza timori, senza freni, senza inibizioni. E invece ci ritroviamo quanto mai sprovveduti, anche a crederci “lupi di mare”, e quindi ben navigati. Non è così. Ci dobbiamo ricredere. Anche oggi, come già allora il poeta, dobbiamo ritrovare le giuste dimensioni e le vere ragioni del vivere. Lo possiamo fare. Lo dobbiamo fare. Lo facciamo seguendo questo magistero che riaffiora a 50 anni dalla scomparsa del poeta.

E ne parliamo a 100 anni da quella grande tragedia che fu la prima guerra mondiale e la vasta epidemia della “spagnola”  che ne accelerò la fine, aggravando ancor di più il tragico computo dei morti.

Poesie a confronto

Avrei l’audacia, quasi la sfrontatezza, di emulare il grande poeta, scrivendo, accanto ai suoi versi, ciò che potremmo oggi dire in presenza di questa pandemia che sta mietendo vittime e sta mettendo a dura prova il nostro vivere, la nostra convivenza, la nostra speranza nel futuro. Ci possono essere d’aiuto le sue parole, scaturite sul fronte della guerra e ancora oggi di valore, e soprattutto vorrei che divenissero stimolo a cercare parole analoghe, sentimenti dello stesso genere, per essere aiutati a riprendere anche noi il viaggio, pur sentendoci superstiti di un naufragio, magari perché ci riteniamo esperti lupi di mare. Ma così non è!

Qui vengono proposte alcune sue poesie, come una specie di diario sofferto, che si accompagna ai giorni più terribili dei combattimenti, quando la guerra si trascinava senza soluzioni e con la prospettiva di un naufragio generale. Collocate nel loro contesto e offrendo di esse un saggio di lettura, per meglio comprenderle, possono costituire lo spunto per elaborare qualcosa di analogo, tentativo qui offerto perché poi il suggerimento favorisca parole dello stesso tenore, in modo tale che ciascuno, in questo ritrovarsi solo sul fronte di una lotta impari, faccia emergere il meglio di sé, quanto lo spirito può suggerire, perché il viaggio continui ….

TRAMONTO  (Versa il 20 maggio 1916)

Il carnato del cielo

sveglia oasi

al nomade d’amore

Nel pieno della guerra il poeta conosce pause di serenità che gli proven-gono da una natura incantevole. Anche un tramonto con il cielo rosato richiama una sorta di carezza che lo sfiora e lo risveglia in uno spazio incantato, come può essere un’oasi nel deserto che gli è familiare. In quei momenti di pace, in quelle isole temporanee di serenità, lui si sente ricercatore d’amore.

Sono ammirevoli questi suoni di lettere che si susseguono all’inizio, quasi dilatandosi per lo spazio, avvertito come un volto intenerito, per poi indugiare in una sillabazione che sembra rincorrere colui che invece fugge, ansimante e anelante d’amore.

Ricerco un abbraccio

che mi risvegli alla vita.

Ma il cielo è lontano …

Oggi, rinchiusi fra quattro mura, ci sembra negato persino l’abbraccio della natura. Ogni alito è avvertito come pestilenziale ed ha in sé germi di morte, che non sono più in grado di risvegliare alla vita. In quella carezza del cielo rosato si avvertiva la vicinanza dello spazio infinito. Ora, invece, questo cielo appare sempre più lontano e magari fino all’estremo di non farci più avvertire neppure la mano carezzevole di Dio. La poesia dice che la ricerca non può mancare, anche ad avvertire la lontananza di Dio. Ma Lui è più vicino di quanto immaginiamo!.

STASERA (Versa il 22 maggio 1916) 

Balaustrata di brezza

per appoggiare stasera

la mia malinconia

La medesima situazione di spazio e di tempo, che sono per il poeta coordinate fondamentali della vita, in cui, a discapito di tutto, compresa la crudeltà della guerra, si può gustare qualcosa di indicibilmente bello: la brezza d’aria che si respira, angolo riposante, invoglia a cercare lì un appoggio per depositarvi la propria tristezza. Il ricorrere delle “a” sembra creare una dilatazione all’infinito di questa sensazione di pace e di riposante serenità, anche a sapere che attorno c’è aria di morte. Come pure i suoni sibilanti e le nasali invogliano ad avvertire e a respirare quell’aria serena, che non fa dimenticare comunque la tristezza del momento. 

Non trovo nessuno

per avere quest’oggi

un soffio di vita.5

Ma ora mancano gli appoggi, manca quella balaustra su cui trovare sostegno, perché sostegno non c’è nell’isolamento totale. Neppure l’alito della brezza vien voglia d’inspirare: c’è in giro l’aria che porta la morte con sé; c’è in giro, sospeso, un virus letale..

