LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.

INTRODUZIONE – Occorre ribadire che lo scopo fondamentale del viaggio di Matteo Ricci in Cina e più ancora della sua relazione scritta che ci fa conoscere la Cina con i suoi occhi, secondo il metodo dell’autopsia, è quello di seminare la parola evangelica, anche se nel modo stesso che Ricci ha di operare e poi di redigere la sua relazione, egli lascia questo obiettivo sullo sfondo. Preferisce cercare un approccio rispettoso con il mondo cinese, che egli deve riconosce costruito su una profonda e seria ricerca della saggezza, che fa ritenere i costumi cinesi degni di rispetto. Non si verifica uno scontro, ma si assiste ad un vero e serio confronto, che poi a Roma darà adito a qualche sospetto, come se Ricci volesse perseguire un certo sincretismo. La Controriforma, che si respirava in Europa, vedeva una rigida contrapposizione contro ogni altro credo religioso che non fosse il Cattolicesimo: esso si riteneva accerchiato, e reagiva in modo dogmatico e senza un vero spirito dialogico. Anzi, non lasciava molto campo di libertà per questo modo che aveva Ricci, e con lui, l’avanguardia missionaria gesuita, nel suo contatto con un mondo ritenuto lontano dal Cristianesimo e come tale considerato terra di “conquista”. Ricci, da missionario, non si poteva sottrarre al suo mandato; ma nel contempo non poteva neppure presentarsi con tutto il suo apparato dogmatico da imporre in un mondo già sospettoso e poco incline a “lasciarsi inglobare”, mentre era piuttosto teso ad “inglobare” il resto del mondo. Se in altre aree del mondo, dove sembrava fin troppo evidente la condizione di uno “status” ancora primitivo con usi e costumanze ritenute inadeguate, secondo una certa visione umanistica, acquisita e data per scontata in Europa, qui invece si respirava un mondo di natura filosofica e morale, con cui si poteva dialogare, come del resto era stato fatto già agli albori del Cristianesimo tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano. Così la componente religiosa, che si sarebbe dovuta ritenere prioritaria, affiorava non soltanto perché Ricci era un prete con questo specifico incarico, ma perché la scoperta in Cina di una religiosità radicata doveva più che altrove richiedere particolare attenzione. Proprio questo spirito religioso va riconosciuto come essenziale nella storia cinese; si potrebbe dire che anche negli anni del furore persecutorio contro ogni forma religiosa e nel vano tentativo di mortificare ogni credo religioso, comunque questo spirito è radicato e come tale è da associare alla conoscenza storica della Cina.

LA RELIGIOSITA’ CINESE

E CONFUCIO Leggi tutto “LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.”

LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Il governo.

È interessante nella lettura dell’opera scritta da Matteo Ricci che, prima ancora degli aspetti religiosi, vengano segnalati quelli che riguardano la vita quotidiana, e soprattutto l’attività lavorativa con i prodotti principali, che risultano essere specifici della Cina e dei suoi abitanti. Sappiamo che l’autore, in quanto prete e gesuita missionario, ha come sua finalità la predicazione evangelica; ma, nel contempo, come già operavano anche altrove gli stessi gesuiti, formati a Roma, anche lui si dedica alla ricerca scientifica coltivata negli anni della formazione, riconoscendo che gli studi fatti sono importanti per avviare il dialogo con la popolazione locale. Si rendeva conto che, per far entrare la proposta evangelica, era necessario conoscere più attentamente il percorso operato dalla gente del luogo e mettersi al passo con essa, avendo cura di conoscere da vicino il vissuto quotidiano. Abbiamo visto che ha iniziato la sua opera monumentale con l’attenzione al territorio, da considerare alla stessa maniera con cui veniva visto dagli stessi Cinesi, e da presentare ai lettori europei con lo sguardo di chi vi abita, suggerendo in tal modo di nutrire verso i Cinesi un’attenzione rispettosa. Naturalmente, anche per la considerazione che Ricci ha nei confronti del mondo culturale cinese, non può mancare la stima verso i letterati, gli scrittori, i ricercatori in genere, Anzi, egli stesso fa notare che persino nel mondo militare cinese si ha cura di formare le persone tenendo conto della componente che possiamo definire umanistica.

Questo modo di far gradi di Licenziato e di Dottore si usa anco negli stessi anni ai soldati, con gli stessi nome di chiugin e di zinsu, e negli stessi luoghi; cioè il grado di Licenziato nelle metropoli, e quello di Dottore in Pacchino, in un altro mese diverso. Ma come in questo regno vagliono puoco le armi, e la arte militare è sì puoco stimata, si fa con tanto manco solennità, e si dà a sì puoca gente, che pare una Compassione. (Ricci, p. 38)

Dopo una rapida presentazione di ciò che si produce e di ciò che caratterizza la cultura cinese, Matteo Ricci nel capitolo VI del primo libro si dedica al governo della Cina, che gli permette di offrire una narrazione molto sintetica dei principali eventi storici, per spiegare come al suo tempo ci si trovi con un sistema politico, che egli cerca di far comprendere ai suoi lettori, usando anche i parametri del mondo europeo, pur segnalando che la storia e la politica cinese sono di gran lunga diverse e diversamente vanno comprese e analizzate. Di fatto, più che un susseguirsi di eventi storici, Ricci definisce nelle sue linee essenziali il governo, che, essendo monarchico, senza limitazioni di sorta, se non per il suo apparato burocratico, rende la Cina un impero. Lo è inoltre per il fatto che nell’estensione del suo territorio, la Cina comprende al suo interno varie popolazioni o gruppi etnici, dominati da un governo unico, la cui struttura viene proposta dall’autore per spiegare al lettore occidentale come deve essere intesa la Cina. Perciò a chi scrive, che pur dimostra di conoscere l’essenziale della storia cinese, la segnalazione che maggiormente conta è il fatto di essere in presenza di una struttura di governo, che è certamente il risultato di una lunga gestazione nella storia. Esso, inoltre, appare ben strutturato, e così si spiega come esso persista e come esso continui a rinnovarsi e a sussistere insieme, per tutti i sistemi di equilibrio che si sono creati nel corso dei secoli, per far giungere la Cina ad essere un grande Impero, come lo stesso Ricci deve constatare ed ammirare. Anche se nel capitolo si accenna a qualche personaggio ed evento storico – e non si potrebbe fare diversamente per un pubblico, come quello occidentale, che appariva sguarnito degli elementi essenziali della storia cinese –, poi però allo scrittore interessa maggiormente comunicare il sistema istituzionale cinese, che non ha corrispondenti nel nostro mondo, per quanto Ricci cerchi di spiegare i fenomeni, ricorrendo anche a qualche termine ed esempio appartenente al nostro occidente. Del resto è lui stesso a precisare quanto ha in mente di segnalare al lettore.

Non toccherò di questa materia se non quanto viene al proposito di questo sommario; percioché proseguirla come essa richiederebbe esattamente sarebbe cosa da farsi in molti Capitoli. In questo Regno non si usò mai altro che di Governo monarchico di un suolo Signore, senza aver notitia di altro. E nel principio, ancorché fusse un solo Re e signore, con tutto vi erano anco molti signori soggetti al signore Universale, sotto vari titoli, come tra noi, di Duchi, Marchesi e Conti. (Ricci, p.39) Leggi tutto “LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Il governo.”

La Cina al tempo di Matteo Ricci.

INTRODUZIONE.

Ci rendiamo conto che nei nuovi equilibri geopolitici la Cina vuol essere una presenza sempre più forte e sempre più riconosciuta, con un suo ruolo, che sta cercando di ritagliare. La sua immagine è quella che si è costruita nel corso dei secoli, anche sotto diverse forme istituzionali: è, e rimane sempre, un “impero”: questo termine non sta più a indicare una forma monarchica, come spesso la intendiamo, ma la rappresentazione di un mondo che ingloba al suo interno popoli diversi, culture e lingue differenti, magari anche con il disegno politico di poter allargare più che lo spazio geografico, lo spazio di potere che ogni impero vuole sentire riconosciuto. Noi oggi vediamo la Cina con un sistema politico che sembra sopravvissuto al crollo del comunismo in Russia, dove quel fenomeno si era per primo affermato. Essa è indubbiamente gestita da un apparato che si richiama a quel sistema di governo, anche se viene da osservare quanto sia sopravvissuto del marxismo nella sua ideologia e quanto rimanga del leninismo nella sua gestione di potere. Queste sovrastrutture persistono, soprattutto se si pensa che uno Stato siffatto richiede una struttura di potere da esercitare secondo le forme “autocratiche” del passato, secondo le rigidità di un sistema ideologico che il recente passato ha costruito e contribuito a rafforzare. Ma il sistema imperiale, che poi diventa “imperialistico” appartiene alla storia cinese, che noi conosciamo poco, non avendo costruito, nella scuola, una visione del mondo nella sua integralità, se non per gli addetti ai lavori; e soprattutto ci siamo costruiti una conoscenza indiretta, che spesso legge la storia di quel Paese, come di altri, secondo le categorie occidentali. La stessa Cina, anche nel recente passato, vuol essere considerata secondo le sue proprietà e non secondo uno schema di pensiero “occidentale”: l’incontro fra i due mondi (ma i mondi sono plurali e non semplicemente duali!) richiede una conoscenza e un rispetto reciproco, che deve valere da ambo le parti. Il recente tentativo di ripensare alla famosa “via della seta”, quella che ha consentito nel passato di avviare rapporti, anche di tipo commerciale, fra i due popoli, ci obbliga a considerare meglio la Cina dentro il corso della storia e nel suo rivelarsi a noi non solo in riferimento ai rapporti umani e commerciali che si sono sviluppati, ma anche per la funzione che la Cina si è ritagliata portandola fino ai nostri giorni.

