San Giustino: le due apologie e il dialogo con Trifone.

PREMESSA:

IL CRISTIANESIMO E IL PREGIUDIZIO

La religione cristiana si è presentata come una derivazione dal mondo ebraico: fin dalle sue origini, i promotori della sua diffusione, i discepoli mandati “fino agli estremi confini della terra” da Cristo dipendono strettamente dalla sinagoga, che frequentano tutti i sabati per le letture, mentre, passato il sabato, la sera stessa di quel giorno, si trovano nelle case per “la cena”, che diventerà progressivamente la loro riunione caratteristica. Fino al 70, anno della distruzione di Gerusalemme, i cristiani, pur nella diffidenza e nell’ostilità dei farisei e dei sacerdoti del tempio, cercano sempre il contatto con la sinagoga, come vediamo fare da Paolo nei suoi viaggi. E nei primi discorsi che troviamo riassunti da Luca negli Atti degli Apostoli, appare con chiarezza che il Dio di Cristo è sempre quello dei Padri d’Israele, e che dunque deve essere rivendicato questo legame con la storia ebraica. Anche tra la gente comune si riflette questa impostazione: quando a Roma, nel 49, avvengono tumulti a causa delle contestazioni ebraiche nei confronti dei cristiani, dovute a motivo di un certo Cristo, che, per quanto scrive Svetonio (“impulsore Chresto”), sembrava essere il fomentatore delle risse, Claudio volendo la pace e la tranquillità, decide di mandar via tutti, Ebrei e Cristiani. E così accontenta la popolazione che voleva la quiete pubblica. Ma di fatto il decreto di espulsione non va a buon fine, se molti rimangono ed altri confluiscono a Roma, dove, secondo Tacito, arriva di tutto, comprese le superstizioni più vergognose. Lo storico dice questo, mentre sta raccontando che Nerone si defila dalla responsabilità dell’incendio, che lui ha appiccato ad alcuni quartieri della città, accusando i cristiani di questo. Nell’esposizione si deve notare che lo storico ha raccolto alcune informazioni sul Cristo, pur riconoscendo questa fede come una pericolosa superstizione.

Nerone si inventò dei colpevoli e colpì con pene di estrema crudeltà coloro che, odiati per il loro comportamento contro la morale, il popolo chiamava Cristiani. Colui al quale si doveva questo nome, Cristo, nato sotto l’impero di Tiberio, attraverso il procuratore Ponzio Pilato era stato messo a morte; e quella pericolosa superstizione, repressa sul momento, tornava di nuovo a manifestarsi, non solo in Giudea, luogo d’origine di quella sciagura, ma anche a Roma, dove confluisce e si celebra tutto ciò che d’atroce e vergognoso giunge da ogni parte del mondo.

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Perciò si può ben comprendere che, se pochi anni dopo si scatena la repressione degli Ebrei e la distruzione di Gerusalemme, per la loro opposizione in armi al dominio romano, i cristiani devono far di tutto per tenersi alla larga da quel mondo e per creare una immagine di sé che non li associ al mondo ebraico, per quanto esso non possa essere del tutto cancellato. Di fatto i cristiani si trovano a vivere in un mondo che non sembra dimostrare accoglienza, rispetto, considerazione, approvazione. Eppure gli adepti aumentano, anche se dalle fonti sembra che si tratti di gente che sta ai margini della società e che confluisce nel Cristianesimo, sentendo parlare di liberazione dalla schiavitù e di un Regno futuro da vivere nella giustizia e nella fraternità. Così la diffidenza aumenta, come se si avvertisse proveniente da lì una sorta di rivoluzione sociale la quale potrebbe sovvertire il sistema e quindi anche l’equilibrio di potere. Fa specie che anche gli imperatori, definiti “adottivi”, quelli che si succedono dopo Cocceio Nerva (96-98), risultano ostili al mondo cristiano e favoriscano interventi vessatori nei loro confronti. Eppure questi imperatori appaiono capaci di un buon governo, guidati da buoni principi, dediti al-la cultura, ammirati un po’ dovunque. Se le persecuzioni scatenate da Nerone (54-68), prima, e da Domiziano (81-96), poi, apparivano come follie vessatorie di un potere costruito sulla violenza, non altrettanto si deve dire a proposito di ciò che succede con Traiano, il quale risulta uno dei migliori imperatori di questo periodo. Eppure possediamo di lui la risposta data al suo collaboratore nel Ponto, Plinio il Giovane, il quale chiedeva istruzioni sulla questione che comunque il governatore di origini comasche già affrontava con interrogatori e con punizioni esemplari, per quanto non ci fossero giustificazioni di sorta a partire dall’ammissione di colpe e di reati. La sola motivazione per questo accanimento era la pertinacia dei soggetti nel voler perseguire la propria religione, aborrendo quella tradizionale. Così Plinio scrive e chiede delucidazioni a cui Traiano risponde.

È per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani (…) Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte.

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Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furo-no altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. (…) Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. (…) Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata. Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo peri-colo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma.

La risposta lascia perplessi circa il senso di giustizia, perché la colpevolezza riconosciuta dovrebbe essere solo quella di non adeguarsi alle tradizioni religiose, quando si sapeva già che a Roma tutto era di fatto tollerabile, purché non in conflitto con le leggi fondamentali …

Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire …

In presenza di interventi del genere era necessario cercare una risposta adeguata da parte dei cristiani, che spesso subivano il martirio sempre con eroismo, anche a sapere che la loro condanna risultava ingiusta e ingiustificata sulla base della legge comune. Essa era sempre più determinata da una sorta di capriccio dell’autorità locale e per prevenire forme di intolleranza nell’opinione pubblica. Le riunioni dei cristiani nelle case prestavano il fianco a pregiudizi e creavano il sospetto che simili riunioni fossero come delle congiure o covassero trame oscure. Del resto i Cristiani in questo periodo erano occupati a consolidare le comunità dove spesso serpeggiava la disunione a causa dei personalismi, e la questione richiedeva la preparazione adeguata di quanti dovevano sostenere la responsabilità di governo delle comunità stesse.

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Ma non manca la necessità di opporre alle obiezioni formulate da Plinio una risposta che favorisse una conoscenza migliore dei cristiani e di ciò che essi facevano, scongiurando in tal modo il pregiudizio, sulla base del quale non solo si assisteva alle violenze private locali, ma anche alla formulazione di ordini disciplinari da estendere un po’ ovunque nell’impero. Quanto si trova scritto nella corrispondenza fra Traiano e Plinio diventa di fatto una norma da seguire e a cui ci si rifà anche nei secoli successivi per giustificare interventi punitivi. Non abbiamo una specie di incarico affidato per redigere un documento in difesa dei cristiani in simili circostanze; e però c’è chi si assume l’onere con un testo, che sembra rispondere alle obiezioni formulate al tempo di Traiano. Nel II secolo emerge la figura di Giustino, il primo filosofo cristiano …

S. GIUSTINO (100-163/7)

Ciò che sappiamo di lui lo deriviamo dai suoi testi.

Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, … (I apologia I)

Il nome è di chiara derivazione latina; per quanto lui si ritenga samaritano, perché nato nella località che oggi è chiamata Nablus. Dobbiamo ritenere che i suoi vengano da Roma, o comunque dal mondo latino, forse collocati in questo angolo di mondo che doveva essere controllato dopo la distruzione di Gerusalemme e nell’imminenza di un ennesimo scontro che avvenne nel 135, quando l’editto di Adriano stabiliva che gli Ebrei non potessero più stare in Palestina. Sulla base di ciò che troviamo nel suo libro filosofico, Giustino ebbe la possibilità di una buona educazione, se poi la sua giovinezza viene vissuta nella ricerca di natura filosofica, passando da diverse dottrine, sempre appassionato per la verità. Lui stesso si considera filosofo …

Ti dirò come vedo io le cose, dissi. La filosofia in effetti è il pi grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l’animo alla filosofia. Ciò nondimeno ai più è sfuggito che cos’è la filosofia perché mai è stata inviata agli uomini: diversamente non ci sarebbero stati né platonici né stoici né teoretici né pitagorici, perché unico è il sapere filosofico. (Dialogo 2,1)

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Ma la sete di verità, inappagata in tutte le scuole filosofiche percorse, lo fa approdare alla “vera filosofia”, che per lui è il Cristianesimo.

E chi mai si potrà prendere come maestro, feci io, e di dove si potrà trarre giovamento se neppure in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità?

Molto tempo fa, prima di tutti costoro che son tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito …

(Dialogo 7,1)

Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.

(Dialogo 8,1)

Questa sua immagine di filosofo e il lavoro introdotto per cercare di offrire basi razionali alla fede cristiana gli crearono non pochi problemi: nel mondo filosofico ebbe detrattori che lo accusavano di essere uscito dagli schemi comunemente accettati perché un discorso fosse considerato di natura filosofica, e nel contempo anche nel mondo cristiano il suo lavoro di razionalizzazione gli procurava qualche contrasto. Per lui, dunque, profeti dell’Antico Testamento e filosofi greci potevano essere buoni compagni di viaggio per condurre a Cristo, il solo obiettivo da raggiungere nella ricerca; e questo sta alla base del suo lavoro di ricercatore. Anche per le opere che ci sono giunte dobbiamo riconoscere che egli è debitore agli Ebrei e i pagani di quei testi che comunque non possono costituire da soli la base della verità, ma sono semplicemente come pedagoghi che conducono a Cristo, e a lui si deve approdare. Lo dice con estrema chiarezza Benedetto XVI nella sua catechesi, tenuta il 21 marzo 2007.

Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio.

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LE APOLOGIE

Gli scritti apologetici, ancora oggi, sono formulati in difesa della fede e servono a trovare argomenti da opporre a chi mette in dubbio tutto ciò che attiene alla religione o vuol contestare chi crede. In presenza di un diffuso pregiudizio è quanto mai opportuno opporre chiarimenti, anche senza far ricorso a polemiche dominate dall’astio, spesso accompagnato dal sarcasmo. Giustino cerca sempre di ricorrere a buone argomentazioni sulla base del suo armamentario filosofico razionale e, dovendo difendersi utilizza termini e discorsi che possano servire allo scopo, sapendo che il suo documento scritto è rivolto all’autorità suprema dello Stato e ai suoi collaboratori. Non scrive per la gente comune, ma si riferisce a quanti nella loro responsabilità di governo devono considerare i cristiani come sudditi dello Stato e proprio per questo necessitano di un trattamento giusto nella misura in cui anch’essi sono leali verso lo Stato. Esistono due apologie scritte da Giustino: la prima è indirizzata all’imperatore di quel tempo, Antonino detto il Pio (138-161), ma anche “al senato e al popolo romano”, sulla base delle formule in uso; la seconda è inviata al solo senato. Entrambe comunque sono redatte come un appello alle autorità perché prendano in considerazione quanti aderiscono alla religione cristiana per non essere oggetto di vessazioni e di ingiuste persecuzioni.

LA PRIMA APOLOGIA

Appare in maniera evidente da parte dell’autore che la persecuzione in atto nei confronti dei cristiani, anche a non essere dichiarata, come avverrà successivamente, non ha ragion d’essere, per il fatto che mancano reati punibili e tutto si compie sulla base del pregiudizio. Tenendo conto che il primo referente dello scritto è l’imperatore che viene definito “Pio” e che appartiene alla categoria dei filosofi, come è pure il suo successore designato, Marco Aurelio (161-180), lo scrivente, appellandosi alla razionalità, chiede loro di esprimere un giudizio sulla base di un attento esame della questione. Egli non vuole accattivarsi la simpatia e neppure chiedere pietà, ma che si giudichi sulla base di un criterio razionale. Rimane comunque alle autorità la decisione di giungere ad una pena inappellabile, segno che l’autorità può tutto; ma, se essa si fonda dul raziocinio, come è per imperatori filosofi, allora è necessario che il loro intervento censorio abbia un suo senso.

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All’imperatore Tito Elio Adriano Antonino Pio Cesare Augusto e al figlio Verissimo filosofo, ed a Lucio, figlio del Cesare filosofo e, per adozione, del Pio, amante del sapere, al Sacro Senato ed a tutto il popolo romano. Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro. La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false. Infatti la retta ragione suggerisce non solo di non seguire chi agisce o pensa in modo ingiusto, ma bisogna che in ogni modo e al di sopra della propria vita, colui che ama la verità, anche se è minacciato di morte, scelga sia di dire sia di fare il giusto. Voi dunque godete in ogni luogo la fama di essere pii e filosofi e custodi della giustizia e amanti della sapienza: se poi davvero anche lo siete, sarà dimostrato. Eccoci infatti dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame, senza attenervi a pregiudizi né al desiderio di piacere a gente superstiziosa: ritorcereste la condanna contro di voi stessi, con un comportamento irragionevole e seguendo una cattiva fama ormai inveterata. Noi infatti siamo persuasi che non possiamo subire alcun male da alcuno, a meno che si provi che siamo operatori di malvagità o che si riconosca che siamo malvagi: voi potete sì ucciderci, ma non nuocerci. (I Apologia I-II)

Una delle accuse ricorrenti, mosse ai cristiani, è quella di essere atei, mancando ad essi quella forma di “pietas”, che piegandoli al volere di Dio, li fa elevare a Dio stesso. Il fatto che essi invece abbiano elevato un uomo al rango di Dio, tenuto conto poi che è stato condannato a morte in maniera infamante, fa pensare che essi non ricorrano affatto a chi “abita in alto”.

Di qui ci è anche derivata l’accusa di atei. Certo ammettiamo di essere tali ri-spetto a questi supposti dèi, ma non certo rispetto a Dio verissimo, padre di giustizia e di sapienza e di ogni virtù, e immune da malvagità. Lui veneriamo e adoriamo, e il Figlio che da Lui è venuto e che ci ha insegnato queste dottrine, con l’esercito degli altri angeli buoni che Lo seguono e Lo imitano e lo Spirito Profetico: li onoriamo con ragione e verità trasmettendo con generosità quanto abbiamo imparato a chiunque voglia apprenderlo.

(I Apologia VI)

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Dunque, quale persona ragionevole non ammetterà che noi non siamo atei, dal momento che veneriamo il creatore di questo universo e diciamo che Egli non ha bisogno di sangue e di libagioni e di profumi, come ci è stato insegnato, e lo lodiamo, per quanto possono le nostre forze, con espressioni di preghiera e rendimento di grazie per tutto ciò che ne riceviamo, poiché sappiamo che il solo onore degno di lui è non consumare nel fuoco ciò che da lui ci viene per il nostro sostentamento, ma distribuirlo fra noi stessi e a quanti ne hanno bisogno? Sappiamo essergli grati, innalzandogli lodi e inni per essere stati creati e per tutti i mezzi atti a procurarci benessere per tutte le qualità dei prodotti e la varietà delle stagioni, ed elevandogli preghiere per vivere poi nell’incorruttibilità, a nostra volta, attraverso la fede in Lui. Dimostreremo poi che a ragione noi veneriamo Colui che ci è stato maestro di queste dottrine, e per questo è stato generato, Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare; abbiamo appreso che Egli è il figlio del vero Dio, e Lo onoriamo al secondo posto, ed in terzo luogo lo Spirito Profetico. In questo credono di dimostrare la nostra follia, dicendo che noi diamo il secondo posto, dopo l’immutabile ed eterno Dio, creatore di tutte le cose, ad un uomo posto in croce, poiché non conoscono il mistero che vi è dentro: questo vi esortiamo a considerare attentamente, poiché ci apprestiamo a spiegarvelo. (I Apologia XIII)

Giustino aggiunge di essere un suddito fedele dell’Impero, e i cristiani, come del resto nel vangelo è suggerito di dare a Cesare quello che è di Cesare, sono disposti a pagare i tributi, e quindi a servire lealmente lo Stato e addirittura a pregare per le legittime autorità. Seguono puntualizzate le accuse mosse ai cristiani, fra le quali quella di infanticidio, e Giustino risponde che i cristiani non sono affatto come fanno credere tanti pregiudizi accumulati su di loro, disseminando il mondo di falsità e odiosità nei loro confronti. Espone in maniera sintetica ciò che è scritto nei Vangeli per far conoscere la figura di Cristo, sia in riferimento alla sua nascita verginale, sia in riferimento alla sua morte di croce. Non manca neppure il riferimento alla devastazione di Gerusalemme, di cui si trova, come previsione, la traccia anche nel vangelo, scritto in realtà “post factum”: si avverte in Giustino la ricerca di una sorta di “captatio benevolentiae”, perché i suoi interlocutori erano intenti in quegli anni a fare una sorta di bonifica della Palestina dalla presenza degli Ebrei, con l’intento di cacciarli definitivamente da quel territorio, che appariva a loro non sufficientemente sottomesso all’autorità romana. È un incalzare di buone argomentazioni nell’intento di far desistere le autorità dal ricorso alla violenza per avere la meglio dei cristiani, analogamente a quanto veniva fatto in quei tempi agli Ebrei, soprattutto residenti in Palestina.

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E si aggiunge anche l’argomentazione che la violenza non fa desistere i cristiani dal conservarsi tali, anche se non mancano gli apostati.

I cattivi demoni non riescono a persuadere che non esiste il fuoco come punizione per gli empi, così come non poterono tenere nascosta la venuta di Cristo. Solo questo possono fare: che chi vive contro ragione, è cresciuto perversamente nei cattivi costumi ed è schiavo delle false opinioni, ci uccida e ci odi. Noi comunque non solo non li odiamo, ma – come è dimostrato – ne abbiamo pietà e desideriamo persuaderli a cambiare. Infatti non temiamo la morte, poiché sappiamo che, comunque, si muore e che non c’è niente di nuovo, ma in questo ordine di cose ritornano sempre le medesime realtà. Se di esse sente nausea chi ne fruisce anche solo per un anno, per essere per sempre liberi da passioni e da bisogni, occorre approdare alle nostre dottrine. Se poi si mostrano increduli asserendo che non c’è nulla dopo la morte e dichiarano che i morti raggiungono l’insensibilità, a noi fanno del bene, sottraendoci ai patimenti ed alle necessità di quaggiù; mentre, invece, mostrano se stessi malvagi, non umani e schiavi delle opinioni: infatti ci uccidono non per liberarci, ma per i privarci della vita e del piacere.

(I Apologia LVII)

La parte più interessante per noi di questo lungo scritto è quella conclusiva, dove abbiamo la descrizione di ciò che si fa nelle riunioni dei cristiani, tenuto conto delle tante accuse che vengono fatte per quelle assemblee, dove si immaginano nefandezze. Ed invece Giustino presenta con estrema chiarezza la celebrazione del sacramento che introduce alla fede cristiana e quindi il battesimo e poi la celebrazione dell’assemblea domenicale dell’Eucaristia, nella quale troviamo gli elementi essenziali ancora oggi praticati e in alcuni elementi ripristinati dalla riforma conciliare recente.

IL BATTESIMO

Esporremo in quale modo ci siamo consacrati a Dio, rinnovati da Cristo, affinché non sembri che, tralasciando questa parte, viziamo in qualche modo la nostra esposizione. A quanti siano persuasi e credano che sono veri gli insegnamenti da noi esposti, e promettano di saper vivere coerentemente con questi, si insegna a pregare ed a chiedere a Dio, digiunando, la remissione dei peccati, mentre noi preghiamo e digiuniamo insieme con loro. Poi vengono condotti da noi dove c’è l’acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell’acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell’universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo.

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Poiché Cristo disse: “Se non sarete rigenerati, mai entrerete nel regno dei cieli”: è chiaro a tutti che è impossibile, una volta che si sia nati, rientrare nel ventre della madre. E dal profeta Isaia – come prima scrivemmo – è stato detto in che modo sfuggiranno ai peccati coloro che hanno peccato e si pentono. Ecco le sue parole: “Lavatevi, divenite puri, allontanate il male dalle vostre anime, imparate a fare il bene, difendete l’orfano, rendete giustizia alla vedova; allora venite e ragioniamo – dice il Signore. – E se anche i vostri peccati sono come porpora, li renderò bianchi come lana; e se anche sono come cremisi, li renderò bianchi come neve; ma se non mi ascolterete, una spada vi divorerà. Così infatti parlò la bocca del Signore”. E in proposito ecco la ragione che apprendemmo dagli apostoli. Poiché, nulla sapendo della nostra prima generazione, secondo necessità siamo stati generati da umido seme per l’unione dei genitori, e per natura abbiamo cattivi costumi e malvagie inclinazioni, per non rimanere figli di necessità e di ignoranza, bensì di libera scelta e di sapienza, e per ottenere la remissione dei peccati commessi prima, su colui che ha deciso di rigenerarsi e si è penti-to dei peccati si invoca, nell’acqua, il nome di Dio, Padre e Signore dell’uni-verso: e questo solo nome pronuncia chi conduce al lavacro colui che deve sottoporvisi. Nessuno infatti può dare un nome al Dio ineffabile; e se qualcuno osasse dire che ne esiste uno, sarebbe inguaribilmente pazzo. Questo lavacro si chiama “illuminazione”, poiché coloro che comprendono queste cose sono illuminati nella mente. E chi deve essere illuminato viene lavato nel nome di Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato; e nel nome dello Spirito Santo, che ha preannunziato per mezzo dei Profeti tutti gli eventi riguardanti Gesù. (I Apologia LXI)

Non si rileva un intento polemico nella descrizione del Battesimo, dove, rispetto al rito, si dice poco, mentre molto si vuol chiarire circa il senso dell’immersione nell’acqua, non solo volendo spiegare che si tratta di una purificazione, ma anche e soprattutto di una illuminazione. Chi legge, probabilmente non avrà da queste parole una spiegazione esauriente, perché il Battesimo comporta la presa di coscienza dell’appartenenza a Dio, che fa agire diversamente da chi, non illuminando la coscienza, si lascia andare alle forme istintive. Una simile presentazione del gesto purificatore induce a pensare che Giustino non sia preoccupato solo di difendersi da visioni negative che erano diffuse fra la gente ostile al mondo cristiano; qui si parla di “libera scelta e di sapienza”, per cui il rito non ha niente di “misterioso” e di esoterico; esso assume i contorni di una adesione personale, libera e soprattutto ben ponderata. Avvenendo nel nome delle persone divine essa non è adesione ad una dottrina, ma a persone.

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L’EUCARISTIA

Noi allora, dopo aver così lavato chi è divenuto credente e ha aderito, lo conduciamo presso quelli che chiamiamo fratelli, dove essi si trovano radunati, per pregare insieme fervidamente, sia per noi stessi, sia per l’illuminato, sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché, appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti, e di conseguire la salvezza eterna. Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio. Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato; egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: “Amen”. La parola “Amen” in lingua ebraica significa “sia”. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua consacrati e ne portano agli assenti. Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato. Infatti gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: “Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo”. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: “Questo è il mio sangue”; e ne distribuì soltanto a loro. I malvagi demoni per imitazione, dissero che tutto ciò avveniva anche nei misteri di Mitra. Infatti voi già sapete, o potete apprendere, come nei riti di iniziazione si introducano un pane ed una coppa d’acqua, mentre si pronunciano alcune formule. Da allora noi ci ricordiamo a vicenda questo fatto. E quelli che possiedono, aiutano tutti i bisognosi e siamo sempre uniti gli uni con gli altri. Per tutti i beni che riceviamo ringraziamo il creatore dell’universo per il Suo Figlio e lo Spirito Santo. E nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Pro-feti, finché il tempo consente. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.

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Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere; e, come abbiamo detto, terminata la preghiera, vengono portati pane, vino ed acqua, ed il preposto, nello stesso modo, secondo le sue capacità, innalza preghiere e rendimenti di grazie, ed il popolo acclama dicendo: “Amen”. Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati, ed attraverso i diaconi se ne manda agli assenti. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate.

(I Apologia LXV-LXVII)

Anche per questa pagina si deve riconoscere che l’autore non è preoccupato di contestare le voci di popolo circa i contenuti dell’incontro domenicale, dove ci si immagina che avvengano infamità e turpitudini. Qui invece si descrivono esattamente le parti della Messa, comprese quelle che, nelle revisioni successive, sono scomparse e che recentemente sono state ripristinate, quasi derivandole dal testo di Giustino. Va rilevato che la spiegazione della Parola, fatta dal “preposto”, termine da cui poi deriverà quello del “prevosto”, anche se qui designa il presidente dell’assemblea, è parte integrante ed essenziale della liturgia eucaristica, così come la raccolta delle offerte devono servire alla carità e quindi al sostegno dei poveri. È pure da segnalare che la domenica viene qui designata come “il giorno del Sole” (il “Soledì” o Sunday).

LA SECONDA APOLOGIA

Il testo nasce da un episodio avvenuto negli anni di governo di Antonino Pio: la tensione tra un marito dissoluto e la moglie cristiana, che decide di divorziare dopo vani tentativi di portarlo a più miti consigli, arriva in tribunale dove il marito si presenta, accusando la moglie di essere plagiata da un cristiano. Costui viene citato in tribunale e si trova a finire come il vero imputato, a causa del riconoscimento da parte sua di essere cristiano. Egli viene alla fine condannato a morte, come pure coloro che cercano di intervenire in sua difesa.

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Nel tribunale non viene affrontato il diverbio fra marito e moglie, ma solo la questione della confessione, fatta dal consulente della donna, di essere cristiano. Giustino aggiunge di trovarsi nella medesima condizione, a partire dal suo rivale in filosofia che lo accusa di essere ateo, solo perché egli non crede nella mitologia diffusa. Il suo accusatore non porta argomenti di natura filosofica, ma i soliti pregiudizi diffusi tra la gente comune. Nel suo ragionamento Giustino richiama il vero interlocutore della sua opera, che è il filosofo Crescenzio, a rivedere il suo giudizio malevolo sui cristiani, partendo dalla filosofia, analogamente a quello che ha fatto Socrate, sempre aperto alla ricerca. Giustino afferma che Socrate ha riconosciuto il Logos, cioè Cristo, non perché sia suo contemporaneo, ma perché la ricerca della verità mediante la ragione lo messo nella condizione di poter avere un’apertura mentale a quel Cristo che è già presente nel mondo, prima ancora che sia nato, come lo si può vedere nei profeti che ne preannunciano la venuta.

Quelli che vissero prima di Cristo e si sforzarono di investigare e di indagare le cose con la ragione, secondo le possibilità umane, furono trascinati dinanzi ai tribunali come empi e troppo curiosi. Colui che più di ogni altro tendeva a questo, Socrate, fu accusato delle stesse colpe che si imputano a noi: infatti dissero che egli introduceva nuove divinità, e che non credeva negli dèi che la città riteneva come tali. Invece egli insegnò agli uomini a rinnegare i demoni malvagi, autori delle empietà narrate dai poeti, facendo bandire dalla repubblica sia Omero sia gli altri poeti; cercava anche di spingerli alla conoscenza del Dio a loro ignoto, attraverso la ricerca razionale. Diceva: “Non è facile trovare il Padre e creatore dell’universo, né è sicuro che chi l’ha trovato lo riveli a tutti”. Questo è quanto fece il nostro Cristo con la Sua potenza. Infatti a Socrate nessuno credette fino al punto di morire per questa dottrina. A Cristo invece, conosciuto, almeno in parte, anche da Socrate (Egli infatti era ed è il Logos che è in ogni cosa, che ha predetto il futuro per mezzo dei Profeti e per mezzo di se stesso, che si è fatto come noi ed ha insegnato questa verità), credettero non solo i filosofi e dotti, ma anche operai e uomini assolutamente ignoranti, che sprezzarono i giudizi altrui, la paura, la morte. Poiché è potenza del Padre ineffabile e non costruzione di umana ragione. (II Apologia X)

Riconoscendo che la ricerca di Cristo come Logos è sempre presente nel cuore dell’uomo e che dunque Cristo è presente nel mondo prima ancora che compaia nella sua fisionomia umana, Giustino esalta la filosofia e nello stesso tempo, come filosofo, esalta pure la sua scelta di essere cristiano.

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Su questo vuole essere valutato e riconosciuto come giusto, da rispettare e da onorare.

Io confesso di vantarmi e di combattere decisamente per essere trovato cri-stiano, non perché le dottrine di Platone siano diverse da quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, così come quelle degli altri, Stoici e poeti e scrittori. Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, poiché Egli per noi si è fatto uomo affinché, divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori,

attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un’imitazione concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l’imitazione.

(II Apologia XIII)

Di fatto l’Apologia non divenne concretamente una difesa per la scelta di campo, operata da Giustino se lo stesso filosofo finisce negli ingranaggi di una spietata giustizia che lo conduce al patibolo. Abbiamo gli atti del suo martirio, una specie di resoconto notarile dell’interrogatorio a cui fu sottoposto con la conseguenza di finire condannato e giustiziato.

Dopo il loro arresto, i santi furono condotti dal prefetto di Roma di nome Rustico. Comparsi davanti al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: «Anzitutto credi agli dèi e presta ossequio agli imperatori». Giustino disse: «Di nulla si può biasimare o incolpare chi obbedisce ai comandamenti del Salvatore nostro Gesù Cristo». Il prefetto Rustico disse: «Quale dottrina professi?». Giustino rispose: «Ho tentato di imparare tutte le filosofie, poi ho aderito alla vera dottrina, a quella dei cristiani, sebbene questa non trovi simpatia presso coloro che sono irretiti dall’errore». Il prefetto Rustico disse: «E tu, miserabile, trovi gusto in quella dottrina?». Giustino rispose: «Sì, perché io la seguo con retta fede». Il prefetto Rustico disse: «E qual è questa dottrina?». Giustino rispose: «Quella di adorare il Dio dei cristiani, che riteniamo unico creatore e artefice, fin da principio, di tutto l’universo, delle cose visibili e invisibili; e inoltre il Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che fu preannunziato dai profeti come colui che doveva venire tra gli uomini araldo di salvezza e maestro di buone dottrine.

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E io, da semplice uomo, riconosco di dire ben poco di fronte alla sua infinita Deità. Riconosco che questa capacità è propria dei profeti che preannunziarono costui che poco fa ho detto essere Figlio di Dio. So bene infatti che i profeti per divina ispirazione predissero la sua venuta tra gli uomini». Rustico disse: «Sei dunque cristiano?». Giustino rispose: «Sì, sono cristiano». Il prefetto disse a Giustino: «Ascolta, tu che sei ritenuto sapiente e credi di conoscere la vera dottrina; se dopo di essere stato flagellato sarai decapitato, ritieni di salire al cielo?». Giustino rispose: «Spero di entrare in quella dimora se soffrirò questo. Io so infatti che per tutti coloro che avranno vissuto santamente, è riservato il favore divino sino alla fine del mondo intero». Il prefetto Rustico disse: «Tu dunque ti immagini di salire al cielo, per ricevere una degna ricompensa?». Rispose Giustino: «Non me l’immagino, ma lo so esattamente e ne sono sicurissimo». Il prefetto Rustico disse: «Orsù torniamo al discorso che ci siamo proposti e che urge di più. Riunitevi insieme e sacrificate concordemente agli dèi». Giustino rispose: «Nessuno che sia sano di mente passerà dalla pietà all’empietà». Il prefetto Rustico disse: «Se non ubbidirete ai miei ordini, sarete torturati senza misericordia». Giustino rispose: «Abbiamo fiducia di salvarci per nostro Signore Gesù Cristo se saremo sottoposti alla pena, perché questo ci darà salvezza e fiducia davanti al tribunale più temibile e universale del nostro Signore e Salvatore». Altrettanto dissero anche tutti gli altri martiri: «Fa’ quello che vuoi; noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli». Il prefetto Rustico pronunziò la sentenza dicendo: «Coloro che non hanno voluto sacrificare agli dèi e ubbidire all’ordine dell’imperatore, dopo essere stati flagellati siano condotti via per essere decapitati a norma di legge». I santi martiri glorificando Dio, giunti al luogo solito, furono decapitati e portarono a termine la testimonianza della loro professione di fede nel Salvatore.

IL DIALOGO CON TRIFONE

Nel panorama della prima letteratura cristiana questa è indubbiamente un’opera nuova e innovativa. Dato che Trifone è un personaggio appartenente al mondo ebraico, ci si immagina che qui si crei un dibattito tra cristiani ed ebrei, con lo scopo di mettere in campo le basi comuni e nel contempo anche le profonde differenze. Qui il dialogo è piuttosto un genere letterario molto di moda nell’antichità e tipico delle questioni di natura filosofica, con cui si mettevano in campo i diversi orientamenti, per-ché i lettori operassero poi le loro scelte.

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Giustino non dovrebbe avere come scopo quello di convincere il suo interlocutore a lasciare la propria fede e aderire a quella nuova. Se teniamo presente che Giustino è originario della Palestina, anche a non essere ebreo, dovremmo pensare che egli conosca bene quel mondo e che cerchi di contribuire al recupero di questa gente, tenuto conto che essa stava vivendo un momento particolarmente difficile: sotto la cenere della distruzione del 70 covava il risentimento verso il mondo romano, sempre più stanco delle rivolte in corso. Diversa-mente dalle Apologie dove la contrapposizione con il mondo pagano è tale da generare una persecuzioni pregiudiziale fino ad un giudizio di condanna inappellabile, qui non emerge la presa di distanza nei confronti del mondo giudaico, affiorata con le prime incomprensioni e soprattutto con il rischio corso dai cristiani di essere associati agli Ebrei nel comune disprezzo. Qui si tenta di trovare fra cristiani ed ebrei una base comune.

Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l’Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell’arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell’Antico Testamento si siano avverate con l’avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com’era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che quest’opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede. (Wikipedia)

Prevale di fatto una lettura di quest’opera che lascia trasparire una certa diffidenza con il mondo ebraico, anche se il dialogo avviene con metodi rispettosi dell’interlocutore ed argomenti razionali che vogliono fare appello al buon senso. Le interpretazioni successive, soprattutto da parte ebraica, mettono in luce una netta presa di distanza dentro il filone delle opere di provenienza cristiana, che non si rivelano accomodanti con l’ebraismo. E allora il dialogo è solo una formula letteraria, non un serio confronto di idee fra mondi diversi, che sembrano incomunicabili …

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Il confronto con il giudaismo fu ovviamente una delle dinamiche di crescita del cristianesimo fin dalle sue origini (già il vangelo di Matteo è un’apologia del cristianesimo nei confronti del giudaismo), ma il problema per noi è di conoscere la situazione al tempo di Giustino, dopo che, in particolare, le catastrofi del 70 e del 135 avevano del tutto frantumato l’unità nazionale giudaica. (…) I Cristiani d’altra parte denunciano un atteggiamento persecutorio da parte dei giudei, che ha una vivida eco nel nostro Dialogo; se Trifone accenna a una proibizione, da parte dei rabbini, ad avere contatti con i cristiani, Giustino parla di maledizioni contro questi ultimi inserite nella preghiera sinagogale e di persecuzioni ordite a danno dei cristiani dai giudei, i quali anzi con le loro calunnie sarebbero la causa prima delle persecuzioni inflitte dai pagani. (,,,) Gran parte della relativa letteratura era destinata ai cristiani e non ai giudei e mirava non a convincere e a recuperare il giudeo ma a schiacciarlo, in un confronto polemico fittizio ad uso interno, per salvaguardare i cristiani dalla propaganda giudaica e dalle ricorrenti tentazioni di riflusso verso il giudaismo. (…) Il dialogo appare un puro artificio letterario e Trifone risulta essere un “uomo di paglia”, un personaggio di comodo storicamente non credibile, che ha l’unica funzione di offrire il destro alle tesi cristiane. Non un dialogo, quindi, ma un monologo, una imposizione di un punto di vista unilaterale, attuata in modo più sottile, per non dire subdolo, grazie alla parvenza di un libero confronto da pari a pari. Vista così, questa letteratura cessa di essere un dialogo anche in quanto non è rivolta ai giudei, ma sono le loro difficoltà che essa si propone di risolvere, non è la loro con-versione che essa ha a cuore, ma si parla al giudeo perché senta il cristiano (o il pagano).

(Visonà p. 49-53)

Già le prime battute dl dialogo dove i due interlocutori si presentano si rivela la loro impostazione che non potrà avere modifiche nel corso del dialogo, dove prevale evidentemente la tesi cristiana di Giustino nella illusione che possa bastare il suo argomentare a convincere i lettori.

Un fuoco divampò nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua. In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore. Esse infatti incutono un certo timore e sono sufficienti a confondere coloro che deviano dalla retta via, mentre una quiete dolcissima pervade coloro che le mettono in pratica. Se dunque anche tu hai a cuore il tuo destino e reclami salvezza e hai fiducia in Dio – e se non ti senti indifferente al problema – hai la possibilità, una volta riconosciuto il Cristo di Dio e conseguita una completa iniziazione, di raggiungere la felicità.

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Come ebbi detto queste cose, carissimo, i compagni di Trifone scoppiarono a ridere, mentre lui sorrideva tra sé e diceva:

Accetto il resto di quanto hai detto e apprezzo il tuo slancio per il divino, ma forse era meglio se continuavi a esercitarti con la filosofia di Platone o di qualche altro filosofo, praticando la fortezza, la temperanza e la sapienza, piuttosto che farti traviare da simili fandonie e seguire uomini che non sono degni di nessuna considerazione. Finché infatti rimanevi in quel tipo di filo-sofia e conducevi una vita irreprensibile ti restava la speranza di un destino migliore, ma una volta abbandonato Dio e riposta la speranza in un uomo (che è naturalmente Gesù di Nazaret assolutamente non riconosciuto come Dio) quale mai salvezza puoi ancora sperare? Se vuoi prestare ascolto anche a me (ché ti considero ormai un amico) comincia col farti circoncidere, poi osserva, secondo l’uso, il sabato, le feste e i noviluni sacri a Dio, insomma, osserva tutto ciò che è scritto nella Legge e forse troverai misericordia presso Dio. Quanto al Cristo, se mai è nato ed esiste da qualche parte, è sconosciuto e non ha coscienza di sé né potenza alcuna fintanto che non venga Elia ad ungerlo e a manifestarlo a tutti. Voi, invece, raccogliendo una vuota diceria, vi siete fatti un vostro Cristo e a causa sua ora state andando cieca-mente alla rovina. (Dialogo 8)

Probabilmente non c’è stato il tempo per una revisione del testo, dove gli argomenti procedono sulla base di una certa foga argomentativa. Ci sono comunque i tempi cari della polemica antigiudaica in riferimento all’Antico Testamento, che non viene rifiutato, ma che è comunque ritenuto, come la Legge, “pedagogo a Cristo”. Ovviamente deve apparire che al centro ci sia proprio il Cristo, respinto dai Giudei e nel contempo la realtà del Nuovo Israele, rappresentato dalla Chiesa. La sua operazione non risulta comunque credibile e soddisfacente, se non perché egli rivela di citare bene i testi biblici che ha a disposizione, compresi quelli che riguardano il Nuovo Testamento, da poco emerso per iscritto dopo una fase orale. Per quanto egli voglia apparire come un intellettuale con buone doti di filosofo, e insieme rivelare conoscenze di natura teologica, il suo lavoro è ancora acerbo e richiede maggior profondità. Tuttavia è già indicato il percorso di un “dialogo” con le realtà che il mondo cristiano ha davanti a sé per un confronto ineludibile.

Giustino tenta una grande operazione: situare e unificare nel mistero di Cristo la sapienza pagana e la fede giudaica.

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Il Verbo Cristo è la pienezza di ciò che è presente come seme nella prima e come figura nella seconda, così che il Cristianesimo diventa la vera Filosofia e il nuovo Israele. Forse i mezzi non sono adeguati all’intento. Giustino è stato giudicato un mediocre come filosofo, come teologo, come esegeta, come scrittore. In parte è vero: il suo pensiero non è rigoroso, la sua speculazione teologica non è sopraffine, la sua esegesi è impacciata e il suo greco assolutamente scadente. È facile sotto-valutare Giustino e perdere così la corposità del suo contributo, che è un contributo di sostanza che fa forza sui suoi limiti personali, al di sotto dei quali recuperiamo un patrimonio di fede su Dio, la creazione, l’incarnazione, la redenzione, la Chiesa, il battesimo, l’eucarestia, l’escatologia, di una ricchezza e di una saldezza quale è sorprendente trovare in un unico autore della prima metà del II secolo. (Visonà p. 70)

CONCLUSIONE

In una presentazione a volte sommaria di quest’uomo e dei suoi scritti, si insiste all’eccesso sul fatto che siamo in presenza del primo intellettuale cristiano: certamente così voleva essere inteso anche lui. È indubbiamente un primo tentativo di andare oltre il solito proselitismo che faceva presa nella gente comune, per offrire una immagine della nuova religione che cerca di penetrare anche negli ambienti finora negati persino da una certa supponenza dei circoli culturali dell’epoca. Giustino cerca un contatto, per quanto non appaia adatto e sufficiente. È comunque necessario che ci si muova in questa direzione, sia da parte di certa letteratura e filosofia, sia da parte del mondo cristiano, talvolta rinchiuso nei propri schemi e in certi intendimenti dottrinari da esibire senza alcuna discussione. Qui si apre la strada, anche se forse ancora non è chiaro il metodo e neppure sono chiariti i contenuti da offrire per tenere aperto il dialogo. Esso è ancora oggi faticoso, quando prevale la pretesa dottrinaria da imporre o il pregiudizio di chi nega la possibilità di una reale discussione, se la fede e la ragione sono dissociate come realtà inconciliabili. Non si è veri credenti senza la ragione; ma anche certo razionalismo freddo, che rifiuta a priori gli atti di fiducia, pure loro essenziali nel vivere umano, non può fare a meno della fede. Il dibattito sull’argomento rimane vivo e aperto e deve richiedere anche oggi un dialogo aperto e sincero. Va riconosciuto a Giustino lo sforzo sincero di entrare in comunicazione con un mondo che si presenta ostile verso chi aderisce alla fede cristiana. Poi però la forma apologetica e quella di un dialogo unidirezionale non si rivelano adeguati ad entrare in una comunicazione che vuole servire la Verità …

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S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.

S. Clemente nella chiesa di Santa Sofia a Kiev

PREMESSA:

NELL’EPOCA POSTAPOSTOLICA

E LA SITUAZIONE A CORINTO

Fra gli scritti dei primi anni dopo la redazione dei testi neotestamentari (vangeli e lettere apostoliche), spiccano alcuni, che al loro primo apparire vengono catalogati come testi ispirati, e quindi parte integrante del “canone biblico”. Poi però, anche ad essere sempre ben valutati, e a farvi ricorso nelle circostanze che presentano i medesimi problemi, non dovunque sono inscritti nell’insieme dei libri biblici, e di fatto in poco tempo si troverà estromesso da essi. Uno fra i documenti meglio apprezzati e circondati da stima e onore, è la lettera scritta da Clemente, che è il quarto vescovo di Roma, e che assume un rilievo non indifferente nella Chiesa di allora, grazie a questo scritto. Si tratta di una missiva per i cristiani di Corinto, dove continuavano le divisioni già documentate nella prima lettera di S. Paolo ai cristiani di quella città. Siamo comunque a 40 anni circa dal testo paolino; e quindi le persone a cui Clemente si rivolge sono altre; ma il problema persiste, segno di una comunità segnata da questo male, ben radicato. L’apostolo, fin dalle prime battute della sua lettera tocca l’argomento, rilevando la presenza di “partiti”, cioè di gruppi che facevano riferimento all’appartenenza a qualche figura carismatica. Non sembra che ci siano forme di eresie, e quindi di dottrine varie e contrapposte; prevale invece quel tipo di personalismo che non favorisce affatto la familiarità e la fraternità.