DANNAZIONE (Mariano il 29 giugno 1916)

Chiuso fra cose mortali

(anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

Più ci si inoltra, nella tragedia di una guerra sanguinosa, nel carnaio del fronte e più ci si rende conto della propria mortalità. In effetti non si può che essere condannati ad essa, perché essa continua a dominare e a restar sospesa come spada di Damocle. A questo punto anche la bellezza di un cielo stellato, che prima avvertiva in modo sensibile come una carezza, come un sostegno, ora si rivela in tutta la sua “dannata” inesorabilità nel finire. Che senso ha continuare a sperare, continuare a desiderare qualcosa, qualcuno? Eppure il poeta dice di desiderare Dio, anche a non sa-pere perché …

Viene a mancare la vita,

vengono a mancare in tanti:

Dio, dove sei?

Anch’io ti bramo!

Non è sullo stesso orizzonte della poesia di riferimento, ma questa vuol sottolineare la mancanza, l’assenza, la privazione. È la vita che manca, e non è solo quella come principio o come bene concettuale. Manca la vita quando mancano le persone e qui ne vengono a mancare tante. Sembra che manchi con loro Dio stesso! Dov’è mai questo Dio, che noi ci ricordiamo di invocare quando siamo fra le tempeste e in mezzo ai guai, travolti nella nostra mortalità? Dio è comunque dove uno vive, dove ciascuno vive anche il suo ultimo atto, l’attimo estremo della sua esistenza. Non resta a noi altro se non desiderarlo. Il poeta si domanda per-ché lo brami. Noi diciamo semplicemente di bramarlo, proprio quando meno lo avvertiamo presente o ne sentiamo la mancanza..

DESTINO (Mariano il 14 luglio 1916)

Volti al travaglio

come una qualsiasi

fibra creata

perché ci lamentiamo noi?

Sempre nell’epicentro di un conflitto, che si sta più che mai imbarbarendo, come è in ogni conflitto, come è in ogni situazione di male, quando lo Spirito non diventa il nostro alleato per dare il meglio di noi stessi, si ha come la sensazione che il destino ineluttabile ci travolga e ci consumi. È un vero e proprio travaglio. Ma non potrebbe essere il travaglio di un parto? È sempre dolore, ma si patisce pure la sofferenza per far nascere, così come il morire è indubbiamente un dolore grande, ma perché risorga qualcosa di meglio. A che pro, allora, il lamento? Ma è umano! È il lamento di chi sta consumando le proprie fibre perché nasca qualcosa, o, meglio ancora, qualcuno che sia migliore per un mondo migliore, che dia il meglio per un mondo più umano. 

E non dovremmo noi

lamentarci,

piccola fibra

in questo grande universo,

mentre siamo così travagliati?

Potrebbe essere questa una nostra risposta all’interrogativo del poeta. A distanza di anni, mentre sembra che il ciclo della storia si rinnovi – ma non è mai la medesima situazione – è più che mai doveroso il lamento. Come sempre. Come è giusto che sia, soprattutto per chi si sente piccola cosa in questa grande realtà e ha solo la potenza della sua voce per dire la sua struggente parola di dolore. Non ci toglie mai il male, perché il male continua la sua azione nefasta; ma dentro il male ci fa sentire ancora con tutta la nostra energia, la nostra libertà, la nostra dignità. Così, nella nostra fragilità, siamo ancora grandi! È la grandezza di chi anche a saper di morire vuol continuamente dare la vita, perché essa sia più forte!.

SAN MARTINO DEL CARSO (Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916)

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca 

È il mio cuore

il paese più straziato

 

E’ forse tra le liriche più celebri e le più ricordate con questa immagine di paese “sventrato” da azioni militari che hanno ucciso e distrutto. Ma per il poeta le macerie più vere sono quelle di un cuore riempito di tante persone care che “prima” avevano con lui “corrispondenza”, cioè familiarità di vita, perché erano entrati nella sua esistenza, a riempirla. Sono rimasti. Anche se sono ora nel cuore, perché essi fisicamente non ci sono più. Ma questi “brandelli di vita”, che appaiono spenti e spettrali, rivivono nel cuore, mediante quella memoria viva che non si spegne mai. Rimangono, riempiendo di dolore quel cuore, proprio perché essi non ci sono più a continuare la “corrispondenza”, la conversazione di vita. Se le mura si ricostruiscono, chi è stato spento, no. Ma costui appartiene al cuore, e nel cuore ci sono tutti, anche quelli che la storia non ricorda. È il cuore che ancora batte e quindi ancora vive e fa vivere; e soprattutto continua a pulsare nei ricordi vivi, che danno ancora una ragione per vivere.