Certe analisi storiche che leggono la Cina dentro una visione eurocentrica, portano inevitabilmente a considerarla sulla base di ciò che l’Europa (ed oggi l’Occidente) ha sviluppato nei suoi rapporti con essa. Noi abbiamo, in genere, una lettura storica che privilegia il nostro punto di vista, mentre la Cina andrebbe scoperta e riscoperta dentro la sua collocazione geografica e per quello che essa ha saputo creare e costruire. Le fonti, da cui trarre informazioni per conoscere la Cina a partire dalla Cina stessa, sono indubbiamente quelle degli storici cinesi o quelle che risultano scritte nel corso della millenaria storia di quell’Impero, che è stato denominato celeste. Se vogliamo qualcuno che, pur uscito da noi, si è talmente fatto cinese da penetrarne il pensiero e il mondo, allora dobbiamo rivolgerci a Matteo Ricci, il gesuita di Macerata, il quale, vissuto per circa un trentennio in Cina, ne ha davvero assimilato lo spirito, da sentirsi uno di loro e da essere nel contempo avvertito da quel mondo come il più attento conoscitore e il più rispettoso ed integra-to personaggio, da farsi cinese. Così è stato riconosciuto, e così ancora lo è in Cina, anche se oggi quel Paese vuole presentarsi come un mondo ateo e un mondo che, anche a sviluppare ampi rapporti con il mondo occidentale, non vuole sudditanza alcuna di tipo coloniale, e men che meno autorità, come quella religiosa nell’ambito cattolico, che sia avvertita esterna ed estranea al mondo cinese. Di qui la necessità di un incontro e di una conoscenza che siano rispettosi del ruolo storico che ha la Cina: essa è davvero un mondo che pretende di essere al centro del mondo stesso …

MATTEO RICCI (1552-1610)

Matteo Ricci è il miglior sinologo per il suo particolare approccio con il mondo cinese e può introdurre al meglio dentro quella realtà. Più che tracciarne una biografia, è il caso di capire la ragione e la modalità con cui il giovane gesuita, formatosi a Roma, sia stato destinato a penetrare in quel mondo, già accostato da S. Francesco Saverio, alla vigilia della sua morte avvenuta nel 1552, proprio nell’anno di nascita del maceratese. Il suo desiderio di farsi religioso, perseguito anche contro la volontà del padre, lo introdusse nel nuovo Ordine, messo in piedi da Ignazio di Loyola. Il cofondatore, Francesco Saverio, partito per le Indie, mandava relazioni dall’immenso territorio in cui sorgevano qua e là comunità cristiane. Forse queste relazioni, spesso connotate da spirito di avventura, hanno determinato la vocazione “missionaria” di Matteo Ricci.

Non esistono scritti di Ricci sui suoi anni romani e non sappiamo quindi cosa lo abbia spinto verso le missioni. Indirizzate al generale della Compagnia, le lettere, dette Indipetae, esprimevano con i toni dell’implorazione l’ardente desiderio dei candidati di partecipare alle missioni (…) Anche Ricci desiderava il martirio? A giudicare dalle sue missive e dalle attività sul campo degli anni a venire, non vi sono tracce della passione che portò altri alla ricerca di una morte violenta. Forse in lui il desiderio di avventure e di viaggi conviveva con l’aspirazione alla propria salvezza: il suo scopo poteva essere dunque “aiutare gli altri aiutando se stesso”, per citare un altro adagio gesuitico. La maggior parte dei compagni di studio di Ricci rimase in Italia … Altri invece condivisero il desiderio di Ricci. (Po-Chia, p. 32-33)

Matteo Ricci in abiti cinesi indica la Cina al centro della mappa del mondo

Di fatto Ricci si aggrega a coloro che puntando verso l’Oriente, devono prima passare da Lisbona, e poi, di qui, passare da Goa in India, e successivamente a Macao in Cina, dove i Gesuiti pongono la loro base di partenza per penetrare in Cina. Naturalmente in questi passaggi il giovane prete non sta inerte. Si dedica piuttosto a quelle conoscenze preliminari con le quali garantirsi un accesso più facilitato. Intanto egli ha modo di studiare il territorio e di capire, già da questo, quale sia il ruolo della Cina nel contesto geografico e più ancora quale possa essere il suo ruolo geopolitico. È molto interessante notare che nelle note storiche, da lui redatte, e che accompagnano il suo cammino in Cina, ha un rilievo non indifferente la descrizione della Cina, sotto il profilo geofisico con una notevole considerazione di carattere storico. È la dimostrazione che egli vuol conoscere bene questo Paese e che vi vuole entrare non solo per l’immagine che dà al suo presente, ma anche per quello che appariva agli occidentali, quando ne trattavano e per quello che esso comunicava quando si creavano contatti con l’esterno.

IL NOME DELLA CINA

Già nel capitolo II, dopo una introduzione di carattere metodologico nel suo modo di concepire e di scrivere di storia, Ricci ha cura di rappresentare quel gran mondo con l’essenziale della sua geografia.

Capitolo II

DEL NOME, GRANDEZZA E SITO DELLA CINA

Questo ultimo regno orientale venne a notitia de’ nostri europei sotto diversi nomi. Il più antico del tempo di Tolomeo fu di Sina, di poi, nel tempo di Tamorlano, come di poi chiaramente si vedrà, vi fu data notitia di essa da Marco Polo con nome di Cataio. (Ricci, p. 7)

Sono poche battute che riguardano tempi diversi, laddove qualche informazione riguardante la Cina arriva in Occidente, se non altro per il nome che viene dato a quel mondo, noto, ma di fatto non ancora contattato in maniera stabile. Qui si parla di Claudio Tolomeo (100-168 d.C.) che parla della “Sina” più volte nella sua opera conosciuta come “Almagesto”, come viene indicato nella versione araba. E’ qui che troviamo l’impostazione geocentrica del sistema solare, che poi viene definita “tolemaica”.

Viene pure ricordato un altro personaggio storico famoso, Tamerlano, (1336-1405) capo del Turkestan, che ha conquistato e creato un vasto impero fra l’Europa e la Cina, senza riuscire a conquistare quest’ultima, solo perché muore alla vigilia di questa impresa. In mezzo ci sta pure la figura, a noi ben nota, di Marco Polo (1254-1324), il quale nella sua famosissima opera ci parla del viaggio in quel paese, che chiama appunto con il nome registrato da Ricci. Il veneziano fece il suo viaggio dal 1271 al 1295 nel periodo in cui la Cina era dominata dai Mongoli e naturalmente ci ha fatto conoscere quel tipo di realtà, che i Cinesi considerano con diffidenza, essendoci stata l’invasione ed essendosi questa trasformata in una occupazione. Non per nulla la figura di Marco Polo non ha in Cina la fama che invece riveste da noi, diversamente da Matteo Ricci, considerato dai Cinesi come uno di loro, ma da noi ben poco conosciuto.

Ma il più celebre di questi tempi è questo di Cina, divulgato da’ Portoghesi, che per lunghi e pericolosi viaggi per mare arrivorno a essa e mercanteggiano nella sua parte più al mezzogiorno, nella provincia di Quantone (Guandong), se bene i nostri Italiani et altre nationi pensino chiamarsi China, ingannati dalla pronunciatione e scrittura spagnola, che non segue nel loro vulgare, in alcune lettere, la pronunciatione latina. Ed è cosa degna da notare che tutti questi nomi furono apportati ai nostri con aggiunzione di Grande, poscia che sogliono chiamarla magna sina, e Marco Polo la chiama il gran Cataio, e gli Spagnuoli la Gran Cina, di dove si vede l’essergli debita e connaturale la sua magnificentia e grandezza del suo nome. (Ricci p. 7)

L’autore vuole dunque soffermarsi sulla questione del nome in tutti i suoi aspetti, perché già da questo, che sembra un dettaglio, si può riconoscere che sia ad intra sia ad extra c’è consapevolezza di trovarsi davanti ad un mondo considerato grande e tutto da scoprire per la sua grandezza. Una simile visione (che è pure una sorta di autocoscienza dei Cinesi stessi) appartiene alla storia cinese e nel contempo passa da una generazione all’altra anche nei mutamenti inevitabili dei regimi politici. Questa visione di “Potenza” appare già presente a quanti vi giungono dall’Occidente, compresi i colonizzatori portoghesi, che si rendono conto di dover risalire nella Cina interna e di scoprire dunque un Paese molto vasto sotto il profilo geofisico e nel contempo un Paese che può avere in tal modo la coscienza di qualcosa che si estende e che, anche a partire dalle città, allora, e ancor di più oggi, densamente popolate, si dimostra di notevole grandezza e fatta per andare sempre oltre i propri confini.