1Corinzi, 1,10-12

Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo.

Se anni dopo – siamo alla fine del I secolo – il medesimo clima affiora, vuol dire che un simile malessere è radicato: non basta più la lettera di Paolo, che pur si dovrebbe ritenere un intervento autorevole e da considerarsi indiscutibile; occorre che la figura di spicco in quel periodo prenda posizione, aggiornando la lettura della questione.

Paolo ormai è morto da anni: egli scrive la lettera verso il 58, e scompare dalla scena nel 67, all’epoca delle persecuzioni di Nerone. Corinto era una delle comunità in cui aveva dato il meglio di sé, anche in un periodo particolarmente delicato della sua esistenza. Era arrivato qui, attorno al 49 da Atene, dopo il flop del discorso tenuto all’Areopago, e si era ripreso con l’intervento salutare della coppia, Aquila e Priscilla, che aveva voluto con sé alla ripresa dei suoi viaggi. Poi, però, aveva inviato i suoi ispettori, gli  (= episcopoi, cioè gli ispettori), con l’incarico di sorvegliare l’andamento della comunità. E, non bastando quello che avevano fatto i collaboratori, aveva inviato due lettere, dalle quali era nata una certa corrispondenza. Nella prima, oltre al tema della divisione nella comunità, legata ai personalismi, Paolo affronta diverse questioni, in relazione al fatto che la comunità rivelava in tanti ambiti divergenze che potevano dare adito a spaccature. Anche la questione dell’Eucaristia, per la quale l’apostolo dà il suo primo racconto di ciò che era successo nell’ultima cena, veniva affrontata, perché di fatto non avveniva secondo le ragioni espresse dal Maestro al momento della sua istituzione. L’apostolo rileva che il ritrovo eucaristico aveva perso le sue motivazioni profonde, perché avveniva in un contesto litigioso, o comunque ben poco fraterno, se cia-scuno faceva quel che voleva. In questo modo la comunione, significata dal pane che si mangiava insieme, non era più garantita e prevaleva l’indegnità a presentarsi alla tavola comune.

1Corinzi 11,17-22

Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Come mai vi erano queste divisioni e queste venivano ritenute parti-colarmente gravi sia con Paolo, sia con Clemente? Si potrebbe dire che qui c’è una sorta di “difetto di fabbrica”: Corinto è “un porto di mare”, anche piuttosto importante e frequentato, e la gente che vi soggiornava appariva piuttosto raccogliticcia, provenendo un po’ da ogni dove e risultava in tal modo instabile.

Quindi era facile che anche tra i fedeli della nuova religione potessero annidarsi tipi poco raccomandabili. Del resto la lettera di Paolo segnala un peccato grave da giustificare il suo intervento piuttosto duro: uno vive “more uxorio” con la moglie di suo padre, relazione sgradita e biasimevole anche per chi non è cristiano e inaccettabile per chi lo è, e avverte la cosa come uno scandalo vergognoso.

1Corinzi 5,1-5

Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!  Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù,  questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore.

Siamo dunque in presenza di una comunità dove le divisioni non succedono solo sulla base di questioni dottrinali, come sempre più spesso avviene alla fine del I secolo, e quindi negli anni del pontificato di Clemente. C’è piuttosto quel genere di contenzioso che mette gli uni contro gli altri, nel desiderio di prevalere e nella prospettiva di esercitare appropriazioni indebite, soprattutto nei rapporti personali: questi erano sempre più deteriorati perché prevalevano interessi privati, e di conseguenza esplodevano le forme possessive a danno di altri. Se una simile concezione di vita serpeggia anche fra i cristiani, allora la dottrina stessa è in pericolo, perché si viene meno all’essenziale del Vangelo, che raccomanda apertura agli altri, senso di fraternità, dono vicendevole … Di solito, nell’analisi dei problemi presenti fra i cristiani in questo periodo, si tende ad insistere sul proliferare di dottrine eretiche, legate a deviazioni dalla proposta evangelica che appare molto esigente. Già nei testi neotestamentari dilagano le raccomandazioni a non lasciarsi ingannare da dottrine inconsistenti e fuorvianti, che un po’ dovunque si formano e si diffondono. Questo capita già negli anni in cui sono ancora viventi e operanti gli apostoli: a loro ci si rivolge per avere la garanzia che la Chiesa nel suo insieme non defletta dal Maestro e si mantenga fedele a lui. Quando però essi scompaiono, e in particolare non ci sono più né Pietro né Paolo, uccisi nella bufera neroniana, occorre trovare un ceto dirigente in grado di figurare credibile e autorevole con tutti, anche nelle comunità più dissite.

Nei suoi viaggi Paolo aveva legato a sé le diverse comunità create o incontrate, e, sia mediante lettere, sia mediante gli ispettori da lui inviati, come Timoteo e Tito, aveva tenuto sotto controllo gruppi diversi. Alla fine del I secolo, ultimo fra gli apostoli, rimaneva Giovanni, piuttosto avanti negli anni, secondo tradizioni diffuse sul suo conto. Già a lui ci si era rivolti in mezzo alla stessa persecuzione in cui è implicato Clemente, perché sostenesse le comunità frastornate da una situazione pesante; e lui aveva risposto con l’Apocalisse, una visione del cammino della Chiesa in mezzo ai mostri che la vogliono insidiare, per cui è necessario “togliere la coltre di male” e vedere sotto il disegno di Dio sempre “in fieri”. Il passaggio all’età successiva, post-apostolica, richiedeva la presenza di personaggi autorevoli e tali da risultare accetti anche oltre il proprio territorio. Il caso di Clemente emerge in un simile contesto: egli non è prestigioso solo perché si presenta come vescovo di Roma, e quindi successore di Pietro, ma perché, intervenendo con la sua lettera nei confronti di una comunità instabile e litigiosa, si rivela un punto di riferimento, accettato unanimemente, anche fuori della sua Chiesa. Con lui non abbiamo ancora il “Papa” come lo intendiamo oggi, ma qualcosa del genere sta emergendo: del resto, anche oltre Corinto, questa lettera viene conosciuta e apprezzata. Troviamo per la prima volta che il vescovo di Roma viene consultato e ricercato come riferimento per garantire l’unità alla Chiesa stessa. Così il suo messaggio viene accettato, condiviso e seguito. Ovviamen-te è un testo meritevole, e tale da dar lustro allo scrivente. Nello stesso tempo si inizia a riconoscere che il Papa può essere fatto intervenire per diverse questioni, e così avverrà sempre più già nel II secolo. Non sempre la consultazione del Papa porta alla soluzione del problema messo sul tappeto e alla formulazione di una linea condivisa. Fra Papa Aniceto (155-166) e il vescovo di Smirne, Policarpo (69-155), viene discussa la data della Pasqua, ma non si raggiunge l’intesa; e tuttavia è Policarpo a consultare il Papa. Così l’intervento di Clemente fa riconoscere che in presenza di questioni dibattute e controverse, il referente da consultare è ormai sempre più chiaramente il vescovo di Roma. E Clemente assume un ruolo significativo.

CLEMENTE

Stupisce il fatto che, in presenza di un testo sicuro sotto il profilo storico e di notevole importanza per il contenuto, non siano allo stesso modo sicure le notizie circa il personaggio, sul quale si possono fare alcune congetture e trovare testi di contenuto leggendario. Un personaggio di nome Clemente è citato da Paolo nella lettera ai Filippesi, ma non è possibile che si possa risalire a lui.

Filippesi 4,1-3

Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

C’è chi sostiene che da parte di Pietro gli siano state imposte le mani per divenire vescovo. Se così è, si deve pensare che fosse di Roma, o comunque che abitasse lì. Sulla base di questa supposizione qualcuno lo identifica con un personaggio influente di nome Clemente, che appartiene alla gens Flavia, dominatrice della scena sul finire del I secolo. Il capostipite della famiglia “Flavia” in quel periodo è Vespasiano (69-79), divenuto imperatore, dopo aver fatto la sua carriera come un funzionario scrupo-loso e come un generale rigoroso, capace di imporsi nell’anno dell’anar-chia totale, successiva alla morte di Nerone (68). Già i due figli che gli succedono rivelano la presenza di squilibri: Tito (79-81) non ebbe modo di farli esplodere perché morì presto; Domiziano (81-96) invece, dopo anni di un governo dispotico, fu tolto di mezzo in una congiura. Proprio costui avrebbe eliminato il rivale, appartenente alla medesima famiglia e che portava il nome di Clemente. Si è pure ipotizzato che coincidesse con il Papa, avendo lo stesso nome. Ma di fatto non è così. Del resto Papa Clemente forse è morto in esilio, e la segnalazione di un culto diffuso in Crimea e in Ucraina, avvalora questa tesi. Per questo motivo, essendo lon-tano da Roma, e impossibilitato ad esercitare la sua carica, si ritiene che abbia dato le dimissioni e sia morto lontano dall’Urbe, senza finire martire. Qui interessa il testo della lettera la cui paternità è certa.

PRIMA LETTERA AI CORINZI

DI CLEMENTE

Anche ad essere di un autore originario di Roma, che comunque non si cita con il suo nome, la lettera è redatta in lingua greca, anche perché è riservata ad una comunità di quel mondo. Chi scrive ricorre al “noi”, anche perché rappresenta l’insieme della Chiesa che risiede a Roma, e si rivolge analogamente ad una Chiesa sorella che risiede a Corinto. Vi si respira un autentico senso di fraternità, nonostante l’intervento sia stato richiesto per dirimere le divisioni presenti. Per i riferimenti al martirio di Pietro e di Paolo e di altri esponenti della Chiesa e per il clima persecutorio che ancora aleggia a Roma si deve pensare che questa lettera sia proprio degli ultimi anni del secolo, e riflette il medesimo clima di persecuzione che si avverte nell’Apocalisse di Giovanni, che potrebbe essere coeva. La persecuzione a cui si fa riferimento è quella prodotta da Domiziano, già indotto in modo maniacale a colpire diverse credenze religiose, mentre lui si avviava al riconoscimento di sé come “Dominus et Deus”.

La Chiesa di Dio che è a Roma alla Chiesa di Dio che è a Corinto, agli eletti santificati nella volontà di Dio per nostro Signore Gesù Cristo. Siano abbondanti in voi la grazia e la pace di Dio onnipotente mediante Gesù Cristo. Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l’una dietro l’altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all’empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso. Chi, fermandosi da voi, non ebbe a riconoscere la vostra fede salda e adorna di ogni virtù? Ad ammirare la vostra pietà cosciente ed amabile in Cristo? Ad esaltare la vostra generosa pratica dell’ospitalità? A felicitarsi della vostra scienza perfetta e sicura? Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona, e camminavate secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri anziani. Esortavate i giovani a pensare cose moderate e degne. Raccomandavate alle donne di compiere tutto con coscienza piena, dignitosa e pura, amando sinceramente, come conviene, i loro mariti; insegnavate a ben accudire alla casa, attenendosi alla norma della sottomissione e ad essere assai prudenti. Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Con-tenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi. Così una pace profonda e splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e una effusione piena di Spirito Santo era avvenuta su tutti. Colmi di volontà santa nel sano desiderio e con pietà fiduciosa, tendevate le mani verso Dio onnipotente, supplicandolo di essere misericordioso se in qualche cosa, senza volerlo, avevate peccato. Giorno e notte per tutta la vostra comunità vi adoperavate a salvare con pietà e coscienza il numero dei suoi eletti. Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza rancori. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile. Vi affliggevate per le disgrazie del prossimo e ritenevate le sue mancanze come vostre. Senza pentirvi mai di ogni buona azione, eravate pronti ad ogni opera di bene. Ornati di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i comandamenti e i precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro cuore. Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e prigionia.

Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. Per questo si sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la quale anche “la morte venne nel mondo”. (I-III)

Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. (V)

Già nell’avvio di questa lunga lettera è posta la questione che giustifica un simile intervento: c’è la divisione rovinosa e si suggerisce di seguire l’esempio di coloro che hanno superato il male attraverso il martirio. Poi l’autore, con una serie di citazioni bibliche e di esempi desunti dalla Scrittura, insiste sulla necessità di salvaguardare l’unità, mediante l’umiltà, lo spirito di servizio: proprio le persone dedite al sacrificio sono coloro che devono essere considerate degne di imitazione. Tra i capi c’è sempre il rischio di trovare chi cerca il proprio interesse: di qui la necessità di una scelta giusta e di una formazione adeguata.

I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero.

Sarebbe per noi colpa non lieve se esonerassimo dall’episcopato quelli che hanno portato le offerte in maniera ineccepibile e santa. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse allontanati dal posto loro stabilito. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore. (XLIV)

Qui è affrontato il tema della successione apostolica, che risulta essere l’argomento principale di questa lettera, scritta nell’intento di verificare questo passaggio ormai in atto un po’ dovunque nella Chiesa. Probabilmente anche l’autore, che è a capo della Chiesa madre di Roma, ha riscontrato non pochi problemi circa questo passaggio, se si deve dare peso alla notizia che abbiamo circa la sua consacrazione a vescovo di Roma come successore di Pietro, senza che poi, alla morte di costui, gli subentrasse nel ministero. Tra lui e l’apostolo, di fatto, ci sono di mezzo altre figure che sono prevalse e che lui non avrebbe ostacolato nel diventare vescovi di Roma per conservare la pace nella Chiesa. Questo è comunque il segnale che ci possono essere state, se non delle divisioni, almeno dei contrasti in relazione a chi poteva essere considerato più degno della successione o come l’erede designato dallo stesso Pietro. In effetti i passaggi fra una autorità e l’altra sono sempre delicati, un po’ ovunque; e anche nella Chiesa si richiede che vengano individuati criteri piuttosto chiari per garantire una successione condivisa da tutti. Le parole qui usate ri-flettono comunque una situazione che non si è rivelata facile, soprattutto se alcune persone – come potrebbe essere per lo stesso Clemente – sono state ostacolate, nonostante avessero i requisiti richiesti. E questo vale anche a Corinto: forse è questa la ragione più importante perché il vescovo di Roma intervenga nelle tensioni in atto. Di qui l’accorato appello all’u-nità sulla base dell’appartenenza all’unico Dio e all’unico Cristo. Già dai primi tempi della Chiesa, dunque, le contese si fanno sentire e i richiami all’unità non si contano.

Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore.

Disse, infatti: “Guai a quell’uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che pervertire uno del miei eletti”. Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo. Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all’inizio della sua evangelizzazione? Sotto l’ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo (Apollo) stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna. E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si è ribellata ai presbiteri. E tale voce non solo è giunta a noi, ma anche a chi è diverso da noi. Per la vostra sconsideratezza si è portato biasimo al nome del Signore e si è costituito un pericolo per voi stessi. (XLVI-XLVII)

Sempre più accorato si fa l’appello all’unità, riconoscendo comunque che sono pochi i fomentatori del dissenso. Ciò che sconcerta è comunque il fatto che essi trovino consensi anche fra gente che rimane salda nella dottrina, per quanto segua personaggi non degni della carica che rivestono o che vogliono rivestire. Quindi non siamo in presenza di una divisione sulla base della dottrina, quanto piuttosto sulle forme di arrivismo che trovano spazio anche nella Chiesa, causando in essa la tensione e soprattutto una immagine poco credibile. Di qui l’intervento di Clemente che fa appello alla lettera di Paolo, nella quale si evidenzia il medesimo problema e il medesimo disagio. Si deve riconoscere in queste parole che la soluzione ai problemi va ricercata nei testi divenuti autorevoli degli apostoli e quindi nell’appello alla Scrittura. Il peccato di Corinto è sostanzialmente la ribellione ai “presbiteri”, che fa pensare ad uno scisma in corso, non tanto per questioni dottrinali, quanto piuttosto per il riconoscimento o meno dell’autorità nella Chiesa.

Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della vostra lingua. E’ meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza.

Così parla la sapienza maestra di virtù: “Ecco, io emetterò per voi una parola del mio spirito e insegnerò a voi il mio discorso. Poiché chiamai e non ascoltaste, prolungai i discorsi e non foste attenti, ma frustraste i miei consigli e disobbediste ai miei richiami. Anch’io riderò della vostra rovina, e mi rallegrerò se arriverà lo sterminio su di voi e se improvviso giungerà il tumulto e sovrasterà la catastrofe simile al turbine e quando avverranno l’angoscia e l’oppressione. Accadrà che voi m’invocherete e non vi ascolterò; i cattivi mi cercheranno e non mi troveranno. Odiarono la sapienza, non vollero saperne del timore del Signore, né vollero ascoltare i miei consigli e disprezzarono le mie esortazioni. Per questo mangeranno i frutti della loro condotta e si sazieranno della loro empietà. Saranno uccisi per aver commesso ingiustizie contro i fanciulli e il giudizio distruggerà gli empi. Chi mi ascolta riposerà fiducioso sulla speranza e vivrà tranquillo lontano da ogni male”. (LVII)

Qui il tono si fa duro e assume il linguaggio ben noto nei testi scritturistici da parte dei profeti che si appellano al Mosè del Deuteronomio, preoccupato lui pure che al suo venir meno sia garantita nel popolo ebraico, sempre diviso, un’autorità indiscussa e indiscutibile; proprio per questo Mosè ricorre al giovane Giosuè, che appare dominato dai suoi trascorsi militari e che dunque interviene con mano pesante. Qui non si arriva a tanto e tuttavia l’autore si fa sentire con una certa forza, perché il male presente appare come una cancrena da togliere con il bisturi.

LA PREGHIERA

Segue una lunga preghiera, che viene introdotta come se l’autore venisse ispirato da ciò che sta dicendo in maniera accorata, perché solo da Dio è possibile scongiurare questo male nella Chiesa. È uno dei primi testi di preghiera, che troviamo al di fuori delle fonti bibliche …

Noi saremo innocenti di questo peccato e chiederemo, con preghiera assidua e supplica, che il creatore dell’universo conservi intatto il numero dei suoi eletti che si conta in tutto il mondo per mezzo dell’amatissimo suo figlio Gesù Cristo Signore nostro, col quale ci chiamò dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso, a sperare nel tuo nome, principio di ogni creatura: Tu apristi gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te, il solo altissimo nell’altissimo dei cieli, il santo che riposi tra i santi, che umilii la violenza dei superbi, che sciogli i disegni dei popoli, che esalti gli umili e abbassi i superbi.

Tu che arricchisci e impove-risci, che uccidi e dai la vita, il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne, che scruti gli abissi, che osservi le opere umane, che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati, creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra, e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo, l’amatissimo tuo figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato. Ti preghiamo, Signore, sii il nostro soccorso e sostegno. Salva i nostri che sono in tribolazione, rialza i caduti, mostrati ai bisognosi, guarisci gli infermi, riconduci quelli che dal tuo popolo si sono allontanati, sazia gli affamati, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, consola i vili. Conoscano tutte le genti che tu sei l’unico Dio e che Gesù Cristo è tuo figlio e “noi tuo popolo e pecore del tuo pascolo”. Con le tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo. Tu, Signore, creasti la terra. Tu, fedele in tutte le generazioni, giusto nei tuoi giudizi, mirabile nella forza e nella magnificenza, saggio nel creare, intelligente nello stabilire le cose create, buono nelle cose visibili, benevolo verso quelli che confidano in te, misericordioso e compassionevole, perdona le nostre iniquità e ingiustizie, le cadute e le negligenze. Non contare ogni peccato dei tuoi servi e delle tue serve ma purificaci nella purificazione della tua verità e dirigi i nostri passi per camminare nella santità del cuore e fare ciò che è buono e gradito al cospetto tuo e dei nostri capi. Sì, o Signore, fa’ splendere il tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la tua mano potente e scamparci da ogni peccato col tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l’onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da te. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen. (LIX-LXI)

Qualcuno arriva a considerare la preghiera come una specie di anafora (o preghiera eucaristica), nella quale ha il suo peso anche il riferimento alle autorità civili. Per esse i cristiani sono chiamati a pregare, anche quando queste si rivelano ostili. Sulla base di ciò che troviamo raccomandato anche nelle lettere di Paolo, in cui i cristiani sono invitati a supplicare Dio per chi governa, chiunque egli sia, si deve ritenere quanto mai necessaria la preghiera come appello a Dio, perché la funzione e l’esercizio del governo siano vissuti a favore del bene comune, che è innanzitutto la salvaguardia dell’unità e della fraternità. Così la questione che sembra circoscritta alla Chiesa e in particolare a quella locale, con il richiamo all’autorità civile si estende a comprendere un po’ tutti, per la custodia del mondo, la sua pace e la sua tranquillità. È davvero un bell’esempio dello stile di preghiera solenne che i capi ecclesiastici di quel tempo esprimevano nelle riunioni per il culto. Ritenere che sia una preghiera di tipo eucaristico non sembra avere riscontro nella realtà, perché manca ogni riferimento all’eucaristia, perché non si trovano le parole della consacrazione, perché non si trovano le espressioni proprie e inconfondibili delle anafore, laddove si invoca la presenza dello Spirito e si fa riferimento al sacrificio di Cristo. Tuttavia nelle preghiere eucaristiche ancora in uso si trovano invocazioni per l’unità della Chiesa, per la fraternità fra gli uomini, per il richiamo al servizio dell’unità da parte di autorità ecclesiastiche e civili. Si tratta dunque di un testo considerato di valore un po’ sempre. La lettera si conclude con le esortazioni finali che richiamano i temi fondamentali della lettera e con l’invio di una delegazione che permetta di conservare i rapporti con la comunità secondo lo stile dell’apostolo Paolo, nella speranza che si possano avere i frutti sperati.

Fratelli, vi abbiamo scritto abbastanza sulle cose che convengono alla nostra religione e sono utili a una vita virtuosa per quelli che vogliono osservare la pietà e la giustizia. Abbiamo toccato tutti i punti che riguardano la fede, la penitenza, la vera carità, la continenza, la saggezza e la pazienza.

Vi abbiamo ricordato che nella giustizia, nella verità e nella magnanimità bisogna piacere santamente a Dio onnipotente, amando la concordia, dimenticando le offese, nell’amore e nella pace con una benevolenza continua, come i nostri padri, di cui abbiamo già parlato, si resero graditi con l’umiltà verso il Padre, Dio e creatore, e tutti gli uomini. E questo abbiamo ricordato con piacere, perché eravamo certi di scrivere a fedeli eccellenti che hanno approfondito le parole dell’insegnamento di Dio. E’ giusto che noi con tali e tanti esempi sottostiamo, prendendo il posto dell’obbedienza. Desistiamo dalla vana sedizione per raggiungere senza biasimo lo scopo propostoci nella verità. Ci darete esultanza di gioia se, divenuti obbedienti a ciò che vi abbiamo scritto mediante lo Spirito Santo, smorzerete la collera ingiusta della vostra gelosia, secondo l’esortazione fatta in questa lettera alla pace e alla concordia. Vi abbiamo inviato uomini fedeli e saggi, vissuti in mezzo a noi con modi corretti dalla gioventù alla vecchiaia, che saranno testimoni tra noi e voi. Abbiamo fatto questo perché sappiate che ogni nostro pensiero è stato ed è che ritroviate presto la pace. Dio che tutto vede ed è padrone degli spiriti e signore di ogni carne, che ha scelto il Signore Gesù Cristo e noi mediante Lui ad essere suo popolo, conceda ad ogni anima che implora il suo mirabile e santo nome, fede, timore, pace, pazienza e magnanimità, continenza, purezza e prudenza. E sia gradita al Suo nome per mezzo del sommo sacerdote e nostro protettore Gesù Cristo, per il quale sia a lui la gloria, grandezza, potenza e onore, ora e nei secoli dei secoli. Amen. Rimandateci presto nella pace e nella gioia i messaggeri da noi inviati, Claudio, Efebo e Valerio Bitone con Fortunato perché ci annunzino quanto prima la pace e la concordia invocate e desiderate, e presto noi ci rallegriamo della vostra serenità. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi e con tutti quelli ovunque chiamati da Dio per mezzo Suo e a Lui sia gloria, onore, potenza e maestà e regno eterno, dai secoli nei secoli dei secoli. Amen. (LXII-LXV)

La lettera appare conclusa con la segnalazione dell’invio della delegazione; ma poi viene riaperta, perché l’autore si premura di sollecitare il rinvio della delegazione, dalla quale ci si aspettano risultati positivi e quindi la notizia del ritorno all’unità, dopo aver estirpato le divisioni e soprattutto le cause che l’hanno creata. Ciò significa che è possibile comminare degli anatemi, mediante i quali chi fomenta lo scisma, possa essere, secondo il significato della parola “anatema”, tagliato via dalla comunità per farvi ritornare la concordia. Il richiamo è fatto con S. Paolo, che aveva parlato così con i Corinzi di 40 anni prima. Clemente appare nella finale meno duro, volendo fare appello alla coscienza dei Corinzi.

SECONDA LETTERA DI CLEMENTE

Questa lettera viene attribuita a Clemente, ma già nei primi tempi della Chiesa non era considerata sua, e veniva ritenuta posteriore di circa 50 anni. È S. Girolamo a dire che “si riporta una seconda sua lettera, che fin dai tempi antichi non viene riconosciuta sua”. Di fatto è un testo della metà del II secolo: la lettera, anche se appare nei toni come un’omelia, viene attribuita a lui, perché nei codici appare associata alla prima lettera. È di fatto un sermone su vari argomenti e con diverse citazioni evangeliche dedotte da Matteo e Luca, che hanno fatto pensare ad un testo in cui i due evangelisti vengono come armonizzati per dare origine a un nuovo vangelo. I temi trattati riguardano principalmente l’autocontrollo, il pentimento e il giudizio.

Fratelli, questo è il concetto che dobbiamo farci di Gesù Cristo: considerarlo quale Dio, quale giudice dei vivi e dei morti; e non dobbiamo tenere in poco conto la nostra salvezza. Se noi abbiamo un meschino concetto di Lui, è meschino anche l’oggetto della nostra speranza. Chi ascolta queste cose e le reputa piccole, pecca; e noi pure pecchiamo, se ignoriamo donde fummo chiamati e da chi e a quale luogo destinati e quante sofferenze volle sopportare Gesù Cristo per noi. Qual compenso gli daremo noi, o quale frutto, degno di quello che ci fu donato da Lui? Di quali benefici non siamo debitori a Lui? Egli ci prodigò la luce; come un padre ci chiamò suoi figli e ci salvò quando perivamo. Quale lode dunque o quale compenso, daremo noi a Lui per le grazie ricevute? Noi eravamo ciechi d’intelletto, adoravamo oggetti di pietra, di legno, d’oro, d’argento e di bronzo, opere umane; e tutta la nostra vita non era altro che morte. Eravamo circondati da oscurità, i nostri occhi erano pieni di nebbia; per volere di Lui riacquistammo la vista e dissipammo la nube in cui eravamo avvolti. Egli ci usò misericordia e ci salvò, mosso a compassione alla vista dei nostri molteplici errori e della rovina in cui giacevamo senza alcuna speranza di salute fuori di quella che viene da Lui. Egli ci chiamò quando ancora non eravamo, e dal nulla volle che passassimo all’esistenza.

Dà l’impressione di un testo che raccoglie, a mo’ di frasi fatte, una specie di apoftegmi, cioè di detti sentenziosi, che possono far presa per la loro brevità ed essenzialità. Anche per questo la lettera si conservò …

CONCLUSIONE

La prima lettera, più che il suo autore, rappresenta un documento notevole circa il cammino della Chiesa, con la visione qui espressa dell’autorevolezza legata al successore di Pietro. Noi oggi abbiamo una visione del “primato petrino” che fa leva su aspetti di natura giuridica, legata anche ad una tradizione storica, in cui la missione di Pietro si è ammantata di un potere giurisdizionale che sconfina poi nella natura politico – istituzionale: il Papa ha un ruolo primaziale, che l’ha fatto persino diventare un sovrano con tanto di territorio da governare e dei sudditi a cui provvedere. Certamente questo ha pure giovato al suo servizio nella Chiesa, ma di fatto ha creato non pochi motivi di divisione, che si sono trasformati in scismi. Sono ben noti quelli che la storia registra come fenomeni traumatici, che hanno prodotto scomuniche, incomprensioni e confini invalicabili nella dottrina, come si vede con il mondo orientale; ma non è da meno quello che si ebbe al tempo del superamento della cattività avignonese, quando si giunse ad avere addirittura tre papi e a far prevalere la tesi conciliarista della superiorità del Concilio rispetto al Papa, senza comunque giungere ad una situazione ancor più traumatica. Questa si produsse con l’avvento della Riforma e con lo strascico delle guerre di religione. Simili venti rovinosi sono un po’ sempre presenti nella Chiesa e spesso si rafforzano proprio sulla figura e sull’azione del Papa, nonostante che si sia tentato di rafforzare la sua missione con la tesi dell’infallibilità: problemi simili a quelli segnalati nella lettera di Clemente tormentano la Chiesa nella storia e anche nel momento attuale. I tentativi di dissociarsi dal Papa, di non riconoscerne l’autorità e le parole, hanno contribuito, e contribuiscono ancora, alla creazione di gruppi scismatici, dove possono allignare eresie e dottrine, che si sono allontanate dalla retta fede. Secondo l’autore della lettera la causa di simili rotture dipende dalle forme di personalismo e di soggettivismo che stanno trionfando anche nell’ora presente. Inoltre il peso di una tradizione che ha fatto prevalere una visione di natura giuridica nel ruolo del Papa, più che un suo servizio primaziale nell’ambito spirituale ha ulteriormente prodotto tensioni di non facile soluzione. La visione di tipo giuridico, dunque, non ha giovato a conservare e ad accrescere l’unità della Chiesa. In questo primo intervento autorevole avvenuto al di fuori della propria Chiesa, Clemente rivela che con l’autorevolezza, senza mai sconfinare in un potere giuridi- camente inteso, si può operare nella linea evangelica di confermare i fra-telli nella fede, come Cristo afferma nel vangelo, sostenendo di volere Pietro con questo servizio nella Chiesa.

È una indicazione significativa, che anche recentemente, con Giovanni Paolo II, si è fatta strada per una rivisitazione della missione di Pietro nella Chiesa, in cui si confermi ciò che è scritto nel vangelo, senza le sovrastrutture che si sono create nel corso dei secoli, quando di fatto si è rischiato di snaturare il compito di Pietro. Così la lettera induce a ritenere il compito del Papa, davvero necessario per garantire l’unità nella Chiesa, e nel contempo chiede che il Papa, con il suo intervento, di fatto richiesto, deve contribuire a costruire un più forte senso dell’unità e della comunità, senza cadute in avanti con gli arrivismi e i personalismi. L’unità, costruita con la convergenza e non mediante l’allineamento conformistico, e la comunione, che non impedi-sce il pluralismo e le diversità, non sono salvate solo difendendo la pu-rezza della dottrina, perché di fatto risultano più devastanti gli scismi, rispetto alle eresie. E nella lettera si fa riferimento soprattutto ad essi, facendoli derivare da una accentuazione dei personalismi, un male presente non solo nella Chiesa, ma divenuto, anche oggi, un problema non indifferente, pure nell’ambito civile, nel causare l’indebolimento della democrazia e di una partecipazione che è assolutamente necessaria a conservare il sistema democratico. È un po’ inevitabile che emergano le figure autorevoli, e queste sono indubbiamente necessarie per la conduzione della Chiesa e della società, anche a diversi livelli. Tuttavia sono necessari quei contrappesi che permettano a chi ha responsabilità di governo di non gestire la cosa pubblica come se fosse privata, e comunque di favorire il comune sentire, senza il quale non ci può essere la ricerca del bene comune. È dunque una salutare riflessione da non circoscrivere solo entro le mura della Chiesa, anche se qui la questione è circoscritta ad un gruppo ancora ristretto nella società di allora, destinato comunque ad accrescere il suo peso: tutto questo si pone nei periodi di passaggio e non lo è da meno il periodo nel quale viviamo. La lettera mette in guardia da fenomeni già diffusi al tempo di Paolo e ben radicati ed emergenti nei tempi di passaggio, come è quello vissuta alla fine del secolo I, quando scompaiono gli apostoli e coloro che sono i testimoni diretti del primo cammino della Chiesa. Con la nuova generazione è necessaria una impostazione che metta in guardia dalle degenerazioni già in corso. Di fatto si fa appello ad una autorità riconosciuta come preminente.

APPENDICE:

LA CHIESA DI S. CLEMENTE

Come contributo alla conoscenza di S. Clemente si può pensare alla chiesa romana che lo ricorda. Oggi la basilica si erge sopra le rovine di quelle che l’hanno preceduta e in particolare di quella che viene fatta risalire ai primi tempi: l’attuale, che sta fra l’Esquilino e il Celio, deve la sua struttura di base all’edificio del secolo XI. Qui già prima si onorava la memoria di Papa Clemente. Le mura erano (e ancora lo sono, in parte) affrescate con la storia del santo, derivata da racconti leggendari. È rimasta famosa la scena in cui si riscontrano parole scritte, quasi come in un fumetto attuale, e messe in bocca ai personaggi. Esse documentano il passaggio dalla lingua parlata latina, che già sconfina nel volgare, ad un nuovo modo espressivo.

ISCRIZIONE DI S. CLEMENTE

Affresco (XI secolo)

Basilica di S. Clemente al Laterano – Roma

L’episodio qui riprodotto in immagine è derivato dalla Passio Sancti Clementis (un testo anteriore al secolo VI): il nobile Sisinnio, che ha catturato il santo e lo vuole trascinare in prigione, interviene in modo rozzo e volgare a costringere i suoi servi, perché, prendendo con la forza il santo, lo conducano al luogo della sua pena. Costoro, accecati come il loro padrone, sentono molto pesante quel corpo e faticano a sostenerne il peso: di fatto essi hanno tra mano una colonna di marmo.

Per dare vivacità alla scena il pittore ha pure scritto le parole che dobbiamo pensare in bocca ai personaggi, e ne vien fuori un dialogo molto vivace, con parole che appartengono al linguaggio popolare. Siamo a Roma e quindi i vocaboli sono quelli della parlata romanesca della gente comune, compresi i termini poco consoni all’ambiente di una chiesa, che ancora hanno una certa forma derivata dal latino, ma di fatto appartengono maggiormente alle espressioni comuni, che stanno arrivando al volgare. Questa sarebbe una delle prime testimonianze del volgare, che sta diventando lingua italica. Non tutto è chiaro di quel concitato dialogo, ma la ricostruzione condivisa da gran parte degli esperti, potrebbe essere questa:

Sisinnio:

Fili de le pute, traite! Gosman, Albertel, traite!

Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!

S. Clemente:

Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis!

Sulla bocca del nobile stanno di fatto parole ormai vicine al “volgare” e anche con la classica espressione di volgarità. Sono il segno che ormai è dominante questo modo di parlare, il solo che possa essere compreso da chi vede la scena dipinta. Ciò che viene messo in bocca al santo è invece una frase che ancora appartiene al mondo latino, anche se alcune forme non rispettano più la grammatica (“duritiam” dovrebbe essere un complemento di causa, che andrebbe preceduta da “ob”) e neppure la forma fonetica (“traere” nel fonema latino prevede l’h in mezzo e quindi la forma corretta è “trahere”). Questa parte latina si avvicina molto a ciò che si può leggere sul documento scritto; non tutto è stato riportato perché sulla parete non poteva stare. Riferendola in latino, per quanto non totalmente corretto, si voleva creare la distanza fra il santo che parla il latino e i persecutori che invece si rivelano volgari nei modi e nel loro parlare.

Propriamente non interessa alla ricerca sulla lettera di S. Clemente, ma completa il quadro a proposito del santo, di cui era rimasta ormai famosa, a livello popolare, la narrazione del martirio. E ancora di più diventava ben nota in presenza di espressioni simili, probabilmente usate anche in chiesa, per raccontare il fatto, in cui doveva prevalere la componente del miracolo, accompagnata dai modi rozzi e violenti dei personaggi che devono essere denigrati agli occhi e alle orecchie degli spettatori.

AL SEPOLCRO DI GESÙ.

E FU SEPOLTO

Ancora oggi nella formula di fede, con cui pubblicamente i cristiani esprimono la loro adesione al Signore Gesù, essi dicono di credere a tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo percorso terreno, compresa la conclusione della sua sepoltura, mediante la quale “si mette una pietra sopra”, per dire così che tutto è finito. Ma quel fatto, pur così importante, se ancora viene segnalato nella professione di fede, non è affatto l’ultima parola con cui viene chiusa l’esistenza terrena di Gesù. La sepoltura risulta sola-mente un passaggio che introduce ad un mondo diverso: se Gesù è vis-suto dentro uno spazio preciso, come quello della Palestina, e dentro un periodo storico, come quello dell’Impero di Augusto e di Tiberio, con la morte noi dovremmo considerare chiusa definitivamente la sua esistenza, e così lo spazio è solo quello di una tomba che lo racchiude e il tempo, che continua a procedere, per lui si è fermato. Eppure questa sepoltura non è affatto la parola definitiva per Gesù: la nostra fede ci dice che lui ha superato le barriere della morte, per entrare in un’altra condizione di vita. Fa in modo di essere visto, e alcuni possono raccontare di averlo incontrato, perché lui si è mosso a cercarli. Ma egli vive in una dimensione nuova, se non altro perché lo vedono contemporaneamente in luoghi diversi, perché la sua presenza fisica non risulta spiegabile secondo criteri scientifici, anche se c’è gente che dice di averlo visto vivo, quando in precedenza avevano dovuto costatare che era morto e che era stato sepolto, per quanto la sua tumulazione risulterà essere stata provvisoria. Non lo è stata, perché chi ha fatto questa operazione aveva già in mente l’ipotesi della risurrezione, come un dato sicuro ed incontestabile sulla base di ciò che Gesù aveva anticipato. La ragione della fretta di depositarlo nella tomba derivava dal fatto che non avevano lassi di tempo per una operazione del genere, essendo imminente la festa di Pasqua e il comando rituale del riposo più rigoroso. Comunque nella tomba viene collocato ed era destinato a rimanere, così come erano assolutamente certe le donne di ritrovarlo disteso e pronto per le azioni necessarie a ripulirlo e a comporlo secondo le usanze, ma più ancora secondo le esigenze dell’affetto che le legava a quell’uomo. E se esse conservavano il desiderio di intervenire per lui, questa loro attesa spingeva ad affrettarsi, perché di buon mattino fossero sul posto a continuare la loro opera di devozione.

Non ci andavano in fretta, come se si aspettassero qualcosa di inedito e di assolutamente improbabile; non c’era in loro convincimento alcuno nella direzione di un evento tanto inaspettato, quanto impossibile. Non sembravano credere a quello che poi nei vangeli scritti risultava una ben definita conclusione di quegli eventi, visto che il Maestro ne aveva parlato con estrema chiarezza. Ma per i discepoli e, con loro, per le donne, i discorsi che volevano anticipare la passione e presentarla non come fatale eventualità, ma come un disegno ben noto ed accettato, non venivano affatto creduti e non ci aspettava che andasse a finire così e che in maniera inattesa ci si doveva adattare all’idea che il Maestro dovesse finire male e soprattutto dovesse lui pure subire la sorte di tutti. Grande era stata la fede in lui, ma ora, in presenza di una morte certa, bisognava accettare l’irreparabile: se lui aveva riportato in vita altri, lui, ormai morto, non avrebbe potuto risvegliare se stesso. Accettando, seppure con tanta amarezza e forse anche disillusione, la realtà della morte, era poi inevitabile che ne seguisse la sepoltura. Anche a rimandare la parola definitiva su tali incombenze, non si poteva evitare che l’atto del depositare il corpo in una caverna chiusa, dovesse costituire l’ultima parola con cui avere riguardi per un uomo davvero finito. L’evento successivo, che indubbiamente fatica ad essere creduto, poi sbalordisce, risultando affatto inatteso. E quando l’evento appare nei suoi contorni più chiari e inequivocabili, perché sempre più gente ne viene coinvolta, la scena della sepoltura viene dimenticata e il sepolcro non è più luogo per contenere un cadavere, ma sito per rivelare un risorto: come la croce, da sempre patibolo di una morte atroce, è oggi richiamo di gloria, la tomba, ricetto di un corpo destinato ad andare in fumo, è destinata a diventare segno di una vita nuova e diversa, tutta da capire, da scoprire, da credere. Ma qui non si crede solo all’evento che in effetti si fatica a spiegare nella logica umana, costruita su coordinate ben definite; qui si è chiamati a credere anche tutto quello che ha una sua naturale spiegazione nei canoni della storia elaborata nel pensiero umano. Per quest’uomo ogni momento della sua esistenza terrena è un “mistero”, cioè un evento di cui è possibile dire molto, ma non se ne può dare una lettura piena, perché c’è sempre da cercare e da scoprire. Proprio per questo ogni mistero va sottoposto ad una visione di fede. E in questa medesima visione deve essere inquadrato l’evento della sepoltura, passato e ancora inteso come qualcosa di così provvisorio, che è naturale trascurarlo, quasi evitarlo.

Che cosa significa credere che Gesù sia stato sepolto? È così necessario fare una simile affermazione? Da una parte dobbiamo rilevare che ogni evento della vicenda terrena di Gesù è da considerarsi un mistero, e cioè una vicenda da inquadrare nel grande disegno di Dio e come tale da non lasciare al caso, ad una piega degli avvenimenti, che a noi può sembrare fortuita. Inoltre a valutare bene ciò che viene scritto nel vangeli e la modalità con cui viene descritto il fatto, si deve riconoscere che siamo in presenza di un episodio sempre significativo e quindi carico di senso e di valore, da scoprire a da chiarire. Qualcuno può pensare che la segnalazione della sepoltura di Gesù è finalizzata a dare valore al racconto della sua risurrezione: Gesù è indubbiamente uscito dalla tomba, perché lì vi era stato depositato; ed essendo stato calato in quel luogo, la sua morte doveva essere considerata certa; soprattutto doveva essere confermata dal colpo di lancia inferto al cuore, per quanto l’uomo fosse già morto. Ma la fede nella sepoltura di Gesù non viene richiesta, e nel contempo data, per far capire che certamente lì Gesù è stato messo e che, se, ora e in seguito, non c’è più stato, ciò significa che è certamente risorto. Il fatto che la sepoltura sia definita un mistero, come lo sono anche altri eventi della vicenda terrena di Gesù, ci deve rendere edotti che non può bastare una simile affermazione per avere la conferma di un fatto che ha coinvolto più persone: quell’episodio va letto anche in una prospettiva che non lo riduca ad un semplice evento di cronaca. Esso va letto in una maniera più profonda, come si dovrebbe cogliere nei testi che lo raccontano e nelle descrizioni iconografiche che sono state elaborate, non solo per completare una narrazione, ma soprattutto per offrirne un senso che dobbiamo pensare sia più grande, più alto, più forte … Il racconto della sepoltura è dunque non solo una cronaca del fatto, ma diventa un evento in cui credere, perché anche lì si rivela il mistero di Dio e il mistero dell’uomo. In che senso noi dovremmo pensare che questo episodio va riconosciuto come mistero rivelatore di Dio? Noi dovremmo sostenere piuttosto che qui si riconosce l’estrema fragilità umana, per il solo fatto che un corpo rac-chiuso e sigillato è destinato a consumarsi e a decomporsi e che invece la risurrezione sia un evento da lasciare alla sola fede senza riscontri nella realtà. Tuttavia la conservazione del cadavere dentro una caverna e con una pietra pesante sull’imboccatura, per rendere impossibile la sua rimo-zione, lascia supporre che ci si aspetti altro, che si coltivi una speranza, una visione che vada oltre, sempre oltre.