Di tante cose

posso fare a meno.

Di tanti

non vorrei restare senza.

Di tanti che mi sfioravano

non c’è più

alito di vita.

 

Ma nel cuore – oh, il cuore –

nessuno manca.

 

Di loro, del loro vivere,

non posso fare a meno.

 

Non abbiamo davanti paesi ridotti in macerie dalle bombe, distrutti da un terremoto o sconvolti da una alluvione devastante. Abbiamo oggi paesi “spettrali”, quasi senza più vita, perché il formicolio di gente attiva si è fermato. Ma più ancora abbiamo davanti agli occhi e dentro nel cuore l’immagine di bare condotte al cimitero, ammassate, senza che si possa dare una saluto “personale”, senza che ci sia l’attardarsi anche nel pianto quasi a voler trattenere chi abbiamo sempre avuto caro o cara nel cuore, che continuiamo ad avere, anche a veder strappata la fisionomia in così breve tempo. Non abbiamo neppure lo stretto necessario per capacitarci, per rassegnarci, per trovare nei tanti “perché” senza risposta un conforto. Possiamo fare a meno di tante cose – adesso ce ne rendiamo conto? –, cose che spesso sono davvero superflue. Ma ci sembra un furto sacrilego vederci sottrarre l’immagine di persone care, magari portate via ancora coscienti e lucide per ritrovarcele poi fredde e inanimate. Forse, per questo modo con cui ci sono strappate le persone care, ci rendiamo conto del valore di una “corrispondenza” fra le persone. Proprio per questo “modo”di vivere la morte, così come questa generazione – e non altre – sta vivendo il morire, che pure appartiene a tutte le generazioni, il mondo non potrà più essere davvero come prima. Coltiviamo la “conversazione”, che non è il solo parlare, spesso vacuo, fra noi, ma è la vera “corrispondenza d’amorosi sensi”. Quante persone sono entrate, anche solo sfiorandoci, nel nostro vivere e ciascuna con un tratto inconfondibile, lasciando un segno tutto particolare: qui c’è la ricchezza del nostro vivere, a cui non possiamo, non dobbiamo, rinunciare. Proprio costoro, proprio chi abbiamo conosciuto e sono stati una presenza significativa per noi, morti anni fa o morti in questi giorni dolorosi, non mancano nel cuore. Non possiamo davvero fare a meno di loro, della loro vita, quella che è stata loro negata da una morte che sentiamo ingiusta e che diventerebbe ancora più ingiusta, se non ne raccogliessimo l’anelito, il pur debole respiro che li ha spenti, ma che non si è spento con loro. Ecco come potrebbe essere la nostra lettura oggi, pallida ripresa delle immagini e delle parole più forti di un poeta dalla parola e dai suoni persuasivi ….

 

MATTINA (Santa Maria La Longa il 16 gennaio 1917)

Mi illumino

d’immenso

 

Celeberrima poesia, che, nei due versi e nei suoni che le lettere, così disposte, producono, sembra offrire la sensazione del poeta e di chi la legge che si possa inspirare tutta l’aria che sta intorno, per poi rilasciarla espandendosi nell’immensità dello spazio: in un attimo ci si dilata all’infinito e in un breve spazio si percepisce l’eternità. È l’aria pura di un mattino, anche se ci troviamo nel tempo della guerra; ma c’è un luogo che apre all’infinito e un attimo che dilata alla vastità immensa del tempo. Qui si in-spira e si respira la vita, anche se attorno c’è aria di morte. Ma il vivere è più grande …

Una luce mi rischiara:

il volto di chi ho conosciuto.

Una gioia mi rimane:

l’amore di chi mi ha amato.

Una speranza mi sostiene:

ci rivedremo ancora.

E allora …

m’immergo

nell’immenso.

Non si può riprodurre la ricchezza e la bellezza di questa poesia che sembra povera di parole e che invece nella semplicità di queste parole ci dà la ricchezza straordinaria dell’uomo e del suo vivere, sempre più forte della morte stessa che pur incombe. È irripetibile. E tuttavia possiamo tentare di riprodurre la luce e la serenità che ne deriva perché anche in quest’aria di morte che ci opprime e che ci circonda noi possiamo sentirci sempre immersi nella vita che non finisce, che si dilata, che si arricchisce, nonostante tutto. Se c’è luce, se c’è consolazione, se c’è speranza, allora ci si può immergere: attorno c’è sempre vita, c’è sempre più vita.