Di qui l’imperialismo che domina la storia della Cina e che arriva come eredità anche alla Cina di oggi, per quanto essa non si presenti secondo le modalità imperiali che noi pensiamo di raffigurarci con personaggi di grande livello e soprattutto dotati di un potere veramente alto. Presentata così da Ricci, la Cina arriva in Occidente con la considerazione di qualcosa di veramente grande e che tale deve essere riconosciuta, rispetto ad un mondo come quello occidentale che dovrebbe puntare su un altro genere di grandezza.

LE PECULIARITA’ DELLA CINA

Poi Ricci entra in alcuni dettagli, che nella visione sua e dei suoi lettori devono essere considerati come peculiarità dei Cinesi. Queste particolarità diventano anche qualificanti circa il loro vivere e il loro operare: il fatto, ad esempio, che essi mangino la carne di cavallo è in sé una annotazione marginale; ed invece dovrebbe far pensare che proprio su questo animale punti in modo speciale la popolazione locale, non solo per avere nutrimento, ma per tante altre attività collaterali. Così, se nella nostra civiltà occidentale, a partire dall’Egitto, il bue “Api” costituiva il punto di partenza in diversi campi per coloro che in quel Paese e dal quel Paese volevano creare qualcosa di grande, nel Catai invece va dato rilievo al cavallo. Dal bue “Api” viene fatto iniziare il mondo religioso dell’Antico Egitto, così come di lì proviene la prima lettera del sistema geroglifico che poi diventa il nostro sistema alfabetico.

Né vi è anco dubio l’essere questa terra il regno degli Hyppofagi perché in tutta essa, sino ai nostri tempi, si mangia carne di Cavalli, come tra noi la vaccina. (Ricci p. 7)

Ovviamente non può mancare il riferimento a ciò che nell’immaginario collettivo di sempre caratterizza la Cina nella sua attività lavorativa specifica, cioè la produzione della seta. La via stessa, che viene formata e che viene frequentata nel corso dei secoli, è proprio quella che serve a trovare e ad acquistare qui per l’uso che se ne fa in Occidente, anche se poi, lo sappiamo bene, in modo particolare dalle nostre parti, troviamo un’attività analoga anche da noi. Come sempre, qui è una attività su larga scala.

E l’istessa anco è la Serica, poiché in nessuna di queste terre al ponente vi è seta se non in essa, e questa in grandissima abondanza, tanto che non solo la vestono grandi e piccoli, poveri e ricchi, ma anco ne mandano a tutte le genti circonvicine, et i Portoghesi la miglior mercanzia di che caricano le sue navi, o per il Giappone o per l’India, è di seta e di pezze di seta. L’istesso avviene agli Spagnuoli, che stanno nelle Filippine caricando le sue navi per la Nuova Spagna (il Messico). E ritruovo ne’ suoi libri l’arte della seta 2636 anni inanzi alla venuta di Christo benedetto al mondo, e pare che questa arte da questo regno si sparse al restante dell’Asia e a tutta l’europa et Africa. Là onde non è meraviglia esser detta e tenuta per grande, giaché vediamo quattro o cinque grandi regni al presente come uniti già in uno. (Ricci p. 7-8)

È evidente l’esaltazione di questa attività, che appare presente nella sola Cina e da qui raggiunge il resto del mondo con i suoi prodotti; l’autore li presenta non come riservati a persone di alto rango o comunque in grado di spendere tanti soldi. Questo genere di stoffa è usata ovunque e diventa un po’ la caratteristica del “vestire cinese”. Si dà poi informazione circa la commercializzazione di questo prodotto, rimarcando che sono i Portoghesi a farlo pervenire negli altri Paesi asiatici, mentre gli Spagnoli introducono il prodotto nel Nuovo Mondo. Con questa particolare segnalazione di fatto si dà ulteriore forza ad una visione del Paese che lo vede al centro, mentre gli altri attorno si avvantaggiano di un prodotto che noi dovremmo considerare “di nicchia” e che invece appare molto diffuso e ben noto e ricercato. Ricci, infine, segnala un testo da cui ricava la notizia che l’arte serica sarebbe entrata in Cina molti secoli prima di Cristo. Si tratta di una “notizia semileggendaria che colloca in questo anno (come lo vediamo segnalato nel testo di Ricci) l’invenzione dell’arte di lavorare la seta da parte di Lei Zu, moglie del leggendario imperatore Huangdi, passata alla storia come Xian Can, ovvero “Prima Sericultrice”.

LA SUDDIVISIONE DELLA CINA

Nella sua esaltazione della Cina come realtà grande, non solo per la vastità del suo territorio, Ricci vuole anche dire che questo Paese ha conosciuto la divisione e gli scossoni politici di diverse dinastie reali ed imperiali; e tuttavia questi fenomeni storici, pur sempre dannosi per ogni regno e soprattutto per ogni impero, non incrinano di fatto la grandezza della Cina, anche se, in certi periodi, essa viene a trovarsi in piena decadenza; nel contempo, superate le crisi, torna ad essere grande grazie alle sue ri-sorse umane, soprattutto legate alle attività economiche, che la fanno ricercata nel mondo per questo.

Quello che a me mi fece più meravigliare fu il sapere che tutti questi nomi sono alla stessa Cina incogniti et inauditi; e non sanno l’esser chiamati così, né la causa di tali nomi a loro imposti, avendone mutati molti e stando anco esposta ad altre mutanze. La causa è per il loro antichissimo custume che, quando il regno si muta di una famiglia in altra, si muta anco il nome del regno a voglia del primo Re di quella famiglia, il quale ordinariamente elegge qualche bello e grave nome. (Ricci p. 8)

Se esistono dunque diverse Cine, o meglio, diverse immagini della Cina, questo dipende dal fatto che si susseguono dinastie diverse, le quali contribuiscono a dare una particolare fisionomia per quel periodo, lungo o breve, che noi possiamo cogliere nel susseguirsi non solo dei secoli, ma persino dei millenni. E qui Ricci elenca una serie di dinastie a riprova che si è ben documentato circa la storia cinese. Queste diverse dinastie non sono tali comunque da indebolire la Cina nel suo insieme, perché se i passaggi sono, come un po’ ovunque, momenti di decadenza, poi si instaura un periodo di ripresa, nella quale la Cina ha sempre la possibilità di offrire una immagine di sé continuamente segnata dalla grandezza.

E così fu chiamata Than, che vuol dire largo senza termine; In che vuol dire riposo; Hia, che vuol dire grande; Sciam che vuol dire ornato; Ceu, che vuol dire Perfetto; Han, che vuol dire la via lactea nel Cielo con altri molti. Et dall’anno del Signore 1236, che regna la famiglia Ciù, si chiama Min che vuol dire chiarità; e, per durare anco adesso in questa famiglia, gli aggiungono una sillaba Ta, che vuol dire grande, e si chiama Ta min, cioè grande chiarezza. I popoli vicini puochi sono che sappino queste mutanze, e così le chiamano anco con varij nomi, e penso che ciascheduno con il primo di che hebbero notitia. I Cocincinesi, i Siami di dove imparorno i Portoghesi, la chiamano Cin, i Giapponi la chiamano Than; i Tartari la chiamano Han, et i Saraceni la chiamano Cathai. (Ricci p. 8-9)

LA CINA COME “TERRA DI MEZZO”

Dilungandosi sulla questione del nome, Ricci non vuole complicare le cose, ma far intendere la coscienza che i Cinesi hanno del loro mondo e della loro visione del mondo: essi evidentemente intendono la Cina al centro del mondo e tutto il resto va considerato periferia. Essendo al centro la Cina è il “paese di mezzo”, e nel contempo è la realtà più grande, appunto perché centrale.

Ma in questo modo anche tutto ciò che vi è all’esterno, va inglobato, se essa è davvero il cuore del mondo, del globo. E perciò è necessario che essa si qualifichi sempre al meglio per questa sua posizione e sia sempre più in grado di assimilare la realtà che la circonda. Lo specifica con chiarezza il missionario gesuita, quando arriva a sostenere che, nella coscienza del Paese e quindi nei suoi abitanti, c’è questa impostazione che la fa sentire davvero come il cuore del mondo creato, come colei che deve tenere l’universo aggregato a sé.