In effetti questa sepoltura potrebbe sembrare secondo gli schemi previsti, ma in realtà essa appariva come un caso inedito. La stessa relazione che abbiamo dai vangeli presenta indizi di anomalie che fanno diventare l’evento come qualcosa di speciale, di diverso rispetto a ciò che ci si poteva aspettare in simili circostanze. Gesù era stato condannato a morte secondo un rituale che lo assimilava al peggior furfante o comunque uno da segnalare per aver ingannato sia il potere religioso, da cui era partita l’iniziativa di perseguirlo, sia il potere civile, che aveva l’obbligo di intervenire in presenza di un reato quanto mai pericoloso. Finendo sulla croce, sarebbe dovuto rimanere esposto fino alla consumazione del suo cadavere anche mediante l’intervento di animali e di agenti atmosferici. Quindi, non c’era posto per la sepoltura! Per essa si fa avanti un personaggio finora sconosciuto, ma destinato a divenir famoso per questa incombenza a cui si sottopone come per una precisa assunzione di responsabilità. Nel riferire la cosa gli evangelisti, d’accordo sull’essenziale, ma discordanti sui dettagli, descrivono la scena, come se essa fosse destinata a divenire, come altri episodi, un “vangelo”, e cioè una notizia particolare, che avrebbe dovuto dare risalto a quell’uomo morto, e rivelare in esso l’agire di Dio. In effetti se si dà una particolare attenzione a questo cadavere, bisogna supporre che qui ci sia in gioco qualcosa di diverso dal solito e naturalmente un evento che dobbiamo qualificare fra le buone notizie: è vangelo il fatto che Gesù vive la nostra morte fino a essere deposto nella sepoltura e che Dio, considerato “abitatore del cielo”, entri e si “sprofondi” nella nostra terra …

GIUSEPPE D’ARIMATEA

Il protagonista della scena della sepoltura non è affatto Gesù, anche se si tratta di trovare un posto per il suo cadavere: non era possibile per i condannati a morte avere una sepoltura privata, come succede a Gesù: per lui si fa un’eccezione, perché Pilato concede la rimozione del cadavere e perfino la sua sepoltura. Lo fa perché la richiesta è avanzata da colui che qui si rivela come il vero protagonista dell’episodio: se ne parla qui e solo qui. Esce ora allo scoperto; ma già prima appariva interessato a Gesù. Torna poi nell’anonimato, visto che scompare totalmente dalla scena. Ma il nome viene ricordato, e per chiunque abbia un minimo di familiarità con i vangeli, questo nome è ben noto ed associato, sempre e solo, a questa scena. Così il suo gesto è famoso; e per quel gesto si fa il suo nome, divenuto testimone della sepoltura, ma non della risurrezione.

Sappiamo ben poco di lui, se non quello che dicono i quattro vangeli canonici; abbiamo pure l’aggiunta di altri dettagli nei vangeli apocrifi. Ogni vangelo dà comunque importanza a qualche aspetto di quest’uomo, che in tal modo assume una sua precisa personalità.

NEL VANGELO DI MATTEO

Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro, se ne andò. Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Màgdala e l’altra Maria. (Matteo 27, 57-61)

Matteo segnala che si tratta di un uomo ricco, dove la ricchezza non è solo data dal possesso di tanto denaro o di proprietà, fra cui il terreno in cui si trova un sepolcro, il suo, completamente nuovo, e non ancora occupato. La segnalazione della ricchezza serve soprattutto a definirlo un uomo influente, uno a cui non si può negare nulla: e in effetti Pilato interviene mediante un ordine perentorio, con il quale il cadavere di Gesù viene passato senza alcun ostacolo nelle mani di quest’uomo. Non si precisa quale sia il suo ruolo nella società e quali possono essere i meriti acquisiti per poter contare nel giro dei potenti. All’evangelista interessa rilevare che era pure discepolo di Gesù; e questo potrebbe spiegare il suo intervento in una simile circostanza. Così l’iniziativa di avanzare la richiesta del cadavere di Gesù, quando tutti gli altri sono scomparsi dalla scena, dimostra quanto sia profondo il suo attaccamento al Maestro: in un mo-mento critico, in un contesto per nulla favorevole alla sua professione di fede, non ha esitazione a presentarsi. E riempie lui la scena perché di fatto le azioni, mediante le quali dà sepoltura a Gesù, sono svolte da lui, senza che vi sia la segnalazione di aiutanti o di collaboratori: lui, dunque, prende il corpo, lo mette dentro un lenzuolo, che ha la premura di portare pulito, e lo deposita nel sepolcro che, se viene definito suo, si deve ritenere che fosse stato scavato e costruito per la sua persona e proprio per questo appariva non ancora usato. Una pietra rotonda viene messa sull’imboccatura, come se si trattasse di un’azione con la quale tutto viene concluso. Non per nulla Giuseppe poi se ne va, e di fatto scompare per sempre, visto che neppure in occasione della notizia della risurrezione, egli si fa avanti per rientrare in possesso di ciò che è suo e che tale non sarà più.

NEL VANGELO DI MARCO

Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto. (Marco 15,42-47)

Nella versione di Marco la notizia sembra identica, ma ci sono dettagli aggiuntivi. Non è definito ricco, ma è considerato un autorevole personaggio del sinedrio, e dunque una figura di prestigio nel mondo ebraico. Non per questo è vicino al governatore romano, se l’evangelista deve dire che si è preso coraggio, che ha avuto l’ardire di farsi avanti con la richiesta del cadavere. Pilato non lo concede, se non dopo gli opportuni accertamenti espletati dal centurione, tenuto conto che non si aspettava affatto la morte in così poche ore. Le operazioni di staccare il corpo morto dalla croce, di avvolgerlo in un lenzuolo che sembra comprato nella medesima circostanza della sua comparsa davanti a Pilato, di portarlo ad un sepolcro, che non si dice affatto fosse suo e fosse nuovo, e l’azione di depositarlo lì, risultano fatte dal solo Giuseppe, mentre la chiusura dell’imboccatura della tomba con il masso rotolato è fatta fare ad altri, come a dire che uno da solo non lo potrebbe fare. Va pure ricordato che il suo rapporto con Gesù derivava dal fatto che, senza necessariamente riconoscerlo come figlio di Dio, egli era rimasto colpito dall’annuncio del Regno fatto da Gesù. Qui si dice che lui pure aspettava la venuta di questo Regno, e, probabilmente, il suo intervento per seppellire Gesù, va inquadrato in questa sua attesa, che si doveva ancora coltivare, nonostante fosse morto colui che aveva messo al centro della sua predicazione un Regno ormai imminente. Così la sepoltura assume un rilievo non da poco e questo fatto richiedeva una figura di riferimento nella quale riconoscere presente questa aspettativa.

NEL VANGELO DI LUCA

Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto. (Luca 23,50-56)

Luca segnala lo stesso dettaglio di Marco; ma prima di questo aspetto, più che marcare la sua autorevolezza nel sinedrio ebraico, lo definisce “uomo buono e giusto”. Dovremmo ritenerle qualità di ordine morale, come si tende spesso a pensare; ed invece nel vocabolario evangelico, soprattutto in Luca (dove lo stesso Gesù, al momento della morte, dal centurione viene definito “uomo giusto”), questi aggettivi definiscono la sostanza e non solo le qualità; e dovremmo ritenere che quest’uomo ha ormai assunto la bontà e la giustizia di Dio, staccandosi, come qui si dice con chiarezza, dal resto del sinedrio che aveva voluto la morte di Gesù. Così egli non ha bisogno di avere coraggio per stare al cospetto di Pilato e per fare la sua richiesta. Le operazioni svolte da Giuseppe non devono ridursi alla sola pietà umana, perché fatte da un uomo “buono e giusto”; esse rappresentano, da parte sua, la concreta adesione al Regno che lui aspetta in questo modo.

NEL VANGELO DI GIOVANNI

Giovanni 19, 38-42

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato an-cora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

Giovanni nella sostanza si adegua alla notizia data dai sinottici; e tuttavia qui Giuseppe non è più dalla parte del mondo ebraico in una posizione di prestigio, come non è l’uomo buono e giusto ormai da ritenersi con le medesime definizioni con cui è indicato Gesù. Egli è definito “discepolo di Gesù” seppur di nascosto, quasi a dire che tale diventerà con la fede dichiarata nella sua risurrezione. Anche per Giovanni è lui a chiedere il corpo a Pilato, ed è lui a prenderlo dalla croce. Ma nell’operazione di sep-pellirlo è affiancato da Nicodemo, già altre volte segnalato da Giovanni nel suo vangelo. La sua presenza è importante per il ricorso agli unguenti, usati dai due, anche se la sepoltura deve essere stata fatta di fretta, per le poche ore che rimanevano prima del riposo sabbatico.

FUORI DEI VANGELI

Nonostante la concordanza dei quattro evangelisti circa la figura di Giuseppe d’Arimatea, la cui città di origine è problematica, perché si fatica a individuarla nella geografia di allora, vengono avanzate delle riserve sulla sua autenticità storica, anche perché né prima né poi questa figura viene citata. Ed anche nei testi successivi non si ha la presenza di quest’uomo e del suo ruolo in un momento particolarmente delicato. Nella prima predica di Paolo, esposta negli Atti degli Apostoli, quando il neoconvertito parla della condanna a morte di Gesù, che secondo lui è da inquadrare nelle profezie e non è perciò una situazione capitata per una serie di accidenti perversi, segnalando la sua morte, adempiuta secondo “quanto era stato scritto di lui”, dice che i capi fecero deporre Gesù e lo misero nel sepolcro. La figura di Giuseppe non esiste affatto! Se davvero ha rivestito un ruolo così importante come pare dai vangeli, Paolo a-vrebbe dovuto parlarne.

Atti 13,26-31

Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme infatti e i loro capi non l’hanno riconosciuto e, condannandolo, hanno portato a compimento le voci dei Profeti che si leggono ogni sabato; pur non avendo trovato alcun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che egli fosse ucciso. Dopo aver adempiuto tutto quanto era stato scritto di lui, lo deposero dalla croce e lo misero nel sepolcro. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti ed egli è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono testimoni di lui davanti al popolo.

Così la figura di Giuseppe, nonostante le qualifiche che troviamo nei Vangeli, appare in un alone che lo fa stare sospeso fra storia e leggenda. Da una parte egli serve nei vangeli per offrire al condannato Gesù un sepolcro tutto suo – e si sottolinea che è nuovo ed è proprietà dello stesso Giuseppe –, quando per quella situazione egli non poteva affatto trovare una tomba sua e sarebbe dovuto finire in una specie di fossa comune. Col senno di poi e quindi con la notizia della sua risurrezione, era necessario avere un luogo in cui verificare che quel cadavere non c’era più, e che in compenso era necessario conservare – come è fino ad oggi – un luogo da segnalare come il suo sepolcro. Per queste ragioni era necessario ricorrere ad una figura che avesse il compito di seguire l’operazione della sepoltura. In effetti costui appare qui, e di qui scompare, una volta compiuta la sua missione. Ma l’alone di leggenda prende il personaggio, soprattutto nel periodo medievale, quando ogni località europea cerca agganci con personaggi presenti nei vangeli. Nasce così nella terra europea più periferica, ma non per questo meno cristiana, come è l’Inghilterra, ormai normanna, la leggenda del Santo Graal, il calice di Cristo dell’Ultima Cena, portato qui proprio da Giuseppe d’Arimatea, divenuto il primo vescovo nell’isola.

Ecco perché le immagini costruite per lui lo rappresentano con il calice che sembra sepolto sotto un cumulo di pietre, sopra le quali spunta una pianta che diventa verdeggiante e che potrebbe rappresentare il Regno di Dio, che Giuseppe aspettava, secondo ciò che è scritto nei vangeli.

NICODEMO E LE DONNE

Nei racconti evangelici, soprattutto nei sinottici, accanto a Giuseppe d’Arimatea si fa riferimento anche alle donne: si mette in risalto che stavano davanti alla tomba, ormai chiusa, con l’intento di “osservare”: sembra quasi che vogliano capire il senso di ciò che era successo, soprattutto in questa particolare operazione che aveva avuto come protagonista Giuseppe. Il suo lavoro di sepoltura, andava portato a compimento con il gesto tipicamente femminile dell’unzione, che serve a conservare più a lungo il cadavere, ma vuole anche onorare quel corpo già sufficientemente martoriato. Non hanno a disposizione il materiale da usare, diversamente da Nicodemo che viene segnalato da Giovanni con il quantitativo di mistura che ha portato con sé. Le donne si ripromettono di tornare quando, superato il sabato, potranno finalmente prestare la loro opera pietosa. Matteo le descrive sedute di fronte alla tomba; Marco le segnala mentre osservano dove Gesù veniva messo; Luca pur dicendo le stesse cose, fa notare che osservavano “come” era stato posto Gesù. Marco usa il verbo “” (= Theoreo), con cui si dice che anche in quell’atto si deve riconoscere Dio, si deve vedere lo scorrere della vita di Dio, anche quando essa sembra fermata dalla morte. In realtà in quel sepolcro dove c’è in effetti un corpo morto, quel seme “germoglia” e, come dice il “Credo”, c’è la discesa agli inferi.

Così anche la sepoltura è un “mistero” di fede, in quanto è un fatto con il quale continua l’agire di Dio, che nulla può fermare, se davvero l’amore è più forte della morte. Luca usa il verbo “” (=Theaomai), con cui le donne appaiono come a bocca aperta davanti a questa scena: esse si rispecchiano e colgono che Gesù vive il nostro medesimo percorso di morte e di sepoltura. Ora va letto con gli occhi di Dio, il quale mettendo se stesso come la Vita ricarica la nostra e contribuisce a dare speranza. Non conta dove viene messo, ma, secondo il vangelo, “come” viene deposto: egli è il seme, che pur morto, dà vita nuova e piena. Volendo rispecchiarci anche noi, abbiamo bisogno di immagini.1.

LA DEPOSIZIONE (1602-1604) di CARAVAGGIO (1571-1610)

Pinacoteca Vaticana – Roma

Qui non compare Giuseppe di Arimatea, ma Nicodemo che si presenta curvato in perfetto parallelismo con il corpo orizzontale del Cristo. Costui, nonostante sia morto, è la vera fonte di luce di un quadro che è, secondo lo stile caravaggesco, avvolto nell’ombra. È una scena fortemente drammatica e nel contempo perfettamente “misurata”, con una disposizione in linee geometriche dei personaggi e dei loro gesti che vogliono offrire a chi guarda lo “spettacolo” della pietà, ciò che fa piegare sul corpo morto di Cristo.

Al centro di questa “pietà” sta colei che è per antonomasia la Pietà e cioè Maria, la madre, per quanto sia come sommersa dagli altri personaggi: i due uomini (Giovanni e Nicodemo) sono ulteriormente piegati, mentre accanto a lei, stanno due donne, la Maddalena, descritta con una mano che sembra sciogliere i capelli, e Maria di Cleofe con le braccia alzate in un gesto di disperazione. Il corpo di Cristo sta per essere depositato sulla pietra tombale, quella che viene mostrata anche oggi nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dove Gesù venne unto per essere poi messo nella tomba. Questa pietra sta proprio in primo piano, corrispondente allo sguardo del visitatore, che vede una lastra messa di sbieco per farla apparire come la “pietra angolare”, identificata con Cristo stesso. Al suo corpo morto corrisponde in parallelo il corpo di Nicodemo rivestito di marrone con il gomito nella stessa posizione che ha la pietra sottostante. Lo sguardo di quest’ultimo, posto al centro della scena sembra richiamare l’attenzione dello spettatore, perché rifletta su ciò che sta succedendo. La sepoltura di colui che è la fonte di luce, getta sul mondo un manto di oscurità, che tutto ricopre. Ma sotto la lastra fredda c’è una pianta a richiamare il seme di vita. Se ora tutti si piegano su di lui, poi tutti si rialzeranno con lui, proprio perché questa particolare deposizione è la collocazione sulla pietra angolare, destinata a diventare il nuovo edificio. È interessante che il vero protagonista qui non sia Giuseppe d’Arimatea, ma Nicodemo; il nome che costui porta dice che il popolo è destinato a divenire vittorioso, nella misura in cui, piegandosi su colui che è morto, potrà rialzarsi sempre con colui che è la Vita e che dà la Vita, perché la vita umana possa sempre risorgere. Così la sepoltura è un richiamo molto forte alla “vittoria” di colui che qui sembra sconfitto e che è invece la fonte della luce e quindi la speranza continua, continuando la sua passione in coloro che la condividono. Con Nicodemo al centro, il messaggio della sepoltura è carico di speranza, anche se qui la scena teatrale della donna che alza le braccia farebbe pensare ad altro: forse, più che disperazione, qui si vede l’implorazione a Dio che sa risollevare chi noi andiamo a depositare..

IL CRISTO MORTO (1475-1478) di ANDREA MANTEGNA (1431-1506)

Pinacoteca di Brera – Milano

E’ una scena impressionante per lo scorcio ardito con cui viene mostrato il corpo morto di Cristo e già depositato sulla lastra tombale, sulla quale, prima di essere collocato nel sepolcro viene unto. Accanto al cuscino su cui sta adagiata la testa reclinata c’è il vasetto del profumo. Il corpo nudo è velato sull’inguine e quindi messo nelle condizioni perché si possa fare l’operazione dell’unzione rimandata a dopo il sabato. Sul lato destro del Cristo si vedono due volti, quello di Maria, che si asciuga gli occhi per le molte lacrime versate, e quello di Giovanni che a mani giunte continua a piangere. Dietro il volto di Maria si intravede quello della Maddalena con la bocca aperta in un atto di disperazione.

Soprattutto nel cadavere irrigidito si ha l’impressione di essere in presenza di una scultura, per la quale il telo davanti ha tutto l’aspetto di un “panneggio bagnato”: così si rivela ancora di più il freddo della morte che ha preso questo corpo; impresse ci sono le ferite delle piaghe, che però non emettono sangue. Ciò che il quadro deve suggerire, anche per questo scorcio così impressionante, è un senso di desolazione che può solo suscitare pietà e pianto, sconforto e amarezza inconsolabile.

LE GUARDIE

NEL VANGELO DI MATTEO

Attorno al sepolcro vengono segnalate anche le guardie, quelle che il potere religioso, intervenendo con forza sul potere politico, mette per assicurarsi che non possa succedere quanto si ventilava con le parole messe in giro da Gesù stesso. L’unico evangelista a segnalare la presenza del picchetto di guardia è Matteo. Costui, poi, in occasione della notizia della risurrezione, è costretto a parlare ancora dei soldati, che non considera testimoni di quell’evento – che non sarebbe affatto possibile né vedere né raccontare e che, per la loro stessa ammissione di aver dormito, non avevano potuto osservare e poi descrivere -. Essi non hanno visto nulla, neppure i discepoli venuti a trafugare il cadavere: come presidio armato non sono stati affatto efficienti. Qui sono solo testimoni che in quella tomba c’è il cadavere di Gesù, che essi devono custodire.

Matteo 27,62-66

Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei,  dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: «Dopo tre giorni risorgerò». Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: «È risorto dai morti». Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». Pilato disse loro: «Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». Essi andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi lasciarono le guardie.

Secondo ciò che scrive Matteo è la tomba che va vigilata, perché nessuno possa entrarvi, ben sapendo che di lì nessuno in realtà può uscire. La custodia, dunque, riguarda ciò che succede fuori e non ciò che potrebbe capitare dentro. Di per sé i capi hanno paura per le parole dette da Gesù circa la sua risurrezione, anche se essi ritengono che una simile notizia falsa dipenda solo da ciò che possono dire e fare i discepoli, trafugando il cadavere. Così sono essi stessi a certificare la chiusura della tomba mediante sigilli; le guardie invece diventano un ulteriore mezzo per garantirsi contro le imposture che – a dire dei capi – erano macchinate da Gesù e dai suoi. Ma queste guardie di fatto servono a ben poco: non tengono alla larga i discepoli, che pur non vengono al sepolcro, e non vedono nulla di quanto succede, neppure la risurrezione di Gesùe neanche lo potrebbero, dato che l’evento non è catalogabile come dato storico, se non perché Gesù si fa vedere ai suoi – e ciò che capita nelle ore successive con l’andirivieni delle donne e dei discepoli. Eppure Matteo, nella sua unica testimonianza circa queste guardie, scrive che esse riferiscono “tutto quanto era accaduto”. Ciò che possono raccontare è solo che la tomba è aperta e vuota e che alla tomba sono venute alcune donne e successivamente si erano presentati alcuni discepoli, ma quando già essa era aperta.

Matteo 28,11-15

Mentre le donne erano in cammino, ecco, alcune guardie giunsero in città e annunciarono ai capi dei sacerdoti tutto quanto era accaduto. Questi allora si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: «I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo». E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazio-ne». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi.

Sulla base di ciò che scrive Matteo, queste guardie avrebbero dovuto impedire che i discepoli mandassero in giro notizie false, mentre in realtà sono poi loro a fare questa cosa, divulgando ciò che essi non avevano visto, se effettivamente stavano dormendo.

NELL’ICONOGRAFIA

Le immagini che ci vengono date delle guardie nelle rappresentazioni della risurrezione mostrano degli armati accovacciati a dormire e quindi con ben poca consapevolezza del ruolo che erano chiamati a rivestire. Operando così, essi non hanno custodito “un bel niente”. La liturgia ambrosiana ci offre nei giorni pasquali un’antifona, derivandola da testi della liturgia bizantina, in cui viene stigmatizzata la sprovvedutezza dei militari posti a custodia del sepolcro di Gesù.

O sprovveduti militi!

Custodivate un sepolcro e avete perso il Re;

vigilavate una lastra tombale

e vi è sfuggita la pietra di giustizia.

O ci ridate il corpo o celebrate il Risorto,

e uniti a noi cantate: Alleluia! Alleluia!

Con non minore ironia sono rappresentati dagli artisti …

GIOTTO (1267-1337)

Noli me tangere – Cappella degli Scrovegni – Padova

Sullo sfondo del marmo rosa della tomba aperta, su cui si è posato l’angelo (e qui si vede l’orlo della veste bianca) si stagliano le figure delle guardie, che dormono pesantemente, due addossati al sepolcro e due distesi sul terreno. Con gli occhi chiusi e con l’elmo calato sugli occhi, essi non vedono nulla, ma neppure sentono il dialogo che si sta svolgendo fra il Risorto e Maria di Magdala inginocchiata e tesa con le braccia avanzate ad abbracciare il Maestro. Sembra che il pittore si sia sbizzarrito con le decorazioni sugli abiti dei militari, decorazioni del tutto inutili a qualificare questi personaggi, che del resto non hanno neppure le armi in dotazione, come se fossero del resto fuori luogo in quel luogo e in quella circostanza..

PIERO DELLA FRANCESCA (1412-1492)

La Risurrezione di Borgo San Sepolcro

Anche in questa famosa raffigurazione della risurrezione di Cristo, celebrativa in realtà della rinascita di Borgo San Sepolcro (AR) liberatosi dal giogo fiorentino, le guardie accovacciate sotto la tomba indossano armature dell’epoca del capoluogo toscano per farle riconoscere in questo modo. Sulla loro posizione che le fa sembrare cadute o comunque appesantite dal sonno, si erge la figura imponente di Cristo, che ben rappresenta l’uomo emergente dal sepolcro e quindi rinato a vita nuova, come succede alla vegetazione circostante. Così la forza non è data dal possedere armi, dall’ostentare muscoli, dal mettere in evidenza una vigoria che non può esserci senza la padronanza di sé. La rinascita è da cercare nella direzione di uno Spirito che si rivela nel dominio di sé.

CONCLUSIONE

È piuttosto raro che ci si soffermi sul momento vissuto da Gesù nel sepolcro: si tratta di un periodo molto breve e del resto racchiuso fra due eventi che attirano maggiormente. Per il fatto che Gesù sia rimasto poco e ovviamente ci sia rimasto “morto”, e racchiuso in uno spazio molto ristretto, non si è ritenuto opportuno dire niente, o quasi. Eppure la fede, proclamata pubblicamente, esige che si faccia menzione anche di questo episodio, a cui si aggiunge che “ … discese agli inferi”. Di questo non possiamo dire nulla, se non immaginare quello che poi certa iconografia orientale ci svela con Gesù che abbatte le porte degli Inferi, per liberare le anime prigioniere dell’Ade, a partire da Adamo ed Eva. Sono pochi gli eventi e ben pochi i personaggi che si muovono attorno al sepolcro nel breve lasso di tempo che sta fra la morte e la sepoltura: continua l’affetto dei suoi, anche se molti rimangono rintanati, e continua la preoccupazione degli avversari che sembrano aver paura ancora, pur sapendo che è morto. Ma una volta calato il sole e iniziato il sabato, tutto tace: per quelle ore fino alla costatazione del sepolcro aperto, nessun si vede, nessun si muove, se non il picchetto di guardiani: e questo devono solo custodire un morto. Questi particolari ci vengono detti del fatto della sepoltura. Esso è da ricordare e celebrare come un “mistero”: si tratta, dunque, di un fatto storico, la cui narrazione in parole umane non riesce ad esaurire tutto il profondo significato che esso ha nell’ambito della Pasqua cristiana e nel vivere di coloro che dicono di credere e quindi di costruire il loro vivere sulla figura di Cristo. Anche in questo fatto sta il “vangelo” e quindi quella buona e bella notizia, che invece vorremmo pensare tremenda, drammatica e da dimenticare. La tomba, qualunque tomba, è di fatto il luogo su cui si concentrano le attenzioni nel momento in cui viene deposto il cadavere, se non altro per l’affetto che ci lega; ma ben presto esso rimane, se non dimenticato ed incustodito, come la memoria di chi non torna più e quindi un segno, freddo, spento, oscuro, ricercato per far pensare al passato, ma non certo per poter guardare con speranza al futuro. Al sepolcro di Cristo invece si è portati a pensare che, pur in presenza di una vita stroncata nel peggiore dei modi, c’è ancora da attendere, c’è ancora da coltivare la speranza che spinge sempre la visuale oltre i limiti dell’orizzonte terreno.

Ovviamente è l’annuncio di risurrezione che apre a questa prospettiva, anche se, a ben considerare ciò che è scritto nei vangeli, non sono i discepoli a vedere il Risorto, perché lo vanno a cercare; è piuttosto il Maestro che si fa vedere a loro perché è lui a cercarli. Essi continuano a cercare un sepolcro, che scoprono vuoto; essi cercano segnali che appartengono a questa nostra realtà umana, ma devono andare oltre per trovare uno che porta ancora i segni della passione, senza che però essi facciano soffrire; anzi, inducono a mettersi dentro un mondo ancora segnato dal male, ma toccato dallo Spirito di colui che non si è lasciato imbrigliare dal male e, per quanto sia morto, continua a riaccendere la vita, la sua e quella dei suoi, che hanno sempre bisogno di rimettersi in gioco.

PREGHIERA

Sei scomparso, Signore, ma non per sempre:

lo avevi detto che sarebbe stato per poco tempo, e così è avvenuto.

Ora sei ancora in giro, sempre vivo, sempre più appassionato,

e vuoi tu raggiungerci,

diversamente da noi che vorremmo star fuori dai tanti fastidi.

Chi ti ha cercato, ancora morto e messo da parte,

ha avuto la sorpresa di vederti vivo e ancora impegnato con noi;

chi ti ha desiderato per continuare negli affetti di un tempo,

ha scoperto che l’amore vero impegna di più;

chi ti ha accompagnato alla tomba, sconsolato,

si è ritrovato con la consolazione di sapere che tu ci sei ancora,

come hai promesso e come hai dimostrato di essere con noi.

A venire qui, ti scopriamo sempre appassionato,

e ci prende la tua passione,

a stare da te, la passione della vita continua, ed è un vero bene.

Nella tomba abbiamo messo un corpo morto,

ma ora da quella tomba esce uno spirito vivo,

e così ci insegni che anche alle tombe dei nostri cari,

noi attingiamo il loro spirito che vive nel tuo,

e così possiamo proseguire la loro passione,

possiamo sentire che in noi continua il loro vivere.

Coltivando la fede nel fatto che tu sei stato sepolto,

sentiamo, davanti alle tante tombe di persone, che ci sono care,

come pure loro, anche a consumarsi, non spariscono del tutto,

e continuano a lasciarci lo spirito che non muore mai.

LA DIDACHE’: IL PASTORE DI ERMA

PREMESSA:

SCRITTI DIDASCALICI

Fin dalle origini del Cristianesimo si è avvertita la necessità di comporre scritti da accompagnare alla fase orale delle predicazione itinerante, che vedeva gli Apostoli e i loro collaboratori impegnati nel bacino del Mediterraneo e anche altrove in Oriente per comunicare il Vangelo non ancora fissato in libri. Nel periodo in cui sono ancora vivi gli Apostoli, si fa, certo, memoria di ciò che Gesù ha detto e ha fatto, ma la composizione scrit-ta delle sue vicende e della sua predicazione si ha dopo la distruzione di Gerusalemme e la diaspora ebraica che ne segue. Ne deriva anche una più marcata separazione fra mondo ebraico e mondo cristiano, che comporta la definizione di una morale e di una liturgia nuova che devono caratterizzare i cristiani. Negli stessi vangeli si avverte l’esistenza di una polemica sempre viva ed accesa fra Gesù e i farisei: essa probabilmente apparteneva di fatto al periodo successivo, quando i cristiani devono più che mai distinguersi rispetto agli Ebrei, i quali del resto nel mondo romano costituiscono un problema politico non irrilevante per la loro resistenza ad accettare il dominio di Roma. Probabilmente in presenza di tensioni esistenti con gli Ebrei che resistono e spesso anche fanno ricorso ad attentati, chi derivava da loro, come i cristiani, fino ad allora legati alla celebrazione tenuta in sinagoga, sentiva l’esigenza di marcare la diversità, sia sotto il profilo dottrinario, sia sotto quello liturgico. Forse, questa necessità portava a segnalare presso i cristiani i tratti distintivi della propria dottrina e delle proprie adunanze celebrative: è una esigenza diffusa che dà origine a testi redatti con questi intenti e offerti alle diverse comunità sparse per tutto l’impero. I testi scritti devono servire alla comunità di riferimento perché possa regolarsi anche in presenza di interventi dell’autorità locale chiamata a vigilare circa le attività che si immaginavano sovversive da parte degli Ebrei e di coloro che apparivano ad essi affiliati. Ci si spiega così la presenza di alcuni libri che vogliono offrire un po’ di chiarezza sia nell’ambito della morale e soprattutto testi eucologici, cioè preghiere e formulari per le assemblee celebrative, al fine di garantire documenti sicuri che permettano di giustificare i riti e i comportamenti dei cristiani, non solo per l’organizzazione interna, ma anche per favorire attorno una migliore conoscenza del nuovo fenomeno religioso che già appariva diffuso.

Tali testi acquistano poi col tempo una certa autorevolezza, sia in termini apologetici, in vista della difesa nei confronti dell’auto-rità politica e della vigilanza che si faceva circa i fenomeni religiosi che, secondo Tacito confluivano a Roma come superstizioni perniciose, sia in termini didattici, per il servizio che svolgevano come educazione dei cristiani. Se vengono redatti dei libri, c’è da supporre che ci sia l’esigenza da parte di chi ha la possibilità di acquistarli e di leggerli, ma c’è da supporre che servissero soprattutto a coloro che avevano compiti di carattere educativo nei confronti dei nuovi aderenti al Cristianesimo. Nascono in questo contesto dei libri che appaiono ridotti all’essenziale, in quanto contengono ciò che serve alla formazione dei battezzati e in modo particolare a dare suggerimenti per le celebrazioni comunitarie. Dobbiamo considerarli di natura didattica, perché vengono utilizzati per l’insegnamento e contengono di fatto indicazioni e suggerimenti di natura morale e rituale, adatti ai singoli che li leggono, ma più giustamente a coloro che hanno compiti formativi nella comunità. Anche se a noi oggi possono sembrare dei catechismi, come quelli che sono pubblicati ad uso di quanti devono ricevere la formazione in ambito scolastico, essi sembrano più dei manuali per chi deve poi assicurare la formazione dei catecumeni che si preparano al battesimo, come pure dei già battezzati che non devono far decadere la propria formazione, la quale è da aggiornare continuamente. Questi libri compaiono quasi in contemporanea con gli ultimi testi oggi considerati rivelati e quindi inseriti nel canone biblico: in qualche ambiente sono considerati alla stregua dei testi sacri, mentre un po’ dovunque non sono accolti come tali, e proprio per questo, dopo il loro boom temporaneo, finiscono per sparire sia nell’uso, sia nella reputazione di testi autorevoli. Alcuni, ritenuti inizialmente come molto importanti e di largo uso, finiscono per sparire, senza che rimanga traccia nei secoli successivi; ricompaiono solo quando la ricerca storica, sviluppatasi nell’Ottocento, consente di ritrovare simili testi destinati all’oblio. Oggi essi rappresentano la segnalazione di una componente importante nella diffusione stessa del Cristianesimo, perché certamente simili opere hanno con-tribuito a formare generazioni di cristiani e soprattutto a indicare forme celebrative basilari ed elementi essenziali della dottrina, che avranno sviluppi ulteriori nel tempo. Quanto ancora oggi vi si legge, non si è radicato a costituire la base essenziale dei catechismi successivi e dei libri liturgici, e tuttavia da questi primi documenti si passa velocemente ad uno sviluppo particolarmente florido di manuali in questa direzione.

CATECHISMI E LIBRI LITURGICI

La presenza di testi, che possiamo già definire catechismi, anche a non avere l’uso che se ne fa oggi, o libri liturgici, che portano testi non più usati, se mai si è fatto ricorso a loro per le celebrazioni, dimostra che la comunità cristiana è ormai cresciuta, e che nel suo sviluppo ha bisogno di opere adeguate per sostenere il lavoro formativo dei nuovi adepti, e nello stesso tempo anche di quei libri che devono essere utili nella preghiera comune: qui è necessario che i testi redatti favoriscano una partecipazione davvero comunitaria, con formulari sempre più fissati per l’uso comune. A partire da simili testi ci si può fare un’idea dell’immagine che la Chiesa offre per le proprie riunioni liturgiche, finora lasciati alla fantasia di coloro che presiedevano. Ora invece ci sono dei testi che possono costi-tuire esempi concreti mediante i quali poi elaborare preghiere compatibili con il momento liturgico. Oltre ai testi da utilizzare c’è in questi scritti la preoccupazione di spiegare i gesti sacramentali, perché possano poi di-ventare significativi un po’ ovunque. Nasce così una nuova “letteratura”, con testi che sono destinati a trovare nuove espressioni, che poi si conso-lidano in un nuovo lessico, ma anche in un linguaggio particolare, che ri-chiede persone sempre più abilitate in questo nuovo settore. E si fa pure strada un’attività, come quella catechistica, che non è più sparita nella storia della Chiesa, pur risultando ancora embrionale. Essa è propriamente quella forma di istruzione che deve continuare anche dopo la preparazione al battesimo. Per arrivare a questo, è necessaria l’opera di prima evangelizzazione, che deve introdurre alla fede cristiana e alla scelta mo-rale conseguente. Proprio per questo prevale un intento di natura etica, con la proposta di una scelta di vita che fa desiderare il percorso lungo una via. Sentiamo dire nel libro degli Atti degli Apostoli che la scelta di divenire cristiani è di fatto la scelta di un particolare fede, che viene segnalata come una “via”, non ancora una “vita”: essa è dunque un percorso che deve comportare una scelta di campo e un impegno conse-guente e coerente. Si dà così importanza e valore alla norma da seguire e sono suggeriti comportamenti nell’ambito della sfera morale. Prende così importanza la norma da seguire, come se si trattasse di una nuova legge, analogamente a quello che si dice nel vangelo, con la proposta di un nuovo comandamento, che in realtà deriva da quello antico, da vivere comunque mediante una adesione interiore che fa operare secondo lo Spirito.

Qui abbiamo una prima sintesi, e quindi non un apparato organico di dottrina, che del resto non è ancora stata affrontata e codificata. Viene favorita invece la comunicazione di ciò che risulta essenziale e che ci si augura possa essere sempre più largamente comunicato per favorire sulla dottrina un sapere organico, ma soprattutto chiaro e condiviso. A questi compendi dottrinali poi si sostituiranno sussidi sempre più ampi e completi, soprattutto in presenza di sempre più facili cadute nell’errore e nell’eresia.

I primi testi, che già troviamo in giro alla fine del I secolo, ci danno l’immagine della comunità che ha visto venir meno gli Apostoli, facendo sparire coloro che erano ritenute le colonne della Chiesa: mancando coloro che lo avevano visto vivo, si ritiene opportuno fornire materiale che richiami l’essenziale e che di fatto garantisce un passaggio lineare della dottrina, in un periodo non facile, sia per la controffensiva del potere politico, sia per lo svilupparsi di ideologie diverse e di dottrine non sicure. La loro riscoperta in tempi recenti consente oggi di leggere con maggior completezza questo delicato periodo ed soprattutto fornire ciò che si ritiene essenziale e vitale del messaggio cristiano.

LA DIDACHE’

Per il titolo che ha il libretto, Didaché, dovremmo concepirlo come un te-sto didattico, e quindi la parola greca andrebbe tradotta con “insegna-mento”, che viene attribuito agli Apostoli, anche se non sono loro gli autori. Esso compare, secondo ciò che si ricava dal testo, già a partire dalla fine del I secolo, in concomitanza con alcuni testi del Nuovo Testamento, come può essere l’Apocalisse. Per il contenuto si deve riconoscere come il primo compendio di catechismo e, insieme, come la prima raccolta di alcuni testi che forse circolavano nell’ambiente liturgico. Per la stessa natura del testo che compone elementi diversi, non è neppure possibile dire in quale ambiente e a chi deve essere attribuita la composizione, che dunque appare anonima. Per alcuni particolari si può supporre che l’autore provenga dall’ambiente giudaico e che il luogo in cui può essere stato composto è quello della Palestina o della Siria. La natura morale e quella liturgica di alcuni passi lo fa ritenere una specie di manuale soprattutto per aiutare chi aveva responsabilità magisteriali in relazione al comportamento da tenere per la scelta di fede fatta e in relazione alla preghiera comunitaria che andava sviluppandosi un po’ ovunque.

Risultano evidenti due gruppi tematici: da una parte prevale l’esposizione di alcune norme di natura morale, dedotte dalla legislazione nota nell’ambiente ebraico; seguono alcune considerazioni circa i sacramenti (che non sono ancora i tradizionali sette), soprattutto in riferimento alle modalità celebrative e ai testi da usare on occasioni dei riti. Sulla base di questa presentazione, alcuni lo considerano il primo testo catechistico, anche se il contenuto non corrisponde al vero significato della parola “catechesi”, con la quale si intende la “risonanza” del contenuto evangelico, non più solo come esposizione storica di ciò che ha fatto il Cristo, ma come una indicazione dottrinale che deve poi tradursi in comportamento etico. Si possono così ravvisare due parti: quella morale e quella liturgica.

LA COMPONENTE MORALE

La parte morale invita a fare la scelta netta di campo, per cui il cristiano è chiamato a seguire la “Via”, che non è solo una strada comportamentale, ma è propriamente la persona stessa di Cristo, anche se nel tono e nei contenuti noi dovremmo pensare più a indicazioni di stampo etico. La scelta della via, che il vangelo definisce stretta, comporta il rifiuto della via alternativa che è invece quella diabolica, che conduce alla perdizione.

Capitolo I

1. Due sono le vie, una della vita e una della morte, e la differenza è grande fra queste due vie.

2. Ora questa è la via della vita: innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri.

3. Ecco pertanto l’insegnamento che deriva da queste parole: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici; digiunate per quelli che vi perseguitano; perché qual merito avete se amate quelli che vi amano? Forse che gli stessi gentili non fanno altrettanto? Voi invece amate quelli che vi odiano e non avrete nemici.

4. Astieniti dai desideri della carne. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra e sarai perfetto; se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu prosegui con lui per due. Se uno porta via il tuo mantello, dagli anche la tunica. Se uno ti prende ciò che è tuo, non ridomandarlo, perché non ne hai la facoltà.

5. A chiunque ti chiede, da’ senza pretendere la restituzione, perché il Padre vuole che tutti siano fatti partecipi dei suoi doni.  Beato colui che dà secondo il comandamento, perché è irreprensibile. Stia in guardia colui che riceve, perché se uno riceve per bisogno sarà senza colpa, ma se non ha bisogno dovrà rendere conto del motivo e dello scopo per cui ha ricevuto. Trattenuto in carcere, dovrà rispondere delle proprie azioni e non sarà liberato di lì fino a quando non avrà restituito fino all’ultimo centesimo.

6. E a questo riguardo è pure stato detto: Si bagni di sudore l’elemosina nelle tue mani, finché tu sappia a chi la devi fare.

Come si può notare nel testo, soprattutto da parte di chi ha familiarità con il testo biblico, ci sono evidenti citazioni desunte dal vangelo e armonizzate con una morale che deriva da espressioni proverbiali (come si evince al numero 6), con le quali si suggerisce un’etica naturale. Questo è ancora più evidente nel capitolo II, dove si sviluppano i dettati della legge mosaica con alcune precisazioni, che rivelano una cura del decalogo perché, come dice il vangelo, sia portato a pieno compimento.

Capitolo II

1. Secondo precetto della dottrina:

2. Non ucciderai, non commetterai adulterio, non corromperai fanciulli, non fornicherai, non ruberai, non praticherai la magia, non userai veleni, non farai morire il figlio per aborto né lo ucciderai appena nato; non desidererai le cose del tuo prossimo.

3. Non sarai spergiuro, non dirai falsa testimonianza, non sarai maldicente, non serberai rancore.

4. Non avrai doppiezza né di pensieri né di parole, perché la doppiezza nel parlare è un’insidia di morte.

5. La tua parola non sarà menzognera né vana, ma confermata dall’azione.

6. Non sarai avaro, né rapace, né ipocrita, né maligno, né superbo; non mediterai cattivi propositi contro il tuo prossimo.

7. Non odierai alcun uomo, ma riprenderai gli uni; per altri, invece, pregherai; altri li amerai più dell’anima tua.

Nel capitolo I si fa riferimento alla via da scegliere, che sulla base del contenuto dovremmo pensare sia effettivamente una indicazione da prendere nell’ambito della dottrina morale. E qui la scelta riguarda i rapporti che si devono sviluppare fra le persone: la scelta della via del Signore, che dovremmo pensare sia il Signore stesso, più che non una sua norma, poi comporta relazioni fra persone costruite sulla carità, che si deve precisare andando ben oltre la sola lettera dei comandamenti mosaici. Di per sé va rilevato che comunque queste norme morali hanno ancora un formulario che fa ricorso ai divieti più che non ai suggerimenti in chiave positiva.