Eppure in questa immersione nell’immenso non ci si perde; anzi, si respira in modo più ampio.

SOLDATI (Bosco di Courton luglio 1918)

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

E non è meno nota questa lirica che riproduce la condizione di soldati ridotti a numero, senza identità, in questa affermazione anonima, che spersonalizza chi sul fronte “sta”, continua a stare, pur sapendo della sua precarietà. In piena estate il poeta offre un’immagine autunnale: quella di foglie pronte a cadere dalle piante, anche a starci per un attimo fuggente. Per loro è “naturale” cadere in quel momento. Non così per i giovani mandati al fronte a morire e a uccidere. Così il paragone che vorrebbe equiparare la condizione delle foglie con la situazione dei soldati appare stridente e il vivere umano davvero appeso ad un filo. Tragica condizione di vita di chi non potrà che gustare la morte, propria, o quella di commilitoni, segnando in tal modo la loro esistenza. Il quadro è essenzialmente dato, con i colori autunnali; ma è il dipinto malinconico di chi avverte già aria di distacco, di caduta, di morte. Ma è la guerra! È la tragica condizione di chi è stato mandato al fronte e aspetta, avendo davanti a sé la possibilità, molto concreta, di morire o di veder morire … 

Ed oggi siamo

come germogli

pieni di vita

in una fredda primavera

Anche in questo caso non è possibile riprodurre o imitare un capolavoro che rimane unico. È possibile dire qualcosa di simile, che non sarà mai comunque identico, proprio come nel paragone qui citato non c’è parità fra ciò che succede alla foglia e ciò che può capitare al soldato. Oggi non c’è questa situazione, per quanto ci venga detto che siamo in guerra. E lo siamo con un nemico invisibile, senza che qualcuno ci abbia dichiarato la sua ostilità. E ci siamo tutti, uniti sul medesimo fronte, mentre noi siamo abituati a riconoscerci su fronti avversi e sempre molto ostili.

Ci sentiamo attaccati, mentre ci sentiamo nel rigoglio della vita, quando avevamo la convinzione di essere incamminati verso un avvenire sempre più radioso e positivo, pur in mezzo a tanti mali che ci siamo abituati a combattere, pur sempre fra tante vittime. Dobbiamo imparare a combattere – ancora siamo chiamati ad essere “soldati” – sentendoci sempre germogli che devono sbocciare. Certo, la primavera appare fredda, e qui, ora, divenire sempre più gelida, non per le intemperie di una stagione impazzita, ma per questo alone di morte che ci sovrasta e che ci deve vedere sul fronte sempre pronti a combattere, anche a dover cadere. Non è facile. Ma ci dobbiamo provare, se vogliamo che la vita e l’amore siano davvero più forti della morte.

Conclusione

Questa breve antologia di testi poetici che ci ha portato a far rivivere con Ungaretti un momento delicato della nostra storia, può servire ora a far traghettare in un momento altrettanto drammatico chi si sente più che mai spaesato e soprattutto avvilito in una lotta impari contro un nemico invisibile e mortifero. Come Ungaretti non risolse il dramma della guerra, che si portò con sé anche negli anni a venire, ma trovò in quel frangente la parola vera, la parola giusta, la parola pura per vivere da uomo e da cittadino del mondo un’esistenza piena, così anche noi non potremo scongiurare questa prova tremenda che dobbiamo attraversare  e a cui dobbiamo far fronte con coraggio, ma ci potremo dotare di quelle parole che danno senso al vivere, perché, anche passando in mezzo a una simile tragedia, ne possiamo sortire più fraterni, più solidali, più umani, veri cittadini del mondo. Più che mai lo sentiamo, in questa pandemia che coinvolge tutti, come villaggio globale, in cui il richiamo alla presa di distanza fisica per evitare il contagio, deve diventare in realtà la maniera più giusta per sentirci tutti deboli, come portatori o acquirenti possibili di un male, ma che si devono rafforzare con altre modalità di partecipazione al vivere comune: la consapevolezza di appartenere allo stesso mondo in cui è giusto che ciascuno si scopra nella sua individualità da affermare, senza tuttavia che una simile affermazione debba creare conflitto con gli altri. Anzi; è più che mai opportuno che si torni a comunicare trovando nella parola il denominatore comune con cui condividere le esperienze amare e consolanti, dure e piacevoli, che ci aiutano ad essere più uomini, più uniti in fraternità, più partecipi l’uno con l’altro del vivere che ci uni-sce nello stesso spazio e nello stesso tempo. Come vi ha creduto il poeta che ci ha fatto da guida in questo percorso.

(don Ivano Colombo)