Ne’ libri della Cina, oltre il nome di quel secolo corrente, si chiama Ciumquo (letteralmente = il Paese del Centro), che vuol dire regno nel mezzo, e ciumhua, che vuol dire Giardini del mezzo, et il Re che ottiene tutta la Cina lo chiamano signore di tutto il Mondo, pensando che la Cina eminentemente tiene tutto l’universo; il che, se paresse strano a qualcuno de’ nostri, imagini che più strano parrebbe alla Cina il chiamarsi i nostri antiqui imperatori con questo titolo, senza essere signori della Cina. (Ricci p. 8)

E qui giunge a sostenere che, in presenza di altri imperatori, di altri sovrani che così si qualificano, c’è come una sorta di Paese alternativo e quindi anche antagonista e come tale da sentire ostile. Come è possibile allora che esistano imperatori, quelli romani e quelli successivi che pur derivano dall’antico impero il loro titolo, che possano essere tali senza essere pure signori della Cina? Sulla base di questa sua maniera di consi-derare la cosa si dovrebbe concludere che possano esistere imperatori che non siano cinesi di origine; ma essi, se sono tali, non possono non essere anche i signori della Cina e considerare comunque quel Paese come cen-trale al mondo, come punto costitutivo del mondo nel suo insieme. Evi-dentemente si riconoscono altri Paesi e altri popoli; e non potrebbe essere diversamente; ma va riconosciuta la centralità della Cina, per la quale dunque è importante e necessario che si entri effettivamente in dialogo riconoscendo questa sua posizione centrale. Dovremmo di qui capire come Matteo Ricci, nel suo accostamento alla Cina, abbia ben compreso una simile visione, e, rispettandola, abbia cercato ogni possibilità di dialogo aperto al fine di penetrare in essa per portarvi poi la luce del Vangelo: questo non può giungere ai Cinesi come qualcosa di estraneo ad essi, ma come un messaggio di vita intrinsecamente legato alla Cina per la modalità stessa con cui la religione cristiana si presenta, volendo essere davvero universale e non tanto il prodotto di una cultura locale in termini geografici e cronologici.

E va riconosciuto che il suo approccio con la Cina è stato quanto mai positivo, assolutamente non condotto secondo i criteri di stampo colonialista, come succedeva nel medesimo periodo altrove, e come, per tanti versi, è stata pure condotta l’azione missionaria, in molti momenti della storia e in molte parti del mondo. Questa stessa visione è quanto mai opportuna oggi nell’accostare, da parte cattolica e quindi da parte dei missionari, i Paesi extraeuropei, che non possono essere assimilati allo schema culturale europeo. Più che mai questo atteggiamento è da tener presente nell’accostamento della Cina: ciò che ha fatto Ricci, va riletto e considerato oggi nei confronti di un mondo cinese che appare guardingo ad aprirsi in modo particolare al mondo cattolico, che pur ha conosciuto, che pur si è già affermato nel Paese, visto che esiste una forte comunità, per quanto sia sempre minoritaria. Occorre evidentemente la saggezza che Ricci ha cercato di usare nel suo approccio alla Cina, perché non c’è solo la remora politica a costituire un ostacolo nei rapporti fra la Cina e la Chiesa cattolica rappresentata dal Vaticano. Quest’ultima non rinuncia affatto a dialogare con essa. È però necessario comprendere la visuale cinese che lo stesso Matteo Ricci, nel suo testo e soprattutto nella sua testimonianza di vita, cerca di illustrare e di far capire al mondo occidentale e soprattutto alla Chiesa Cattolica: questa deve ancora molto considerare nel rapportarsi con le nuove terre e le nuove popolazioni che accosta mediante i viaggi esplorativi del Cinquecento. Va riconosciuto che il sistema messo in campo dai Gesuiti, pur con tutte le debolezze di un accostamento iniziale e mai prima operato, è indubbiamente di gran lunga più rispettoso dei popoli rispetto a ciò che fanno altre congregazioni religiose nel medesimo periodo. Quanto si evince da ciò che si operava in Cina e da ciò che contemporaneamente si faceva nell’America meridionale, sempre da parte dei Gesuiti, è indicativo di un metodo missionario sempre da verificare e da revisionare. Le famose “reducciones paraguayane”, per quanto siano state fallimentari, potevano costituire un esem-pio di approccio alle popolazioni indigene, nel pieno rispetto delle loro peculiarità. Anche in Giappone l’accostamento sembra inizialmente giusto, e tuttavia non mancano le incomprensioni: qui i missionari gesuiti arrivano per la prima volta e, per quanto essi tentino un accostamento rispettoso, risultano travolti dalla bufera di una persecuzione sanguinosa. Perciò l’analisi e lo studio del metodo messo in campo da Matteo Ricci sono quanto mai importanti anche oggi per comprendere meglio la sua azione missionaria e per accostare meglio, soprattutto la Cina.

LA CARTOGRAFIA

Sappiamo che ogni missionario gesuita doveva inviare a Roma relazione delle proprie attività. Queste sono ancora oggi raccolte e schedate. Matteo Ricci non è da meno, e nelle sue relazioni appare anche minuzioso e soprattutto dotato di capacità specifiche che danno un notevole valore scientifico ai suoi scritti. In modo particolare emergeva la sua perizia di geografo e di cartografo, costruita negli anni della formazione a Roma. Lo si può vedere già dalle prime battute della sua monumentale opera circa l’entrata della Compagnia di Gesù in Cina, che non è solo opera sua. Lui qui si dimostra davvero abile nel proporre per iscritto una descrizione geofisica della Cina, secondo gli schemi di quel tempo.

CARTINA DELLA CINA CON LE SUDDIVISIONI PROVINCIALI

Quanto al sito e alla grandezza di essa, al mezzo giorno comenza in 19 gradi del equinoziale nel Insola di Hainan, e va a finire in 42 gradi fuora de’ muri settentrionali dove comenza la Tartaria. Dal levante comincia nella Provincia di Iunnan in 112 gradi dell’Insole fortunate, e finisce in 131 nel mare di levante, e quasi viene a fare un quadrato perfetto, un puocho magiore in larghezza di quello che è lungo (la posizione geografica della Cina, qui definita da Ricci, venne ritenuta esatta da D’Elia, che la vede come il punto di arrivo di numerosi calcoli, via via rettificati e attestati nell’epistolario ricciano. In realtà Ricci non poteva essere in grado di effettuare dei calcoli precisi, data l’impossibilità, ai suoi tempi, di ottenere un esatto calcolo longitudinale. Egli aveva a sua disposizione solamente metodi molto approssimativi, come il calcolo delle eclissi lunari o l’uso delle effemeridi. Il problema venne risolto solo nel 1761 con la messa a punto di un cronometro da installare sulle navi. In epoca Ming la Cina si estendeva dal 18° dell’estremità sud di Hainan al 42° nord, dal 70° al 125° a est di Greenwich). E la magior parte di essa sta nella zona temperata e comprende tutti gli Climi che stanno dal fine di Diameroe siano all’ultimo de’ Diaromi (Le espressioni “Diameroe” e “Diaromi” si riferiscono alla suddivisione della sfera terrestre, operata nel XIII secolo da Giovanni Hollywood, in sette zone dette climi astronomici; in particolare quella definita Diameroe prendeva il nome dall’antica città di Meroe in Nubia, mentre la fascia climatica Diaromi prende il nome dalla città di Roma): di dove si vede excedere in grandezza a tutti gli altri regni del mondo, se bene non è sì grande quanto alcuni scrittori moderni la facciano, estendendola al settentrione sino a 53 gradi, che vengono a farla un terzo magiore di quello che è; ma questi termini di essa habbiamo noi verificati con astrolabi jet altri strumenti in varij luoghi di essa dove passassimo e stessimo, con l’osservationi di varie eclissi, con i loro Calendarij, dove molto puntualmente sono calculati i novilunij e Plenilunij, e sopra tutto per molti e varij libri di Cosmografia stampati, ne’ quali esattamente si descrivono le provincie, regioni e confini del Regno. (Ricci, p. 9-10)

Questa particolare lettura della Cina sotto il profilo geografico, quello che inquadra il territorio secondo coordinate scientifiche, in uso allora, rivela che Ricci aveva acquisito una formazione egregia, frutto del suo ingegno e dei suoi studi, ma nel contempo anche di una educazione scolastica di pregio. È quella che lui ha ricevuto nel Collegio Romano, istituzione scolastica fondata e gestita dai Gesuiti.

Forte di alcune delle migliori menti della Compagnia il Collegio Romano godeva di un’impareggiabile reputazione. Montaigne stesso, colpito dalla stima di cui i gesuiti godevano, reputò che non fossero mai esistite fino a quel momento “altra confraternita o comunità del pari potenti o capaci di produrre effetti quali produrrà questa, potendo realizzare i propri intenti: in poco tempo avrà in suo potere tutta la cristianità, essendo un vivaio di grandi uomini d’ogni sorta e quella – fra le nostre istituzioni – che più minaccia gli eretici attorno a noi”.

(Po-Chia, p. 22-23)

Ricci in questo collegio e in questo momento si appassiona un po’ a tutto, dedicandosi in modo particolare alla retorica e alla filosofia. Ma poi finiscono per prevalere gli interessi scientifici, e in particolare egli si dedica alla geometria.