Anche da questo dettaglio si deve riconoscere la provenienza del libretto da un ambiente ebraico, nel quale la dottrina morale è sempre costruita su ciò che si trova scritto nelle tavole mosaiche. Qui ancora manca una visione più positiva, quella che fa agire sulla base dello Spirito e non tanto della legge naturale, pur importante. Seguono nei capitoli successivi ulteriori determinazioni che devono poi concludersi con il richiamo alla confessione dei propri peccati, quella che si fa nell’adunanza, come dice il testo, e non è quindi da confondere con quella praticata successivamente nell’audizione personale tra il peccatore e il confessore. Al capitolo V viene introdotto il discorso che riguarda la via del male.

Capitolo V

1. La via della morte invece è questa: prima di tutto essa è maligna e piena di maledizione: omicidi, adultéri, concupiscenze, fornicazioni, furti, idolatrie, sortilegi, venefici, rapine, false testimonianze, ipocrisie, doppiezza di cuore, frode, superbia, malizia, arroganza, avarizia, turpiloquio, invidia, insolenza, orgoglio, ostentazione, spavalderia.

2. Persecutori dei buoni, odiatori della verità, amanti della menzogna, che non conoscono la ricompensa della giustizia, che non si attengono al bene né alla giusta causa, che sono vigilanti non per il bene ma per il male; dai quali è lontana la mansuetudine e la pazienza, che amano la vanità, che vanno a caccia della ricompensa, non hanno pietà del povero, non soffrono con chi soffre, non riconoscono il loro creatore, uccisori dei figli, che sopprimono con l’aborto una creatura di Dio, respingono il bisognoso, opprimono i miseri, avvocati dei ricchi, giudici ingiusti dei poveri, pieni di ogni peccato. Guardatevi, o figli, da tutte queste colpe.

Questi comportamenti negativi, che corrispondono – ma qui sono in numero maggiore – a ciò che troviamo scritto nel vangelo di Marco, laddove si parla di ciò che proviene dal Maligno, e che esce da un cuore occupato dal male con le intenzioni negative, visto che tutto viene dal di dentro, sono ulteriormente precisati con azioni che rivelano un animo doppio, un modo di operare dominato dall’ingiustizia e dall’impostura.

LA COMPONENTE LITURGICA

Nella parte successiva prevale la componente liturgica con segnalazioni che vogliono precisare gesti e parole da usare durante le convocazioni rituali. Si parla del battesimo e poi del digiuno e della preghiera, come vediamo trattato nel discorso della Montagna riportato in Matteo 5-7.

Qui, oltre alla segnalazione del “Padre nostro”, citato integralmente, vengono riportate due preghiere che noi definiamo eucaristiche, perché fanno riferimento al pane e al vino consacrati, senza però che compaia la formula consacratoria.

Capitolo IX

1. Riguardo all’eucaristia, così rendete grazie:

2. Dapprima per il calice:

Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.

3. Poi per il pane spezzato:

Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.

4. Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli.

5. Nessuno però mangi né beva della vostra eucaristia se non i battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha detto: Non date ciò che è santo ai cani.

Capitolo X

1. Dopo che vi sarete saziati, così rendete grazie:

2. Ti rendiamo grazie, Padre santo, per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l’immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.

3. Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa a gloria del tuo nome; hai dato agli uomini cibo e bevanda a loro conforto, affinché ti rendano grazie; ma a noi hai donato un cibo e una bevanda spirituali e la vita eterna per mezzo del tuo servo.

4. Soprattutto ti rendiamo grazie perché sei potente. A te gloria nei secoli.

5. Ricordati, Signore, della tua Chiesa, di preservarla da ogni male e di renderla perfetta nel tuo amore; santificata, raccoglila dai quattro venti nel tuo regno che per lei preparasti. Perché tua è la potenza e la gloria nei secoli.

6. Venga la grazia e passi questo mondo. 

Osanna alla casa di David.

Chi è santo si avanzi, chi non lo è si penta.

Maranatha. Amen.

7. Ai profeti, però, permettete di rendere grazie a loro piacimento.

Questi sono i passi più famosi del libretto, perché riportano i primi testi usati nelle assemblee liturgiche cristiane: si tratta di preghiere eucaristiche, che tuttavia non possiamo paragonare a quelle oggi in uso, mancando l’essenziale della formula di consacrazione. Sono però impostate come rendimento di grazie e si concludono con la glorificazione, come si riscontra nella dossologia finale, quando, elevando al cielo pane e vino consacrati, si dà gloria al Padre per opera di Cristo: lì si vede e si vive il suo sacrificio come offerta data a Dio. E proprio l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia è ribadito con estrema chiarezza in questo testo, che assume una notevole rilevanza circa il valore che si deve dare al sacramento dell’Eucaristia nella vita del cristiano.

Capitolo XIV

1. Nel giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro.

2. Ma tutti quelli che hanno qualche discordia con il loro compagno, non si uniscano a voi prima di essersi riconciliati, affinché il vostro sacrificio non sia profanato.

3. Questo è infatti il sacrificio di cui il Signore ha detto: In ogni luogo e in ogni tempo offritemi un sacrificio puro, perché un re grande sono io – dice il Signore – e mirabile è il mio nome fra le genti.

Come è detto con chiarezza, la riunione per l’eucaristia deve avvenire nel giorno del Signore e si deve caratterizzare per il gesto più importante che è lo spezzare del pane, con cui nei primi tempi viene definita questa celebrazione. Prima di essa è necessario fare la “confessione” dei peccati; in realtà qui si dice quanto è scritto nel vangelo e richiamato da Paolo per una corretta partecipazione alla mensa eucaristica e cioè la riconciliazione con i fratelli di fede, quando si è creata una discordia o una divisione. Propriamente non si fa riferimento alla necessità di premettere la confessione dei peccati mediante il sacramento, quanto piuttosto di rendere più vera la partecipazione alla comunione con il Signore, mediante la comunione con gli uomini, soprattutto se fratelli nella fede.

IL VALORE DELLA DIDACHE’

La “Didaché” appare un libretto di notevole valore storico, perché, comparendo fin dai primi tempi della vita della Chiesa, ci rivela che tra le cose essenziali della religione cristiana, già diffusa, si riconoscono come primarie quello della istruzione, o catechesi (che deve puntare a far operare una scelta di vita con la decisione per una via da considerarsi alternativa a quella del male) e quello della liturgia da celebrare nel giorno della domenica soprattutto come rendimento di grazie e quindi come sacrificio. Abbiamo qui richiamato l’essenziale; e questo è assolutamente irrinunciabile, in quanto viene riconosciuto come costitutivo della Chiesa, come decisivo perche essa sia fedele al Maestro e sia fedele nella sua tradizione. Poi le modalità celebrative possono modificarsi nel tempo, senza tuttavia rinunciare all’essenziale, così come la catechesi potrà trovare altri argomenti, destinati comunque a far decidere per la scelta della sola via possibile, quella di Dio, contenuta nel Vangelo, e di fatto identificabile con la persona stessa di Cristo.

IL PASTORE DI ERMA

È un altro libretto dei primi tempi della vita della Chiesa, scritto probabilmente nei primi anni del II secolo, e quindi coevo alle lettere di Ignazio, avendo in comune il medesimo clima di persecuzione che dominava in quel periodo. È un testo fortemente caratterizzato dal linguaggio di genere apocalittico, non tanto perché parla degli eventi finali, quanto perché, ricorrendo alle visioni, suggerisce, con una certa forza evocativa, la modalità giusta per reagire al male e per costruire un futuro migliore. Il linguaggio usato e il ricorso alle visioni somiglia molto a quello che noi riscontriamo nell’Apocalisse, ultimo libro della Rivelazione, attribuito all’evangelista Giovanni. Come già in quel testo, anche qui si respira un clima di tensione, che non viene attribuito alla sola persecuzione proveniente dall’esterno, quanto a ciò che si vive all’interno della Chiesa, in cui si fanno strada la stanchezza, la debolezza, l’incapacità a vivere nella giusta passione la propria testimonianza di fede. Si ipotizza che questo clima non sereno appartenga alla comunità cristiana di Roma e delle sue vicinanze: il libro registra uno stato d’animo non sereno, per il quale si deve supporre che non tutto fosse roseo e promettente, anche se non mancavano gli “eroi”, coloro cioè che, passando dalla persecuzione e vivendo il martirio di sangue, rivelavano una grande forza d’animo. Non così era invece per la maggioranza dei cristiani, spesso tentati di desistere, dopo la prima adesione. Se si avverte la necessità di scrivere il libro, si deve supporre che vi sia un clima da svelenire e ce ne debba essere un altro da costruire in cui non ci siano critiche o attacchi frontali, ma interventi che consentano il recupero, senza l’esasperazione degli animi.

E così si ricorre a cinque visioni e a dieci similitudini o parabole, inframmezzate da dodi-ci precetti, che costituiscono le indicazioni da offrire per la rinascita della comunità cristiana con un vivere migliore e più stabile. Il tono usato da chi scrive non è quello dell’intervento censorio o addirittura minaccioso: mediante la forma dialogica si vuole piuttosto recuperare, insieme con chi sbaglia, un clima di relazioni più corrette e più serene, per avere una Chiesa all’altezza della sua missione. Il protagonista, considerato l’autore del libretto, è un certo Erma, non meglio identificato. Origene, scrittore del III secolo, lo individua in un Erma citato da Paolo nella lettera ai Ro-mani, quando, tra i vari personaggi che saluta, spunta anche questo nome, senza che sia chiarito chi egli sia. Ciò che possiamo conoscere dell’autore lo desumiamo dal testo, anche a sapere che le vicende narrate hanno un forte sapore allegorico e definiscono una situazione che riguarda un po’ tutti. Secondo altre fonti questo personaggio misterioso che porta il nome di Erma, sarebbe fratello di Papa Pio I (140-154), vissuto in un periodo piuttosto turbolento, per la presenza nella Chiesa di vari eretici con un largo seguito. Se esiste questa parentela fra i due, si deve supporre che all’autore del libretto, divenuto un testo rilevante in quel periodo storico, si volesse dare un certo peso, collegandolo con l’autorità suprema della Chiesa romana di quel tempo. Ma il testo non richiedeva simili supporti, visto che esso ebbe diffusione e risonanza notevoli, soprattutto per i contenuti e anche per la modalità con cui questi vengono proposti.

Prima Visione

Chi mi aveva allevato a Roma mi vendette a una certa Rode (si noti la corrispondenza del nome della serva della casa di Marco a Gerusalemme, dove Pietro liberato dal carcere va a stabilirsi durante la notte, accompagnato dall’angelo che lo ha liberato, come si racconta in Atti 12). La ritrovai dopo molti anni e incominciai ad amarla come sorella. Trascorso qualche tempo, la vidi che si bagnava nel fiume Tevere, le diedi la mano e la tirai dal fiume. Vedendo la sua bellezza, dissi nel mio cuore: “Sarei felice se avessi una moglie come questa per bellezza e per carattere”. Desideravo solo ciò e null’altro. Qualche tempo dopo, mentre andavo verso Cuma, contemplando le opere di Dio perché grandi, splendide e potenti, mi addormentai lungo la strada. Uno spirito mi prese e mi portò in una parte impraticabile per dove l’uomo non poteva camminare. Era un luogo dirupato e franato dalle acque. Attraversando il fiume, venni alla pianura e piegando le ginocchia incominciai a pregare il Signore e a riconoscere i miei peccati. Mentre pregavo, il cielo si spalancò e vidi quella donna, che avevo desiderato, salutarmi dicendomi: “Salve, Erma”.

Fissando lo sguardo su di essa le chiesi: “Signora, che fai tu là?”. Essa mi rispose: “Sono stata elevata in cielo per accusare i tuoi peccati al Signore”. Soggiungo: “Ora tu sei mia accusatrice?”. “No, dice, ascolta le parole che voglio dirti”. Dio che abita nei cieli e fece da ciò che non era le cose che sono, moltiplicandole e accrescendole per la sua santa Chiesa, è adirato con te perché hai peccato contro di me”. Rispondendo le dico: “Ho peccato contro di te? In che modo? Quando ti ho detto una parola sconveniente? Non ti ho sempre considerato come una creatura divina? Non ti ho sempre rispettato come una sorella? Come mai, inventi, o donna, tali cattiverie e brutture?”. Sorridendo mi dice: “Nel tuo cuore salì il desiderio della cattiveria. Non ti sembra che sia cosa malvagia per un uomo giusto, che un desiderio cattivo entri nel suo cuore? È un grande peccato, dice. Infatti l’uomo giusto desidera le cose giuste, e col volere le cose giuste, la sua gloria si dirige ai cieli ed ha propizio il Signore in ogni cosa. Quelli che nel loro cuore vogliono cose malvagie si preparano la morte e la schiavitù; soprattutto chi si afferra a questo mondo, magnifica le sue ricchezze e non si preoccupa dei beni futuri. Si pentiranno le anime di coloro che non hanno speranza ma hanno disperato di sé e della loro vita! Ma tu prega Dio ed egli guarirà i tuoi peccati, quelli di tutta la tua casa e di tutti i fedeli”.

Già in questa prima visione emerge la questione di fondo del libretto, che riguarda il peccato: non si tratta solo di un peccato personale, quanto piuttosto di una situazione che coinvolge un po’ tutti nella Chiesa, dove l’adesione, inizialmente fervorosa, lascia presto il posto alla fragilità, alla mancanza di fedeltà, alle cadute. Di qui il richiamo deciso al pentimento e alla conversione che deve accompagnare il vivere del credente. Costui rimane tale anche a rivelarsi debole, e tuttavia deve anche imparare a riconoscere la sua fragilità e a fare opera penitenziale, richiamando in continuazione ciò che risulta essenziale al vivere di fede. Di qui la visione finale, durante la quale compare colui che dà il titolo all’operetta e cioè il Pastore: costui fornisce ad Erma i precetti che devono essere richiamati perché il cristiano si converta.

Quinta visione: Osservare i precetti

In casa, dopo che ebbi pregato e mi fui seduto sul letto, entrò un uomo di volto venerando, nelle sembianze di pastore. Era vestito di una bianca pelle di capra, con la bisaccia sulle spalle e il bastone in mano. Mi salutò e risposi al suo saluto. Subito mi si sedette vicino e disse: “Sono stato inviato dall’angelo più venerabile per abitare con te i rimanenti giorni della tua vita”.

Pensai che fosse a tentarmi e gli dissi: “Tu chi sei? Io so a chi fui affidato”. Egli mi risponde: “Non mi riconosci?”. “No, dico”. ” Io sono, riprese, il pastore cui fosti affidato”. Mentre parlava la sua figura cambiò e riconobbi che era quello a cui fui affidato. Rimasi subito confuso, mi prese la paura e mi sentii tutto schiacciato dall’angoscia, perché gli avevo risposto malamente e con stoltezza. Egli mi disse: “Non ti confondere e fatti coraggio per i precetti che sto per darti. Infatti, aggiunse, fui mandato per mostrarti nuovamente tutte le cose che in precedenza hai viste, le principali che sono per voi utili. Prima di tutto scrivi i miei precetti e similitudini, e le altre cose come te le mostrerò, così le scriverai. Per questo ti ordino di scrivere prima i precetti e le similitudini perché tu subito li legga e li possa osservare”. Scrissi, dunque, i precetti e le similitudini come mi aveva ordinato. Se voi, dopo averli sentiti, li osserverete e, camminando nella loro via, li metterete in pratica con cuore puro, conseguirete dal Signore quanto vi ha promesso. Se, invece, dopo averli sentiti non vi pentirete, tornando ai vostri peccati, riceverete dal Signore il contrario. Il pastore, l’angelo della penitenza, mi ordinò così di scrivere tutte queste cose.

Rilevando queste parole e questo tono narrativo si deve riconoscere che il libretto prende posizione su un problema non indifferente che ha scosso la Chiesa per parecchio tempo: già nel periodo più drammatico delle persecuzioni si era acceso un vivo dibattito circa i “lapsi”, come venivano chiamati coloro che erano caduti e avevano preferito rinnegare la fede piuttosto che venire torturati e uccisi. Erano definiti così anche quelli che, senza rinnegare, avevano deciso di nascondersi per non essere catturati e sottoposti a processo. La discussione, piuttosto animata, aveva coinvolto un po’ tutti nella Chiesa, compresi coloro che avevano responsabilità come vescovi, tenuto conto che alla metà del III secolo, sono proprio loro ad essere perseguiti per legge nel vano tentativo da parte delle autorità politiche di scardinare il sistema, eliminando i capi e disperdendo gli altri. Il caso più clamoroso era stato quello di S. Cipriano, vescovo di Cartagine, uomo ricco e notabile della città, divenuto famoso nel mondo cristiano come un notevole scrittore. Costui era stato invitato dalla comunità locale a nascondersi; poi, rientrato, si era difeso e aveva suggerito la linea da te-nere nella Chiesa in presenza di simili casi. Successivamente anche lui fu preso, processato e condotto al martirio, avvenuto il 14 settembre 258, di cui abbiamo una fedele ricostruzione. Il Pastore di Erma, che dovrebbe essere anteriore a questo periodo, tratta la medesima questione.

L’indicazione che suggerisce è quella della comprensione nei confronti dei deboli, i quali, ovviamente, si devono pentire e sono invitati a riconoscere la loro debolezza, sottoponendosi ad un periodo di penitenza per poter essere ri-ammessi. Non era ancora in uso la Confessione dei peccati, come viene oggi praticata, e cioè ricorrendo al prete, in presenza del quale dire le proprie colpe per avere l’assoluzione; allora questa era assicurata di fatto verso il termine della vita quando questa sembrava imminente. Evidentemente, in presenza di un peccato ben noto, perché pubblico, potevano sorgere tensioni nella comunità; proprio per questo si farà strada l’idea di una Confessione, che inizialmente è pubblica e che poi diventa sempre più privata. Rimaneva comunque la delicatezza di un problema non indifferente circa il trattamento di coloro che risultavano deboli davanti alla persecuzione e che potevano chiedere di essere riammessi, una volta passata la bufera. Di faceva strada poi il riconoscimento della debolezza nel vivere le esigenze della vita cristiana e proprio per questo cresceva il sen-so di frustrazione per chi sbagliava, ma anche la diffidenza nei confronti di chi appariva sempre incapace di reggere nei suoi impegni e nella sua immagine di credente. Per quanto fossero anche diffuse le eresie e quindi posizioni che non si faticava a riconoscere sbagliate, perché deviate e devianti, qui la questione riguarda soprattutto “ad intra”, cioè la posizione dei credenti che peccavano: forse alcuni si portavano il complesso della propria inadeguatezza; altri vivevano come una sorta di scandalo la presenza nella comunità di persone, incapaci di reggere nelle situazioni difficili, anche per colpa delle proprie intemperanze,. Se si considerano i precetti indicati dal Pastore, si scopre che appunto vengono enumerati quei modi di essere e di operare che sono da considerare come peccati e che sono all’ordine del giorno un po’ per tutti e che evidentemente possono creare tensioni anche nelle relazioni tra fratelli di fede. Si stigmatizza la maldicenza, in testa a questi comportamenti negativi, segno evidente che questo male appare radicato e rovinoso per una comunità che deve dare una bella testimonianza di sé, soprattutto nella coerenza con le scelte essenziali derivate dal comandamento della carità. E non manca il richiamo alla verità, come pure l’invito alla castità, segno che su questi terreni Erma deve riconoscere le sue radicate debolezze. Esse però non appartengono solo a lui, perché lui rappresenta una generazione che si rivela quanto mai debole e soprattutto incapace di un serio pentimento e di una altrettanto seria conversione.

Il richiamo dei precetti che viene fatto dal Pastore può aiutare a vincere i mali, o quanto meno a risollevarsi quando si è caduti rivelando non solo la sincerità d’animo, ma la ricerca continua dello Spirito di Dio. È interessante la pagina nella quale viene evocata la presenza nella comunità del falso profeta: costui sembra essere un personaggio di rilievo nella comunità, forse un capo, forse lo stesso vescovo di Roma, il Papa, che non si rivela tale, se non è lo Spirito a parlare in lui. Così va riconosciuto chi è il vero profeta: il criterio qui suggerito è già presente nella Bibbia, quando si tratta dell’argomento e perciò il libretto si rivela ancorato a questa tradizione che va ribadita anche nel contesto cristiano in un momento che risulta piuttosto problematico.

Undicesimo precetto: Il falso profeta

Mostrandomi uomini seduti su una panca e un uomo seduto su di una cattedra mi dice: “Vedi quelli che siedono sulla panca?”. “Vedo, signore”. Mi precisa: “Questi sono i fedeli, e quello che è seduto sulla cattedra è un falso profeta che rovina la mente dei servi di Dio. Rovina, cioè, la mente dei dissociati, non dei fedeli. I dissociati vanno da lui come da un mago e gli chiedono che cosa accadrà loro. Il falso profeta, non avendo forza alcuna dello Spirito di Dio, risponde secondo le domande e le passioni della loro iniquità e soddisfa le loro anime come essi vogliono. Essendo egli vano, cose vane dice ai vani. Su ciò che gli si domanda, risponde con la vanità dell’uomo. Dice anche cose vere. Il diavolo, infatti, lo riempie del suo spirito, con lo scopo di piegare qualche giusto. Quanti, dunque, sono forti nella fede del Signore, poiché sono rivestiti di verità non aderiscono agli spiriti malvagi, ma se ne allontanano. Quanti, invece, sono incerti e si convertono spesso, si rivolgono agli indovini come i pagani ed acquisiscono un peccato maggiore divenendo idolatri. Chi interroga un falso profeta su qualche faccenda, è un idolatra, uno privo di verità, un insulso. Infatti, ogni spirito dato da Dio non si fa interrogare, ma avendo la forza divina, da sé dice ogni cosa poiché è dall’alto, dalla potenza dello Spirito di Dio. Invece, lo spirito che si fa interrogare e si pronunzia secondo le passioni degli uomini, è terreno, leggero e non ha forza. Addirittura non parla se non è interrogato”. Chiedo: “Come, o signore, l’uomo distinguerà chi è profeta da chi è falso profeta?”. “Ascolta, e di entrambi i profeti, come ti sto per dire, valuterai il profeta e il falso profeta. Dalla vita distingui l’uomo che ha lo Spirito di Dio. Prima, chi ha dall’alto lo Spirito è calmo, sereno, umile e lontano da ogni malvagità e desiderio vano di questo secolo. Egli considera se stesso inferiore a tutti gli uomini e, interrogato, non risponde a nessuno, né parla come una monade. Lo Spirito Santo non parla quando l’uomo vuole, ma solo quando Dio vuole che parli.

Quando un uomo che ha lo Spirito di Dio entra in una riunione di uomini giusti, che hanno la fede dello Spirito di Dio, e c’è la preghiera della riunione di quegli uomini a Dio, allora l’angelo dello spirito profetico, che dimora in lui, riempie l’uomo, e quell’uomo pieno dello Spirito Santo parla alla moltitudine come il Signore vuole. Così si manifesta lo spirito divino. Tale è la potenza del Signore sullo spirito divino.

L’autore che immagina di ricevere i precetti a partire dalle visioni che ha, si rende conto che le indicazioni proposte sono molto impegnative e che chi ha responsabilità di governo può trovarsi in difficoltà a dare simili indicazioni, visto che la stessa autorità nella Chiesa è fatta di persone fragili, portate a sbagliare: non possono erigersi a giudici implacabili verso gli erranti e devono dunque esercitare la misericordia. Questa però non deve affatto significare che vengano diluite le richieste, che la proposta cristiana debba essere annacquata. Il Pastore è molto chiaro con lo stesso Erma e, quindi, con coloro che esercitano nella Chiesa la loro autorità: i precetti, per quanto siano duri, devono essere osservati; anzi, la consapevolezza che essi sono molto impegnativi deve indurre ad andare fino in fondo.

Al termine dei dodici precetti

Terminati i dodici precetti, mi dice: “Questi sono i precetti, cammina nella loro via e prega quelli che ascoltano che la loro conversione sia pura per i rimanenti giorni della loro vita. Adempi con cura il ministero che ti affido e opererai molto. Sarai gradito a quelli che vogliono convertirsi e crederanno alle tue parole. Sarò con te e li indurrò a credere”. Gli chiedo: “Questi precetti sono grandi, belli, eccellenti, e possono rallegrare il cuore dell’uomo che può osservarli. Non so, o signore, se questi precetti possono essere os-servati dall’uomo, poiché sono troppo duri”. Rispondendo mi dice: “Se sei convinto che si possono osservare, li osserverai senza difficoltà e non saranno duri. Se, invece, si insinua nel tuo cuore che non possono essere osservati dall’uomo, non li osserverai. Ora ti dico: se non li osserverai, ma li trascuri, non avrai salvezza né tu, né i tuoi figli, né la tua casa poiché tu hai ritenuto che questi precetti non possono essere osservati dall’uomo”.

Sulla base di un simile intervento da parte del Pastore si potrebbe concludere che il libro si presenta scritto con particolare severità, come un manuale di precetti che non possono essere disattesi. Ed invece il libretto è all’insegna della misericordia; è stato scritto per aiutare la comunità cristiana a superare la tensione che si può creare in presenza di posizioni rigide e di pretese che possono dare origine a forme settarie.

L’autore fa intervenire “il Pastore”, il vero protagonista del libretto, per stemperare una impressione di severità che, se riguarda l’osservanza dei precetti, non deve comunque diventare un indurimento del cuore da parte di nessuno, soprattutto da chi esercita nella Chiesa l’autorità.

Mi disse queste cose con uno sdegno tale che rimasi sconvolto ed ebbi molta paura. Il suo aspetto si alterò in modo che un uomo non poteva sostenere la sua ira. Vedendomi tutto disorientato e confuso, incominciò a parlarmi con più moderazione e dolcezza e mi disse: “Insulso, dissennato e incerto, non sai che la gloria di Dio è grande, forte e stupenda? Egli non creò il mondo per l’uomo e tutta la sua creazione sottomise all’uomo dandogli il potere di dominare ogni cosa che è sotto il cielo? Se, dunque, dice, l’uomo è il signore di tutte le creature di Dio e su tutte domina, non può dominare anche questi precetti? Può, precisa, dominare tutti questi precetti solo l’uomo che ha il Signore nel suo cuore. Quelli che hanno il Signore sulle labbra, ma il cuore indurito, sono assai lontani da Dio e per loro questi precetti sono duri e inattuabili. Mettete il Signore nel vostro cuore, voi che siete vani e leggeri nella fede, e credete che nulla è più facile più dolce e più mite di questi precetti. Pentitevi, voi che camminate nei precetti del diavolo, difficili, aspri, duri e licenziosi e non temete il diavolo perché non ha forza contro di voi. Sarò con voi io, l’angelo della penitenza che lo domina. Il diavolo incute solo paura e la sua paura non ha forza. Non temetelo, dunque, e fuggirà da voi”.

È interessante l’indicazione che l’autore suggerisce mettendola in bocca al Pastore: dal Creatore l’uomo è stato fatto signore del creato stesso e quindi deve dominare; il suo dominio non deve però tramutarsi in “spadroneggiamento”, che fa uscire dalla “padronanza di sé”: il vero signore ha padronanza di sé e come tale può avere padronanza dei precetti stessi. Viene rovesciato lo schema per cui il precetto sembra una tale imposizione da imbrigliare l’uomo costretto a fare e non chiamato ad essere responsabile di sé. Ed è ancora più forte l’affermazione successiva nella quale lo scrittore offre un criterio valido anche oggi: chi ha il cuore indurito, e dunque impone un fardello pesante senza misericordia sugli altri, anche a sostenere di essere un credente in Dio e quindi ad avere sulla bocca il nome di Dio, è di fatto assai lontano da lui e come tale i suoi precetti non possono essere divini, perché questi sono dati da un Dio esigente e nello stesso tempo misericordioso, un Dio, che essendo Padre, tratta i suoi figli con severità, perché chiede ad essi ciò che lui stesso chiede a sé, ma nel contempo sa capire la debolezza dei figli e quindi li sa incoraggiare sempre al bene, sempre al meglio.

La conclusione a cui arriva il libro è quella di avere fiducia, perché anche a dover osservare precetti impegnativi, la grazia di Dio dà una mano: non potrebbero essere “comandamenti”, se Dio facesse mancare la sua mano, mai pesante. Soprattutto, afferma il Pastore, il cuore deve essere puro, secondo il senso vero di questa parola e cioè una coscienza di sé impostata su ciò che dice Dio e non sulle proprie emozioni o reazioni istintive.

LE SIMILITUDINI

Alle visioni e ai precetti seguono le similitudini, che sembrano parabole evangeliche, mediante le quali gli stessi temi e le medesime argomentazioni date in precedenza vengono come stemperate e chiarite ricorrendo ad alcuni esempi, dal sapore di una favola, atti a far comprendere meglio ciò che l’autore vuole insegnare nel suo libretto. Significativa nella sua brevità è la terza similitudine, nella quale si parla delle piante che d’inverno sembrano tutte uguali, sia quelle che non hanno vegetazione per la stagione, sia quelle che sono allo stesso modo perché già morte. Il mondo, compreso quello attuale, ci rivela la compresenza, come nella parabola del buon grano e della zizzania, sia dei giusti sia degli ingiusti. Anche se non sembrano avere rilevanza, i giusti sono presenti e proprio per questo è sempre possibile vivere secondo Dio, così come la presenza di chi sbaglia ci aiuta a riconoscere la comune debolezza e la necessità del ricorso all’unico veramente misericordioso, che è Dio.

Terza similitudine: Gli abitanti di questo mondo

Mi mostrò molti alberi senza foglie, che mi sembravano quasi secchi. Erano tutti uguali. Mi dice: “Vedi questi alberi?”. “Li vedo tutti uguali e secchi”. Mi risponde: “Gli alberi che vedi sono gli abitanti di questo mondo”. “Perché sono come secchi e uguali?”. “Perché in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma sono uguali. Questo mondo è un inverno per i giusti e non si vedono perché abitano con i peccatori. Come nell’inverno gli alberi perdono le foglie e sono uguali e non si vedono quali sono secchi e quali vegeti, così in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma tutti sono uguali”.

CONCLUSIONE

Come si può notare dai due libretti, comparsi agli inizi non facili del per-corso della Chiesa dentro la storia umana, c’è una specie di letteratura sotterranea, o poco nota e soprattutto poco considerata, che propone questioni di un certo spessore, su cui il dibattito, mai concluso, può offrire, se non soluzioni ai problemi, vie da perseguire. Trattandosi di testi che fanno parte del patrimonio della Chiesa e che riguardano problemi interni alla comunità cristiana, si potrebbe concludere che interessano solo quanti frequentano la Chiesa o che risultano addetti ai lavori; simili testi affiorano laddove si vanno a cercare anche i piccoli dettagli di storia. Poi però si può scoprire che anche oltre le questioni temporanee e locali, ci sono problemi che toccano il vivere umano e la convivenza fra le persone e che richiedono un approccio meno sbrigativo e ideologico per far raggiungere al vivere sociale un equilibrio che spesso manca. La Didaché è specifica con le sue indicazioni morali e liturgiche; e tuttavia anche al di fuori della Chiesa c’è bisogno di ritrovare un insegnamento circa i valori fondamentali e nel contempo anche una maniera meno retorica in riferimento alle celebrazioni civili, pur sempre significative per il cammino di un popolo. Nella Chiesa e nella società è più che mai necessario il recupero di valori e anche di modalità particolari perché gli stessi valori possano essere trasmessi in maniera utile e costruttiva del senso sociale, oggi piuttosto deficitario. Anche per “Il Pastore di Erma” il problema affrontato riguarda un periodo particolare della storia della Chiesa, che poi appare tramontato. In realtà, se si considera la questione di chi sbaglia e di chi giudica in modo impietoso gli erranti, ci si rende conto che anche oggi, sia a livello religioso, sia a livello civile, risulta indifferibile il problema di come si valutano le questioni, soprattutto quando ci si trova in presenza di scontri per i quali non è più possibile il compromesso, la negoziazione, il rispetto l’uno dell’altro, una valutazione dei contenziosi che, anche a dover riconoscere errori e mali, vada alla ricerca del bene comune e quindi della salvaguardia di tutti, compreso di chi si è messo sulla strada più sbagliata. È vero che il libretto vuole trattare in maniera specifica di questioni di ordine religioso e che le soluzioni cercate e poi indicate devono toccare in modo particolare quanti hanno responsabilità di governo nella Chiesa, ma, fatti gli opportuni adattamenti, ciò che lì troviamo scritto può essere utile anche oggi, sia nella Chiesa, dove stanno montando le tensioni proprio perché si vuole affermare una verità legata ai concetti e ai principi, ai dogmi e ai sistemi, fino a costruire malanimo e risentimento nei confronti delle persone, sia nella società civile, essa pure incamminata ad erigere steccati ideologici, che non danno la priorità alle persone da rispettare, anche se si trovano in campi avversi.

S. Ignazio di Antiochia e le sette lettere

PREMESSA:

SCRITTI APOSTOLICI E POST-APOSTOLICI

C’è una copiosa letteratura cristiana antica, ai più poco nota, che rivela una produzione di notevole valore e meritevole di essere conosciuta anche oltre gli addetti ai lavori, anche oltre i credenti, che comunque ben raramente vi si accostano. La produzione scritta si sviluppa già ai primi tempi: si conoscono diverse lettere spedite dagli apostoli alle loro comunità, di cui si conservano quelle che oggi appartengono al “canone” e sono quindi ritenute “ispirate”. Nelle stesso periodo i detti di Gesù venivano diffusi per via orale, attraverso la predicazione dei discepoli, che raccontavano le proprie esperienze e mettevano in luce gli episodi necessari per illustrare meglio la dottrina, cioè gli elementi qualificanti del vivere e dell’operare di chi voleva essere cristiano e voleva testimoniare la propria fede. Poi, forse anche per la congerie di documenti e soprattutto di versioni che potevano anche allargarsi a comprendere pure ciò che non si poteva ritenere uscito dalla bocca del Maestro, si arrivò alla decisione di scrivere quei libri che sono noti come “Vangeli”, in quanto contengono la “bella notizia” che ha come protagonista Gesù di Nazareth. Tra questi libri, scritti probabilmente dopo la catastrofe di Gerusalemme distrutta dai Romani nel 70, e proprio perché di qui si ebbe il distacco dei cristiani dal mondo ebraico, così duramente provato con la rivolta finita male, emergono i quattro considerati “canonici”, perché tutte le Chiese li ritengono tali, mentre altri, poi definiti “apocrifi”, non sono ritenuti ispirati e quindi essenziali per la fede da parte di tutte le Chiese sparse nel mondo occidentale e orientale dell’Impero. La medesima considerazione accompagna i testi attributi a Paolo, e cioè le sue lettere scritte a diverse comunità, che sempre più, già in questo periodo si utilizzano negli incontri di preghiera. Questa fase di valorizzazione di testi scritti, accanto alle comuni-cazioni orali che continuano, non si esaurisce con l’età “apostolica”, cioè quando sono ancora vivi e operanti coloro che sono stati protagonisti con Gesù del vangelo, essendo stati designati da lui. Quando, verso la fine del secolo I, si esaurisce questa età, perché scompaiono gli apostoli e si passa all’età successiva, il posto di guida viene affidato ai collaboratori, che li hanno seguiti e sono diventati i loro successori, con la designazione di “ispettori” (in greco = episcopoi). Anche costoro ricorrono a lettere e ad altro genere di scritti per comunicare la fede e soprattutto dare istruzioni e incoraggiamenti alle comunità non facilmente raggiungibili.

Questa produzione presenta dei testi che, inizialmente, qualcuno considera addirittura ispirati, alla stregua dei testi apostolici, mentre in seguito essi diventeranno fonti di grande valore, ma non necessariamente dotati della medesima ispirazione dei libri divenuti ormai di dominio pubblico sempre più ampio. Soprattutto già alla fine del I secolo, ma più ancora nel II secolo, abbiamo testi definiti “dei Padri apostolici”, in quanto risultano appartenere a quanti hanno conosciuto gli apostoli e sono stati alla loro scuola, continuando la loro opera. Costoro costituiscono il gruppo iniziale della “Patristica”, che è la grande produzione letteraria cristiana, nella quale i grandi scrittori vengono considerati “i Padri della Chiesa”. La scienza che studia tutta questa produzione scritta viene poi definita “Patrologia”.

I PADRI APOSTOLICI

Le figure di alcuni vescovi, i loro scritti, soprattutto nella forma delle lettere e alcuni testi, giunti anonimi, costituiscono il complesso che noi oggi definiamo dei “Padri apostolici”, così segnalati perché vengono considerati strettamente connessi con gli Apostoli, da cui hanno ricavato, più che la dottrina, la testimonianza di fede in Gesù. Sono loro a rappresentare il passaggio ad una nuova epoca, e ad assicurare, in questo passaggio, la sicura continuità con ciò che predicavano gli Apostoli e i discepoli che potevano vantare di essere stati presenti al vivere e all’operare del Maestro, o erano vissuti a stretto contatto con coloro che lo avevano visto vivo e soprattutto risorto. Anche questi “padri” hanno conosciuto qualche apostolo o discepolo, ma di fatto devono essere considerati di una generazione successiva e comunque delegati dai loro maestri a dare continuità alla Chiesa già in pieno sviluppo.

Gli scritti dei Padri apostolici hanno un carattere pastorale. Il loro contenuto ed il loro stile è molto simile a quello degli autori del Nuovo Testamento. Lo stile narrativo prediletto infatti è la lettera, inviata da una comunità ad un’altra comunità. Essi costituiscono un ponte fra l’epoca della rivelazione e quella della tradizione e sono una testimonianza importantissima dei primi anni della fede cristiana. I Padri apostolici provengono da regioni diversissime dell’Impero romano:  Italia,  Asia Minore (attuale Turchia), Siria … Essi scrivono in relazione a circostanze particolari, presentando comunque un insieme di idee, da cui si può desumere quale fosse la dottrina cristiana professata nella loro epoca. I contenuti delle lettere dei Padri apostolici erano a grandi linee i seguenti: l’incoraggiamento all’unità all’interno delle comunità cristiane, alla fede, all’obbedienza al vescovo, l’invito a fuggire l’idolatria e le eresie e praticare la penitenza e l’ascetismo, l’invito alla generosità e alla carità vicendevole. Esse inoltre contenevano anche indicazioni di carattere liturgico. Gli scritti quindi contenevano più dichiarazioni di circostanza che definizioni dottrinali vere e proprie. Un altro carattere comune delle loro opere è quello escatologico: in esse si considera imminente la seconda venuta di Cristo. In generale comunque le opere dei Padri apostolici presentano una dottrina cristologica uniforme: Cristo è il Figlio di Dio preesistente che partecipò alla creazione del mondo. Non fanno parte del canone biblico, cioè non sono inseriti tra i libri della Bibbia. Tuttavia, a differenza dei testi apocrifi, nei primi secoli cristiani godettero di una notevole fortuna al punto che alcuni di essi sono contenuti anche in antichi manoscritti della Bibbia (per esempio nel Codex Sinaiticus e nel Codex Vaticanus). (Wikipedia)

S. IGNAZIO

Tra le figure più significative in questo passaggio d’epoca, che è pure passaggio di secolo, c’è colui che si segnala per le lettere che scrive e per il martirio a cui va incontro, ben consapevole di ciò che gli sta succedendo. Noi lo ricordiamo per questo. E tuttavia egli ricopre nella Chiesa un ruolo di notevole levatura, essendo a capo di una comunità che in quel periodo appariva la più grande e soprattutto la più vivace, la comunità nella quale per la prima volta gli aderenti alla fede in Gesù vengono chiamati cristiani, come troviamo scritto in Atti 11,26. Si tratta di Antiochia di Siria, che in quel periodo era la terza città dell’Impero romano, dopo Roma e dopo Alessandria d’Egitto. Qui, fuori della Palestina, si era formata una comunità con gente che non proveniva solo dall’ebraismo, e proprio per questo era sorto il problema di come avviare l’integrazione, lasciando le prescrizioni israelitiche per far emergere quanto era specifico del nuovo “credo”. La comunità era stata visitata da Barnaba, inviato dagli apostoli che erano a Gerusalemme (Atti 11,22), e poi aveva accolto Paolo, rintanato a Tarso, sua città d’origine, dopo il periodo successivo alla sua conversione sulla via di Damasco. Da questa città era partita la polemica sulla questione dei pagani nella Chiesa e quindi la necessità di discuterne nel Concilio di Gerusalemme (Atti 15). Secondo la tradizione, questa Chiesa diventa successivamente la prima sede episcopale di Pietro, prima che egli raggiunga Roma e la faccia così diventare la sede primaziale e soprattutto la cattedra di colui che poi sarà chiamato il Papa. 

A guidare la comunità di Antiochia, dopo Pietro, fu eletto, forse dall’assemblea degli “anziani”, Evodio, del quale abbiamo solo il nome. Probabilmente nel 69 gli succedette Ignazio, già presente nella città, il cui nome bastava a rendere illustre il suo vescovo. Non abbiamo di lui molte notizie, se non desumendole da quanto lui scrive nelle sue lettere. E quindi non si conoscono le circostanze circa la sua formazione, circa la sua conversione e più ancora circa il suo coinvolgimento nella vita della Chiesa, per assu-mere una responsabilità così importante come quella di essere a capo del-la comunità cristiana di Antiochia, così prestigiosa.

Crebbe in ambiente pagano; fu convertito in età adulta da S. Giovanni evangelista. Secondo la tradizione, nel 69 fu nominato secondo successore di S. Pietro, dopo S. Evodio, alla sede episcopale di Antiochia. (Wikipedia)

Sant’Ignazio fu il terzo vescovo di Antiochia, in Siria, cioè della terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d’Egitto. Lo stesso San Pietro era stato primo vescovo di Antiochia, e Ignazio fu suo degno successore: un pilastro della Chiesa primitiva così come Antiochia era uno dei pilastri del mondo antico. Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, e che anzi si convertisse assai tardi. Ciò non toglie che egli sia stato uomo d’ingegno acutissimo e pastore ardente di zelo. I suoi discepoli dicevano di lui che era ” di fuoco”, e non soltanto per il nome, dato che ignis in latino vuol dire fuoco. Mentre era vescovo ad Antiochia, l’Imperatore Traiano dette inizio alla sua persecuzione, che privò la Chiesa degli uomini più in alto nella scala gerarchica e più chiari nella fama e nella santità. (da “Santi e Beati”)

IL MARTIRIO

Ciò che si può raccontare di quest’uomo lo si ricava dalle sue lettere, che sono rimaste fino a noi, anche perché sono state conservate e lette fino ai nostri giorni, non solo dai cristiani della sua Chiesa e non solo nel periodo immediatamente successivo al suo martirio, che ha contribuito a renderlo glorioso e memorabile nella Chiesa universale. Non abbiamo i dettagli esatti di ciò che avvenne nella circostanza del martirio, come succede per altri martiri di cui si conservano o gli atti processuali o il resoconto da parte di cristiani che assistevano. Leggendo le sue lettere, sappiamo che fu arrestato e condotto in catene a Roma per essere sottoposto alla pena capitale, che si può supporre sia già stata decisa prima di partire.

Essa viene eseguita nell’anfiteatro, che si deve supporre sia quello “Flavio”, cioè il Colosseo. L’esecuzione doveva essere pubblica e avveniva nei confronti di chi non risultava cittadino romano: perciò lo spettacolo consisteva nell’essere esposto “ad bestias” e quindi nel finire “sotto i denti” di bestie feroci, in genere leoni o altri animali carnivori provenienti dall’Africa. Le rappresentazioni iconografiche che si conservano ancora oggi presentano Ignazio così.

ICONA CON IGNAZIO DIVORATO DAI LEONI

Il tragico spettacolo si pensa sia avvenuto a Roma nell’anno 107 e secondo la tradizione viene collocato il 17 ottobre, data in cui oggi viene celebrata la memoria liturgica.

LE LETTERE

Durante il percorso che lo porta da Antiochia a Roma, il vescovo, incatenato al suo picchetto di soldati che lo doveva sorvegliare, passa attraverso l’Asia Minore, e lì manda ai suoi confratelli vescovi e ai cristiani di alcune delle città i suoi saluti, nella forma epistolare. Queste lettere vengono conservate e per un certo periodo sono addirittura messe alla pari con quelle di Paolo e degli altri apostoli. Ignazio, evidentemente, conosceva questo metodo di raggiungere le comunità sparse sul territorio ed approfittava di una simile corrispondenza per lasciare una specie di suo testamento, con le tante raccomandazioni che metteva per iscritto ad incoraggiamento della comunità stessa. Abbiamo così anche uno spaccato della Chiesa di allora in quel territorio, con l’evidenza di alcuni dei pro-blemi emergenti; ma più ancora si percepisce in esse l’entusiasmo con cui chi scrive e chi legge vivono la propria fede anche in mezzo a situazioni non facili e addirittura a persecuzioni spesso ingiustificate.

Nel corso del viaggio da Antiochia a Roma scrisse sette lettere alle Chiese che incontrava sul suo cammino o vicino ad esso. Queste ci sono rimaste e sono una testimonianza unica della vita della Chiesa tra la fine del I secolo e l’inizio del II. Le prime quattro lettere furono scritte da Smirne a tre comunità dell’Asia Minore: Efeso, Magnesia e Tralli, ringraziandole per le numerose dimostrazioni d’affetto testimoniate nel suo viaggio travagliato. Con la quarta lettera, inviata a Roma, supplicava quei cristiani di non impedire il suo martirio, perché voleva ripercorrere la vita e la passione del Maestro divino. Partito da Smirne, Ignazio giunse nella Troade, dove scrisse altre lettere: alla Chiesa di Filadelfia e a quella di Smirne, chiedendo che i fedeli si congratulassero con la comunità di Antiochia, che aveva sopportato con coraggio le persecuzioni. Scrisse anche a Policarpo, vescovo di Smirne, aggiungendovi interessanti direttive per l’esercizio della missione episcopale. (da Wikipedia)

Queste lettere sono dominate da una forte passione, perché chi scrive ha davvero il fuoco dentro, ed ogni occasione per lui è propizia per offrire un’immagine di sé che lo renda fortemente credibile agli occhi di coloro che ricevono la lettera ed abbiano conforto e incoraggiamento a tener duro in mezzo a prove non indifferenti, soprattutto quando la tempesta vorrebbe scuotere ogni cosa e annientare tutti. Ma il tema sempre presente nei suoi messaggi incoraggianti è la fede viva in Gesù: pur in presenza di dottrine peregrine a proposito della figura di Cristo da riconoscere nella sua umanità come Dio e nella sua divinità come uomo vero, Ignazio vuol proclamare con estrema chiarezza che egli non è in presenza di un caso, di un problema, di una idea; egli piuttosto segue una persona, vive per u-na persona, è pronto a morire riconoscendo che la sua esistenza è impegnata con la persona di Gesù. Il suo viaggio verso Roma diventa così l’itinerario di una passione, la sua, vissuta in comunione con quella di Cristo, che passa nell’animo e nella vita del credente. Costui può definirsi cristiano nella misura in cui egli vive la vicenda di Gesù fino alla croce e passando dalla croce. Anche a trovarsi in un periodo drammatico, perché la persecuzione è in corso e non dà segnali di esaurirsi, chi scrive non è affatto angosciato ed è sempre dominato da una forte passione. Il quadro della Chiesa che si ha nelle sue lettere fa trasparire le grandi difficoltà causate dalla persecuzione, ma ancora di più dal pullulare delle eresie, e quindi da una certa regressione, causata in primis dalla riduzione della fede a un apparato di dottrine, più che non ad una esperienza di vita che fa sentire vivo, sempre vivo, colui che viene qui predicato e soprattutto testimoniato. Così i testi diventano dei documenti circa la vitalità della prima Chiesa a partire dalla fede che lì viene vissuta e testimoniata. Il suo compito predominante è di fatto quello di salvaguardare la vitalità della fede, che si rivela in comunità cristiane sempre più vivaci al loro interno e bisognose per questo di figure veramente forti e autorevoli nella guida e nella comunicazione della fede. Lo storico Eusebio di Cesarea (265-339) così sintetizza la vicenda del santo: “Dalla Siria Ignazio fu mandato a Roma per essere gettato in pasto alle belve, a causa della testimonianza da lui resa a Cristo. Compiendo il suo viaggio attraverso l’Asia, sotto la custodia severa delle guardie, nelle singole città dove sostava, con prediche e ammonizioni, andava rinsaldando le Chiese; soprattutto esortava, col calore più vivo, di guardarsi dalle eresie, che allora cominciavano a pullulare e raccomandava di non staccarsi dalla tradizione apostolica”. Si potrebbe seguire l’itinerario che lo conduce a Roma, partendo dalle sue lettere, per vedervi i problemi che gli stavano particolarmente a cuore e per capire anche la sua percezione della fede che lo fa essere, per il suo tempo e anche oltre, un personaggio significativo per la costruzione della Chiesa e della vita del cristiano.

Le lettere, oggi riconosciute a lui, sono sette e, nel numero, corrispondono a quelle che troviamo nel libro dell’Apocalisse, in cui l’autore, l’evangelista Giovanni, immagina di scrivere a sette Chiese d’Asia, che rappresentano simbolicamente nel numero tutte le Chiese raggiunte con lo scritto, per risvegliare la fede che qua e là appare assopita. Di fatto quelle lettere sono scritte “all’angelo”, cioè a colui che presiede la Chiesa, ed è quindi il vescovo locale. Altrettanto fa Ignazio, anche se una di queste lettere ha come destinatario l’amico Policarpo; e tuttavia anche qui il discorso si allarga a coinvolgere i cristiani del luogo, proprio perché nei tempi oscuri della persecuzione, analoghi a quelli che si riscontrano nell’Apocalisse, bisogna rispondere sempre con la passione, che è caratterizzata dal sacrificio, ma anche dalla gioia della testimonianza.

LETTERA AGLI EFESINI

La lettera di Paolo ai cristiani di Efeso pone al centro il “mistero” di Dio, rivelato in Gesù, cioè quella sua vicenda terrena che, vissuta da Lui unito a Dio, lo fa essere il punto di incontro dell’uomo con Dio. Il medesimo obiettivo dell’unità è il tema che domina nella lettera inviata da Ignazio alla stessa comunità. Le sue raccomandazioni sono dominate da un tono rasserenante che vuole incoraggiare …

Ho recepito nel Signore il vostro amatissimo nome che vi siete guadagnato con naturale giustizia nella fede e nella carità in Cristo Signore nostro Salvatore. Imitatori di Dio e rianimati nel suo sangue avete compiuto un’opera congeniale. Avendo inteso che io venivo dalla Siria incatenato per il nome comune e la speranza, fiducioso nella vostra preghiera di sostenere in Roma la lotta con le fiere e diventare discepolo, vi siete affrettati da me. In nome di Dio ho ricevuto la vostra comunità nella persona di Onesimo, di indicibile carità, vostro vescovo nella carne. Vi prego di amarlo in Gesù Cristo e di rassomigliargli tutti. Sia benedetto chi vi ha fatto la grazia, e ne siete degni, di meritare un tale vescovo. Per Burro, mio conservo e secondo Dio vostro diacono, benedetto in ogni cosa, prego che resti ad onore vostro e del vescovo. (…) Bisogna glorificare in ogni modo Gesù Cristo che ha glorificato voi, perché riuniti in una stessa obbedienza e sottomessi al vescovo e ai presbiteri siate santificati in ogni cosa. Non vi comanderò come se fossi qualcuno. Se pur sono incatenato nel suo nome, non ancora ho raggiunto la perfezione in Gesù Cristo. Solo ora incomincio a istruirmi e parlo a voi come miei condiscepoli. Bisogna che da voi sia unto di fede, di esortazione, di pazienza e di magnanimità.

Ma poiché la carità non mi lascia tacere con voi, voglio esortarvi a comunicare in armonia con la mente di Dio. E Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, è il pensiero del Padre, come anche i vescovi posti sino ai confini della terra sono nel pensiero di Gesù Cristo.

L’unità dei figli di Dio, bene incommensurabile, è da ricercarsi come il dono più grande, ricevuto da Dio e costruito nella Chiesa. Per vivere in questo dono occorre far capo al vescovo: qui si vede l’impostazione che deve essere costruita dalla Chiesa e per la Chiesa, perché essa sia segno e strumento di costruzione di un mondo futuro. Essa è di natura essenzialmente gerarchica, e quindi si costruisce attorno al vescovo. Ignazio insiste, qui come altrove, sulla stretta connessione che c’è fra il Padre e il Figlio e di conseguenza fra il vescovo e la Chiesa, intesa come corpo di Cristo. Trovandosi incatenato, non ha la pretesa di dover imporre qualcosa, ma è pur consapevole della sua responsabilità come vescovo di dover guidare la sua Chiesa e di responsabilizzare le diverse Chiese a cui si rivolge, indicando comunque le autorità locali come coloro a cui le Chiese devono far riferimento. Emerge così una visione di Chiesa che si vuole sempre più unita in colui che è considerato il capo, e come tale deve comportarsi. A lui Ignazio fa riferimento perché l’unità sia garantita.

Se in poco tempo ho avuto tanta familiarità con il vostro vescovo, che non è umana, ma spirituale, di più vi stimo beati essendo uniti a lui come la Chiesa lo è a Gesù Cristo e Gesù Cristo al Padre perché tutte le cose siano concordi nell’unità. Nessuno s’inganni: chi non è presso l’altare, è privato del pane di Dio. Se la preghiera di uno o di due ha tanta forza, quanto più quella del vescovo e di tutta la Chiesa! Chi non partecipa alla riunione è un orgoglioso e si è giudicato. Sta scritto: «Dio resiste agli orgogliosi». Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio. Quanto più uno vede che il vescovo tace, tanto più lo rispetta. Chiunque il padrone di casa abbia mandato per l’amministrazione della casa bisogna che lo riceviamo come colui che l’ha mandato. Occorre dunque onorare il vescovo come il Signore stesso. Proprio Onesimo loda il vostro ordine in Dio, perché tutti vivete secondo la verità e non si annida eresia alcuna in voi. Non ascoltate nessuno che non vi parli di Gesù Cristo nella verità.

Lo scrivente si appassiona sempre più in presenza di situazioni non facili, per il diffondersi di eresie, ma più ancora nell’indicare la fede viva come il cemento coesivo della Chiesa, che deve sempre crescere. E questa fede è vissuta quando, come indica il suo nome, si diventa portatori di Cristo.

Vi sono alcuni che portano il nome, ma compiono azioni indegne di Dio. Bisogna scansarli come bestie feroci. Sono cani idrofobi che mordono furtivamente. Occorre guardarsene perché sono incurabili. Non c’è che un solo medico, materiale e spirituale, generato e ingenerato, fatto Dio in carne, vita vera nella morte, nato da Maria e da Dio, prima passibile poi impassibile, Gesù Cristo nostro Signore. Nessuno, dunque, vi inganni, come d’altronde non vi fate ingannare, essendo tutti di Dio. Se non vi è nessuna discordia tra voi che vi possa tormentare, allora vivete secondo Dio. Sono la vostra vittima e mi offro in sacrificio per voi Efesini, Chiesa celebrata nei secoli. I carnali non possono fare cose spirituali, né gli spirituali cose carnali, come né la fede le cose dell’infedeltà, né l’infedeltà quelle della fede. Anche quello che fate nella carne è spirituale. Fate tutto in Gesù Cristo. Ho inteso che sono venuti alcuni portando una dottrina malvagia. Voi non li avete lasciati seminare in mezzo a voi, turandovi le orecchie per non ricevere ciò che speravano. Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo. La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo. Mi rallegro di essere stato stimato degno delle cose che vi scrivo, per trattenermi con voi e congratularmi perché per una vita diversa non amate che Dio solo.

Un po’ in tutte le lettere compare un linguaggio molto forte nei confronti degli eretici e delle eresie: è il segno che il male sta montando e che diventa preoccupante. Con le espressioni mordaci nei loro confronti egli intende mettere in guardia i cristiani che si lasciano abbindolare da quanti hanno buon gioco per seminare zizzania. Il fenomeno era già presente negli ultimi tempi della presenza degli apostoli, a cui ci si rivolgeva per avere una parola chiarificatrice. Ora, mancando quella generazione, si corre il rischio di non considerare i successori come qualificati a garantire l’unità. Ecco perché Ignazio insiste su questo tema: ed è interessante che alle dottrine inaffidabili egli contrapponga il richiamo allo Spirito. Va rilevato inoltre il fatto che l’autore di queste lettere ricorre spesso a belle immagini per spiegare in modo efficace che cosa voglia dire: è il segno di una grande maestria acquisita sul campo, riconoscendo che è necessario impiegare un linguaggio facile e nel contempo adeguato a chiarire concetti piuttosto impegnativi. 

                     LETTERA AI MAGNESIACI

La presenza a Smirne di Ignazio nel suo viaggio verso Roma spinge i vescovi delle città vicine ad Efeso, Magnesia sul Meandro e Tralli, a far visita al confratello; e costui scrive lettere per le comunità. In questa lettera va segnalato il richiamo che Ignazio fa circa il giorno del Signore. Bisogna ricordare che i primi cristiani continuavano a seguire il culto ebraico, almeno in parte, trovandosi nella sinagoga il sabato per la lettura dei testi; ma la convivenza non era sempre tranquilla, come viene documentato a proposito di Paolo, contestato nelle sue prese di posizione (Atti 13,44-51). Per questo i cristiani si trovavano nelle case per continuare la preghiera con la “memoria eucaristica”, la quale si prolungava dalla sera del sabato a tutta la notte, per consentire poi al mattino di cominciare la settimana con la ripresa del lavoro (Atti 20,7-12). Già nella fase successiva a quella apostolica, forse anche per la rottura con il mondo ebraico in seguito alla dispersione dopo il 70, i cristiani si riuniscono la domenica e non più il sabato. Come attesta qui Ignazio.

Non fatevi ingannare da dottrine eterodosse né da antiche favole che sono inutili; se viviamo ancora secondo la legge ammettiamo di non aver ricevuto la grazia. I santi profeti vissero secondo Gesù Cristo. Per questo furono perseguitati poiché erano ispirati dalla sua grazia a rendere convinti gli increduli che c’è un solo Dio che si è manifestato per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio, che è il suo verbo uscito dal silenzio e che in ogni cosa è stato di compiacimento a Lui che lo ha mandato. Dunque, quelli che erano per le antiche cose sono arrivati alla nuova speranza e non osservano più il sabato, ma vivono secondo la domenica, in cui è sorta la nostra vita per mezzo di Lui e della sua morte che alcuni negano. Mistero dal quale, invece, abbiamo avuto la fede e nel quale perseveriamo per essere discepoli di Gesù Cristo il solo nostro maestro. Come noi possiamo vivere senza di Lui se anche i profeti quali discepoli nello spirito lo aspettavano come maestro? Per questo, quello che attendevamo giustamente, venendo, li risuscitò dai morti.

LETTERA AI TRALLIANI

Si potrebbe dire che molti temi delle lettere si ripetono e anche in questa si insiste sull’unità e sulla lotta alle eresie. Qui Ignazio riconosce la bravura del vescovo locale nel sostenere la fede dei suoi cristiani. Ed ora egli la ribadisce, come fa altrove, mettendo al centro il Cristo …

Gli elementi fondamentali della fede che riguardano la persona di Gesù sono espressi nei modi che poi si ritrovano nelle formule pervenute fino ai nostri giorni.

So che avete un animo irreprensibile e imperturbabile nella pazienza non per abitudine ma per natura. Me lo ha detto il vostro vescovo Polibio, che per volontà di Dio e di Gesù Cristo è venuto a Smirne ed ha gioito tanto con me incatenato in Gesù Cristo, che io vedo in lui tutta la vostra comunità. Avendo dunque ricevuto per mezzo suo la benevolenza nel Signore, l’ho glorificato, avendo constatato, come sapevo, che siete imitatori di Dio. (…) Siate sordi se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo, della stirpe di David, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve. Egli realmente fu perseguitato sotto Ponzio, realmente fu crocifisso e morì alla presenza del cielo, della terra e degli inferi. Egli realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente il Padre suo risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in Lui, e senza di Lui non abbiamo la vera vita.

LETTERA AI ROMANI

Qui siamo in presenza di uno dei testi più importanti tra le lettere che ci sono conservate di Ignazio. Nella considerazione che il vescovo ha di Roma si legge l’ammirazione che egli coltiva per la Chiesa ritenuta madre. Qui più che altrove egli parla del suo martirio, dichiarandosi pronto ad affrontarlo: e addirittura avanza la richiesta che i cristiani locali non intervengano in suo favore per fargli evitare ciò che lui si appresta a vivere come un sacrificio, un’offerta a Dio: ne parla con accenti poetici, in alcuni tratti, avendo piena consapevolezza che egli sta vivendo la medesima passione di Cristo, quella che lui trova presente nell’Eucaristia: così egli vuole essere un pane come Gesù, e, per divenirlo, immagina di venire triturato dai denti dei leoni: è la più alta rappresentazione del valore che ha l’eucarestia nel vivere del cristiano con la sua assimilazione all’offerta che Cristo fa al Padre. Ignazio vive il suo martirio come un’eucaristia; e altrettanto vive l’eucaristia come una offerta di sé: la dottrina si fa vita vissuta! La lettera assume una notevole importanza perché già si fa strada la concezione della Chiesa di Roma con la presidenza da esercitare per dare unità al Corpo di Cristo che è la Chiesa universale. Non siamo ancora al primato petrino, anche perché non si cita il vescovo di Roma, ma si esalta la Chiesa romana nel suo insieme.

Ad essa Ignazio si rivolge, perché i fedeli esprimano un’autentica carità nei suoi confronti, permettendo che il suo martirio si realizzi e senza mai impedire quello che per lui è il suo sacrificio. Stupiscono le parole che egli usa perché rivela di possedere un animo coraggioso con gli accenti più belli nel pregustare un martirio che sa imminente e a cui non vuole affatto sottrarsi.

Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, la Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre. A quelli che sono uniti nella carne e nello spirito ad ogni suo comandamento piene della grazia di Dio in forma salda e liberi da ogni macchia l’augurio migliore e gioia pura in Gesù Cristo, Dio nostro. Dopo aver pregato Dio ho potuto vedere i vostri santi volti ed ottenere più di quanto avevo chiesto. Incatenato in Gesù Cristo spero di salutarvi, se è volontà di Dio che io sia degno sino alla fine. L’inizio è facile a compiersi, ma vorrei ottenere la mia eredità sen-za ostacoli. Temo però che il vostro amore mi sia nocivo. A voi è facile fare ciò che volete, a me è difficile raggiungere Dio se non mi risparmiate. Non voglio che voi siate accetti agli uomini, ma a Dio come siete accetti. Io non avrò più un’occasione come questa di raggiungere Dio, né voi, pur a tacere, avreste a sottoscrivere un’opera migliore. Se voi tacerete per me, io diventerò di Dio, se amate la mia carne di nuovo sarò a correre. Non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando è pronto l’altare, per cantare uniti in coro nella carità al Padre in Gesù Cristo, poiché Iddio si è degnato che il vescovo di Siria, si sia trovato qui facendolo venire dall’oriente all’occidente. È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui. Non avete mai insediato nessuno, avete insegnato agli altri. Desidero che resti fermo ciò che avete insegnato. Per me chiedete solo la forza interiore ed esteriore, perché non solo parli, ma anche voglia, perché non solo mi dica cristiano, ma lo sia realmente. Se io lo sono potrei anche essere chiamato e allora essere fedele quando non apparirò al mondo. Niente di ciò che è visibile è buono. Dio nostro Signore Gesù Cristo essendo nel Padre si riconosce maggiormente. Non è opera di persuasione ma di grandezza il cristianesimo, quando è odiato dal mondo. Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna.

Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi, io, tuttora, uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla. Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati. Beneficati diventano peggiori. Per le loro malvagità mi alleno di più «ma non per questo sono giustificato». Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello che mi conviene. Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo. Nulla mi gioverebbero le lusinghe del mondo e tutti i regni di questo secolo. È bello per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino. Perdonatemi, fratelli. Non impedite che io viva, non vogliate che io muoia. Non abbandonate al mondo né seducete con la materia chi vuol essere di Dio. Lasciate che riceva la luce pura; là giunto sarò uomo. Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio. Se qualcuno l’ha in sé, comprenda quanto desidero e mi compatisca conoscendo ciò che mi opprime. Il principe di questo mondo vuole rovinare e distruggere il mio proposito verso Dio. Nessuno di voi qui presenti lo assecondi. Siate piuttosto per me, cioè di Dio. Non parlate di Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo. Non ci sia in voi gelosia. Anche se vicino a voi vi supplico non ubbiditemi. Obbedite a quanto vi scrivo. Vivendo vi scrivo che bramo di morire. La mia passione umana è stata crocifissa, e non è in me un fuoco materiale. Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre. Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda il suo sangue che è l’amore incorruttibile.

Non voglio più vivere secondo gli uomini. Questo sarà se voi lo volete. Vogliatelo perché anche voi potreste essere voluti da Lui. Ve lo chiedo con poche parole. Credetemi, Gesù Cristo vi farà vedere che io parlo sinceramente; egli è la bocca infallibile con la quale il Padre ha veramente parlato. Chiedete per me che lo raggiunga. Non ho scritto secondo la carne, ma secondo la mente di Dio. Se soffro mi avete amato, se sono ricusato, mi avete odiato. Ricordatevi nella vostra preghiera della Chiesa di Siria che in mia vece ha Dio per pastore. Solo Gesù Cristo sorveglierà su di essa e la vostra carità. Io mi vergogno di essere annoverato tra i suoi, non ne sono degno perché sono l’ultimo di loro e un aborto. Ma ho avuto la misericordia di essere qualcuno, se raggiungo Dio. Il mio spirito vi saluta e la carità delle Chiese che mi hanno accolto nel nome di Gesù Cristo e non come un viandante. Infatti, pur non trovandosi sulla mia strada fisicamente mi hanno preceduto di città in città. Questo vi scrivo da Smirne per mezzo dei beatissimi efesini. Con me tra molti altri vi è Croco, nome a me caro. Credo che voi conoscerete coloro che mi hanno preceduto dalla Siria a Roma nella gloria di Dio. Avvertiteli che sono vicino. Tutti sono degni di Dio e di voi: è bene che li confortiate in ogni cosa. Vi scrivo nove giorni prima delle calende di settembre. Siate forti sino alla fine nell’attesa di Gesù Cristo.

È un testo di notevole bellezza, anche ad insistere sul tema del suo martirio, che si prospetta cruento e crudele: viene presentato con accenti che fanno diventare Ignazio un vero eroe, senza che egli voglia mettere in mostra la sua persona. C’è in lui la consapevolezza che proprio con un martirio simile egli diventa in tutto simile al Maestro che ha proposto la sua gloria nella morte di croce.

LETTERA A POLICARPO

Esce dal gruppo delle lettere indirizzate alle comunità locali, perché qui Ignazio si rivolge personalmente al vescovo di Smirne, Policarpo: è suo amico, come si ricava dalla lettera, e probabilmente viene dalla cerchia dei discepoli di Giovanni, l’evangelista. Diversamente da Ignazio, costui vive una lunga esistenza tutta spesa alla causa del vangelo; e però anche lui conclude all’età di 86 anni con il martirio sul rogo. Questa breve lettera serve a testimoniare come vi fosse fraternità tra i vescovi e quel genere di comunicazione che permette di custodire il bene prezioso dell’unità della Chiesa, pur con situazioni molto particolari, che rischiavano di veder trionfare la dispersione in un momento molto delicato di passaggio.

A leggere il poco che ci è pervenuto di questo periodo, si riscontra un grande fervore comunicativo fra i vari vescovi, e sempre la preoccupazione per la salvaguardia dell’unità non solo dottrinale.

Ignazio, Teoforo, a Policarpo vescovo della Chiesa di Smirne, o meglio, che ha per vescovo Dio Padre e il Signore nostro Gesù Cristo, molta gioia. Lodo la tua pietà in Dio, fondata su una roccia incrollabile, e rendo la massima gloria (al Signore), perché sono stato fatto degno del tuo volto irreprensibile. Potessi goderne in Dio. Ti esorto nella carità che hai a proseguire nel tuo cammino e ad incitare tutti a salvarsi. Dimostra la rettitudine del tuo posto con ogni cura nella carne e nello spirito. Preòccupati dell’unità di cui nulla è più bello. Sopporta tutti, come il Signore sopporta anche te; sostieni tutti nella carità, come già fai. Cura le preghiere che non si interrompano; chiedi una saggezza maggiore di quella che hai; veglia possedendo uno spirito insonne. Parla a ciascuno nel modo conforme a Dio. Sostieni come perfetto atleta le infermità di tutti. Dove maggiore è la fatica, più è il guadagno. Se ami i discepoli buoni, non hai merito; piuttosto devi vincere con la bontà i più riottosi. Non si cura ogni ferita con uno stesso impiastro. Calma le esacerbazioni (della malattia) con bevande infuse. In ogni cosa sii prudente come un serpente e semplice come la colomba. Per questo sei di carne e di spirito, perché tratti con amabilità quanto appare al tuo sguardo; per ciò che è invisibile prega che ti sia rivelato, perché non manchi di nulla e abbondi di ogni grazia. Il tempo presente esige che tu tenda a Dio, come i naviganti invocano i venti e coloro che sono sbattuti dalla tempesta il porto. Come atleta di Dio sii sobrio; il premio è l’immortalità, la vita eterna in cui tu credi. In tutto sono per te una ricompensa io e le mie catene che tu hai amate. Non ti abbattano coloro che sembrano degni di fede e insegna-no l’errore. Sta’ fermo come l’incudine sotto i colpi. E’ proprio del grande atleta incassare i colpi e vincere. Dobbiamo sopportare ogni cosa per amore di Dio, perché anche lui ci sopporti. Sii più zelante di quello che sei. Discerni i tempi. Aspetta chi è al di sopra del tempo, atemporale, invisibile, per noi (fattosi) visibile, impalpabile, impassibile, per noi (divenuto) passibile, e sopportò ogni cosa. Non siano trascurate le vedove; dopo il Signore sei tu la loro guida. Nulla avvenga senza il tuo parere e tu nulla fare senza Dio, come già fai. Sii forte. Le adunanze siano molto frequenti. Invita tutti per nome. Non disprezzare gli schiavi e le schiave; ma essi non si gonfino, e si sottomettano di più per la gloria di Dio, perché ottengano da lui una libertà migliore.

Non cerchino di farsi liberare dalla comunità per non essere schiavi del desiderio. Fuggi i mestieri vietati e di più predica contro di essi. Raccomanda alle mie sorelle di amare il Signore e di sostenere i mariti nella carne e nello spirito. Così esorta anche i miei fratelli, nel nome di Gesù Cristo, ad amare le spose come il Signore la Chiesa. Se qualcuno può rimanere nella castità a gloria della carne del Signore, vi rimanga con umiltà. Se se ne vanta è perduto, e se si ritiene più del vescovo si è distrutto. Conviene agli sposi e alle spose di stringere l’unione con il consenso del vescovo, perché le loro nozze avvengano secondo il Signore e non secondo la concupiscenza. Ogni cosa si faccia per l’onore di Dio.

I vari richiami che riscontriamo qui, si comprendono se pensiamo che Policarpo è relativamente ancora giovane rispetto a Ignazio, e perciò costui lo incoraggia a proseguire il lavoro, come se gli lasciasse l’eredità …

S. POLICARPO

ICONA DI S. POLICARPO

Anche Policarpo è una bella figura di questo periodo di passaggio: egli si presenta come discepolo ed erede dell’apostolo Giovanni. Per questa sua familiarità diventa una figura di riferimento nelle Chiese d’Asia ed è nominato vescovo di Smirne. Nel 107 accoglie qui Ignazio nel suo viaggio verso Roma e il martirio. In seguito curò la raccolta e la diffusione delle sue lettere nelle varie Chiese: e lui stesso si cimenta allo stesso modo con una lettera ai Filippesi che si è conservata fino a noi.

Policarpo scrisse una lettera ai Filippesi, esortandoli a servire Dio nel timore, a credere in lui, a sperare nella resurrezione, a camminare nella via della giustizia, avendo sempre innanzi agli occhi l’esempio dei gloriosi martiri e principalmente di Ignazio, di cui egli univa le lettere in suo possesso.

Sul finire della vita fu a Roma per trattare con Papa Aniceto (155-166) diverse questioni, in modo particolare la questione della data della Pasqua, senza riuscire a trovare un accordo: gli orientali la celebravano come gli Ebrei il 14 di Nisan (in aprile), non necessariamente di domenica, e gli occidentali la domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Non per questo ci fu disunione. Appena ritornato da Roma a Smirne, Policarpo subì il martirio, e precisamente il 23 febbraio dell’anno 155, verso le due del pomeriggio. I particolari della sua gloriosa fine ci sono dati dal Martyrium Polycarpi.

Dalla “Lettera della Chiesa di Smirne sul martirio di san Policarpo”.

Portato davanti al proconsole, questi gli chiese se fosse Policarpo. Egli annuì e il proconsole cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: “Pensa alla tua età” e le altre cose di conseguenza come si usa: “Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di’: Abbasso gli atei!”. Policarpo, invece, con volto severo guardò per lo stadio tutta la folla dei pagani, tese verso di essa la mano, sospirò e guardando il cielo disse: “Abbasso gli atei!”. Il capo della polizia insistendo disse: “Giura e io ti libero. Maledici il Cristo”. Policarpo rispose: “Da ottantasei anni lo servo, e non mi ha fatto alcun male. Come potrei bestemmiare il mio re che mi ha salvato?”(…) Quando il rogo fu pronto, Policarpo si spogliò di tutte le vesti e, sciolta la cintura, tentava di togliersi i calzari, cosa che prima non faceva, perché sempre tutti i fedeli andavano a gara a chi più celermente riuscisse a toccare il suo corpo. Anche prima del martirio era stato trattato con ogni rispetto, per i suoi santi costumi. Subito fu circondato di tutti gli strumenti che erano stati preparati per il suo rogo. Ma quando stavano per configgerlo con i chiodi, disse: “Lasciatemi così: perché colui che mi dà la grazia di sopportare il fuoco mi concederà anche di rimanere immobile sul rogo senza la vostra precauzione dei chiodi”. Quelli allora non lo confissero con i chiodi ma lo legarono. Egli dunque, con le mani dietro la schiena e legato, come un bell’ariete scelto da un gregge numeroso, quale vittima, accetta a Dio, preparata per il sacrificio, levando gli occhi al cielo disse: “Signore, Dio onnipotente, Padre del tuo diletto e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto; Dio degli angeli e delle Virtù, di ogni creatura e di tutta la stirpe dei giusti che vivono al tuo cospetto: io ti benedico perché mi hai stimato degno in questo giorno e in quest’ora di partecipare, con tutti i martiri, al calice del tuo Cristo, per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna, nell’incorruttibilità per mezzo dello Spirito Santo.

Possa io oggi essere accolto con essi al tuo cospetto quale sacrificio ricco e gradito, così come tu, Dio senza inganno e verace, lo hai preparato e me lo hai fatto vedere in anticipo e ora l’hai adempiuto. Per questo e per tutte le cose io ti lodo, ti benedico, ti glorifico insieme con l’eterno e celeste sacerdote Gesù Cristo, tuo diletto Figlio, per mezzo del quale a te e allo Spirito Santo sia gloria ora e nei secoli futuri. Amen”. Dopo che ebbe pronunciato l’Amen e finito di pregare, gli addetti al rogo accesero il fuoco. Levatasi una grande fiammata, noi, a cui fu dato di scorgerlo perfettamente, vedemmo allora un miracolo e siamo stati conservati in vita per annunciare agli altri le cose che accaddero. Il fuoco si dispose a forma di arco a volta, come la vela di una nave gonfiata dal vento, e avvolse il corpo del martire come una parete. Il corpo stava al centro di essa, ma non sembrava carne che bruciasse, bensì pane cotto oppure oro e argento reso incandescente. E noi sentimmo tanta soavità di profumo, come d’incenso o di qualche altro aroma prezioso.

CONCLUSIONE

Queste due figure, e soprattutto i loro scritti, rappresentano l’anello di congiunzione che garantisce la continuità della Chiesa con le sue radici apostoliche: si può dire che la Tradizione abbia inizio qui, e a questa fase si deve richiamare per essere riconosciuta, ancora oggi, come essenziale al percorso che la Chiesa continua a fare nella storia. L’entusiasmo che si riscontra e soprattutto il chiaro riferimento alla figura di Gesù, da scoprire anche nei capi della Chiesa, purché vivano essi pure in comunione con lo Spirito, sono i dati più significativi da far emergere nel richiamare la Tradizione: qui la fede è avvertita soprattutto come piena comunione con il Signore, che i due martiri sentono nelle loro stesse fibre, perché essi vivono nello Spirito la medesima passione, e sentono che essa trasmette lo spirito vitale a coloro che seguono. La fede deve conservarsi, non già solo come dottrina, ma soprattutto come esperienza di vita, nella misura in cui essa viene riconosciuta nella persona e in ciò che le persone stesse vivono. Il fatto, poi, che lo strumento individuato per la comunicazione è quello delle lettere indica modalità concrete per mezzo delle quali può passare, con la parola, lo spirito vivo e vero di persone effettivamente credibili, e come tali degne di considerazione e di una memoria che dura e che cresce nel tempo. E come loro, ben altro e ben altri si succedono nella storia della Chiesa come figure di riferimento da conoscere e da far conoscere.

Storia della Cina: Francesco Saverio e i primi gesuiti in Cina

INTRODUZIONE

L’opera storica che Matteo Ricci scrive ha come titolo: “Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina”. Per la lingua che usa e, più ancora, per il genere di contenuti che vi trovano ampio spazio, si deve pensare che essa non si preoccupi di dialogare con il mondo cinese, come avviene invece in altre opere da lui lasciate. Questo è evidentemente un lavoro che deve spiegare in Occidente e, in modo particolare, nel mondo cattolico, come sia stata condotta l’attività missionaria che il gesuita marchigiano si prefiggeva di compiere e che costituiva l’assillo fondamentale del nuovo Ordine religioso, da poco fondato e già schierato sui diversi fronti dei luoghi geografici che erano stati contattati nei viaggi avventurosi del secolo. Se in altri settori Ricci si rivela un uomo ben avviato negli studi scientifici e soprattutto preoccupato di comunicare in maniera rispettosa con il mondo cinese, qui, in un ambito più propriamente storico, tenuto conto che deve riferire alla Compagnia, secondo le richieste del fondatore, fatte ai suoi missionari in giro per il mondo, vediamo emergere una cura più attenta, da parte dello scrittore, per giustificarsi nel suo modo di operare. Egli si deve mettere sul solco dei suoi immediati predecessori, che hanno aperto la strada per la presenza, non solo degli occidentali, ma soprattutto dei missionari del vangelo in Cina. Se Ricci appare spesso dominato da un tipo di “curiosità” scientifica, che lo fa essere attento alla cultura cinese e dialogante con essa, qui si fa strada, più che lo storico, il cronista della missione, e quindi colui che deve spiegare ai superiori le linee guida della sua azione, in cui predomina l’obiettivo di proporre il vangelo e di farlo conoscere con lo spirito dei pionieri. Costoro, anni prima della sua venuta in Cina, hanno comunicato il vangelo secondo l’impostazione allora perseguita di ottenere conversioni e adesioni alla Chiesa, già squassata da scismi ed eresie, che in Europa avevano lacerato la sua unità e compattezza. Soprattutto a partire dalla intraprendenza dei Portoghesi, i Gesuiti cercavano di accompagnarsi a loro, anche perché i Lusitani avevano una buona flotta e notevoli interessi un po’ dovunque, nell’intento di creare punti di approdo, a partire dai quali potevano creare sbocchi di mercato per raccogliere materiale e smerciare. Da quando erano iniziati i viaggi sull’Atlantico con l’intenzione di raggiungere più facilmente quello che nella geografia di allora risultava l’Oriente, senza la cognizione che ci fosse un continente in mezzo, l’obiettivo rimaneva comunque Cipango (Giappone) e Catai (Cina), ma più ancora l’India sempre considerata “favolosa” per le ricchezze che si ipotizzava di trovarvi.

La via di terra risultava impedita a causa dell’Impero ottomano, sempre più decisamente spinto a dimostrare la sua superiorità militare e navale in Europa. Ed allora si cercava una via diversa, che però aveva rivelato l’esistenza di un altro continente. I Gesuiti, da poco creati per opera di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Pietro Favre, si erano messi a servizio della Chiesa Cattolica nel suo programma di recupero di credibilità, dopo la lacerazione ad opera dei luterani e di quanti ne avevano seguito le orme: costoro non si prefiggevano solo di reagire alle nuove idee con quella che veniva chiamata la Controriforma, come se bastasse semplicemente essere contro la Riforma, poi definita “protestante”, per recuperare il terreno in Europa, ma accampavano un nuovo slancio missionario, fatto di azione culturale. Prima di loro, francescani e domenicani, gli ormai consolidati Ordini religiosi medievali, avevano seguito i “conquistadores”, soprattutto spagnoli, senza tuttavia crearsi modalità particolari per la propria azione religiosa con le nuove popolazioni incontrate e accostate. I Gesuiti si rendono conto che deve essere cercato un nuovo modo di trattare con le popolazioni locali, sia nelle colonie americane, sia nel lontano Oriente. Qui in presenza di sistemi politici e culturali consolidati, era doveroso accostarsi con un approccio dialogico, che, soprattutto in Cina con l’opera di Ricci, porterà i suoi frutti. Da Roma però venivano tutte le perplessità circa il suo metodo, perché la volontà di affermare con chiarezza la dottrina, in polemica con la frammentazione luterana, richiedeva che il vangelo venisse annunciato senza accomodamenti. Il metodo usato da Ricci, che godeva del sostegno da parte del superiore locale, in considerazione della particolare situazione della Cina, vista dalla colonia portoghese di Macao, quando viene conosciuto a Roma, creerà non pochi problemi e perplessità; ma il suo ideatore nel frattempo era scomparso dalla scena. Negli anni in cui Ricci è attivo e sta cercando di penetrare in Cina, risalendola da sud verso Pechino, costui scrive le sue relazioni e cerca, presso la Curia generalizia dei Gesuiti a Roma e soprattutto presso i nuovi uffici di Curia vaticani, di giustificare l’operato suo e dei Gesuiti che sono con lui. Per lui la giustificazione migliore è quella di mostrare che sta operando sulla scia di colui che risultava il pioniere in assoluto verso la Cina e cioè Francesco Saverio, morto mentre stava proponendosi di entrarvi, nello stesso anno in cui a Macerata nasceva Matteo Ricci.

IL CRISTIANESIMO IN CINA

A dire il vero, Francesco Saverio non è affatto il primo ad entrare in Cina, essendo ben noti altri missionari venuti per via di terra a portarvi il verbo cristiano. E tuttavia Matteo Ricci nel suo testo non fa alcuna menzione di ciò che noi sappiamo da altre fonti storiche. A sua giustificazione si può dire che egli non voleva fare la storia della missione in Cina, quanto piuttosto spiegare gli inizi dell’attività dei Gesuiti. Questo suo modo di impostare la questione rivela con chiarezza che quanto scrive è la sua relazione ai Superiori di Roma e nello stesso tempo è la volontà evidente di sostenere che il suo modo di operare è in continuità con colui che nell’Ordine, non è solo il fondatore, ma anche il primo missionario e quindi colui che ha aperto le nuove vie per questa azione, che si vorrebbe differisse da ciò che facevano altri Ordini nella Chiesa. Indubbiamente in Cina erano già stati degli Europei, provenienti per via di terra e in genere mossi da motivi di ordine economico. A costoro si accompagnano anche dei religiosi, i quali si presentano con lettere credenziali del Papa; ma il loro intervento non lascia segni duraturi e soprattutto un sistema istituzionale locale. Si possono riassumere gli sporadici interventi dei primi missionari riportando la nota della curatrice del testo di Matteo Ricci. All’apertura del Libro Secondo, laddove si parla delle prime mosse della Compagnia di Gesù, come se prima non ci fossero stati nulla e nessuno, risulta necessario nel rispetto della verità storica segnalare i tentativi precedenti.

Ricci qui, nel narrare le vicende della penetrazione cattolica in Cina, non tiene conto della missione dei francescani databile fra il XIII e il XIV secolo; l’evoluzione dell’impresa francescana si può ricostruire attraverso alcune tappe principali nel 1246, durante l’impero mongolo, il frate Giovanni da Pian del Carpine giunse a Qara-Qorum per consegnare una bolla del papa Innocenzo IV al Gran Qan Guyuk; nel 1253 fu la volta del frate fiammingo Guglielmo de Ruysbroeck, che giunse a Qara-Qorum in missione per conto del papa o forse del re di Francia Luigi IX, e rimase presso il Gran Qan Mongka per due anni. Molto più rilevante l’esperienza missionaria del francescano Giovanni da Montecorvino, nominato nel 1281 Legato Apostolico in Cina da Nicolò IV. Egli fu il primo sacerdote cattolico ad arrivare in Cina, dove giunse a Pechino nel 1292 ed edificò due chiese. Nel 1307 il papa Clemente V lo nominò arcivescovo di Qanbalic. La missione di Montecorvino prosperò ed egli edificò un monastero per ventidue monaci; rimase in Cina fino alla morte avvenuta nel 1328, dopo aver fronteggiato l’ostilità dei cristiani nestoriani.

Nello stesso periodo, dal 1324 al 1330, avvenne l’avventurosa esperienza di viaggio attraverso tutta la Cina del francescano Odorico da Pordenone. Infine, dal 1342 al 1346, ci fu il soggiorno cinese del francescano Giovanni da Marignolli, per una missione voluta da Benedetto XII, probabilmente in risposta ad una delegazione di 16 membri inviata nel 1338 dall’imperatore Toghan Temur, conosciuto dai cinesi come Shundi, ad Avignone per recare omaggio al papa. Dal 1368, dopo la conquista del potere da parte della dinastia Ming, la Cina rimase chiusa alle missioni cattoliche fino all’arrivo, nel 1582, dei Gesuiti Valignano e Ruggieri. (Ricci, p. 109)

In questa essenziale cronistoria dei primi approcci da parte di religiosi si vede il tentativo di costruire relazioni fra le parti, ma di fatto non si arriva mai a concludere con qualcosa di duraturo. Nello stesso tempo c’è da segnalare la presenza di “nestoriani”, cioè di cristiani che riconoscono la separazione della natura umana e divina in Gesù, per cui Maria sarebbe madre di Cristo, ma non di Dio. Costoro sono comunque spariti nello stesso momento in cui si perdono pure i segni della presenza dei cattolici in Cina. La ripresa dei rapporti si ha con i Gesuiti. E qui Matteo Ricci ha buon gioco per affermare che tutto dipende dai superiori che gli hanno aperta la strada per dare consistenza alla presenza di cristiani nel Paese.