La geometria era alla base della matematica studiata dai gesuiti, ed Euclide ne rappresentava la massima autorità. In aggiunta alla spiegazione dei testi degli antichi, Clavio (Cristoforo Clavio (1538-1612) è un gesuita tedesco, matematico e astronomo, l’ideatore del calendario gregoriano), professore di Ricci, fu fonte di grande ispirazione per gli studenti, grazie al suo originale lavoro, specialmente nell’ambito delle osservazioni astronomiche e dei calcoli geografici. Oltre all’ap-prendimento dei testi e della teoria, gli studenti imparavano a utilizzare i quadranti, i globi, le sfere armillari, gli astrolabi e i sestanti, sapevano prevedere le eclissi e misurare la posizione del sole per determinare la latitudine e la longitudine. Nel 1572, quando Ricci era da poco novizio. Clavio riuscì ad osservare, insieme ai suoi studenti, una nova, una scoperta tal-mente emozionante da spingere l’astronomo tedesco a scrivere “Sono convinto che la nova sia stata creata da Dio nell’ottava sfera come presagio di qualche grande evento (sebbene la natura di questo evento potrebbe essere tuttora sconosciuta)”. Era forse un segno che annunciava la nascita di una nuova stel-la nel firmamento gesuita? Uno dei nuovi studenti di Clavio? La geometria non forniva solo gli strumenti per lo studio dello spazio celeste, ma facilitava anche i progressi della cartografia. (Po-Chia, p. 24)

Proprio sulla cartografia Ricci va a puntare i suoi interessi. E quanto lui apprende gli serve poi nel viaggio che progressivamente lo porta al cuore della Cina, non solo perché arriva alla capitale, ma perché ha modo di in-contrarsi col sapere cinese, proprio a partire da uno degli interessi più coltivati in Cina. Evidentemente a partire dai suoi stessi studi operati sui banchi di scuola, egli ha modo di dialogare con più fiducia su interessi comuni. E la fiducia è ricambiata. D’altra parte la scienza cartografica aveva pure un suo affascinante sviluppo in Occidente a partire dai viaggi di esplorazione che erano in corso in quel secolo e che richiedevano carte sempre più aggiornate: è del 1570 il primo mappamondo che risultava più preciso rispetto alle carte disegnate nel Medioevo e ancora utilizzate, anche se si rivelavano inadatte. Gli studi di questo genere appaiono dav-vero utili a Ricci, perché al momento della sua entrata in Cina si trova ammirato dai Cinesi e ben accolto proprio per questa sua abilità e per l’uso consolidato di rappresentare il mondo mettendo al centro la Cina, che diventa così la “Terra di mezzo”. La prima biografia, scritta dal gesuita bresciano Giulio Aleni (1582-1649), che arriva in Cina dopo la morte di Ricci e di cui fornisce una bella immagine di missionario nel grande paese asiatico, mette in risalto il contributo che Ricci dà in questo particolare campo:

35.

Durante la permanenza a Duanzhou, Maestro Ricci aveva già prodotto una mappa del mondo che in seguito finì in possesso dell’onorevole Zhao Xintang, al quale piacque tanto da trasporla su pietra con delle spiegazioni, nonostante che egli non avesse ancora conosciuto Maestro Ricci di persona. (Aleni p. 41)

36

Quando l’onorevole Zhao fondò la prefettura di Gusu, il ministro Wang arrivò con Maestro Ricci a Nanchino. L’onorevole Zhao offrì al ministro Wang dei doni tra cui la mappa del mondo. Il ministro mosso da meraviglia la mostrò a Maestro Ricci. E mandò una risposta all’onorevole Zhao scrivendo: “Il disegnatore della mappa è ora qui da me”. L’onorevole Zhao fu oltremodo pieno di gioia per la sorpresa, e volendo invitare Maestro Ricci a casa sua, mandò una carrozza. E fu un incontro assai piacevole per entrambi. (Aleni p. 42)

L’interesse, che noi riconosciamo particolarmente spiccato per la materia da parte di Matteo Ricci, non gli deriva solo dai suoi studi in Italia, ma anche dal fatto che il dialogo con i sapienti della Cina gli abbiano mostrato un terreno comune su cui continuare gli studi e approfondirli anche. Addirittura egli mette in risalto di aver pure letto libri cinesi sull’argomento e di aver così accresciuto il suo sapere. Perciò se può parlare del territorio cinese e della sua suddivisione in “province”, egli lo deve alle letture fatte, dimostrando in tal modo che il sapere scientifico si deve sviluppare a partire dai testi, soprattutto locali, che possono essere di maggiore utilità per capire al meglio la Cina stessa. Proprio per la sua estensione non sarebbe più facilmente alla portata di chi vuole non solo penetrarvi, ma più ancora conoscerla non senza aver dialogato con chi può far meglio conoscere. E parlando del libro da lui consultato fa riferimento ad un atlante, che in Cina era particolarmente conosciuto e utilizzato.

Et acciocché non pensi alcuno che, per esser così ampio questo Regno habbi qualche gran parte di esso spopolato e deserto o manco pieno di gente e Città, porrò nel fine di questo capitolo, quello che ho trovato in un libro, per il quale si suon stampato nel anno 1579, della descrittione della Cina, voltato parola per parola nella nostra lingua, che è questo (Forse Ricci si riferisce all’edizione del 1579 del Guangyutu, un importante atlante cinese di derivazione mongola, risalente alla fine del XIII secolo, successivamente ampliato e dotato di nomi topografici Ming. Fu l’atlante cinese più diffuso fino alla meta del XVII secolo.): “Ha la Cina due Provincie curiali, Pacchino e Nanchino, et altre tredici Provincie di fuora. (Le due province chiamate “curiali”, Pechino capitale dell’Impero e Nanchino capitale secondaria, erano aree metropolitane: l’area metropolitana di Pechino (beizhili) comprendeva tutto l’attuale Hebei, riferendosi alla città di Pechino si diceva Shuntianfu. L’area metropolitana di Nanchino (Nanzhili) comprendeva l’attuale nord dell’Anhui e il Jiangsu, per riferirsi alla città si diceva Yinguanfu. Ambedue erano sedi di ministeri e uffici imperiali. Le altre province sono: Shandong, Shanxi, Shaanxi, Henan, Huguang, Jiangxi, Fujian, Zhejiang, Guizhou, Sichuan, Yunnan, Guangxi e Guangdong.) In queste quindici Provincie (che possono fare altrettanti regni ben grandi) vi sono 158 Regioni che loro chiamano fu (che sono come Provincie piccole, sebbene alcune di esse fra di noi farebbono grandi Provincie, per comprendere dodici e quindi Città, oltre altre terre e fortezze. (Ricci, p. 10)

Qui veniamo a conoscenza delle due capitali e della suddivisione in province, come sono definite dagli stessi Cinesi, anche se esse non corrispondono affatto a ciò che in Occidente noi consideriamo “province”; qui addirittura per alcune di esse si dovrebbe pensare a Regni, che da noi si configurerebbero come Stati. In effetti anche in Cina si deve parlare di entità che presentano una popolazione ben diversa da quella cinese, anche se qui non si gode dell’indipendenza, ma piuttosto si ha una totale sottomissione, che fa essere questi ampi territori assimilati di fatto alla Cina. In questo modo comunque prende piede la visione che la Cina vuol avere e vuol dare di sé, come di una entità vasta, che tende a inglobare il mondo a partire dalla sua posizione centrale. Se ancora non raggiunge questo risultato, essa comunque coltiva questa prospettiva e proprio questo genere di suddivisione tende a mostrare questo maniera di intendere il rapporto fra ciò che è veramente centrale e quanto si muove a livello periferico, per le popolazioni e i territori che sono in questo momento nella Cina stessa, ma in posizione periferica.

Ovviamente gli abitanti di questo immenso territorio non si possono considerare nel loro insieme tutti appartenenti all’etnia cinese, anche se tutti ruotano attorno alla “Terra di Mezzo” e come tali ne fanno parte, anche e non essere propriamente cinesi. Questa considerazione sulla popolazione locale, spinge Ricci ad una analisi non solo geofisica della Cina, ma anche alla sua componente antropica, che evidentemente è da considerarsi la più importante, anche in una lettura che si vorrebbe scientifica e coltivata con gli strumenti scientifici. Non può dunque mancare una annotazione di carattere demografico, che qui Ricci aggiunge per i suoi lettori occidentali. Essi devono conoscere e riconoscere la vastità della Cina e come questa aspiri sempre più ad inglobare ciò che le sta attorno. E tuttavia la sua potenza non è data dalla sola vastità dei territori, ma dal fatto che in essa vi sia una notevole quantità di persone e queste appartenenti a etnie diverse, che comunque si riconoscono inseriti nel grande mondo cinese. Il computo della popolazione viene fatto non sulla base della sola registrazione che le persone esistono, ma vengono enumerate a partire dal censo, quello che si rileva significativo perché lì si può esercitare una esazione fiscale. Le persone sono dunque contate sulla base del fatto che si possa esigere una imposta e che essi possano contribuire. Così la potenza dello Stato si riconosce sulla sua ricchezza di mezzi e di beni. Accanto sono pure conteggiati coloro che appartengono al mondo militare, perché evidentemente si riconosce pure in loro un contributo di cui lo Stato ha bisogno per mostrare la sua potenza.