L’ENTRATA DEI “NOSTRI”

Così si esprime Ricci nel primo capitolo del secondo libro della sua storia. Tenuto conto che al termine del primo libro egli parla diffusamente delle diverse sette religiose che prosperano nel Paese e che danno origine a forme di idolatria, il quadro che si ha della religione in Cina non è affatto lusinghiero e comporta per la Chiesa stessa non poche difficoltà nella sua predicazione e nella sua azione. Ricci insiste su un quadro molto negativo e lo si avverte nell’estrema durezza con cui giudica la situazione.

Contra questo Mostro dell’Idolatria sinica, di che parlassimo nel fine dell’altro libro, più fiero con i suoi tre capi che quello del Hidra Lirnea, che tanti migliaia de anni pacificamente tiranizzava e mandava sotterra nell’abisso dell’Inferno tanti milioni di anime, si mosse la nostra Compagnia di Giesù, conforme al suo instituto, a far guerra da parti sì lontane, passando tanti regni e tanti mari per liberare le misere anime della perdizione eterna. E fidati nella Divina misericordia e promessa non hebbero paura de’ pericoli né delle difficoltà che si opponevano alla entrata di un Regno cotanto serrato a’ forastieri, e pieno di tanta moltitudine di gente per difendere i loro errori, poiché al segno et alle armi della Santa Croce nessuna forza mondana né infernale può resistere. (Ricci, p. 109)

Il quadro è indubbiamente molto fosco e contrasta con l’atteggiamento che di solito si rileva in Ricci, portato a dialogare con i saggi della Cina. Ma qui dobbiamo tenere conto che il suo scritto deve raggiungere gli Europei e soprattutto deve far comprendere che da parte dei Gesuiti la missione è condotta, come anche in altre parti del mondo, per comunicare la vera religione e quindi con intenti che dovremmo definire da proselitismo. Va rilevato inoltre che Ricci è ben consapevole del pregiudizio da parte dei Cinesi nei confronti di tutto ciò che arriva dal mondo europeo e delle diffidenza verso ciò che è estraneo alla loro storia e alla loro cultura. Un simile atteggiamento sarà costante, qui come in altre parti dell’Asia e comporterà nei secoli successivi anche diverse persecuzioni con l’intento di estirpare, insieme con la presenza europea, ogni traccia di religioni estranee al mondo orientale. In Ricci aumenta la convinzione che proprio su questo terreno è necessario che la battaglia sia condotta per far trionfare la Croce di Cristo. Insomma, l’atteggiamento si fa battagliero, anche in conformità agli schemi indicati nella Controriforma cattolica. Ricci rivela che la sua formazione, soprattutto religiosa, è avvenuta in questo contesto e così si deve esprimere. Non può comunque esimersi dal dire che l’idea di entrare in contatto con la Cina apparteneva alla mente fer-vida di Francesco Saverio, il quale, però, non riuscì a realizzare il suo pro-getto, essendo morto su un’isola del territorio cinese, ma senza che abbia mai potuto mettere piede sulla parte continentale. E tuttavia deve ricono-scere a lui questo intento “battagliero”, anche perché costui è tra i fonda-tori dell’ordine gesuitico e insieme è pure il primo missionario in assoluto della Congregazione.

S. FRANCESCO SAVERIO

La figura di San Francesco Saverio è nota dentro e fuori la Chiesa come il pioniere della nuova evangelizzazione, messa in campo in occasione dei viaggi, di scoperta e di conquista insieme, nei nuovi territori raggiunti in America e in Oriente. Più che la ricerca di un metodo nuovo, che va invece riconosciuto a Ricci, per lui si deve parlare del fervore che appare nei suoi scritti inviati al confratello Ignazio.

Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares de Javier (questo è il suo nome spagnolo) era nato il 7 aprile 1506 in una famiglia nobile di Javier (in Navarra). I beni della famiglia erano stati confiscati dal re aragonese Ferdinando il Cattolico, dopo la vittoria sugli autonomisti navarrini, che erano filo-francesi. Per sfuggire alla sconfitta e alla miseria, si rifugiò in Francia e andò a studiare teologia alla Sorbona dove, dopo il primo triennio, divenne maestro. Nel suo stesso collegio di Santa Barbara arrivò il basco Ignazio di Loyola (1491-1556), il quale, oltre ad essere uno dei suoi più grandi amici (furono proclamati santi insieme), ne riconobbe immediatamente il temperamento combattivo ed ardente e decise di conquistarlo alla propria causa. Nello stesso collegio parigino studiava anche il savoiardo Pierre Favre (1506-1546).  Francesco, Pietro e Ignazio diedero origine ad una vita religiosa in comune, che sarebbe poi diventata la Compagnia di Gesù. Il 15 agosto 1534 nella chiesa di Saint Pierre de Montmartre emisero i voti di povertà, castità e obbedienza con l’aggiunta di muovere verso la Terra Santa per combattere l’Islam e portarvi la fede cristiana. Si ritrovarono a Venezia nell’intento di partire verso la Palestina, ma, non riuscendo a farlo, decisero di mettersi a disposizione del Papa, che allora era Paolo III. A Roma Francesco Saverio fu ordinato sacerdote nel 1537. I tre fondatori, poi, decisero di aggiungere ai tre voti tradizionali un quarto voto che diventa distintivo dei Gesuiti, e cioè l’obbedienza al papa. Nel 1540 il re del Portogallo, Giovanni III, chiese al Papa di poter avere a sua disposizione dei missionari da mandare nei luoghi occupati dai Portoghesi nelle Indie orientali. Francesco Saverio fu indicato da Ignazio e costui partì nel marzo 1541 da Lisbona con un viaggio che durò più di un anno. Arrivò a Goa, colonia portoghese in India, nel maggio dell’anno successivo. Nel 1545 partì per la penisola della Malacca, in Malaysia dove incontrò alcuni giapponesi che gli proposero di muoversi verso il Giappone. Vi arrivò nell’agosto del 1549, e qui si rese conto della necessità di provare anche un approccio con la Cina. Ma all’arrivo sull’isola di Sancian il 3 dicembre 1552 morì di febbri malariche. Il suo corpo fu portato a Goa, dove è ancora oggi sepolto nella chiesa del Bom Jesus. La sua opera missionaria soprattutto in Cina fu proseguita da Alessandro Valignano e Matteo Ricci. (Wikipedia)

Da lui comincia quella serie di relazioni che permettono ai missionari di essere sempre in comunicazione con la Casa Madre di Roma. Francesco Saverio scrive parecchie lettere all’amico Ignazio di Loyola allo scopo di fargli conoscere il lavoro che sta conducendo tra le popolazioni da lui accostate. Ne vien fuori un animo ardente che vive con fervore la sua missione, dovunque si trovi.

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Da una lettera ad Ignazio di Francesco Saverio

Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient’altro se non che sono cristiani. Non c’è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l’Ave e i Comandamenti della legge divina. Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l’hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali – come si dice – non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano dire né l’Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il Regno dei cieli. Perciò non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l’Ave Maria. Mi sono accorto che sono intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani. Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d’Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè! quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all’inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti! In verità moltissimi di costoro, turbati a questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore:“Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”. Mandami dove vuoi, magari anche in India.

Da una relazione scritta ad Ignazio di Francesco Saverio

Del Giapan, o vero Giapon, scriverò quello che per l’esperienza insino adesso habbiamo conosciuto. Primieramente la gente che habbiamo con-versata, è la migliore che insin adesso si sia scoperta, et fra gli infedeli mi pare non si troveria altra migliore; generalmente sono di buona conversatione; è gente buona et non malitiosa; et stimano mirabilmente l’honore più che nissun’altra cosa; communemente sono poveri, et la povertà tanto fra li nobili, quanto fra gli altri non si reputa a vergogna.

È gente molto cortese fra loro et stimanosi, confidando molto nelle armi; portano sempre spade e pugnali, tanto li nobili quanto la gente bassa, cominciando dalli 14 anni; non patisce questa gente ingiuria alcuna, né parola di dispregio, come la gente ignobile: porta gran reverentia alli nobili. Così tutti li gentilhuomini reputano gran laude servire al signore della terra, et essergli molto soggetti. È gente temperata nel mangiare, benché nel bere alquanto larga: fanno il vino de riso, perché non ci è altro in quelle bande. Giurano poco; et il giuramento loro è per il sole: gran parte della gente sa leggere et scrivere, il che è gran mezzo per brevemente apparare le orationi et cose di Dio.

Matteo Ricci conosce il Saverio solo per ciò che si racconta di lui nella sua Congregazione. È probabile che lo spirito missionario si sia acceso in lui proprio dalla conoscenza delle relazioni appassionate scritte dall’uomo destinato poi a divenire santo e soprattutto patrono delle missioni. Ne dà una chiara immagine nel capitolo in cui deve parlare delle origini della presenza cristiana in Cina: essa corrisponde esattamente a ciò che veniva comunicato ai giovani aspiranti religiosi che vivevano a Roma.

Il Primo che diede principio a questa guerra e cominciò a battere il muro fu il nostro B. P. Francesco Xaver, il quale avendo fundate tutte le Christianità dell’India e di Malucco, fu ultimamente a fundare la (spagnolismo spesso ricorrente nell’opera di Ricci al posto di “quella”) del Giappone con la felicità che dallo suo spirito Apostolico si sperava; e mentre faceva questo offitio in quei regni gli fu mosso un dubio dai loro savij: se la santa fede che predicava era sì buona e conforme alla ragione, per qual causa il Regno della Cina, che è tenuto per il più savio de tutti i regni orientali, non l’aveva anco pigliata. E sapendo bene il B. Padre che tutte le leggi e riti dei Giapponi hebbero origine dalla Cina, venne in pensiero che, se potesse prima convertire la Cina, non solo si farebbe bene ad un regno sì grande e nobile, ma in un medesimo tratto facilmente anco restarebbe convertito il Giappone. Per questa causa, raccomandando le cose di là ad altri compagni che quivi aveva (nell’intraprendere l’impresa della Cina, Francesco Saverio lasciò in Giappone a continuare la sua missione padre Cosma de Torres e fratello Gio-vanni Fernandes), se ne ritornò all’India, dove con grande prestezza hebbe dal Viceré di essa una ambasciata che se mandasse al Re della Cina da parte del Re di Portogallo (nel 1552 Francesco Saverio ottenne di far parte di una delegazione portoghese, guidata dal mercante Diego Pereira, presso l’imperatore della Cina, con l’appoggio del viceré delle Indie Don Alfonso de Norona e del vescovo di Goa Dom Giovanni de Albuquerque), con la quale occasione egli potesse entrare dentro di questo regno e cominciare in esso la promulgazione del santo evangelio. (Ricci, p. 110)

Sulla base di ciò che qui troviamo scritto sembra che Ricci suggerisca la motivazione per la quale il Saverio si decide a tentare di entrare in Cina: l’avrebbero convinto i suoi collaboratori, facendo notare che presso i Cinesi c’è la sapienza essenziale come terreno ben preparato all’evangelizzazione. Viene da pensare che sulla base della personale esperienza lo stesso Ricci riconoscesse presente in Cina il terreno adatto per seminare la Parola. E proprio dalla filosofia di vita dominante in Cina bisognava pas-sare per facilitare l’ingresso della predicazione evangelica. Eppure in pre-cedenza Ricci aveva detto con estrema chiarezza che l’idolatria radicata in quel Paese avesse i medesimi connotati della mitica Idra di Lerna, il mostro dalle molteplici teste e dal veleno mortale diffuso un po’ ovunque. Vien da supporre che egli sostenga questo per giustificare una presenza qualificata di missionari, che trovano nel Saverio il loro iniziatore, ma anche colui che ha aperto la strada, sulla quale si doveva insistere per raccogliere i frutti sperati, anche se questi, al momento dell’ingresso di Ricci, sembravano tardare a crescere e a far sperare in un successo sicuro.

Se il Saverio aveva meditato su questo progetto e non era riuscito a perseguirlo, non si poteva disattendere all’opera solo abbozzata e bisognava raccogliere l’eredità. Ecco perché Ricci dà grande importanza a questo suo disegno e nello stesso tempo lascia intendere che quanto sta facendo non è altro che la prosecuzione di un progetto, a cui la Congregazione dei Gesuiti rimane sempre legata. Così insiste Ricci nel raccontare il particolare ardore missionario che spingeva il Saverio a predisporre azioni mirate per dare buon esito alla sua impresa.

E lasciando adesso i contrasti che il Demonio pose a questa opra in Malacca (Ricci accenna solo fugacemente agli avvenimenti che impedirono lo svolgimento dell’ambasciata portoghese presso l’imperatore a cui avrebbe dovuto partecipare Francesco Saverio. Trigault, nella sua versione latina dell’opera di Ricci, a questo punto della narrazione inserisce un racconto dettagliato dei fatti attribuendo la responsabilità del fallimento del progetto all’ostinata opposizione del Capitano di Malacca Don Alvaro de Ataide), al fine arrivò pure in compagnia de’ Portoghesi che venivano a mercanteggiare con i Mercanti della Cina, in un’Isola alla parte più australe di tutto il regno, che si chiama Sancioam, dove tentando per molte vie di entrare alla metropoli della Provincia di Quantone, che i Portoghesi chiamano Cantan, se bene non potesse ottenere altro che essere menato di notte nascostamente e lasciato solo nella riviera del fiume che passa al piè del muro della città, né anco questo osorno fare i Cinesi né per prieghi né per promesse di molta somma di danari, avendo paura di esser casticati atrocemente dagli magistrati di quella Città. Ma conciosia cosa che i peccati di questo regno non meritassero sì grande Apostolo per dar principio alla loro conversione, e fusse già arrivata l’hora del B. Padre irsene al Cielo e riceverne il merito de’ suoi travagli e sante opere, tutti i consegli della sua entrata gli riuscirno in vano; sebene crediamo pure che, se egli non poté ottenere da Iddio per sé questa entrata, la ottenne nel Cielo per i suoi Compagni che, contra ogni speranza humana, vi entrarno trenta anni doppo. In questo luogo dunche, e trattando questo negocio, moritte l’anno 1552, e da qui riportato il suo corpo incorrotto a Goa, facendo per suo mezzo Iddio tanti miracoli e nel viaggio et in Goa, come nella sua vita pienamente si narra. (Ricci, p. 110-111)

Non era ancora riconosciuto santo, ma da parte di un confratello, che in quel periodo dimostrava di esserne l’erede e di proseguirne il progetto con migliori risultati, usciva, a pochi anni di distanza, un elogio non indifferente e anche la segnalazione di miracoli attribuiti alla sua intercessione.

Ricci voleva in tal modo presentarsi come l’erede, e nello stesso tempo segnalare che il suo progetto, decisamente fra i migliori della sua notevole opera missionaria, trovava finalmente la sua piena realizzazione. Così la sua testimonianza cercava con questo encomio del futuro santo una sorta di canonizzazione dell’impresa che ora apparteneva totalmente alla strategia di Ricci. Costui si rendeva conto che anche ad aver raggiunto dei buoni risultati, certi metodi attuati potevano suscitare per-plessità e opposizione, come del resto avvenne.

I SUPERIORI DI RICCI IN CINA

Se vuole riuscire nell’impresa, che appare molti ardua, anche per i tentativi sempre naufragati, e soprattutto se vuole che il suo metodo possa essere attuato e riconosciuto come valido, ha bisogno dell’appoggio dei suoi superiori. In effetti tra lui e il Saverio ci sono figure che il gesuita di Macerata intende segnalare come coloro che lo hanno introdotto in questa sua azione missionaria e lo hanno sempre decisamente sostenuto. Ci sono stati in precedenza imprese isolate di Congregazioni antiche, ma queste, anche forse per una certa debolezza organizzativa e per mancanza di appoggi adeguati a Roma, non hanno sortito l’effetto sperato.

Doppo lui vennero altri valenti huomini e servi di Iddio a procurare questa entrata, specialmente della Religione di S. Francesco e S. Domenico (Ricci, probabilmente, si riferisce agli infruttuosi tentativi da parte dei francescani di entrare in Cina nel 1579, nel 1582 e nel 1583; per quanto riguarda gli agostiniani è attestato un tentativo fallito avvenuto nel 1575. Tutte queste missioni riuscirono appena a raggiungere Macao e poi Guangzhou, senza ottenere il permesso di soggiorno nel paese. Alcuni, in modo fortuito riuscirono a raggiungere alcune città dell’interno da cui vennero subito rispediti indietro), altri per via delle Indie orientali, altri per quella delle occidentali, di Nova Spagna (Messico) e delle Filippine. Ma quelli che pigliorno più a petto quest’opra, come ereditaria del B. Francesco, forno i Padri della Compagnia, che con molto zelo vennero con i mercanti portoghesi e con molta perseverantia stettero sempre alla porta della Cina in una Residenza che quivi fecero (la residenza della Compagnia di Gesù, cui Ricci si riferisce, veniva fondata a Macao nel 1565 dai padri Francisco Perez e Manuel Pereira).

(Ricci, p. 111)

Ben diversi sono invece gli sforzi messi in campo dai Gesuiti: essi da una parte stanno sicuri nella loro residenza portoghese di Macao e nello stesso tempo cercano contatti che permetteranno successivamente di avere accesso fino alla capitale. Ricci esalta la sagacia dei suoi superiori che hanno saputo mettere in campo una strategia vincente.

Quello che la ritornò ad avivar più e risuscitarla, essendo già mezza desperata per gli varij impedimenti che ritrovorno ogni giorno più porsi nel mezzo, fu il P. Alessandro Valignano (1539-1606), il quale era Visitatore, mandato dal Nostro P. Generale, di tutte queste parti orientali. Et avendo già visitata quella parte dell’India, che gli Europei chiamano di qua del Gange, et avendo da passare principalmente al Giappone, fu forzato aspettare la partita della nave che va al Giappone, più di dieci Mesi nella residenza di Macao. Onde pigliando varie informazioni delle Cose di dentro della Cina, venne a intendere bene la nobiltà e grandezza di questo Regno governato con tanta pace e prudentia, venne a persuadersi che una gente tanto accorta e data allo studio non lasciaria di dare entrata nel suo regno ad alcuni Padri di buona vita e che sapessero la loro lingua e lettera, et alfine riceverebbono la nostra santa legge che, non solo non è contraria, ma agiuta molto al buon governo della Repubblica, che loro pretendono, e fa tanto bene all’anime nell’altra vita aprindogli il camino e la porta al paradiso. Per questa causa diterminò di applicare alcuni padri che stessero in Maccao imparando le lettere e la lingua della Cina, accioché, avendo qualche porta per entrare, stessero ben apparecchiati a questo. E così, se bene contra il parere di alcuni Padri vecchi et isperimentati nella Cina, che avevano questa impresa per impossibile, non avendo il Padre Valignano seco persona atta permettere a questa opra, scrisse al P. Vincentio Rodrigo Provinciale dell’India, che almeno mandasse a quella Residentia un Padre di buone parti per questo effetto; et egli, perseguendo il suo viaggio verso Giappone, lasciò scritto quanto aveva da fare per conseguire il fine che si pretendeva. Il Provinciale elesse a questa impresa il P. Michel Ruggerio, che era venuto all’India di Roma l’anno 1578, e già stava travagliando nella Cristianità della Costa di Pescaria (Ricci si riferisce alla costa del Malabar dove Ruggieri risiedette per otto mesi, prima di essere destinato a Macao), nell’anno seguente di 1579, nel mese di Giuglio, arrivò il P. Ruggeri a Macao. (Ricci, p. 111-112)

Sono questi due personaggi, che incoraggiano Ricci ad assumere il compito di tentare il tutto per tutto nell’impresa di penetrare in Cina, volendo realizzare il sogno di Francesco Saverio, da tutti venerato, se non altro per essere stato uno dei fondatori dei Gesuiti. Costui rimarrà l’ideatore del progetto, anche senza aver mai fatto il passo decisivo in questa dire-zione, essendo morto con questo suo disegno nel cuore. Ricci si prefigge così di attuarlo con la netta convinzione che questo disegno dovesse essere perseguito, proprio perché veniva ritenuto come essenziale dal Saverio, il quale già veniva idealizzato. Occorreva però studiare bene l’impresa anche in presenza di tentativi precedenti andati a vuoto. Proprio per questo occorreva consolidare la base di Macao, che i Portoghesi avevano visto riconoscere dalle autorità cinesi locali. In quegli anni però, il Portogallo veniva di fatto unito alla Spagna nella persona di Filippo II, il quale già consolidava il suo dominio coloniale in quella vasta area geografica dell’Asia sud orientale. I Gesuiti, che nei loro viaggi dall’Europa si appoggiavano ai Portoghesi, avevano deciso di costituire la loro base di partenza per la “conquista” della Cina, proprio a Macao

ANTICA MAPPA DI MACAO

È Maccao una città de’ Portoghesi nella sponda del mare della Provincia di Quantone, in un braccio di terra che fa una penisola di due o tre miglia in circuito; percioché i Portoghesi, subito che scoprirono la grandezza e la ricchezza di questo regno, sempre procurorno con ogni diligentia aver comercio con esso. Ma i Cinesi sempre hanno paura de’ forastieri, specialmente quando veggono essere animosi e guerrieri, come facilmente vedevano essere i Portoghesi dalla gente armata e dalle navi, che erano le magiori che mai loro viddero. E quello che gli spaventò più furno le artigliarie grosse, mai viste né udite nella Cina; accendendo questo fuogo molti saraceni Macomettani che stanno nella città di Quanton, che subito dissero ai Cinesi esser questa gente de’ Franchi (“Franchi” è il termine con cui, a partire dall’epoca delle crociate, si definiscono in Medio Oriente gli europei.), come i Maccomettani chiamano i Christiani di Europa …

(Ricci, p. 112-113)

È interessante cercare di conoscere la strategia dei Gesuiti costruita a Macao per attuare la penetrazione della Cina, certamente nell’intento di portarvi la religione cattolica, ma nel contempo anche per studiare la modalità migliore nell’accostare questo Paese che appariva piuttosto refrattario alla penetrazione europea. Non va dimenticato che anche nella vicina area geografica non erano di poco conto le resistenze dei diversi potentati locali, che vedevano una minaccia della presenza degli Europei: lo stesso Ricci qui rivela che da parte dei Cinesi c’era la paura determinata dallo spirito guerriero e dall’apparato militare messo in campo dai Portoghesi stessi. Se i Gesuiti sentono il bisogno di appoggiarsi ai Lusitani, sia perché chiamati da essi ad accompagnarli nella penetrazione coloniale, sia perché erano favoriti nei viaggi; dall’altra però essi avvertono la necessità di tentate metodi diversi rispetto a quelli dei mercanti, soprattutto quando vedono che altri religiosi, già da tempo consolidati in questa missione, fallivano nel loro intento.

L’eterogena popolazione di Macao era lusofona e cristiana, a eccezione dei cinesi che provenivano dai vicini villaggi del Guandong e dal Fujian meridionale, facilmente raggiungibile via mare, anche se qualcuno aveva imparato la lingua e il culto portoghesi nel corso dei contatti avuti con i forestieri. Presenti fin dai primi anni, i gesuiti si imbarcavano come cappellani a bordo dei vascelli portoghesi, fornendo assistenza spirituale e imponendo regole di comportamento civile a rudi marinai e suscettibili fidalgos (aristocratici). La missione gesuitica era sponsorizzata da facoltosi mercanti come testimonia lo stretto rapporto tra Francesco Saverio e i fratelli Diogo e Guilherme Pereira, e più tardi quello fra Melchior Nunes Barreto e Fernao Mendes Pinto.

Mediando dispute, placando conflitti e in generale operando per la pace, i gesuiti si assicuravano la tolleranza degli avidi, beoni e violenti avventurieri portoghesi. Rappresentativo del loro ruolo, in questo piccolo insediamento con una sola via principale, è il fatto che i gesuiti avessero stabilito la loro residenza sulla collina centrale, vicino al sito dove sarebbe stata costruita la fortezza, nel punto più alto della città. Intorno al 1582, oltre ai gesuiti, molte altre istituzioni ecclesiastiche contribuirono a dare a questa frontiera commerciale selvaggia e fiorente una parvenza di civiltà. (…)  (Po-Chia, p. 72-73)

Macao appariva come un minuscolo fazzoletto di terra. Prima dell’arrivo di Ricci, la piccola comunità di gesuiti di Macao contava cinque componenti … Tutti, tranne Ruggieri, erano portoghesi. È facile immaginare la gioia di Ruggieri nell’incontrare i colleghi italiani, specialmente Ricci, che aveva espressamente richiesto come compagno per la missione in Cina in una lettera a Valignano, scritta alla fine del 1580. Dopo i tre difficili anni trascorsi a Macao, Ruggieri poté dare libero sfogo alle sue frustrazioni in italiano con i suoi compatrioti: passava ore ogni giorno a studiare il cinese, una lingua difficilissima, così diversa da qualsiasi grammatica europea, con un’infinità di caratteri, la confusione dovuta ai toni, e due sistemi diversi per scrivere e per parlare. Ciò nonostante, Ruggieri insisteva nel prepararsi a entrare in Cina, ma, per quanto difficile potesse essere, lo studio del cinese era in realtà la parte più facile.  (Po-Chia, p. 74)

Sembrava tutto tempo sprecato, perché nel passare del tempo, la missione appariva sempre sull’orizzonte senza che venisse mai avviata. Bisogna riconoscere però che il lavoro di Ruggieri per acquisire la lingua cinese e più ancora la cultura locale, sarà poi molto propizio per la futura penetrazione in Cina e nel contempo questo genere di lavoro, condiviso da Ricci, servirà a quest’ultimo per avviare al meglio la sua attività: se lo scopo rimaneva pur sempre la predicazione del vangelo e la “plantatio Ecclesiae”, questo non si poteva ottenere senza riuscire a dissipare la diffidenza del mondo cinese, soprattutto di quello dei mandarini locali. È il convincimento dello stesso Ruggieri e diventerà l’assoluta priorità dell’agire di Ricci per riuscire nell’impresa, che era fallita con le altre congregazioni religiose. Va segnalata comunque la perfetta intesa fra i due gesuiti, Ruggieri di origine napoletana e Ricci proveniente da Macerata. Il primo attendeva proprio la venuta dell’amico, convinto che il P. Valignano non avesse niente in contrario sulla questione. Lo segnala lo stesso Ricci che racconta di essere stato chiamato dal Superiore locale.

Cominciava già questo negotio a tenere qualche speranza, ma teneva doi grandi impedimenti: l’uno che i padri di Maccao erano puochi et i negocij de’ Portoghesi erano molti; e così era necessario che il P. Roggiero si mettesse in essi con grande danno del suo negocio proprio che era lo studio della Cina; l’altro l’esser solo applicato a questa impresa, e non potere continuare quello che lasciava fatto in Maccao nel tempo che stava in Quantone con i Portoghesi, che era alle volte mezzo anno, oltre questo negocio di lettere e lingue impararsi meglio da molti insieme che da uno solo. Del che avisato nel Giappone il P. Valignano, mandò a chiamare dall’India il P. Matteo Ricci (è questo il primo luogo del testo dove compare il nome di Matteo Ricci. Come si vede l’autore parla di sé in terza persona; questo probabilmente per conferire al testo il tono più elevato di una cronaca storica, anziché di un diario), che era venuto di Roma l’istesso tempo che il P. Ruggiero, e stava in Goa finendo i suoi studij, acciocché si desse anco a questo studio e stesse in Maccao (Ricci, convocato da Valignano su suggerimento di Ruggieri, arrivò a Macao il 7 agosto 1582) aspettando per qualche buona occasione di entrare dentro la Cina et aiudando alle opere che P. Rogerio aveva cominciate; e scrisse dando ordine che i Padri dedicati alla Cina non fossero occupati in altra cosa.

(Ricci, p. 116)

Naturalmente non appena Matteo Ricci scompare “dalla scena di questo mondo” e, sulla base di ciò che ha vissuto e prodotto egli diventa una specie di mito per coloro che sono chiamati a continuare l’opera seguendo le sue orme, questi primi contatti con il mondo cinese vengono particolarmente enfatizzati, come se si trattasse di una impresa davvero epica: nella biografia scritta da Giulio Aleni 20 anni dopo la morte del maceratese i primi anni di missione di quest’ultimo appaiono in una luce leggendaria e vengono presentati con un colorito epico …

Nell’anno 1577 dopo l’Incarnazione del Signore del Cielo, attraversati diversi paesi, Maestro Ricci raggiunse il famoso regno Marittimo del Portogallo e si presentò al re che lo ospitò generosamente

Quindi navigò venendo verso l’Oriente, sopportò onde infuriate e sabbie tempestose, nazioni di ladri e cannibali, senza danni e senza ferite.

L’anno seguente sbarcò in India (letteralmente Piccolo Occidente) per manifestare tutto ciò che aveva studiato (con questa espressione Aleni probabilmente intende l’inizio dell’opera di propagazione della fede da parte di Ricci).

Nell’anno successivo all’anno xinxi dell’imperatore Wanli (1582) arrivò nel Guangdong, nella contea do Xiangshan, a Macao.

Il governatore generale e vice-ministro della guerra, l’onorevole Chen Wenfeng, ri-chiese per iscritto al vescovo del Grande Occidente e al governatore (di Macao) di discutere gli affari di Macao. Il vescovo chiese al Maestro Michele Ruggieri … di andare in sua vece. Costui, adempiuto l’incarico, ritornò (l’episodio accadde nel maggio 1582, e fu il quarto viaggio nel continente di Michele Ruggieri. In realtà da tempo Ruggieri cercava in tutti modi di ottenere il permesso di risiedere in Cina, e nel dicembre dello stesso anno ritornò a Zhaoqing per la quinta volta insieme a Francesco Pasio. Aleni enfatizza il significato dell’iniziativa del viceré forse per mostrare che l’entrata e la permanenza dei Gesuiti in Cina sarebbe stata non solo avallata, ma persino richiesta dalle autorità cinesi).

Nell’anno seguente Maestro Ricci, per la prima volta, entrò assieme a Maestro Ruggieri, a Duanzhou (nella prefettura di Zhaoqing) dove il nuovo governatore generale, l’onorevole Guo e il prefetto onorevole Wang li accolsero con molta gioia. E lì costruirono una casa per abitarvi.  Aleni p. 28-29)

IL METODO MISSIONARIO

Fin qui non ci si poteva spingere fuori di Macao, ormai colonia riconosciuta del Portogallo, anche se in quegli anni la corona lusitana era in possesso del re di Spagna. Ma la venuta di Ricci consente di aprirsi al resto della Cina: la conoscenza della lingua da parte di P. Ruggieri, ma più ancora il metodo usato da Ricci permette non solo di avere qualche conversione e qualche battesimo – ben poca cosa se si pensa all’impegno profuso – ma di accostare anche il mondo dei mandarini e dei letterati, che poteva far sperare in un accesso più ampio e più sicuro. Ricci stesso scrive al Preposito Generale dei Gesuiti, P. Claudio Acquaviva, a Roma, informandolo dei primi risultati e mettendo in chiaro che il primo intento rimane il medesimo di Francesco Saverio scritto ad Ignazio di Loyola, e cioè quello di far conoscere con il Pater noster e l’Ave Maria i primi rudimenti del catechismo, senza però disdegnare altri generi di approcci con coloro che apparivano esperti di filosofia e di scienza. E lì potevano essere utili gli strumenti richiesti al padre, per segnalare in Cina le pari condizioni che gli Europei potevano vantare con la Cina, sempre sospettosa verso gli stranieri e sempre orgogliosa del proprio sapere. La lettera è del 20 ottobre 1585.

non habbiamo sin adesso più di dodici cristiani, li più di loro huomini di penitentia, che digiunano al modo della Cina, che è non mangiare né carne né pesce.

Uno tra gli altri, che sono alcuni anni che continua questo digiuno, venne il giorno dello Spirito Santo (Pentecoste, il 9 giugno 1585) con tutti i suoi libri e con il suo idolo a dar tutto in nostra mano per porli nel fuogo, confessando di andare errato, e continuò tanti giorni di imparare il Pater noster, Ave Maria, e altre cose necessarie, e venire a mezza Messa che il giorno della Commemorazione di s. Paolo lo battezzassimo, e per questo si chiama Paolo. L’altro battesimo si fece di alcuni il giorno della Assuntione di Nostra Signore. Il principale di loro era un vecchio di sessanta anni con uno figliuolo che tiene moglie e figliuoli. Il buon vecchio che si chiama Nicolao, perseverò ancora molti giorni, et il primo giorno che venne per discoprire il suo desiderio già sapeva il Pater noster e Ave Maria, et era mediocremente visto nel Catechismo, che gli avevano prestato. V.P. si rallegreria molto di vederlo lacrimare quando gli parliamo delle cose di Iddio, e tutti questi con alcuni catecumeni la domenica, al fare del giorno e prima, apparire alla nostra porta per la Messa, con stare alcuni un miglio e più lontani et anco dall’altra parte del fiume, che è tre o quattro volte più largo del Tevere. (…) Molte sono le persone che vengono a domandare questo Catechismo e vengono a sapere delle cose della nostra fede. Tra li altri venne un giorno un zumpino (comandante generale) novo, che è il capitano generale di tutti i soldati di questa provincia, e ci fece molta cortesia, ponendosi a sedere con nosco, il che non fa se non con persone molto eminenti … Un altro fu un pucensi (Commissario dell’amministrazione provinciale) di questa provincia, che non ha maggiore governatore che lui, che per una lettera ci mandò a domandare la dottrina di Ponente, che anticamente venne alla Cina, di poi adesso estava corrota, trattandoci molto cortesemente; al quale mandassimo un Catechismo, con scrivergli che la dottrina stessa del Salvatore del mondo non stava ancora voltata in lingua cinese; che tra tanto pigliasse il Catechismo, dove si dichiaravano molte cose et il Pater noster e Ave Maria, che poi voltaremmo il resto e mandariamo a Sua Signoria. (…) (Ricci – Lettere p. 98-100)

Io per la gratia del Signor stessi sano sempre e già parlo senza interprete con tutti e scrivo e leggo mediocremente i suoi libri. Accioché V.P. si consoli desideravo mandarli una descrizione di tutta la Cina, ma non ho anco potuto sapere di certo Pachino quanto sta alto verso il settentrione che è il luogo più principale dove sta il re; per questo ho molto buon apparecchio delle tavole loro nei suoi libri, scritte molto diligentemente, ma senza gradi. L’anno passatoi mandai un Mappamondo, che feci in lettera cina, che il governatore mi fece stampare benché tiene alcuni errori, ma per loro è la più vera cosa che tenghino, in questa materia.  (Ricci – Lettere p. 103)

CONCLUSIONE

Ancora oggi il mondo cinese appare al mondo occidentale un po’ misterioso e soprattutto diffidente verso chi lo accosta con intenti non sempre e non correttamente rispettosi della sua cultura millenaria. Se ciò vale in modo speciale per chi ha scopi di natura religiosa con una visione di vita che non viene affatto mutuata dalla antica sapienza locale o che non sia proposta in dialogo con la tradizione cinese, ancora di più si accentua la diffidenza quando il mondo occidentale si presenta con sistemi che la Cina fatica a condividere. Per queste particolari ragioni, tenuto conto che il solo occidentale riconosciuto e rispettato in Cina risulta essere proprio Matteo Ricci, dovremmo meglio conoscere il suo modo di accostarsi al popolo cinese, anche quando lui pure resta condizionato dagli obiettivi che mirava a raggiungere nel suo lasciare alle spalle il mondo occidentale, per farsi in tutto cinese: non perde mai di vista lo scopo missionario che lo muove secondo lo spirito della Incarnazione, come risulta nel Vangelo per Cristo che si fa uomo. Il medesimo spirito viene assunto dal gesuita: così lui ci insegna il modo più giusto per dialogare con la Cina.

BIBLIOGRAFIA

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Matteo Ricci

DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

E CHRISTIANITA’ NELLA CINA

Quodlibet (Macerata) 2000

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LA VITA DI MATTEO RICCI Scritta da Giulio Aleni (1630)

Fondazione Internazionale P. Matteo Ricci – Macerfata

Fondazione Civiltà Bresciana – Brescia – 2010

3.

Ronnie Po-chia Hsia

UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA – Matteo Ricci, 1552-1610

Il Mulino – 2012

4.

Matteo Ricci

LETTERE

Quodlibet (Macerata) 2001

20

LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.

INTRODUZIONE – Occorre ribadire che lo scopo fondamentale del viaggio di Matteo Ricci in Cina e più ancora della sua relazione scritta che ci fa conoscere la Cina con i suoi occhi, secondo il metodo dell’autopsia, è quello di seminare la parola evangelica, anche se nel modo stesso che Ricci ha di operare e poi di redigere la sua relazione, egli lascia questo obiettivo sullo sfondo. Preferisce cercare un approccio rispettoso con il mondo cinese, che egli deve riconosce costruito su una profonda e seria ricerca della saggezza, che fa ritenere i costumi cinesi degni di rispetto. Non si verifica uno scontro, ma si assiste ad un vero e serio confronto, che poi a Roma darà adito a qualche sospetto, come se Ricci volesse perseguire un certo sincretismo. La Controriforma, che si respirava in Europa, vedeva una rigida contrapposizione contro ogni altro credo religioso che non fosse il Cattolicesimo: esso si riteneva accerchiato, e reagiva in modo dogmatico e senza un vero spirito dialogico. Anzi, non lasciava molto campo di libertà per questo modo che aveva Ricci, e con lui, l’avanguardia missionaria gesuita, nel suo contatto con un mondo ritenuto lontano dal Cristianesimo e come tale considerato terra di “conquista”. Ricci, da missionario, non si poteva sottrarre al suo mandato; ma nel contempo non poteva neppure presentarsi con tutto il suo apparato dogmatico da imporre in un mondo già sospettoso e poco incline a “lasciarsi inglobare”, mentre era piuttosto teso ad “inglobare” il resto del mondo. Se in altre aree del mondo, dove sembrava fin troppo evidente la condizione di uno “status” ancora primitivo con usi e costumanze ritenute inadeguate, secondo una certa visione umanistica, acquisita e data per scontata in Europa, qui invece si respirava un mondo di natura filosofica e morale, con cui si poteva dialogare, come del resto era stato fatto già agli albori del Cristianesimo tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano. Così la componente religiosa, che si sarebbe dovuta ritenere prioritaria, affiorava non soltanto perché Ricci era un prete con questo specifico incarico, ma perché la scoperta in Cina di una religiosità radicata doveva più che altrove richiedere particolare attenzione. Proprio questo spirito religioso va riconosciuto come essenziale nella storia cinese; si potrebbe dire che anche negli anni del furore persecutorio contro ogni forma religiosa e nel vano tentativo di mortificare ogni credo religioso, comunque questo spirito è radicato e come tale è da associare alla conoscenza storica della Cina.

LA RELIGIOSITA’ CINESE

E CONFUCIO Leggi tutto “LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.”

LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Il governo.

È interessante nella lettura dell’opera scritta da Matteo Ricci che, prima ancora degli aspetti religiosi, vengano segnalati quelli che riguardano la vita quotidiana, e soprattutto l’attività lavorativa con i prodotti principali, che risultano essere specifici della Cina e dei suoi abitanti. Sappiamo che l’autore, in quanto prete e gesuita missionario, ha come sua finalità la predicazione evangelica; ma, nel contempo, come già operavano anche altrove gli stessi gesuiti, formati a Roma, anche lui si dedica alla ricerca scientifica coltivata negli anni della formazione, riconoscendo che gli studi fatti sono importanti per avviare il dialogo con la popolazione locale. Si rendeva conto che, per far entrare la proposta evangelica, era necessario conoscere più attentamente il percorso operato dalla gente del luogo e mettersi al passo con essa, avendo cura di conoscere da vicino il vissuto quotidiano. Abbiamo visto che ha iniziato la sua opera monumentale con l’attenzione al territorio, da considerare alla stessa maniera con cui veniva visto dagli stessi Cinesi, e da presentare ai lettori europei con lo sguardo di chi vi abita, suggerendo in tal modo di nutrire verso i Cinesi un’attenzione rispettosa. Naturalmente, anche per la considerazione che Ricci ha nei confronti del mondo culturale cinese, non può mancare la stima verso i letterati, gli scrittori, i ricercatori in genere, Anzi, egli stesso fa notare che persino nel mondo militare cinese si ha cura di formare le persone tenendo conto della componente che possiamo definire umanistica.

Questo modo di far gradi di Licenziato e di Dottore si usa anco negli stessi anni ai soldati, con gli stessi nome di chiugin e di zinsu, e negli stessi luoghi; cioè il grado di Licenziato nelle metropoli, e quello di Dottore in Pacchino, in un altro mese diverso. Ma come in questo regno vagliono puoco le armi, e la arte militare è sì puoco stimata, si fa con tanto manco solennità, e si dà a sì puoca gente, che pare una Compassione. (Ricci, p. 38)

Dopo una rapida presentazione di ciò che si produce e di ciò che caratterizza la cultura cinese, Matteo Ricci nel capitolo VI del primo libro si dedica al governo della Cina, che gli permette di offrire una narrazione molto sintetica dei principali eventi storici, per spiegare come al suo tempo ci si trovi con un sistema politico, che egli cerca di far comprendere ai suoi lettori, usando anche i parametri del mondo europeo, pur segnalando che la storia e la politica cinese sono di gran lunga diverse e diversamente vanno comprese e analizzate. Di fatto, più che un susseguirsi di eventi storici, Ricci definisce nelle sue linee essenziali il governo, che, essendo monarchico, senza limitazioni di sorta, se non per il suo apparato burocratico, rende la Cina un impero. Lo è inoltre per il fatto che nell’estensione del suo territorio, la Cina comprende al suo interno varie popolazioni o gruppi etnici, dominati da un governo unico, la cui struttura viene proposta dall’autore per spiegare al lettore occidentale come deve essere intesa la Cina. Perciò a chi scrive, che pur dimostra di conoscere l’essenziale della storia cinese, la segnalazione che maggiormente conta è il fatto di essere in presenza di una struttura di governo, che è certamente il risultato di una lunga gestazione nella storia. Esso, inoltre, appare ben strutturato, e così si spiega come esso persista e come esso continui a rinnovarsi e a sussistere insieme, per tutti i sistemi di equilibrio che si sono creati nel corso dei secoli, per far giungere la Cina ad essere un grande Impero, come lo stesso Ricci deve constatare ed ammirare. Anche se nel capitolo si accenna a qualche personaggio ed evento storico – e non si potrebbe fare diversamente per un pubblico, come quello occidentale, che appariva sguarnito degli elementi essenziali della storia cinese –, poi però allo scrittore interessa maggiormente comunicare il sistema istituzionale cinese, che non ha corrispondenti nel nostro mondo, per quanto Ricci cerchi di spiegare i fenomeni, ricorrendo anche a qualche termine ed esempio appartenente al nostro occidente. Del resto è lui stesso a precisare quanto ha in mente di segnalare al lettore.