Gli huomini adulti, che pagano tributo personale sono 58 milioni e 550801 capi; oltre le donne che sono altre tanti, i fanciulli e giovani e i soldati che sono più di un milione, perché vi sono alcune mezze provincie come di Leatun (Liaodong, considerata la prima area di frontiera a est, controllata da Comandanti Regionali e facente parte dello Shandong dal punto di vista amministrativo ) et altre, dove tutti sono soldati, et parenti del Re, eunuchi et altri molti esenti dal tributo (Risulta difficile stabilire quale fosse la popolazione cinese alla fine del XVI secolo … ). Regni che danno obedientia alla Cina per il levante sono tre; al Ponente cinquanta tre; al mezzogiorno cinquantacinque; al settentrione tre. È vero che questi né tutti vengono adesso, e, venendo, apportano più dallo alla Cina che guadagno, e così puoco si cura essa che vengano o lascino di venire. (Ricci accenna al rapporto con i paesi stranieri, regolati dal sistema dei tributi, che non era semplicemente l’espressione di un rapporto di vassallaggio, ma una istituzione complessa con cui gli imperatori cinesi inserivano i paesi stranieri in un sistema gerarchico, riflesso dell’ordine sociale confuciano presente all’interno della Cina.

Il tributo abbracciava le relazioni estere in ogni loro a-spetto, dalla protezione militare al privilegio di commercio con la Cina. Gli Stati tributari accettavano il rapporto di sottomissione: i monarchi per salire al trono, richiedevano l’investitura imperiale, e usavano nei propri documenti la datazione del calendario cinese.) (Ricci, p. 11)

Il capitolo che Ricci dedica alla geografia cinese si conclude con una annotazione che riguarda le fortificazioni, naturali e costruite, con cui la Cina cerca ai suoi confini la difesa e la definizione di sé per essere inquadrata come Terra di Mezzo. Ovviamente ciò che sta oltre sono i nemici, considerati come i possibili invasori. Esiste anche l’accenno alla grande costruzione della muraglia, concepita per tener testa ai Mongoli invasori

.

UN’IMMAGINE DELLA MURAGLIA CINESE

Oltre l’esser sì grande e piena, la Cina è assai fortificata dalla natura e dal arte. Percioché dal mezzogiorno e dal Levante tutta è diffesa dal mare che la Cinge; dalla parte di tramontana, oltre i monti, vi fecero per molte centinaia di miglia muri fortissimi (la Grande Muraglia, lunga oltre 5000 km, risultante dall’unione di antichi tratti di mura difensive, unificati sotto l’imperatore Qin Shi Huangdi (221-206 a.C.)), che impedono gli insulti de’ tartari, e dal ponente nella parte più settentrionale viene difesa da’ persiani con un deserto di arena (il deserto del Gobi), dove né possono habitare né anco passare molti insieme; e più al mezzo giorno tutto è pieno di monti e confina con regni piccoli de’ quali puoco se può temere. (Ricci, p. 11)

CONCLUSIONE

La ricerca fatta sul testo di Matteo Ricci, che di per sé si propone di curare la parte storica e di raccontare come sia avvenuta la penetrazione dei Ge-suiti nel grande mondo cinese, può sembrare qualcosa di assolutamente marginale, come è spesso anche tutto ciò che riguarda il grande campo delle geografia. Fa specie rilevare che l’autore vi dedichi il capitolo introduttivo, non solo per raccontare ai suoi lettori occidentali di questa grande area del mondo, di fatto sconosciuta, in gran parte d’Europa, ma anche per introdurre una particolare attenzione che si deve avere quando si accosta la Cina: sembra quasi che la componente geografica sia quella più interessante e rilevante, quella più apprezzata e più ricercata dagli stessi Cinesi, anche perché qui si riscontra la ben precisa consapevolezza che la Cina, sia a partire dai singoli abitanti, sia e soprattutto a partire dalle autorità politiche e culturali, ha della propria grandezza in riferimento al mondo che la circonda. Se essa è in effetti la “Terra di Mezzo”, essa va ritenuta al centro; e più ancora è comprensibile che essa, da quella posizione intenda inglobare il resto. Matteo Ricci diventa sempre più consapevole di questa impostazione, e si premura di accostarsi con l’atteggiamento più rispettoso, perché poi l’approccio sia fruttuoso. Il suo fine, ovviamente, rimane quello “missionario”; e quindi egli ha presente come scopo del suo viaggio la predicazione del vangelo. Ma non vuol partire, si direbbe oggi, “lancia in resta”, come se si trattasse di una conquista, ma di avviare un incontro, che sia una effettiva “incarnazione” di Cristo e del suo vangelo dentro il mondo cinese. Da quanto si legge nel suo testo si deve riconoscere che l’approccio darà poi i frutti sperati, ma è importante fare i passi giusti, quelli che, in realtà, non saranno compresi in Occidente e neppure del tutto dentro la sua stessa Compagnia religiosa, che pur l’aveva formato e sostenuto in questo suo modo di operare.

Qui è già importante rilevare come la visione minimalista della geografia, quella che si dedica alla scoperta e alla presentazione del territorio, ha un grande rilievo nella strategia del missionario che si dedica con fervore alla sua opera. Ed anche le sue parole in questo ambito rivelano la modalità giusta nel suo entrare con rispetto e con attenzione nei confronti di un mondo quanto mai diffidente verso i tentativi con cui l’Occidente ha cercato l’accostamento e la penetrazione. Come altre popolazioni dell’Estremo Oriente, pur in presenza di forti pressioni colonizzatrici da parte delle potenze occidentali, la Cina ha sempre fatto quadrato per resistere a questa forma di penetrazione secondo gli stili e i metodi coloniali. Ha invece reagito in modo costruttivo all’azione messa in campo dal missionario gesuita, che ancora conserva nel Paese un bel ricordo, segno di un tentativo di dialogo apprezzato e ricambiato. Anche nel nostro modo di cercare di intendere questo Paese, sempre più potente e rilevante, dobbiamo costruire un approccio che permetta di capire meglio questa realtà, e soprattutto la popolazione cinese, che oggi si muove sempre di più e che sta penetrando in Europa, in numero crescente, senza che questa modalità sia guardata con quella preoccupazione e paura che invece si ha per altro genere di popolazione e di immigrazione. Già è sviluppato lo scambio soprattutto nell’ambito commerciale; non altrettanto lo è per altre forme di conoscenza e di collaborazione. Per questo diventa utile imparare da chi ha vissuto un accostamento e un rapporto significativo!

BIBLIOGRAFIA

1.

Matteo Ricci

DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

E CHRISTIANITA’ NELLA CINA

Quodlibet (Macerata) 2000

2.

Gianni Criveller (a cura di)

LA VITA DI MATTEO RICCI Scritta da Giulio Aleni (1630)

Fondazione Internazionale P. Matteo Ricci – Macerfata

Fondazione Civiltà Bresciana – Brescia – 2010

3.

Ronnie Po-chia Hsia

UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA

Matteo Ricci, 1552-1610

Il Mulino – 2012

La marcia su Roma : Verso la dittatura

VERSO LA DITTATURA

Il fascismo è abbinato alla dittatura, perché di fatto essa si è realizzata in Italia con gli uomini che venivano da quel partito e da quella impostazione, come pure dall’uso della violenza fisica, che in realtà non era un fenomeno e un mezzo gestiti in maniera esclusiva da quel partito. Del resto anche la forma dittatoriale di potere e di occupazione del governo non può essere considerato un obiettivo da raggiungere perseguito solo da quel partito, anche se per l’Italia, gli anni della dittatura hanno visto il fascismo dominare la scena politica. Eppure, come stanno a testimoniare gli inizi del governo di Mussolini, anche se il ricorso alla violenza non è mancato, anche se i progetti e i metodi usati facevano presagire un esito che conduceva verso il totalitarismo, i primi passi non possono essere considerati già manifestazione di un esercizio del potere in forma dittatoriale. Del resto qualcuno ancora sperava che il fascismo potesse essere assorbito dal sistema parlamentare, una volta fatto entrare in esso: anche i partiti di sinistra, i più ferocemente avversi al fascismo e all’uomo che lo rappresentava, non immaginavano che esso potesse prosperare, in presenza di elezioni che vedevano le forze di sinistra aumentare il numero dei loro rappresentanti, per quanto ancora in maniera insufficiente. Mussolini stesso era consapevole, che a ricercare il consenso popolare mediante le elezioni, non poteva coltivare la prospettiva di venirne fuori vincente, se non cambiando e adeguando ai suoi obiettivi la legge elettorale. Per questo motivo elaborò la Legge Acerbo, e con essa poté vincere le elezioni, senza per questo avere di fatto una Camera, in cui ci fosse un unico partito: solo così la Camera poteva essere esautorata e resa perfettamente inutile. Proprio nell’immediato periodo successivo alle elezioni si consumò la trasformazione, da parte di Mussolini, dello Stato italiano da regno costituzionale a dittatura di fatto. Dobbiamo definirla così, perché in realtà, almeno formalmente venne mantenuto lo Statuto albertino e l’Italia rimaneva ancora una monarchia: il Capo dello Stato era il Re, non il Duce; ma il Capo del governo, pur nominato dal Re, gestiva il potere in modo assoluto e senza limiti particolari, se non quello di avere una figura superiore, il sovrano, che era a capo delle forze armate. Si potrebbe parlare di una sorta di diarchia, che comunque risultava vantaggiosa per il capo del governo. I partiti, minoritari inizialmente nel Parlamento, per essere poi del tutto aboliti, speravano di poter trovare nel sovrano un punto di appoggio, a garanzia, non solo formale, dello Statuto; ma dal Re non venne a loro alcun appoggio, se non nel momento più drammatico della storia italiana, quando con la guerra ormai persa, si doveva uscirne in maniera dignitosa.