Non toccherò di questa materia se non quanto viene al proposito di questo sommario; percioché proseguirla come essa richiederebbe esattamente sarebbe cosa da farsi in molti Capitoli. In questo Regno non si usò mai altro che di Governo monarchico di un suolo Signore, senza aver notitia di altro. E nel principio, ancorché fusse un solo Re e signore, con tutto vi erano anco molti signori soggetti al signore Universale, sotto vari titoli, come tra noi, di Duchi, Marchesi e Conti. (Ricci, p.39) Leggi tutto “LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Il governo.”

La Cina al tempo di Matteo Ricci.

INTRODUZIONE.

Ci rendiamo conto che nei nuovi equilibri geopolitici la Cina vuol essere una presenza sempre più forte e sempre più riconosciuta, con un suo ruolo, che sta cercando di ritagliare. La sua immagine è quella che si è costruita nel corso dei secoli, anche sotto diverse forme istituzionali: è, e rimane sempre, un “impero”: questo termine non sta più a indicare una forma monarchica, come spesso la intendiamo, ma la rappresentazione di un mondo che ingloba al suo interno popoli diversi, culture e lingue differenti, magari anche con il disegno politico di poter allargare più che lo spazio geografico, lo spazio di potere che ogni impero vuole sentire riconosciuto. Noi oggi vediamo la Cina con un sistema politico che sembra sopravvissuto al crollo del comunismo in Russia, dove quel fenomeno si era per primo affermato. Essa è indubbiamente gestita da un apparato che si richiama a quel sistema di governo, anche se viene da osservare quanto sia sopravvissuto del marxismo nella sua ideologia e quanto rimanga del leninismo nella sua gestione di potere. Queste sovrastrutture persistono, soprattutto se si pensa che uno Stato siffatto richiede una struttura di potere da esercitare secondo le forme “autocratiche” del passato, secondo le rigidità di un sistema ideologico che il recente passato ha costruito e contribuito a rafforzare. Ma il sistema imperiale, che poi diventa “imperialistico” appartiene alla storia cinese, che noi conosciamo poco, non avendo costruito, nella scuola, una visione del mondo nella sua integralità, se non per gli addetti ai lavori; e soprattutto ci siamo costruiti una conoscenza indiretta, che spesso legge la storia di quel Paese, come di altri, secondo le categorie occidentali. La stessa Cina, anche nel recente passato, vuol essere considerata secondo le sue proprietà e non secondo uno schema di pensiero “occidentale”: l’incontro fra i due mondi (ma i mondi sono plurali e non semplicemente duali!) richiede una conoscenza e un rispetto reciproco, che deve valere da ambo le parti. Il recente tentativo di ripensare alla famosa “via della seta”, quella che ha consentito nel passato di avviare rapporti, anche di tipo commerciale, fra i due popoli, ci obbliga a considerare meglio la Cina dentro il corso della storia e nel suo rivelarsi a noi non solo in riferimento ai rapporti umani e commerciali che si sono sviluppati, ma anche per la funzione che la Cina si è ritagliata portandola fino ai nostri giorni.

Certe analisi storiche che leggono la Cina dentro una visione eurocentrica, portano inevitabilmente a considerarla sulla base di ciò che l’Europa (ed oggi l’Occidente) ha sviluppato nei suoi rapporti con essa. Noi abbiamo, in genere, una lettura storica che privilegia il nostro punto di vista, mentre la Cina andrebbe scoperta e riscoperta dentro la sua collocazione geografica e per quello che essa ha saputo creare e costruire. Le fonti, da cui trarre informazioni per conoscere la Cina a partire dalla Cina stessa, sono indubbiamente quelle degli storici cinesi o quelle che risultano scritte nel corso della millenaria storia di quell’Impero, che è stato denominato celeste. Se vogliamo qualcuno che, pur uscito da noi, si è talmente fatto cinese da penetrarne il pensiero e il mondo, allora dobbiamo rivolgerci a Matteo Ricci, il gesuita di Macerata, il quale, vissuto per circa un trentennio in Cina, ne ha davvero assimilato lo spirito, da sentirsi uno di loro e da essere nel contempo avvertito da quel mondo come il più attento conoscitore e il più rispettoso ed integra-to personaggio, da farsi cinese. Così è stato riconosciuto, e così ancora lo è in Cina, anche se oggi quel Paese vuole presentarsi come un mondo ateo e un mondo che, anche a sviluppare ampi rapporti con il mondo occidentale, non vuole sudditanza alcuna di tipo coloniale, e men che meno autorità, come quella religiosa nell’ambito cattolico, che sia avvertita esterna ed estranea al mondo cinese. Di qui la necessità di un incontro e di una conoscenza che siano rispettosi del ruolo storico che ha la Cina: essa è davvero un mondo che pretende di essere al centro del mondo stesso …

MATTEO RICCI (1552-1610)

Matteo Ricci è il miglior sinologo per il suo particolare approccio con il mondo cinese e può introdurre al meglio dentro quella realtà. Più che tracciarne una biografia, è il caso di capire la ragione e la modalità con cui il giovane gesuita, formatosi a Roma, sia stato destinato a penetrare in quel mondo, già accostato da S. Francesco Saverio, alla vigilia della sua morte avvenuta nel 1552, proprio nell’anno di nascita del maceratese. Il suo desiderio di farsi religioso, perseguito anche contro la volontà del padre, lo introdusse nel nuovo Ordine, messo in piedi da Ignazio di Loyola. Il cofondatore, Francesco Saverio, partito per le Indie, mandava relazioni dall’immenso territorio in cui sorgevano qua e là comunità cristiane. Forse queste relazioni, spesso connotate da spirito di avventura, hanno determinato la vocazione “missionaria” di Matteo Ricci.

Non esistono scritti di Ricci sui suoi anni romani e non sappiamo quindi cosa lo abbia spinto verso le missioni. Indirizzate al generale della Compagnia, le lettere, dette Indipetae, esprimevano con i toni dell’implorazione l’ardente desiderio dei candidati di partecipare alle missioni (…) Anche Ricci desiderava il martirio? A giudicare dalle sue missive e dalle attività sul campo degli anni a venire, non vi sono tracce della passione che portò altri alla ricerca di una morte violenta. Forse in lui il desiderio di avventure e di viaggi conviveva con l’aspirazione alla propria salvezza: il suo scopo poteva essere dunque “aiutare gli altri aiutando se stesso”, per citare un altro adagio gesuitico. La maggior parte dei compagni di studio di Ricci rimase in Italia … Altri invece condivisero il desiderio di Ricci. (Po-Chia, p. 32-33)

Matteo Ricci in abiti cinesi indica la Cina al centro della mappa del mondo

Di fatto Ricci si aggrega a coloro che puntando verso l’Oriente, devono prima passare da Lisbona, e poi, di qui, passare da Goa in India, e successivamente a Macao in Cina, dove i Gesuiti pongono la loro base di partenza per penetrare in Cina. Naturalmente in questi passaggi il giovane prete non sta inerte. Si dedica piuttosto a quelle conoscenze preliminari con le quali garantirsi un accesso più facilitato. Intanto egli ha modo di studiare il territorio e di capire, già da questo, quale sia il ruolo della Cina nel contesto geografico e più ancora quale possa essere il suo ruolo geopolitico. È molto interessante notare che nelle note storiche, da lui redatte, e che accompagnano il suo cammino in Cina, ha un rilievo non indifferente la descrizione della Cina, sotto il profilo geofisico con una notevole considerazione di carattere storico. È la dimostrazione che egli vuol conoscere bene questo Paese e che vi vuole entrare non solo per l’immagine che dà al suo presente, ma anche per quello che appariva agli occidentali, quando ne trattavano e per quello che esso comunicava quando si creavano contatti con l’esterno.

IL NOME DELLA CINA

Già nel capitolo II, dopo una introduzione di carattere metodologico nel suo modo di concepire e di scrivere di storia, Ricci ha cura di rappresentare quel gran mondo con l’essenziale della sua geografia.

Capitolo II

DEL NOME, GRANDEZZA E SITO DELLA CINA

Questo ultimo regno orientale venne a notitia de’ nostri europei sotto diversi nomi. Il più antico del tempo di Tolomeo fu di Sina, di poi, nel tempo di Tamorlano, come di poi chiaramente si vedrà, vi fu data notitia di essa da Marco Polo con nome di Cataio. (Ricci, p. 7)

Sono poche battute che riguardano tempi diversi, laddove qualche informazione riguardante la Cina arriva in Occidente, se non altro per il nome che viene dato a quel mondo, noto, ma di fatto non ancora contattato in maniera stabile. Qui si parla di Claudio Tolomeo (100-168 d.C.) che parla della “Sina” più volte nella sua opera conosciuta come “Almagesto”, come viene indicato nella versione araba. E’ qui che troviamo l’impostazione geocentrica del sistema solare, che poi viene definita “tolemaica”.

Viene pure ricordato un altro personaggio storico famoso, Tamerlano, (1336-1405) capo del Turkestan, che ha conquistato e creato un vasto impero fra l’Europa e la Cina, senza riuscire a conquistare quest’ultima, solo perché muore alla vigilia di questa impresa. In mezzo ci sta pure la figura, a noi ben nota, di Marco Polo (1254-1324), il quale nella sua famosissima opera ci parla del viaggio in quel paese, che chiama appunto con il nome registrato da Ricci. Il veneziano fece il suo viaggio dal 1271 al 1295 nel periodo in cui la Cina era dominata dai Mongoli e naturalmente ci ha fatto conoscere quel tipo di realtà, che i Cinesi considerano con diffidenza, essendoci stata l’invasione ed essendosi questa trasformata in una occupazione. Non per nulla la figura di Marco Polo non ha in Cina la fama che invece riveste da noi, diversamente da Matteo Ricci, considerato dai Cinesi come uno di loro, ma da noi ben poco conosciuto.

Ma il più celebre di questi tempi è questo di Cina, divulgato da’ Portoghesi, che per lunghi e pericolosi viaggi per mare arrivorno a essa e mercanteggiano nella sua parte più al mezzogiorno, nella provincia di Quantone (Guandong), se bene i nostri Italiani et altre nationi pensino chiamarsi China, ingannati dalla pronunciatione e scrittura spagnola, che non segue nel loro vulgare, in alcune lettere, la pronunciatione latina. Ed è cosa degna da notare che tutti questi nomi furono apportati ai nostri con aggiunzione di Grande, poscia che sogliono chiamarla magna sina, e Marco Polo la chiama il gran Cataio, e gli Spagnuoli la Gran Cina, di dove si vede l’essergli debita e connaturale la sua magnificentia e grandezza del suo nome. (Ricci p. 7)

L’autore vuole dunque soffermarsi sulla questione del nome in tutti i suoi aspetti, perché già da questo, che sembra un dettaglio, si può riconoscere che sia ad intra sia ad extra c’è consapevolezza di trovarsi davanti ad un mondo considerato grande e tutto da scoprire per la sua grandezza. Una simile visione (che è pure una sorta di autocoscienza dei Cinesi stessi) appartiene alla storia cinese e nel contempo passa da una generazione all’altra anche nei mutamenti inevitabili dei regimi politici. Questa visione di “Potenza” appare già presente a quanti vi giungono dall’Occidente, compresi i colonizzatori portoghesi, che si rendono conto di dover risalire nella Cina interna e di scoprire dunque un Paese molto vasto sotto il profilo geofisico e nel contempo un Paese che può avere in tal modo la coscienza di qualcosa che si estende e che, anche a partire dalle città, allora, e ancor di più oggi, densamente popolate, si dimostra di notevole grandezza e fatta per andare sempre oltre i propri confini.

Di qui l’imperialismo che domina la storia della Cina e che arriva come eredità anche alla Cina di oggi, per quanto essa non si presenti secondo le modalità imperiali che noi pensiamo di raffigurarci con personaggi di grande livello e soprattutto dotati di un potere veramente alto. Presentata così da Ricci, la Cina arriva in Occidente con la considerazione di qualcosa di veramente grande e che tale deve essere riconosciuta, rispetto ad un mondo come quello occidentale che dovrebbe puntare su un altro genere di grandezza.

LE PECULIARITA’ DELLA CINA

Poi Ricci entra in alcuni dettagli, che nella visione sua e dei suoi lettori devono essere considerati come peculiarità dei Cinesi. Queste particolarità diventano anche qualificanti circa il loro vivere e il loro operare: il fatto, ad esempio, che essi mangino la carne di cavallo è in sé una annotazione marginale; ed invece dovrebbe far pensare che proprio su questo animale punti in modo speciale la popolazione locale, non solo per avere nutrimento, ma per tante altre attività collaterali. Così, se nella nostra civiltà occidentale, a partire dall’Egitto, il bue “Api” costituiva il punto di partenza in diversi campi per coloro che in quel Paese e dal quel Paese volevano creare qualcosa di grande, nel Catai invece va dato rilievo al cavallo. Dal bue “Api” viene fatto iniziare il mondo religioso dell’Antico Egitto, così come di lì proviene la prima lettera del sistema geroglifico che poi diventa il nostro sistema alfabetico.

Né vi è anco dubio l’essere questa terra il regno degli Hyppofagi perché in tutta essa, sino ai nostri tempi, si mangia carne di Cavalli, come tra noi la vaccina. (Ricci p. 7)

Ovviamente non può mancare il riferimento a ciò che nell’immaginario collettivo di sempre caratterizza la Cina nella sua attività lavorativa specifica, cioè la produzione della seta. La via stessa, che viene formata e che viene frequentata nel corso dei secoli, è proprio quella che serve a trovare e ad acquistare qui per l’uso che se ne fa in Occidente, anche se poi, lo sappiamo bene, in modo particolare dalle nostre parti, troviamo un’attività analoga anche da noi. Come sempre, qui è una attività su larga scala.

E l’istessa anco è la Serica, poiché in nessuna di queste terre al ponente vi è seta se non in essa, e questa in grandissima abondanza, tanto che non solo la vestono grandi e piccoli, poveri e ricchi, ma anco ne mandano a tutte le genti circonvicine, et i Portoghesi la miglior mercanzia di che caricano le sue navi, o per il Giappone o per l’India, è di seta e di pezze di seta. L’istesso avviene agli Spagnuoli, che stanno nelle Filippine caricando le sue navi per la Nuova Spagna (il Messico). E ritruovo ne’ suoi libri l’arte della seta 2636 anni inanzi alla venuta di Christo benedetto al mondo, e pare che questa arte da questo regno si sparse al restante dell’Asia e a tutta l’europa et Africa. Là onde non è meraviglia esser detta e tenuta per grande, giaché vediamo quattro o cinque grandi regni al presente come uniti già in uno. (Ricci p. 7-8)

È evidente l’esaltazione di questa attività, che appare presente nella sola Cina e da qui raggiunge il resto del mondo con i suoi prodotti; l’autore li presenta non come riservati a persone di alto rango o comunque in grado di spendere tanti soldi. Questo genere di stoffa è usata ovunque e diventa un po’ la caratteristica del “vestire cinese”. Si dà poi informazione circa la commercializzazione di questo prodotto, rimarcando che sono i Portoghesi a farlo pervenire negli altri Paesi asiatici, mentre gli Spagnoli introducono il prodotto nel Nuovo Mondo. Con questa particolare segnalazione di fatto si dà ulteriore forza ad una visione del Paese che lo vede al centro, mentre gli altri attorno si avvantaggiano di un prodotto che noi dovremmo considerare “di nicchia” e che invece appare molto diffuso e ben noto e ricercato. Ricci, infine, segnala un testo da cui ricava la notizia che l’arte serica sarebbe entrata in Cina molti secoli prima di Cristo. Si tratta di una “notizia semileggendaria che colloca in questo anno (come lo vediamo segnalato nel testo di Ricci) l’invenzione dell’arte di lavorare la seta da parte di Lei Zu, moglie del leggendario imperatore Huangdi, passata alla storia come Xian Can, ovvero “Prima Sericultrice”.

LA SUDDIVISIONE DELLA CINA

Nella sua esaltazione della Cina come realtà grande, non solo per la vastità del suo territorio, Ricci vuole anche dire che questo Paese ha conosciuto la divisione e gli scossoni politici di diverse dinastie reali ed imperiali; e tuttavia questi fenomeni storici, pur sempre dannosi per ogni regno e soprattutto per ogni impero, non incrinano di fatto la grandezza della Cina, anche se, in certi periodi, essa viene a trovarsi in piena decadenza; nel contempo, superate le crisi, torna ad essere grande grazie alle sue ri-sorse umane, soprattutto legate alle attività economiche, che la fanno ricercata nel mondo per questo.

Quello che a me mi fece più meravigliare fu il sapere che tutti questi nomi sono alla stessa Cina incogniti et inauditi; e non sanno l’esser chiamati così, né la causa di tali nomi a loro imposti, avendone mutati molti e stando anco esposta ad altre mutanze. La causa è per il loro antichissimo custume che, quando il regno si muta di una famiglia in altra, si muta anco il nome del regno a voglia del primo Re di quella famiglia, il quale ordinariamente elegge qualche bello e grave nome. (Ricci p. 8)

Se esistono dunque diverse Cine, o meglio, diverse immagini della Cina, questo dipende dal fatto che si susseguono dinastie diverse, le quali contribuiscono a dare una particolare fisionomia per quel periodo, lungo o breve, che noi possiamo cogliere nel susseguirsi non solo dei secoli, ma persino dei millenni. E qui Ricci elenca una serie di dinastie a riprova che si è ben documentato circa la storia cinese. Queste diverse dinastie non sono tali comunque da indebolire la Cina nel suo insieme, perché se i passaggi sono, come un po’ ovunque, momenti di decadenza, poi si instaura un periodo di ripresa, nella quale la Cina ha sempre la possibilità di offrire una immagine di sé continuamente segnata dalla grandezza.

E così fu chiamata Than, che vuol dire largo senza termine; In che vuol dire riposo; Hia, che vuol dire grande; Sciam che vuol dire ornato; Ceu, che vuol dire Perfetto; Han, che vuol dire la via lactea nel Cielo con altri molti. Et dall’anno del Signore 1236, che regna la famiglia Ciù, si chiama Min che vuol dire chiarità; e, per durare anco adesso in questa famiglia, gli aggiungono una sillaba Ta, che vuol dire grande, e si chiama Ta min, cioè grande chiarezza. I popoli vicini puochi sono che sappino queste mutanze, e così le chiamano anco con varij nomi, e penso che ciascheduno con il primo di che hebbero notitia. I Cocincinesi, i Siami di dove imparorno i Portoghesi, la chiamano Cin, i Giapponi la chiamano Than; i Tartari la chiamano Han, et i Saraceni la chiamano Cathai. (Ricci p. 8-9)

LA CINA COME “TERRA DI MEZZO”

Dilungandosi sulla questione del nome, Ricci non vuole complicare le cose, ma far intendere la coscienza che i Cinesi hanno del loro mondo e della loro visione del mondo: essi evidentemente intendono la Cina al centro del mondo e tutto il resto va considerato periferia. Essendo al centro la Cina è il “paese di mezzo”, e nel contempo è la realtà più grande, appunto perché centrale.

Ma in questo modo anche tutto ciò che vi è all’esterno, va inglobato, se essa è davvero il cuore del mondo, del globo. E perciò è necessario che essa si qualifichi sempre al meglio per questa sua posizione e sia sempre più in grado di assimilare la realtà che la circonda. Lo specifica con chiarezza il missionario gesuita, quando arriva a sostenere che, nella coscienza del Paese e quindi nei suoi abitanti, c’è questa impostazione che la fa sentire davvero come il cuore del mondo creato, come colei che deve tenere l’universo aggregato a sé.

Ne’ libri della Cina, oltre il nome di quel secolo corrente, si chiama Ciumquo (letteralmente = il Paese del Centro), che vuol dire regno nel mezzo, e ciumhua, che vuol dire Giardini del mezzo, et il Re che ottiene tutta la Cina lo chiamano signore di tutto il Mondo, pensando che la Cina eminentemente tiene tutto l’universo; il che, se paresse strano a qualcuno de’ nostri, imagini che più strano parrebbe alla Cina il chiamarsi i nostri antiqui imperatori con questo titolo, senza essere signori della Cina. (Ricci p. 8)

E qui giunge a sostenere che, in presenza di altri imperatori, di altri sovrani che così si qualificano, c’è come una sorta di Paese alternativo e quindi anche antagonista e come tale da sentire ostile. Come è possibile allora che esistano imperatori, quelli romani e quelli successivi che pur derivano dall’antico impero il loro titolo, che possano essere tali senza essere pure signori della Cina? Sulla base di questa sua maniera di consi-derare la cosa si dovrebbe concludere che possano esistere imperatori che non siano cinesi di origine; ma essi, se sono tali, non possono non essere anche i signori della Cina e considerare comunque quel Paese come cen-trale al mondo, come punto costitutivo del mondo nel suo insieme. Evi-dentemente si riconoscono altri Paesi e altri popoli; e non potrebbe essere diversamente; ma va riconosciuta la centralità della Cina, per la quale dunque è importante e necessario che si entri effettivamente in dialogo riconoscendo questa sua posizione centrale. Dovremmo di qui capire come Matteo Ricci, nel suo accostamento alla Cina, abbia ben compreso una simile visione, e, rispettandola, abbia cercato ogni possibilità di dialogo aperto al fine di penetrare in essa per portarvi poi la luce del Vangelo: questo non può giungere ai Cinesi come qualcosa di estraneo ad essi, ma come un messaggio di vita intrinsecamente legato alla Cina per la modalità stessa con cui la religione cristiana si presenta, volendo essere davvero universale e non tanto il prodotto di una cultura locale in termini geografici e cronologici.

E va riconosciuto che il suo approccio con la Cina è stato quanto mai positivo, assolutamente non condotto secondo i criteri di stampo colonialista, come succedeva nel medesimo periodo altrove, e come, per tanti versi, è stata pure condotta l’azione missionaria, in molti momenti della storia e in molte parti del mondo. Questa stessa visione è quanto mai opportuna oggi nell’accostare, da parte cattolica e quindi da parte dei missionari, i Paesi extraeuropei, che non possono essere assimilati allo schema culturale europeo. Più che mai questo atteggiamento è da tener presente nell’accostamento della Cina: ciò che ha fatto Ricci, va riletto e considerato oggi nei confronti di un mondo cinese che appare guardingo ad aprirsi in modo particolare al mondo cattolico, che pur ha conosciuto, che pur si è già affermato nel Paese, visto che esiste una forte comunità, per quanto sia sempre minoritaria. Occorre evidentemente la saggezza che Ricci ha cercato di usare nel suo approccio alla Cina, perché non c’è solo la remora politica a costituire un ostacolo nei rapporti fra la Cina e la Chiesa cattolica rappresentata dal Vaticano. Quest’ultima non rinuncia affatto a dialogare con essa. È però necessario comprendere la visuale cinese che lo stesso Matteo Ricci, nel suo testo e soprattutto nella sua testimonianza di vita, cerca di illustrare e di far capire al mondo occidentale e soprattutto alla Chiesa Cattolica: questa deve ancora molto considerare nel rapportarsi con le nuove terre e le nuove popolazioni che accosta mediante i viaggi esplorativi del Cinquecento. Va riconosciuto che il sistema messo in campo dai Gesuiti, pur con tutte le debolezze di un accostamento iniziale e mai prima operato, è indubbiamente di gran lunga più rispettoso dei popoli rispetto a ciò che fanno altre congregazioni religiose nel medesimo periodo. Quanto si evince da ciò che si operava in Cina e da ciò che contemporaneamente si faceva nell’America meridionale, sempre da parte dei Gesuiti, è indicativo di un metodo missionario sempre da verificare e da revisionare. Le famose “reducciones paraguayane”, per quanto siano state fallimentari, potevano costituire un esem-pio di approccio alle popolazioni indigene, nel pieno rispetto delle loro peculiarità. Anche in Giappone l’accostamento sembra inizialmente giusto, e tuttavia non mancano le incomprensioni: qui i missionari gesuiti arrivano per la prima volta e, per quanto essi tentino un accostamento rispettoso, risultano travolti dalla bufera di una persecuzione sanguinosa. Perciò l’analisi e lo studio del metodo messo in campo da Matteo Ricci sono quanto mai importanti anche oggi per comprendere meglio la sua azione missionaria e per accostare meglio, soprattutto la Cina.

LA CARTOGRAFIA

Sappiamo che ogni missionario gesuita doveva inviare a Roma relazione delle proprie attività. Queste sono ancora oggi raccolte e schedate. Matteo Ricci non è da meno, e nelle sue relazioni appare anche minuzioso e soprattutto dotato di capacità specifiche che danno un notevole valore scientifico ai suoi scritti. In modo particolare emergeva la sua perizia di geografo e di cartografo, costruita negli anni della formazione a Roma. Lo si può vedere già dalle prime battute della sua monumentale opera circa l’entrata della Compagnia di Gesù in Cina, che non è solo opera sua. Lui qui si dimostra davvero abile nel proporre per iscritto una descrizione geofisica della Cina, secondo gli schemi di quel tempo.

CARTINA DELLA CINA CON LE SUDDIVISIONI PROVINCIALI

Quanto al sito e alla grandezza di essa, al mezzo giorno comenza in 19 gradi del equinoziale nel Insola di Hainan, e va a finire in 42 gradi fuora de’ muri settentrionali dove comenza la Tartaria. Dal levante comincia nella Provincia di Iunnan in 112 gradi dell’Insole fortunate, e finisce in 131 nel mare di levante, e quasi viene a fare un quadrato perfetto, un puocho magiore in larghezza di quello che è lungo (la posizione geografica della Cina, qui definita da Ricci, venne ritenuta esatta da D’Elia, che la vede come il punto di arrivo di numerosi calcoli, via via rettificati e attestati nell’epistolario ricciano. In realtà Ricci non poteva essere in grado di effettuare dei calcoli precisi, data l’impossibilità, ai suoi tempi, di ottenere un esatto calcolo longitudinale. Egli aveva a sua disposizione solamente metodi molto approssimativi, come il calcolo delle eclissi lunari o l’uso delle effemeridi. Il problema venne risolto solo nel 1761 con la messa a punto di un cronometro da installare sulle navi. In epoca Ming la Cina si estendeva dal 18° dell’estremità sud di Hainan al 42° nord, dal 70° al 125° a est di Greenwich). E la magior parte di essa sta nella zona temperata e comprende tutti gli Climi che stanno dal fine di Diameroe siano all’ultimo de’ Diaromi (Le espressioni “Diameroe” e “Diaromi” si riferiscono alla suddivisione della sfera terrestre, operata nel XIII secolo da Giovanni Hollywood, in sette zone dette climi astronomici; in particolare quella definita Diameroe prendeva il nome dall’antica città di Meroe in Nubia, mentre la fascia climatica Diaromi prende il nome dalla città di Roma): di dove si vede excedere in grandezza a tutti gli altri regni del mondo, se bene non è sì grande quanto alcuni scrittori moderni la facciano, estendendola al settentrione sino a 53 gradi, che vengono a farla un terzo magiore di quello che è; ma questi termini di essa habbiamo noi verificati con astrolabi jet altri strumenti in varij luoghi di essa dove passassimo e stessimo, con l’osservationi di varie eclissi, con i loro Calendarij, dove molto puntualmente sono calculati i novilunij e Plenilunij, e sopra tutto per molti e varij libri di Cosmografia stampati, ne’ quali esattamente si descrivono le provincie, regioni e confini del Regno. (Ricci, p. 9-10)

Questa particolare lettura della Cina sotto il profilo geografico, quello che inquadra il territorio secondo coordinate scientifiche, in uso allora, rivela che Ricci aveva acquisito una formazione egregia, frutto del suo ingegno e dei suoi studi, ma nel contempo anche di una educazione scolastica di pregio. È quella che lui ha ricevuto nel Collegio Romano, istituzione scolastica fondata e gestita dai Gesuiti.

Forte di alcune delle migliori menti della Compagnia il Collegio Romano godeva di un’impareggiabile reputazione. Montaigne stesso, colpito dalla stima di cui i gesuiti godevano, reputò che non fossero mai esistite fino a quel momento “altra confraternita o comunità del pari potenti o capaci di produrre effetti quali produrrà questa, potendo realizzare i propri intenti: in poco tempo avrà in suo potere tutta la cristianità, essendo un vivaio di grandi uomini d’ogni sorta e quella – fra le nostre istituzioni – che più minaccia gli eretici attorno a noi”.

(Po-Chia, p. 22-23)

Ricci in questo collegio e in questo momento si appassiona un po’ a tutto, dedicandosi in modo particolare alla retorica e alla filosofia. Ma poi finiscono per prevalere gli interessi scientifici, e in particolare egli si dedica alla geometria.

La geometria era alla base della matematica studiata dai gesuiti, ed Euclide ne rappresentava la massima autorità. In aggiunta alla spiegazione dei testi degli antichi, Clavio (Cristoforo Clavio (1538-1612) è un gesuita tedesco, matematico e astronomo, l’ideatore del calendario gregoriano), professore di Ricci, fu fonte di grande ispirazione per gli studenti, grazie al suo originale lavoro, specialmente nell’ambito delle osservazioni astronomiche e dei calcoli geografici. Oltre all’ap-prendimento dei testi e della teoria, gli studenti imparavano a utilizzare i quadranti, i globi, le sfere armillari, gli astrolabi e i sestanti, sapevano prevedere le eclissi e misurare la posizione del sole per determinare la latitudine e la longitudine. Nel 1572, quando Ricci era da poco novizio. Clavio riuscì ad osservare, insieme ai suoi studenti, una nova, una scoperta tal-mente emozionante da spingere l’astronomo tedesco a scrivere “Sono convinto che la nova sia stata creata da Dio nell’ottava sfera come presagio di qualche grande evento (sebbene la natura di questo evento potrebbe essere tuttora sconosciuta)”. Era forse un segno che annunciava la nascita di una nuova stel-la nel firmamento gesuita? Uno dei nuovi studenti di Clavio? La geometria non forniva solo gli strumenti per lo studio dello spazio celeste, ma facilitava anche i progressi della cartografia. (Po-Chia, p. 24)

Proprio sulla cartografia Ricci va a puntare i suoi interessi. E quanto lui apprende gli serve poi nel viaggio che progressivamente lo porta al cuore della Cina, non solo perché arriva alla capitale, ma perché ha modo di in-contrarsi col sapere cinese, proprio a partire da uno degli interessi più coltivati in Cina. Evidentemente a partire dai suoi stessi studi operati sui banchi di scuola, egli ha modo di dialogare con più fiducia su interessi comuni. E la fiducia è ricambiata. D’altra parte la scienza cartografica aveva pure un suo affascinante sviluppo in Occidente a partire dai viaggi di esplorazione che erano in corso in quel secolo e che richiedevano carte sempre più aggiornate: è del 1570 il primo mappamondo che risultava più preciso rispetto alle carte disegnate nel Medioevo e ancora utilizzate, anche se si rivelavano inadatte. Gli studi di questo genere appaiono dav-vero utili a Ricci, perché al momento della sua entrata in Cina si trova ammirato dai Cinesi e ben accolto proprio per questa sua abilità e per l’uso consolidato di rappresentare il mondo mettendo al centro la Cina, che diventa così la “Terra di mezzo”. La prima biografia, scritta dal gesuita bresciano Giulio Aleni (1582-1649), che arriva in Cina dopo la morte di Ricci e di cui fornisce una bella immagine di missionario nel grande paese asiatico, mette in risalto il contributo che Ricci dà in questo particolare campo:

35.

Durante la permanenza a Duanzhou, Maestro Ricci aveva già prodotto una mappa del mondo che in seguito finì in possesso dell’onorevole Zhao Xintang, al quale piacque tanto da trasporla su pietra con delle spiegazioni, nonostante che egli non avesse ancora conosciuto Maestro Ricci di persona. (Aleni p. 41)

36

Quando l’onorevole Zhao fondò la prefettura di Gusu, il ministro Wang arrivò con Maestro Ricci a Nanchino. L’onorevole Zhao offrì al ministro Wang dei doni tra cui la mappa del mondo. Il ministro mosso da meraviglia la mostrò a Maestro Ricci. E mandò una risposta all’onorevole Zhao scrivendo: “Il disegnatore della mappa è ora qui da me”. L’onorevole Zhao fu oltremodo pieno di gioia per la sorpresa, e volendo invitare Maestro Ricci a casa sua, mandò una carrozza. E fu un incontro assai piacevole per entrambi. (Aleni p. 42)

L’interesse, che noi riconosciamo particolarmente spiccato per la materia da parte di Matteo Ricci, non gli deriva solo dai suoi studi in Italia, ma anche dal fatto che il dialogo con i sapienti della Cina gli abbiano mostrato un terreno comune su cui continuare gli studi e approfondirli anche. Addirittura egli mette in risalto di aver pure letto libri cinesi sull’argomento e di aver così accresciuto il suo sapere. Perciò se può parlare del territorio cinese e della sua suddivisione in “province”, egli lo deve alle letture fatte, dimostrando in tal modo che il sapere scientifico si deve sviluppare a partire dai testi, soprattutto locali, che possono essere di maggiore utilità per capire al meglio la Cina stessa. Proprio per la sua estensione non sarebbe più facilmente alla portata di chi vuole non solo penetrarvi, ma più ancora conoscerla non senza aver dialogato con chi può far meglio conoscere. E parlando del libro da lui consultato fa riferimento ad un atlante, che in Cina era particolarmente conosciuto e utilizzato.

Et acciocché non pensi alcuno che, per esser così ampio questo Regno habbi qualche gran parte di esso spopolato e deserto o manco pieno di gente e Città, porrò nel fine di questo capitolo, quello che ho trovato in un libro, per il quale si suon stampato nel anno 1579, della descrittione della Cina, voltato parola per parola nella nostra lingua, che è questo (Forse Ricci si riferisce all’edizione del 1579 del Guangyutu, un importante atlante cinese di derivazione mongola, risalente alla fine del XIII secolo, successivamente ampliato e dotato di nomi topografici Ming. Fu l’atlante cinese più diffuso fino alla meta del XVII secolo.): “Ha la Cina due Provincie curiali, Pacchino e Nanchino, et altre tredici Provincie di fuora. (Le due province chiamate “curiali”, Pechino capitale dell’Impero e Nanchino capitale secondaria, erano aree metropolitane: l’area metropolitana di Pechino (beizhili) comprendeva tutto l’attuale Hebei, riferendosi alla città di Pechino si diceva Shuntianfu. L’area metropolitana di Nanchino (Nanzhili) comprendeva l’attuale nord dell’Anhui e il Jiangsu, per riferirsi alla città si diceva Yinguanfu. Ambedue erano sedi di ministeri e uffici imperiali. Le altre province sono: Shandong, Shanxi, Shaanxi, Henan, Huguang, Jiangxi, Fujian, Zhejiang, Guizhou, Sichuan, Yunnan, Guangxi e Guangdong.) In queste quindici Provincie (che possono fare altrettanti regni ben grandi) vi sono 158 Regioni che loro chiamano fu (che sono come Provincie piccole, sebbene alcune di esse fra di noi farebbono grandi Provincie, per comprendere dodici e quindi Città, oltre altre terre e fortezze. (Ricci, p. 10)

Qui veniamo a conoscenza delle due capitali e della suddivisione in province, come sono definite dagli stessi Cinesi, anche se esse non corrispondono affatto a ciò che in Occidente noi consideriamo “province”; qui addirittura per alcune di esse si dovrebbe pensare a Regni, che da noi si configurerebbero come Stati. In effetti anche in Cina si deve parlare di entità che presentano una popolazione ben diversa da quella cinese, anche se qui non si gode dell’indipendenza, ma piuttosto si ha una totale sottomissione, che fa essere questi ampi territori assimilati di fatto alla Cina. In questo modo comunque prende piede la visione che la Cina vuol avere e vuol dare di sé, come di una entità vasta, che tende a inglobare il mondo a partire dalla sua posizione centrale. Se ancora non raggiunge questo risultato, essa comunque coltiva questa prospettiva e proprio questo genere di suddivisione tende a mostrare questo maniera di intendere il rapporto fra ciò che è veramente centrale e quanto si muove a livello periferico, per le popolazioni e i territori che sono in questo momento nella Cina stessa, ma in posizione periferica.

Ovviamente gli abitanti di questo immenso territorio non si possono considerare nel loro insieme tutti appartenenti all’etnia cinese, anche se tutti ruotano attorno alla “Terra di Mezzo” e come tali ne fanno parte, anche e non essere propriamente cinesi. Questa considerazione sulla popolazione locale, spinge Ricci ad una analisi non solo geofisica della Cina, ma anche alla sua componente antropica, che evidentemente è da considerarsi la più importante, anche in una lettura che si vorrebbe scientifica e coltivata con gli strumenti scientifici. Non può dunque mancare una annotazione di carattere demografico, che qui Ricci aggiunge per i suoi lettori occidentali. Essi devono conoscere e riconoscere la vastità della Cina e come questa aspiri sempre più ad inglobare ciò che le sta attorno. E tuttavia la sua potenza non è data dalla sola vastità dei territori, ma dal fatto che in essa vi sia una notevole quantità di persone e queste appartenenti a etnie diverse, che comunque si riconoscono inseriti nel grande mondo cinese. Il computo della popolazione viene fatto non sulla base della sola registrazione che le persone esistono, ma vengono enumerate a partire dal censo, quello che si rileva significativo perché lì si può esercitare una esazione fiscale. Le persone sono dunque contate sulla base del fatto che si possa esigere una imposta e che essi possano contribuire. Così la potenza dello Stato si riconosce sulla sua ricchezza di mezzi e di beni. Accanto sono pure conteggiati coloro che appartengono al mondo militare, perché evidentemente si riconosce pure in loro un contributo di cui lo Stato ha bisogno per mostrare la sua potenza.

Gli huomini adulti, che pagano tributo personale sono 58 milioni e 550801 capi; oltre le donne che sono altre tanti, i fanciulli e giovani e i soldati che sono più di un milione, perché vi sono alcune mezze provincie come di Leatun (Liaodong, considerata la prima area di frontiera a est, controllata da Comandanti Regionali e facente parte dello Shandong dal punto di vista amministrativo ) et altre, dove tutti sono soldati, et parenti del Re, eunuchi et altri molti esenti dal tributo (Risulta difficile stabilire quale fosse la popolazione cinese alla fine del XVI secolo … ). Regni che danno obedientia alla Cina per il levante sono tre; al Ponente cinquanta tre; al mezzogiorno cinquantacinque; al settentrione tre. È vero che questi né tutti vengono adesso, e, venendo, apportano più dallo alla Cina che guadagno, e così puoco si cura essa che vengano o lascino di venire. (Ricci accenna al rapporto con i paesi stranieri, regolati dal sistema dei tributi, che non era semplicemente l’espressione di un rapporto di vassallaggio, ma una istituzione complessa con cui gli imperatori cinesi inserivano i paesi stranieri in un sistema gerarchico, riflesso dell’ordine sociale confuciano presente all’interno della Cina.

Il tributo abbracciava le relazioni estere in ogni loro a-spetto, dalla protezione militare al privilegio di commercio con la Cina. Gli Stati tributari accettavano il rapporto di sottomissione: i monarchi per salire al trono, richiedevano l’investitura imperiale, e usavano nei propri documenti la datazione del calendario cinese.) (Ricci, p. 11)

Il capitolo che Ricci dedica alla geografia cinese si conclude con una annotazione che riguarda le fortificazioni, naturali e costruite, con cui la Cina cerca ai suoi confini la difesa e la definizione di sé per essere inquadrata come Terra di Mezzo. Ovviamente ciò che sta oltre sono i nemici, considerati come i possibili invasori. Esiste anche l’accenno alla grande costruzione della muraglia, concepita per tener testa ai Mongoli invasori

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UN’IMMAGINE DELLA MURAGLIA CINESE

Oltre l’esser sì grande e piena, la Cina è assai fortificata dalla natura e dal arte. Percioché dal mezzogiorno e dal Levante tutta è diffesa dal mare che la Cinge; dalla parte di tramontana, oltre i monti, vi fecero per molte centinaia di miglia muri fortissimi (la Grande Muraglia, lunga oltre 5000 km, risultante dall’unione di antichi tratti di mura difensive, unificati sotto l’imperatore Qin Shi Huangdi (221-206 a.C.)), che impedono gli insulti de’ tartari, e dal ponente nella parte più settentrionale viene difesa da’ persiani con un deserto di arena (il deserto del Gobi), dove né possono habitare né anco passare molti insieme; e più al mezzo giorno tutto è pieno di monti e confina con regni piccoli de’ quali puoco se può temere. (Ricci, p. 11)

CONCLUSIONE

La ricerca fatta sul testo di Matteo Ricci, che di per sé si propone di curare la parte storica e di raccontare come sia avvenuta la penetrazione dei Ge-suiti nel grande mondo cinese, può sembrare qualcosa di assolutamente marginale, come è spesso anche tutto ciò che riguarda il grande campo delle geografia. Fa specie rilevare che l’autore vi dedichi il capitolo introduttivo, non solo per raccontare ai suoi lettori occidentali di questa grande area del mondo, di fatto sconosciuta, in gran parte d’Europa, ma anche per introdurre una particolare attenzione che si deve avere quando si accosta la Cina: sembra quasi che la componente geografica sia quella più interessante e rilevante, quella più apprezzata e più ricercata dagli stessi Cinesi, anche perché qui si riscontra la ben precisa consapevolezza che la Cina, sia a partire dai singoli abitanti, sia e soprattutto a partire dalle autorità politiche e culturali, ha della propria grandezza in riferimento al mondo che la circonda. Se essa è in effetti la “Terra di Mezzo”, essa va ritenuta al centro; e più ancora è comprensibile che essa, da quella posizione intenda inglobare il resto. Matteo Ricci diventa sempre più consapevole di questa impostazione, e si premura di accostarsi con l’atteggiamento più rispettoso, perché poi l’approccio sia fruttuoso. Il suo fine, ovviamente, rimane quello “missionario”; e quindi egli ha presente come scopo del suo viaggio la predicazione del vangelo. Ma non vuol partire, si direbbe oggi, “lancia in resta”, come se si trattasse di una conquista, ma di avviare un incontro, che sia una effettiva “incarnazione” di Cristo e del suo vangelo dentro il mondo cinese. Da quanto si legge nel suo testo si deve riconoscere che l’approccio darà poi i frutti sperati, ma è importante fare i passi giusti, quelli che, in realtà, non saranno compresi in Occidente e neppure del tutto dentro la sua stessa Compagnia religiosa, che pur l’aveva formato e sostenuto in questo suo modo di operare.