Ma anche in quella circostanza si dovette registrare la “fuga” del Re, che avvenne, certo, in una località più garantita, ma si rivelò anche un venir meno alle proprie responsabilità. Il periodo, ancora tumultuoso, che va dalle elezioni del 6 aprile 1924 fino al discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, richiede una attenta analisi perché qui si consuma il passaggio, ormai chiaro ed evidente a tutti, verso una forma istituzionale che si può ben definire “dittatoriale”. È indiscutibilmente fuori dubbio che l’obiettivo di Mussolini fosse l’instaurazione di un governo forte e di fatto totalitario; e tuttavia potevano esserci ancora le condizioni per far prendere una piega diversa agli avvenimenti, che invece precipitavano verso questa soluzione. Ovviamente Mussolini segue dei passaggi che gli consentono di avere in mano “la macchina dello Stato” in tutti suoi meandri, compresi quelli locali. Anzi, proprio da lì deve partire per costruire il “suo” totalitarismo. E di questo si accorge Amendola e lo denuncia.

L’esercizio più frequente della violenza fascista, dopo l’ascesa al potere, fu praticato contro le amministrazioni locali rette dagli altri partiti, per costringerli a dimettersi, facendo poi eleggere amministratori esclusivamente fascisti. Così protestò Amendola il 12 maggio, mentre Mussolini ripeteva il proposito di “ricondurre il fascismo nei limiti della legalità e della disciplina”, nel paese si ripeteva invece con cadenza settimanale l’illegalismo fascista per imporre le dimissioni dei consigli comunali o provinciali, seguite dalle “elezioni amministrative con relativa conquista di maggioranza e di minoranza da parte di fascisti o sedicenti fascisti”, che spesso erano stati militanti di partiti antifascisti prima della “marcia su Roma”, e dopo si erano precipitati a iscriversi al PNF, e a occupare rapidamente i vertici locali dei fasci, attratti dalla “promessa del dominio assoluto e dallo spadroneggia mento completo ed incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa”. (…) Riferendosi alla pratica elettorale imposta dai fascisti nelle frequenti elezioni amministrative che si svolgevano la domenica, Amendola commentò: “noi, che (…) incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarle con più verità “sistema totalitario”. Questa nuova espressione, appena coniata, appariva come titolo dell’editoriale pubblicato dal suo giornale il giorno dopo, dove erano citati altri esempi dell’applicazione del “sistema totalitario” nelle elezioni amministrative per assicurare la vittoria dei fascisti. (Gentile (II), p. 61-62)

Con l’accaparramento delle realtà locali sarebbe stato più facile controllare sul territorio tutto l’apparato dello Stato, e ci sarebbero state tutte le premesse per influire anche sulle elezioni generali. Già l’uso di quella espressione “totalitario”, fatto da Amendola, dice che l’apparato fascista ormai divenuto apparato statale, cerca non solo di conquistare la maggioranza, ma di fatto di raggiungere quel tipo di percentuale che consente di avere con sé tutti, o quasi. Insiste Amendola:

In che cosa consiste questo metodo è presto detto. Si costituisce, prima, grazie all’azione combinata del prefetto e del segretario politico fascista, la lista di maggioranza composta per tre quarti o quattro quinti o cinque sesti, o comunque si voglia, di lupi fascisti, e per la rimanente quarta parte di fiduciose pecore non rognose; quanto alla minoranza si provvede diffidando con mezzi che variano a seconda dei casi, tutti coloro che potrebbero farne parte, come candidati, dal commettere la grave imprudenza di lasciarvisi includere.

(Gentile (II), p. 62)

LE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924

Oltre alla Legge elettorale, che poteva favorire il partito di maggioranza, quando questo aveva raggiunto un quorum stabilito, al fine di evitare l’eccessiva frammentazione, dovuta al notevole numero di partiti in gara, Mussolini aveva bisogno di far colpo non solo sull’opinione pubblica, ma anche su quelle realtà, istituzionali e non, che avevano un certo peso. Il suo atteggiamento verso la Chiesa si rivelò molto diverso da quello fin qui tenuto, e il nuovo Papa guardava con benevolenza a un uomo con cui si poteva discutere e raggiungere l’obiettivo di risolvere l’ormai annosa questione romana. Anche sul versante dell’economia, occorreva assicurare il mondo dell’imprenditoria, dopo i mesi drammatici degli scioperi e della marea montante “rossa”. Anche sul fronte della carta stampata, in modo particolare quella estera, Mussolini giocava le sue carte per accreditarsi come l’uomo giusto da guardare in modo favorevole. Ed anche gli interventi in politica estera rivelarono un uomo che cercava il prestigio del Paese, che pur aveva vinto la guerra e che meritava di più e di meglio: pretendeva di affrontare la questione turca a Losanna alla pari con Francia ed Inghilterra, ma al di là di generiche affermazioni non ebbe; nella questione poi di Corfù con i Greci ci furono pretese che non otten-nero la debita considerazione; qualcosa in più si ebbe con la soluzione della questione di Fiume, riconosciuta italiana.

Con le elezioni si riteneva che i problemi aperti circa il nuovo assetto dell’Italia si potessero chiarire una volta per tutte: la “stanchezza” portava a cercare una decisione che di fatto poi si rivelò vincente per il fascismo, anche se le strade per altre soluzioni apparivano ancora aperte. Ognuno voleva giocare le sue carte e chi le ha giocate meglio di fatto risulta essere Mussolini, non senza attraversare momenti non facili. Le opposizioni, come sempre succede in questi casi, erano divise, non solo perché si presentavano in ordine sparso, ma perché anche al loro interno c’erano contrasti sia nel frangente elettorale, sia nella prospettiva di poter formare un governo; di contro si era creato invece il cosiddetto “listone” con altre liste di appoggio laddove si riteneva necessario. A sinistra il Partito comunista continuava a ipotizzare una vera e propria rivoluzione, e ad esso si accodavano i massimalisti dell’area socialista. Puntando poi sul fatto che comunque non sarebbe stato loro possibile vincere, si preoccupavano su come gestire la fase successiva.

Tipico sarebbe stato a quest’ultimo proposito l’atteggiamento di Matteotti. La sua massima preoccupazione era rappresentata dal disorientamento e dal disfacimento del suo partito, dal continuo riemergere nel suo seno di posizioni possibiliste e collaborazioniste. (…) In un primo tempo anche lui non fu contrario all’idea di un’astensione di massa. Poi però l’abbandonò … l’astensione avrebbe finito per essere solo “un mezzo per scappare, per sottrarsi alla realtà”. Meglio dunque la lotta, inacerbendola anche: per vincere occorreva infatti “gente di volontà e non degli scettici”.

(De Felice (I), p. 565-6)

Anche il partito popolare si trovava in alto mare: la sua partecipazione al governo, nella componente di destra, l’aveva visto diviso. Non erano mancate le espulsioni e nello stesso tempo si era pure incrinata la fiducia nei confronti del fondatore, che puntava alla contrapposizione netta con il fascismo. Mussolini, invece, da parte sua, cercava una sorta di plebiscito popolare nei suoi confronti e nei confronti del fascismo: ovviamente non doveva solo vincere e assicurarsi la maggioranza, ma per lui era necessario che questa maggioranza mettesse alle corde gli altri partiti: li voleva “svuotati”, in modo tale che fosse svuotato lo stesso Parlamento. Riuscì per questo a convincere molti della vecchia guardia liberale ad entrare a far parte del “listone”, per dare al suo apparato una impronta di carattere nazionale, come se essi divenissero una specie di fronte nazionale con cui difendere e rafforzare lo Stato unitario. La campagna elettorale si sarebbe dovuta svolgere nella calma e nell’ordine, come risultava dagli auspici del capo del governo.

Ma ovviamente così non fu, anche perché nel gruppo dei fascisti ci furono i soliti facinorosi che cercavano l’occasione propizia per contrastare fisicamente gli avversari e l’impulso veniva loro dai ras locali. Contro qualcuno di essi Mussolini si mostrò duro …

Ma le violenze, personali e collettive, non riguardarono solo i fascisti dissidenti. Un po’ tutti gli oppositori ne furono vittime, in particolare i popolari e i democratici dell’opposizione costituzionale. Quasi tutte le regioni ne furono teatro ed ebbero le loro vittime, centinaia di feriti e non pochi morti. Senza dire dei circoli, delle sezioni, delle sedi di organizzazioni di opposizione, invasi, devastati, distrutti, dei comizi disturbati e sciolti con la forza, degli oratori ai quali fu impedito di parlare. Particolare clamore suscitarono alcuni episodi. Come l’aggressione – nella fase ancora di pre-scioglimento della Camera –, ma chiaramente collegata alla preparazione del futuro schieramento elettorale – di Amendola a Roma, il 26 dicembre 1923. (De Felice (I), p. 583-584)

Il risultato che si ebbe in questo clima piuttosto acceso e turbolento, fu di una partecipazione del 63,8%; rispetto alla tornata elettorale precedente ci fu un aumento del 5,4%. Non un plebiscito, quindi, ma comunque, tenuto conto del clima di intimidazione, fu pur sempre un discreto risultato. Sulla base dei risultati il listone ebbe 374 deputati su 535 e le liste “parallele” ebbero 15 eletti. All’opposizione, frammentata, andò il resto.