Qui è già importante rilevare come la visione minimalista della geografia, quella che si dedica alla scoperta e alla presentazione del territorio, ha un grande rilievo nella strategia del missionario che si dedica con fervore alla sua opera. Ed anche le sue parole in questo ambito rivelano la modalità giusta nel suo entrare con rispetto e con attenzione nei confronti di un mondo quanto mai diffidente verso i tentativi con cui l’Occidente ha cercato l’accostamento e la penetrazione. Come altre popolazioni dell’Estremo Oriente, pur in presenza di forti pressioni colonizzatrici da parte delle potenze occidentali, la Cina ha sempre fatto quadrato per resistere a questa forma di penetrazione secondo gli stili e i metodi coloniali. Ha invece reagito in modo costruttivo all’azione messa in campo dal missionario gesuita, che ancora conserva nel Paese un bel ricordo, segno di un tentativo di dialogo apprezzato e ricambiato. Anche nel nostro modo di cercare di intendere questo Paese, sempre più potente e rilevante, dobbiamo costruire un approccio che permetta di capire meglio questa realtà, e soprattutto la popolazione cinese, che oggi si muove sempre di più e che sta penetrando in Europa, in numero crescente, senza che questa modalità sia guardata con quella preoccupazione e paura che invece si ha per altro genere di popolazione e di immigrazione. Già è sviluppato lo scambio soprattutto nell’ambito commerciale; non altrettanto lo è per altre forme di conoscenza e di collaborazione. Per questo diventa utile imparare da chi ha vissuto un accostamento e un rapporto significativo!

BIBLIOGRAFIA

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Matteo Ricci

DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

E CHRISTIANITA’ NELLA CINA

Quodlibet (Macerata) 2000

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Gianni Criveller (a cura di)

LA VITA DI MATTEO RICCI Scritta da Giulio Aleni (1630)

Fondazione Internazionale P. Matteo Ricci – Macerfata

Fondazione Civiltà Bresciana – Brescia – 2010

3.

Ronnie Po-chia Hsia

UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA

Matteo Ricci, 1552-1610

Il Mulino – 2012

La marcia su Roma : Verso la dittatura

VERSO LA DITTATURA

Il fascismo è abbinato alla dittatura, perché di fatto essa si è realizzata in Italia con gli uomini che venivano da quel partito e da quella impostazione, come pure dall’uso della violenza fisica, che in realtà non era un fenomeno e un mezzo gestiti in maniera esclusiva da quel partito. Del resto anche la forma dittatoriale di potere e di occupazione del governo non può essere considerato un obiettivo da raggiungere perseguito solo da quel partito, anche se per l’Italia, gli anni della dittatura hanno visto il fascismo dominare la scena politica. Eppure, come stanno a testimoniare gli inizi del governo di Mussolini, anche se il ricorso alla violenza non è mancato, anche se i progetti e i metodi usati facevano presagire un esito che conduceva verso il totalitarismo, i primi passi non possono essere considerati già manifestazione di un esercizio del potere in forma dittatoriale. Del resto qualcuno ancora sperava che il fascismo potesse essere assorbito dal sistema parlamentare, una volta fatto entrare in esso: anche i partiti di sinistra, i più ferocemente avversi al fascismo e all’uomo che lo rappresentava, non immaginavano che esso potesse prosperare, in presenza di elezioni che vedevano le forze di sinistra aumentare il numero dei loro rappresentanti, per quanto ancora in maniera insufficiente. Mussolini stesso era consapevole, che a ricercare il consenso popolare mediante le elezioni, non poteva coltivare la prospettiva di venirne fuori vincente, se non cambiando e adeguando ai suoi obiettivi la legge elettorale. Per questo motivo elaborò la Legge Acerbo, e con essa poté vincere le elezioni, senza per questo avere di fatto una Camera, in cui ci fosse un unico partito: solo così la Camera poteva essere esautorata e resa perfettamente inutile. Proprio nell’immediato periodo successivo alle elezioni si consumò la trasformazione, da parte di Mussolini, dello Stato italiano da regno costituzionale a dittatura di fatto. Dobbiamo definirla così, perché in realtà, almeno formalmente venne mantenuto lo Statuto albertino e l’Italia rimaneva ancora una monarchia: il Capo dello Stato era il Re, non il Duce; ma il Capo del governo, pur nominato dal Re, gestiva il potere in modo assoluto e senza limiti particolari, se non quello di avere una figura superiore, il sovrano, che era a capo delle forze armate. Si potrebbe parlare di una sorta di diarchia, che comunque risultava vantaggiosa per il capo del governo. I partiti, minoritari inizialmente nel Parlamento, per essere poi del tutto aboliti, speravano di poter trovare nel sovrano un punto di appoggio, a garanzia, non solo formale, dello Statuto; ma dal Re non venne a loro alcun appoggio, se non nel momento più drammatico della storia italiana, quando con la guerra ormai persa, si doveva uscirne in maniera dignitosa.

Ma anche in quella circostanza si dovette registrare la “fuga” del Re, che avvenne, certo, in una località più garantita, ma si rivelò anche un venir meno alle proprie responsabilità. Il periodo, ancora tumultuoso, che va dalle elezioni del 6 aprile 1924 fino al discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, richiede una attenta analisi perché qui si consuma il passaggio, ormai chiaro ed evidente a tutti, verso una forma istituzionale che si può ben definire “dittatoriale”. È indiscutibilmente fuori dubbio che l’obiettivo di Mussolini fosse l’instaurazione di un governo forte e di fatto totalitario; e tuttavia potevano esserci ancora le condizioni per far prendere una piega diversa agli avvenimenti, che invece precipitavano verso questa soluzione. Ovviamente Mussolini segue dei passaggi che gli consentono di avere in mano “la macchina dello Stato” in tutti suoi meandri, compresi quelli locali. Anzi, proprio da lì deve partire per costruire il “suo” totalitarismo. E di questo si accorge Amendola e lo denuncia.

L’esercizio più frequente della violenza fascista, dopo l’ascesa al potere, fu praticato contro le amministrazioni locali rette dagli altri partiti, per costringerli a dimettersi, facendo poi eleggere amministratori esclusivamente fascisti. Così protestò Amendola il 12 maggio, mentre Mussolini ripeteva il proposito di “ricondurre il fascismo nei limiti della legalità e della disciplina”, nel paese si ripeteva invece con cadenza settimanale l’illegalismo fascista per imporre le dimissioni dei consigli comunali o provinciali, seguite dalle “elezioni amministrative con relativa conquista di maggioranza e di minoranza da parte di fascisti o sedicenti fascisti”, che spesso erano stati militanti di partiti antifascisti prima della “marcia su Roma”, e dopo si erano precipitati a iscriversi al PNF, e a occupare rapidamente i vertici locali dei fasci, attratti dalla “promessa del dominio assoluto e dallo spadroneggia mento completo ed incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa”. (…) Riferendosi alla pratica elettorale imposta dai fascisti nelle frequenti elezioni amministrative che si svolgevano la domenica, Amendola commentò: “noi, che (…) incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarle con più verità “sistema totalitario”. Questa nuova espressione, appena coniata, appariva come titolo dell’editoriale pubblicato dal suo giornale il giorno dopo, dove erano citati altri esempi dell’applicazione del “sistema totalitario” nelle elezioni amministrative per assicurare la vittoria dei fascisti. (Gentile (II), p. 61-62)

Con l’accaparramento delle realtà locali sarebbe stato più facile controllare sul territorio tutto l’apparato dello Stato, e ci sarebbero state tutte le premesse per influire anche sulle elezioni generali. Già l’uso di quella espressione “totalitario”, fatto da Amendola, dice che l’apparato fascista ormai divenuto apparato statale, cerca non solo di conquistare la maggioranza, ma di fatto di raggiungere quel tipo di percentuale che consente di avere con sé tutti, o quasi. Insiste Amendola:

In che cosa consiste questo metodo è presto detto. Si costituisce, prima, grazie all’azione combinata del prefetto e del segretario politico fascista, la lista di maggioranza composta per tre quarti o quattro quinti o cinque sesti, o comunque si voglia, di lupi fascisti, e per la rimanente quarta parte di fiduciose pecore non rognose; quanto alla minoranza si provvede diffidando con mezzi che variano a seconda dei casi, tutti coloro che potrebbero farne parte, come candidati, dal commettere la grave imprudenza di lasciarvisi includere.

(Gentile (II), p. 62)

LE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924

Oltre alla Legge elettorale, che poteva favorire il partito di maggioranza, quando questo aveva raggiunto un quorum stabilito, al fine di evitare l’eccessiva frammentazione, dovuta al notevole numero di partiti in gara, Mussolini aveva bisogno di far colpo non solo sull’opinione pubblica, ma anche su quelle realtà, istituzionali e non, che avevano un certo peso. Il suo atteggiamento verso la Chiesa si rivelò molto diverso da quello fin qui tenuto, e il nuovo Papa guardava con benevolenza a un uomo con cui si poteva discutere e raggiungere l’obiettivo di risolvere l’ormai annosa questione romana. Anche sul versante dell’economia, occorreva assicurare il mondo dell’imprenditoria, dopo i mesi drammatici degli scioperi e della marea montante “rossa”. Anche sul fronte della carta stampata, in modo particolare quella estera, Mussolini giocava le sue carte per accreditarsi come l’uomo giusto da guardare in modo favorevole. Ed anche gli interventi in politica estera rivelarono un uomo che cercava il prestigio del Paese, che pur aveva vinto la guerra e che meritava di più e di meglio: pretendeva di affrontare la questione turca a Losanna alla pari con Francia ed Inghilterra, ma al di là di generiche affermazioni non ebbe; nella questione poi di Corfù con i Greci ci furono pretese che non otten-nero la debita considerazione; qualcosa in più si ebbe con la soluzione della questione di Fiume, riconosciuta italiana.

Con le elezioni si riteneva che i problemi aperti circa il nuovo assetto dell’Italia si potessero chiarire una volta per tutte: la “stanchezza” portava a cercare una decisione che di fatto poi si rivelò vincente per il fascismo, anche se le strade per altre soluzioni apparivano ancora aperte. Ognuno voleva giocare le sue carte e chi le ha giocate meglio di fatto risulta essere Mussolini, non senza attraversare momenti non facili. Le opposizioni, come sempre succede in questi casi, erano divise, non solo perché si presentavano in ordine sparso, ma perché anche al loro interno c’erano contrasti sia nel frangente elettorale, sia nella prospettiva di poter formare un governo; di contro si era creato invece il cosiddetto “listone” con altre liste di appoggio laddove si riteneva necessario. A sinistra il Partito comunista continuava a ipotizzare una vera e propria rivoluzione, e ad esso si accodavano i massimalisti dell’area socialista. Puntando poi sul fatto che comunque non sarebbe stato loro possibile vincere, si preoccupavano su come gestire la fase successiva.

Tipico sarebbe stato a quest’ultimo proposito l’atteggiamento di Matteotti. La sua massima preoccupazione era rappresentata dal disorientamento e dal disfacimento del suo partito, dal continuo riemergere nel suo seno di posizioni possibiliste e collaborazioniste. (…) In un primo tempo anche lui non fu contrario all’idea di un’astensione di massa. Poi però l’abbandonò … l’astensione avrebbe finito per essere solo “un mezzo per scappare, per sottrarsi alla realtà”. Meglio dunque la lotta, inacerbendola anche: per vincere occorreva infatti “gente di volontà e non degli scettici”.

(De Felice (I), p. 565-6)

Anche il partito popolare si trovava in alto mare: la sua partecipazione al governo, nella componente di destra, l’aveva visto diviso. Non erano mancate le espulsioni e nello stesso tempo si era pure incrinata la fiducia nei confronti del fondatore, che puntava alla contrapposizione netta con il fascismo. Mussolini, invece, da parte sua, cercava una sorta di plebiscito popolare nei suoi confronti e nei confronti del fascismo: ovviamente non doveva solo vincere e assicurarsi la maggioranza, ma per lui era necessario che questa maggioranza mettesse alle corde gli altri partiti: li voleva “svuotati”, in modo tale che fosse svuotato lo stesso Parlamento. Riuscì per questo a convincere molti della vecchia guardia liberale ad entrare a far parte del “listone”, per dare al suo apparato una impronta di carattere nazionale, come se essi divenissero una specie di fronte nazionale con cui difendere e rafforzare lo Stato unitario. La campagna elettorale si sarebbe dovuta svolgere nella calma e nell’ordine, come risultava dagli auspici del capo del governo.

Ma ovviamente così non fu, anche perché nel gruppo dei fascisti ci furono i soliti facinorosi che cercavano l’occasione propizia per contrastare fisicamente gli avversari e l’impulso veniva loro dai ras locali. Contro qualcuno di essi Mussolini si mostrò duro …

Ma le violenze, personali e collettive, non riguardarono solo i fascisti dissidenti. Un po’ tutti gli oppositori ne furono vittime, in particolare i popolari e i democratici dell’opposizione costituzionale. Quasi tutte le regioni ne furono teatro ed ebbero le loro vittime, centinaia di feriti e non pochi morti. Senza dire dei circoli, delle sezioni, delle sedi di organizzazioni di opposizione, invasi, devastati, distrutti, dei comizi disturbati e sciolti con la forza, degli oratori ai quali fu impedito di parlare. Particolare clamore suscitarono alcuni episodi. Come l’aggressione – nella fase ancora di pre-scioglimento della Camera –, ma chiaramente collegata alla preparazione del futuro schieramento elettorale – di Amendola a Roma, il 26 dicembre 1923. (De Felice (I), p. 583-584)

Il risultato che si ebbe in questo clima piuttosto acceso e turbolento, fu di una partecipazione del 63,8%; rispetto alla tornata elettorale precedente ci fu un aumento del 5,4%. Non un plebiscito, quindi, ma comunque, tenuto conto del clima di intimidazione, fu pur sempre un discreto risultato. Sulla base dei risultati il listone ebbe 374 deputati su 535 e le liste “parallele” ebbero 15 eletti. All’opposizione, frammentata, andò il resto.

Solo i repubblicani e i comunisti migliorarono, sia in assoluto sia in percentuale, le loro posizioni. Il dato è eloquente: repubblicani e comunisti erano stati, nell’ambito dei rispettivi settori politici, i partiti più coerenti nell’opposizione al fascismo e avevano dato l’impressione all’elettorato di non soffrire di divisioni interne … I repubblicani ebbero 7 deputati, i comunisti 19. In crisi, invece – pur affermandosi come il principale partito di opposizione – si dimostrarono irrimediabilmente i popolari, falcidiati dai clerico-moderati e dalla destra a favore del “listone” (dei 108 deputati del 1921 ne tornarono a Montecitorio solo 39), e i massimalisti, che ebbero 22 eletti, mentre il PSU ne ebbe 24, dimostrando ancora una notevole vitalità. (De Felice (I), p. 587)

Indubbiamente queste elezioni sono il “capolavoro” di Mussolini, non solo perché ora lo consacrano come il capo del governo più votato e, secondo questa logica, il più popolare, ma perché a partire da questo risultato si avvia a costruire il suo disegno che non può non essere totalitario: la Camera eletta, secondo lui, non poteva avere altra ragion d’essere se non quella di ratificare le decisioni del governo, e il numero dei deputati era tale che questo obiettivo poteva essere facilmente raggiunto. Di qui ha inizio una decisa, quanto inane, opposizione di coloro che non si adattavano ad un tale sistema. Tra questi spicca la figura di Giacomo Matteotti (1885-1924).

IL DELITTO MATTEOTTI

Evidentemente il clima intimidatorio, nel quale erano avvenute le elezioni, denunciato da Matteotti nel suo intervento alla Camera, aveva favorito il listone e aveva messo in piedi un sistema che lasciava ben poco spazio alla minoranza parlamentare, del resto divisa al suo interno. Matteotti nell’ottobre 1922 era diventato segretario del PSU, una frangia staccata dal Partito Socialista, mentre al suo interno prevaleva la parte massimalista, e riconoscendo che il socialismo era di fatto allo sbando. Tuttavia egli riteneva che si dovesse combattere, mai con la violenza, perché i tempi erano particolarmente duri. Già nel discorso alla Camera di Mussolini del novembre 1922 egli aveva riconosciuto la natura totalitaria del fascismo: lo era già nella piazza ed ora lo diventava anche nel cuore delle istituzioni. Di qui un’opposizione intransigente, che ha lasciato il segno in Mussolini stesso, preoccupato delle conseguenze che potevano derivare dai ragionamenti di Matteotti. Già prima delle elezioni il futuro deputato denunciava il male rappresentato dal fascismo e nel contempo la corresponsabilità del comunismo (per questa sua presa di posizione Matteotti sarà radiato dalla considerazione del partito comunista). Così egli si esprimeva 

Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà; tutto ciò che esso ottiene lo spinge a nuovi arbitri, a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige. Perciò un partito di classe e di netta opposizione non può raccogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta a un fine, la libertà del popolo italiano. D’altro canto bisogna tornare a considerare la posizione del PSI. Purgato dai terzomondialisti (che dopo la scissione di Livorno erano passati con i comunisti) e nettamente discorde da Mosca, ormai non è diviso da noi che da minori divergenze teoriche. Ora per tali divergenze, tutte astratte e proiettate nel più lontano futuro, non è permesso tenere divisa la classe lavoratrice italiana. Il nemico attualmente è uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro. I lavoratori italiani, ammaestrati dalle dure esperienze del dopoguerra, devono riunirsi concordi, contro il fascismo che opprime e contro l’insidiosa discordia comunista. Se non possono muoversi i Partiti ufficialmente, i socialisti dell’uno e dell’altro campo devono porre la questione e risolverla. Senza ritardo. Le cose non avvengono da sé, ma ad opera degli uomini. Il ritardo serve solo a diffondere un più largo scetticismo nelle masse, Le obiezioni sono facili, e le sento; ma bisogna superarle ad ogni costo, per agire rapidamente.

(e aggiunge Gianpaolo Romanato, l’autore della sua biografia)

Ma il rifiuto totale del comunismo da parte di questo riformista coerente e intransigente va valutato più a fondo, anche per capire le origini delle barriere invalicabili che hanno spaccato la sinistra italiana fino alla caduta del muro di Berlino e forse anche oltre quell’evento. (Romanato, p. 246-7)

Forse più ancora che non verso il fascismo Matteotti è stato molto chiaro nei confronti dei comunisti per la deriva totalitaria che era già in atto nel mondo sovietico e che l’avvento di Stalin aveva già fatto aprire gli occhi a qualcuno, come Silone. La tragica scomparsa che venne in seguito al discorso della Camera, dove segnalava i brogli e le violenze, lo ha fatto diventare un martire del fascismo, mentre era evidente in lui la lotta contro ogni forma di totalitarismo. Gramsci lo aveva definito “pellegrino del nulla”, perché voleva una riforma invece che la rivoluzione, e questa, secondo gli schemi della violenza.

In una ricerca sul fascismo, come questa, per scoprirne la sua natura totalitaria fin dalle origini, va segnalato ciò che Matteotti aveva colto del fenomeno, che non doveva registrare solo in Italia e solo sul versante della destra politica. Indubbiamente era neces-saria una riforma radicale dello Stato, se non altro perché la guerra stessa aveva cambiato molte cose nella società civile.

Era la via che aveva sempre cercato di seguire Matteotti, non senza contraddizioni e ambiguità prima del fascismo, in forma più chiara e definita dopo l’inizio del regime mussoliniano, quando aveva compreso l’importanza decisiva e pregiudiziale a tutto del rispetto della legalità, delle libertà costituzionali, delle garanzie politiche. La morte, che affrontò con piena consapevolezza, ne fece una figura diversa, unica, nel panorama del suo partito e del socialismo italiano.

(Romanato, p. 250)

Che cosa si successo nell’episodio storico del delitto Matteotti è ben noto e comunque può essere ricostruito, come un atto di sopraffazione da parte di individui appartenenti al fascismo, i quali, anche senza ordini diretti in tal senso da Mussolini, sono arrivati al rapimento; ad esso seguì, per il pestaggio, anche la morte e di conseguenza l’occultamento del cadavere. Se Mussolini non viene indicato come il mandante esplicito e diretto, comunque diventa, per sua stessa ammissione, il responsabile di azioni violente, come lui stesso afferma alla Camera, quando si sente sicuro di poter dire anche questo. Nelle ore che seguono il rapimento, e prima ancora che se ne scopra il cadavere, Mussolini appare frastornato dalla piega degli eventi e cerca di correre ai ripari …

Mussolini, ovviamente, ha sempre negato ogni responsabilità diretta ed indiretta. Per lui, come avrebbe detto il 13 giugno, solo un suo “nemico” avrebbe potuto pensare a un così diabolico piano per metterlo in difficoltà. (De Felice (I), p. 587)

Per quanto egli cerchi di estraniarsi dal delitto, che tale viene avvertito ancor prima che si trovi il cadavere, Mussolini appare sempre più invischiato, anche se non esistono prove, nelle indagini che vengono fatte. Tutta l’opposizione è compatta nel denunciare il sistema della illegalità, della violenza, delle uccisioni, anche perché ogni partito e molte delle personalità che vi militavano aveva sperimentato lo squadrismo più scatenato. Il coinvolgimento di Mussolini venne dichiarato in un memoriale da Cesare Rossi (1887-1967), che nei giorni successivi al sequestro di Matteotti si era tenuto nascosto e poi si costituì.

Egli scriveva accusando direttamente Mussolini come responsabile, per il fatto che gli avrebbe palesato il desiderio che quell’uomo non dovesse più circolare. Rossi fu prosciolto nella prima istruttoria, e, nella seconda, dopo la guerra, fu assolto per insufficienza di prove. Nel frattempo cadde in disgrazia del fascismo e fu addirittura rinchiuso in carcere. Proprio la rivelazione di quel memoriale (27 dicembre 1924) obbligò Mussolini a prendere posizione, perché si era trovato contro i fascisti oltranzisti e nel contempo l’opposizione aventiniana che insisteva a sostenere ormai morente il fascismo.

L’AVENTINO

All’indomani del sequestro di Matteotti (10 giugno 1924) e per tutto il resto dell’anno, l’opposizione parlamentare scelse di astenersi dal frequentare la Camera, sperando che una simile scelta favorisse la caduta del governo, travolto dallo scandalo. Evidentemente si sperava che il Re intervenisse, approfittando dello stallo dell’attività parlamentare; ma il Re non intervenne, così come il fascismo stesso non rinunciò affatto a lasciare gli spazi di potere acquisito. Gli oppositori, soprattutto sul versante di quelli più moderati, si proponevano di aspettare un collasso del regime, senza la necessità di dover intervenire con prove di forza.

Amendola non era il solo a prevedere una prossima fine del fascismo. Ne era convinto anche Gramsci, che il 15 novembre pubblicava un articolo intitolato La caduta del fascismo. Quello stesso giorno, alla Camera, Giolitti passò all’opposizione, con una breve dichiarazione in difesa della libertà, rivolgendo un appello al presidente del Consiglio: “On. Presidente, per carità di Patria, non tratti il popolo italiano come se fosse un popolo che non merita la libertà che ha sempre avuto nel passato”. Il 22 novembre anche Salandra svolse un ordine del giorno nel quale si chiedeva al governo di “assicurare la pace pubblica mediante la rigorosa osservazione della legge”, e nel suo discorso, pur continuando a manifestare fiducia nel presidente del Consiglio e nel fascismo stesso, deplorò la politica del partito fascista, citando fatti e portando argomenti che erano gli stessi che da quasi due anni esponevano coloro che avevano per primi denunciato il sistema totalitario dello Stato-partito … (Gentile (II), p. 159-160)

I deputati dell’opposizione, il 27 giugno 1924, avevano deciso di abbandonare l’aula per protesta e di trovarsi ad esprimere la propria opposizione, con l’auspicio di avere dalla propria parte il popolo italiano in un sussulto morale, che in realtà non ci fu. E neppure ci fu la reazione del Re a loro sostegno.

Era di fatto una sorta di secessione, che, si richiamava a quella “mitica” della plebe di Roma vissuta sul colle Aventino e che divenne famosa con l’apologo di Menenio Agrippa, intervenuto per convincere a rientrare. Per questo sarà definita “dell’Aventino”. Non ne sortì alcune effetto. Il governo, per quanto sembrasse travolto dallo scandalo derivato dal rapimento e dall’uccisione di Matteotti, si rafforzò, e, in seguito al memoriale di Cesare Rossi, Mussolini decise di intervenire con un discorso, prima che il Re manovrasse per far decadere il governo. L’opposizione aventiniana fu di fatto sterile, anche perché al suo interno era divisa: i deputati comunisti decisero ad un certo punto di rientrare alla Camera, così come nel gennaio 1926 molti erano tornati per la commemorazione della Regina Margherita, da poco defunta. Qualcuno poi manovrava perché si passasse all’azione, che avrebbe dovuto prevedere anche una insurrezio-ne armata. Ma non se ne fece nulla. Di fatto l’Aventino durò fino al no-vembre 1926, quando, dopo l’attentato a Mussolini, con l’introduzione di leggi speciali, i deputati aventiniani furono dichiarati decaduti.

IL DISCORSO DEL 3 GENNAIO 1925

Il clima piuttosto infuocato nell’autunno 1924 portava a credere che la situazione potesse precipitare: molti dell’Aventino si illudevano che il fascismo avesse i giorni contati e nell’ambito stesso dei fascisti c’era pure chi temeva il collasso. Chi stava attorno a Salandra e a Giolitti si preparava ad un ipotetico nuovo governo per uscire da una impasse foriera di scontri di piazza, piuttosto pericolosi. Mussolini dava l’impressione di non saper trovare una onorevole via d’uscita, anche a temere che potesse risultare incriminato, soprattutto dopo la denuncia del memoriale di Cesare Rossi.

Che Mussolini non volesse lasciare il potere è pacifico. Al punto in cui erano arrivate le cose, lasciarlo avrebbe voluto dire esporsi al rischio di un procedimento giudiziario: gli aventiniani non gli avrebbero certo dato tregua e un simile procedimento avrebbe sanzionato, certamente, la sua fine politica e, molto probabilmente, la sua condanna, troppi essendo gli addebiti che gli sarebbero stati mossi per sperare di poter uscire indenne dalla prova. Nulla però autorizza a credere che Mussolini il 30 dicembre pensasse ad un vero e proprio colpo di stato. Del resto, con lo stesso discorso del 3 gennaio egli non avrebbe fatto che un mezzo colpo di stato, incentrato molto più sul piano politico che non su quello giuridico. Se, fino alla mattina del 31 dicembre, Mussolini pensò ad un colpo di stato, pensò al colpo di stato del 20 dicembre; pensò cioè a una grande operazione trasformistica … che gli permettesse di rabberciare la situazione e salvare se stesso, buttandosi nella selva delle manovre e dei compromessi a lui tanto cari e sacrificando in pratica il fascismo intransigente. (De Felice (I), p. 704-705)

L’esplicito riferimento che lo storico fa ad un “colpo di Stato” in corso d’opera, lascia intendere che la situazione era davvero molto seria, per non dire drammatica. Il pericolo di un pronunciamento proveniva dalle file più esasperate del fascismo stesso che avvertiva il venir meno dello spirito rivoluzionario. Del resto esso non era mai esploso, perché nessuna azione era stata fatta per accaparrarsi dello Stato e per farlo divenire “fascista”, cioè uno Stato-Partito. Così Mussolini si vede costretto ad anticipare coloro che già si muovevano in maniera minacciosa e che potevano travolgere anche e soprattutto la sua persona.

Nella notte dal 30 al 31 anche nel capoluogo toscano come in altre località … si era sparsa la voce che nella riunione del Consiglio dei ministri fossero state decise le dimissioni del governo. Ciò aveva provocato la reazione degli intransigenti, che avevano stampato un manifesto in cui si affermava che il governo fascista era pronto ad applicare tutte le misure necessarie a tutelare gli interessi del paese e avevano mobilitato i fascisti del contado … “La adunata – avrebbe riferito in un suo rapporto l’ispettore generale di PS Valenti qualche giorno dopo – era impressionante, a tinta prettamente rivoluzionaria, ed i fascisti fiorentini, non dilaniati come in altre regioni, da lotte interne, mostravano di essere in piena efficienza, agguerriti, più forti di quanto non fossero alla vigilia della marcia su Roma e pronti a qualsiasi evento”.

(De Felice (I), p. 715)

In questo clima surriscaldato e con il timore che intervenisse pure il Re, Mussolini decide di fare il “suo colpo di Stato”, con il discorso alla Camera, mediante il quale egli chiarisce i suoi intendimenti, se ancora ci fosse stato bisogno di esplicitare la sua concezione di Stato. Si tenga conto che l’opposizione non è presente e tuttavia egli parla con forza contro di essa, ma nel contempo sta pure dicendo che non la farà mancare all’interno dello stesso partito, perché il governo è forte!

Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre. Un discorso di siffatto genere può condurre e può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: «La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia.» Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo, e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire. Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo. Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle 150.000 alle 160.000 persone, se-condo attestano le statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutte le classi borghesi e sui membri singoli della borghesia, una Ceka che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione. Ma la Ceka italiana non è mai esistita. Nessuno mi ha mai negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto corag-gio ed un sovrano disprezzo del vile denaro.

(Qui, per provare che non è affatto l’organizzatore di una struttura come quella in uso in Russia, dove si eliminano fisicamente gli avversari, ricorda i suoi interventi dopo il rapimento di Matteotti)

Ricordo e ho ancora ai miei occhî la visione di questa parte della Camera, ove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita ed avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta.

Come potevo, dopo un successo — lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie — dopo un successo così clamoroso che tutta la Camera ha ammesso, comprese le oppo-sizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario (Matteotti) che io stimavo perché aveva una certa «crânerie», un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? Che cosa dovevo fare? Sono cervellini di grillo quelli che pretendevano da me in quell’occasione gesti di cinismo che io non sentivo di fare, perché ripugnano al più profondo della mia coscienza, oppure dei gesti di forza.

(Ricorda in effetti interventi di forza, come quello in occasione della crisi di Corfù, per dire che, certo, in alcune occasioni, la forza è necessaria, ma …)

Fu alla fine di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: Voglio che ci sia la pace per il popolo italiano, e volevo stabilire la normalità della vita politica. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale e nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali. C’era veramente un accesso di necrofilia. Si facevano inquisizioni anche su quello che succedeva sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva lo stesso! Io sono stato sempre tranquillo e calmo in mezzo a questa bufera che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. C’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno volle vendicare l’ucciso (Matteotti) e sparò su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca (fa riferimento al deputato Armando Casalini che fu ucciso in tram a Roma).Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione o di normalità. Reprimo gli illegalismi. Non è menzogna quando dico che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti.

(Qui Mussolini rivendica di avere sempre lasciato fare all’inchiesta, di volere leggi discusse in parlamento mentre dall’Aventino si inveisce con accuse infamanti e con il richiamo alla questione morale)

Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa!

Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi. In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandano: c’è un Governo? Questi uomini hanno una dignità come uomini? Ne hanno una anche come Governo? Sono stato io che ho voluto che le cose giungessero a questo determinato punto estremo. È ricca la mia esperienza di vita di questi sei mesi. Io ho saggiato il Partito. Come per sentire la tempra di certi metalli bisogna batterli con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini. Ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento quando il vento è infido, scantonano per la tangente. Ho saggiato me stesso. E guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della Nazione. Un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere. Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, ed il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: basta! La misura è colma! Ed era colma perché? Perché la sedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano. Questa sedizione dell’Aventino ha avuto delle conseguenze perché in Italia oggi chi è fascista rischia ancora la vita! Nei soli mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, dei quali uno ha avuto la testa schiacciata fino ad essere ridotta un’ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio settantatreenne, è stato ucciso e gettato da un muraglione. Poi tre incendî si son avuti in un mese, tre incendî misteriosi nelle Ferrovie: uno a Roma, l’altro a Parma ed un terzo a Firenze. Quindi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento perché è necessario documentare attraverso i giornali di ieri e di oggi. (E qui Mussolini elenca una serie di episodi di violenza contro i fascisti) Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Ed allora viene il momento in cui si dice: basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora … Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario.

Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria.

Dopo una breve sospensione della seduta, la Camera approva la proposta di Mussolini di un rinvio e di una riconvocazione a domicilio. Era l’atto di nascita della dittatura, l’affossamento insieme delle velleità della “rivoluzione fascista” e delle forze politiche di opposizione. Suckert (Curzio Malaparte), dopo aver criticato le misure di polizia subito impartite da Federzoni , si chiese se il discorso del 3 gennaio fosse stato “un atto sincero di fede rivoluzionaria, o non piuttosto una mossa dell’abilissima tattica mussoliniana, una maschera rivoluzionaria gettata, per ingannare gli amici e gli avversari, sul viso della normalizzazione”. Sul fronte opposto toccò a “Rinascita liberale”, la rivista di Adolfo Tino e Armando Zanetti, cogliere in quella data la “Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare e l’esplicito inizio di una fase di reazione”. La stessa facilità con cui Mussolini avrebbe provveduto alla sostituzione, subito dopo il 3 gennaio, dei dimissionari Oviglio con Rocco alla Giustizia, Casati con Fedele all’Istruzione e Serrocchi con Giuriati ai Lavori pubblici, avrebbe dimostrato come lo stesso ruolo della monarchia andasse illanguidendosi e come il 3 gennaio avesse segnato un momento di rottura, se non ancora sul piano costituzionale, certo per la gestione del governo del Paese da parte del fascismo. (De Felice (II), p. 38)

È IL POTERE DI UN UOMO SOLO

Ovviamente non basta una data e neppure un discorso, per quanto inequivocabile, a decidere che qui si sia passato il “famoso Rubicone”, per dare origine ad una dittatura, così come al tempo di Cesare quel gesto fu ritenuto un atto “sacrilego” e contro il fragile equilibrio “costituzionale” della Roma antica. Mussolini non diventa dittatore solo per le parole dette alla Camera in quella circostanza. Ma indubbiamente a partire da qui ogni forma di opposizione fu messa a tacere, sia nei parlamentari, sia nei giornali, sia in tutte quelle forme di aggregazione che solitamente si reggono sul libero dibattito. Si addivenne al silenzio con una serie di provvedimenti legislativi, che divennero particolarmente stringenti all’indomani del fallito attentato del 31 ottobre 1926. Va riconosciuto che comunque le basi di un simile sistema dittatoriale sono gettate con questo discorso che Mussolini tenne ad una Camera che era già sua, se sugli scranni mancavano gli oppositori. La durezza del suo linguaggio che certamente aveva come obiettivo i transfughi dell’Aventino, andava comunque a colpire anche il fascismo intransigente, che lui avvertiva come un pericolo e che sembrava propenso ad una specie di colpo di Stato nel quale travolgere il governo presieduto dallo stesso Mussolini.

Così colui che poi vorrà farsi chiamare “Duce” si impadronisce dello Stato, il suo obiettivo finale, essendosi impadronito del partito, il suo mezzo, necessario per raggiungere il fine prefissato. Nello stesso tempo va pure chiarito che in realtà lo Stato che Mussolini vuol occupare è il Governo del Paese, tenuto conto che in relazione a questa sua finalità politica, da una parte deve rispettare la monarchia, la quale viene comunque usata per ottenere quanto era nei piani di Mussolini. Una lettura più attenta di quel che è successo mostra all’evidenza che non ci fu un vero e proprio totalitarismo, se effettivamente c’è da spartire lo Stato con il Re; ma costui era comunque stato ridotto al grimaldello per raggiungere ciò che più conta. A questo punto nasce per Mussolini l’esigenza di costruire uno Stato che sia davve-ro secondo la sua impostazione e la sua visione e proprio per questo dovrà creare strutture adeguate perché lo Stato sia ridotto a divenire il suo partito, allo stesso modo con cui il partito era servito a dare la scalata allo Stato. Sulla base di una simile visione va ritenuto che il solo obiettivo di governare da solo, e di farlo con la forza bruta, dice chiaramente la pochezza del sistema, perché manca di una visione politica, di un’alta scuola di democrazia e più ancora di sistemi istituzionali adeguati a reggere …

nella scuola politica fascista, la sola idea fondamentale era l’antidemocrazia “in mezzo alla congerie di luoghi comuni e di filosofemi che forma il bagaglio dottrinario di essa”; ma neppure l’idea dell’antidemocrazia aveva un fondamento teorico, anche se era diffusa fra le giovani generazioni, e si sarebbe esaurita per propria inconsistenza, in quanto contraria al progresso della civiltà moderna che era democratica, se “non si fosse instaurata una dittatura, la cui origine di dominio è solo nella forza materiale”, anche se gli intellettuali della dittatura ora fornivano al partito che aveva conquistato il governo improvvisate dottrine per conservarlo”. “Il guaio è – soggiunge con evidente rammarico Ingrosso (Gustavo Ingrosso è un giurista napoletano, sindaco e presidente della Corte dei Conti e insegnante universitario, anti-fascista) – che queste dottrine politiche esso non afferma e proclama con gli scritti e con la parola solamente. Ahimè! Esso le attua, anzi le costruisce teo-ricamente, dopo averle attuate, o meglio, perché le ha attuate. Ed è qui il vero pericolo della nuova scuola politica”.

(Gentile (II), p. 179-180)

I rilievi che lo storico Gentile apporta a proposito della rivendicazione che Mussolini fa di voler creare uno Stato totalitario, inteso soprattutto come Stato forte vengono prodotti dalla contestazione che il giurista Gustavo Ingrosso (1877-1968) aveva già avanzato in quel medesimo periodo per segnalare quanto fosse inconsistente il quadro culturale di riferimento da cui si pensava di derivare la costruzione dello Stato fascista. È una contestazione di carattere culturale ed è tale da rendere evidente il particolare vuoto che stava dietro l’azione di Mussolini e la costruzione del suo appa-rato. Il giudizio appare netto e particolarmente impietoso.

Appena conquistato il governo, ben presto “lo Stato fascista si è rivelato essere non lo Stato forte che gli incauti fiancheggiatori del fascismo avevano sognato, ma niente altro che Stato-Partito”. Ingrosso attribuisce il cambiamento non ad accidenti casuali e improvvisate decisioni, ma alla “logica conseguenziale” che si poteva riscontrare nell’operato del partito fascista, nonostante “un groviglio di contraddizioni” nei discorsi di Mussolini e i continui “contrasti, ricorsi e mobilità di propositi e incostanza di decisioni” nella sua azione di governo, perché erano “contraddizioni esteriori e formali”, dipendenti da “esigenze di tattica”, mentre “la linea fondamentale della sua politica è ferma, costante, ed è sempre drizzata come una lama ad un fine: la conquista prima, la conservazione dopo del Governo, per sé e per il partito”.

(Gentile (II), p. 180-181)

Nella medesima direzione critica si muove anche De Felice, proprio a partire da questo momento nel quale noi dovremmo parlare di deriva autoritaria, di trasformazione dittatoriale del potere. E questo avveniva, ben diversamente da ciò che succede altrove negli stessi anni: se in URSS e nella Germania divenuta nazista è il partito a prevalere, qui da noi, invece, è un uomo solo ad occupare il Governo, mentre l’Italia continua, almeno formalmente, ad essere una monarchia, come se questo aspetto non avesse alcun peso per il dittatore, il quale si appoggiava lì per avere garantito il suo potere. Proprio quando viene gettata la maschera di questo “pasticcio”, si può dire che Mussolini può cercare di costruire il suo sistema di Stato; ma ormai, anche questo gli è impossibile, non solo perché c’è la guerra, già perduta, ma anche perché è più che mai prigioniero di colui che egli si illude sia il suo alleato. Insomma, qui nasce una dittatura anomala, che non ha solo prodotto i guai di un sistema violento, ma ha condotto alla guerra e più ancora a quel genere di vuoto e di inconsistenza, che non dà neppur la possibilità di riprodursi …

Nel suo cammino verso lì’instaurazione di un regime totalitario e autoritario di massa il fascismo avrebbe in effetti cercato di troncare tutti i ponti con il passato, si trattasse delle opposizioni “classiche”, degli stanchi residui dello Stato liberale o di quelle stesse forze politiche, economiche e sociali che ne avevano più o meno direttamente favorito il successo. In questa corsa all’affermazione del totalitarismo e al conseguimento di un monopolio del potere, il fascismo agì indubbiamente con mano pesante nei confronti di qualsiasi tipo di opposizione politica organizzata; ciò che comunque differenziò quel processo da quello già in atto in Unione Sovietica e da quello che si sarebbe verificato nella Germania nazionalsocialista fu il ruolo assegnato in esso al partito. Se infatti, sia in Unione Sovietica che nella Germania nazista, lo Stato sarebbe stato subordinato e quindi fagocitato dal partito, nell’Italia fascista si sviluppò un processo inverso: al centro del regime era lo Stato, con il partito confinato per certi versi in una posizione secondaria, pronto, se necessario, a essere del tutto sacrificato se le superiori esigenze della costruzione e della salvezza dello Stato lo avessero richiesto.

(De Felice (II), p. 39-40)

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La particolare lettura che già in quei frangenti, un secolo fa, si dava dell’esperienza dittatoriale mussoliniana – più che fascista – può servire a leggere meglio questa vicenda, uscendo anche dalle secche di contrapposizioni ideologiche che si trascinano. Il caso, tutto italiano, di Mussolini e della sua conquista e gestione del potere, anche a vedere attorno la struttura e la retorica di una organizzazione di partito, è in realtà una occupazione del governo, e una gestione di esso, da parte di Mussolini, e permessa del resto dal capo dello Stato, con cui il duce convive, fin quando la convivenza diventa possibile. Ciò che Mussolini costruisce poi nella Repubblica sociale dovrebbe essere la vera impostazione del fascismo, anche se la guerra in corso non consentiva l’elaborazione di uno Stato, come lui l’avrebbe desiderato. Così questa particolare dittatura è dovuta ad un uomo, che aveva questo obiettivo fisso da raggiungere nel suo avventuroso modo di concepire e di attuare i suoi progetti di vita. Evidentemente aveva bisogno di costruirsi un apparato, che però fu soltanto un mezzo di cui servirsi per raggiungere i suoi scopi. Nel concreto della situazione, tutta italiana, egli dovette tener conto della presenza del Re, che tuttavia fu relegato ad una figura di contorno rispetto alla centralità che, nella visione di Mussolini, doveva avere il governo, identificato con la sua persona, con il Duce. Colui che in quegli anni si considerava il suo discepolo, e cioè Hitler, ha seguito la medesima impostazione, senza avere comunque la necessità di condividere il governo con una personalità superiore.

Egli non istituì una “Republik”, alternativa a quella di Weimar, bensì un “Reich”, senza la necessità di costituirvi un “Kaiser”, visto che lui ne era divenuto il “Führer”. Anche ad avere subordinato un “Partei”, Hitler, come aveva fatto Mussolini, non riteneva che di lì venisse il suo potere (non per nulla scatenò la “notte dei lunghi coltelli”, per sbaragliare le SA, che avrebbe voluto alle sue dipendenze e che comunque potevano diventare imbarazzanti e antagoniste nel gestire il potere assoluto). Con questa impostazione dittatoriale questi due fenomeni non potevano avere eredità, se tutto era concentrato nella loro persona: caduti loro, tutto sarebbe crollato e quel che si pensa di voler costruire allo stesso modo, come se ne fosse la continuità, è di fatto ben altro. È diverso invece il caso della dittatura del proletariato, dove pure esistono personalità ingombranti, come quella di Stalin o di Mao: qui il partito continua con il suo apparato, anche quando vengono a mancare i capi, che pure si servono del partito per la gestione assoluta del potere. Si deve quindi arguire che il sistema dittatoriale di destra è costruito sulla personalità dominante del capo e che comunque costui ha come suo obiettivo il “governo”, esercitato e mantenuto con la violenza.

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