Solo i repubblicani e i comunisti migliorarono, sia in assoluto sia in percentuale, le loro posizioni. Il dato è eloquente: repubblicani e comunisti erano stati, nell’ambito dei rispettivi settori politici, i partiti più coerenti nell’opposizione al fascismo e avevano dato l’impressione all’elettorato di non soffrire di divisioni interne … I repubblicani ebbero 7 deputati, i comunisti 19. In crisi, invece – pur affermandosi come il principale partito di opposizione – si dimostrarono irrimediabilmente i popolari, falcidiati dai clerico-moderati e dalla destra a favore del “listone” (dei 108 deputati del 1921 ne tornarono a Montecitorio solo 39), e i massimalisti, che ebbero 22 eletti, mentre il PSU ne ebbe 24, dimostrando ancora una notevole vitalità. (De Felice (I), p. 587)

Indubbiamente queste elezioni sono il “capolavoro” di Mussolini, non solo perché ora lo consacrano come il capo del governo più votato e, secondo questa logica, il più popolare, ma perché a partire da questo risultato si avvia a costruire il suo disegno che non può non essere totalitario: la Camera eletta, secondo lui, non poteva avere altra ragion d’essere se non quella di ratificare le decisioni del governo, e il numero dei deputati era tale che questo obiettivo poteva essere facilmente raggiunto. Di qui ha inizio una decisa, quanto inane, opposizione di coloro che non si adattavano ad un tale sistema. Tra questi spicca la figura di Giacomo Matteotti (1885-1924).

IL DELITTO MATTEOTTI

Evidentemente il clima intimidatorio, nel quale erano avvenute le elezioni, denunciato da Matteotti nel suo intervento alla Camera, aveva favorito il listone e aveva messo in piedi un sistema che lasciava ben poco spazio alla minoranza parlamentare, del resto divisa al suo interno. Matteotti nell’ottobre 1922 era diventato segretario del PSU, una frangia staccata dal Partito Socialista, mentre al suo interno prevaleva la parte massimalista, e riconoscendo che il socialismo era di fatto allo sbando. Tuttavia egli riteneva che si dovesse combattere, mai con la violenza, perché i tempi erano particolarmente duri. Già nel discorso alla Camera di Mussolini del novembre 1922 egli aveva riconosciuto la natura totalitaria del fascismo: lo era già nella piazza ed ora lo diventava anche nel cuore delle istituzioni. Di qui un’opposizione intransigente, che ha lasciato il segno in Mussolini stesso, preoccupato delle conseguenze che potevano derivare dai ragionamenti di Matteotti. Già prima delle elezioni il futuro deputato denunciava il male rappresentato dal fascismo e nel contempo la corresponsabilità del comunismo (per questa sua presa di posizione Matteotti sarà radiato dalla considerazione del partito comunista). Così egli si esprimeva 

Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà; tutto ciò che esso ottiene lo spinge a nuovi arbitri, a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige. Perciò un partito di classe e di netta opposizione non può raccogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta a un fine, la libertà del popolo italiano. D’altro canto bisogna tornare a considerare la posizione del PSI. Purgato dai terzomondialisti (che dopo la scissione di Livorno erano passati con i comunisti) e nettamente discorde da Mosca, ormai non è diviso da noi che da minori divergenze teoriche. Ora per tali divergenze, tutte astratte e proiettate nel più lontano futuro, non è permesso tenere divisa la classe lavoratrice italiana. Il nemico attualmente è uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro. I lavoratori italiani, ammaestrati dalle dure esperienze del dopoguerra, devono riunirsi concordi, contro il fascismo che opprime e contro l’insidiosa discordia comunista. Se non possono muoversi i Partiti ufficialmente, i socialisti dell’uno e dell’altro campo devono porre la questione e risolverla. Senza ritardo. Le cose non avvengono da sé, ma ad opera degli uomini. Il ritardo serve solo a diffondere un più largo scetticismo nelle masse, Le obiezioni sono facili, e le sento; ma bisogna superarle ad ogni costo, per agire rapidamente.

(e aggiunge Gianpaolo Romanato, l’autore della sua biografia)

Ma il rifiuto totale del comunismo da parte di questo riformista coerente e intransigente va valutato più a fondo, anche per capire le origini delle barriere invalicabili che hanno spaccato la sinistra italiana fino alla caduta del muro di Berlino e forse anche oltre quell’evento. (Romanato, p. 246-7)

Forse più ancora che non verso il fascismo Matteotti è stato molto chiaro nei confronti dei comunisti per la deriva totalitaria che era già in atto nel mondo sovietico e che l’avvento di Stalin aveva già fatto aprire gli occhi a qualcuno, come Silone. La tragica scomparsa che venne in seguito al discorso della Camera, dove segnalava i brogli e le violenze, lo ha fatto diventare un martire del fascismo, mentre era evidente in lui la lotta contro ogni forma di totalitarismo. Gramsci lo aveva definito “pellegrino del nulla”, perché voleva una riforma invece che la rivoluzione, e questa, secondo gli schemi della violenza.

In una ricerca sul fascismo, come questa, per scoprirne la sua natura totalitaria fin dalle origini, va segnalato ciò che Matteotti aveva colto del fenomeno, che non doveva registrare solo in Italia e solo sul versante della destra politica. Indubbiamente era neces-saria una riforma radicale dello Stato, se non altro perché la guerra stessa aveva cambiato molte cose nella società civile.

Era la via che aveva sempre cercato di seguire Matteotti, non senza contraddizioni e ambiguità prima del fascismo, in forma più chiara e definita dopo l’inizio del regime mussoliniano, quando aveva compreso l’importanza decisiva e pregiudiziale a tutto del rispetto della legalità, delle libertà costituzionali, delle garanzie politiche. La morte, che affrontò con piena consapevolezza, ne fece una figura diversa, unica, nel panorama del suo partito e del socialismo italiano.

(Romanato, p. 250)

Che cosa si successo nell’episodio storico del delitto Matteotti è ben noto e comunque può essere ricostruito, come un atto di sopraffazione da parte di individui appartenenti al fascismo, i quali, anche senza ordini diretti in tal senso da Mussolini, sono arrivati al rapimento; ad esso seguì, per il pestaggio, anche la morte e di conseguenza l’occultamento del cadavere. Se Mussolini non viene indicato come il mandante esplicito e diretto, comunque diventa, per sua stessa ammissione, il responsabile di azioni violente, come lui stesso afferma alla Camera, quando si sente sicuro di poter dire anche questo. Nelle ore che seguono il rapimento, e prima ancora che se ne scopra il cadavere, Mussolini appare frastornato dalla piega degli eventi e cerca di correre ai ripari …

Mussolini, ovviamente, ha sempre negato ogni responsabilità diretta ed indiretta. Per lui, come avrebbe detto il 13 giugno, solo un suo “nemico” avrebbe potuto pensare a un così diabolico piano per metterlo in difficoltà. (De Felice (I), p. 587)

Per quanto egli cerchi di estraniarsi dal delitto, che tale viene avvertito ancor prima che si trovi il cadavere, Mussolini appare sempre più invischiato, anche se non esistono prove, nelle indagini che vengono fatte. Tutta l’opposizione è compatta nel denunciare il sistema della illegalità, della violenza, delle uccisioni, anche perché ogni partito e molte delle personalità che vi militavano aveva sperimentato lo squadrismo più scatenato. Il coinvolgimento di Mussolini venne dichiarato in un memoriale da Cesare Rossi (1887-1967), che nei giorni successivi al sequestro di Matteotti si era tenuto nascosto e poi si costituì.

Egli scriveva accusando direttamente Mussolini come responsabile, per il fatto che gli avrebbe palesato il desiderio che quell’uomo non dovesse più circolare. Rossi fu prosciolto nella prima istruttoria, e, nella seconda, dopo la guerra, fu assolto per insufficienza di prove. Nel frattempo cadde in disgrazia del fascismo e fu addirittura rinchiuso in carcere. Proprio la rivelazione di quel memoriale (27 dicembre 1924) obbligò Mussolini a prendere posizione, perché si era trovato contro i fascisti oltranzisti e nel contempo l’opposizione aventiniana che insisteva a sostenere ormai morente il fascismo.

L’AVENTINO

All’indomani del sequestro di Matteotti (10 giugno 1924) e per tutto il resto dell’anno, l’opposizione parlamentare scelse di astenersi dal frequentare la Camera, sperando che una simile scelta favorisse la caduta del governo, travolto dallo scandalo. Evidentemente si sperava che il Re intervenisse, approfittando dello stallo dell’attività parlamentare; ma il Re non intervenne, così come il fascismo stesso non rinunciò affatto a lasciare gli spazi di potere acquisito. Gli oppositori, soprattutto sul versante di quelli più moderati, si proponevano di aspettare un collasso del regime, senza la necessità di dover intervenire con prove di forza.

Amendola non era il solo a prevedere una prossima fine del fascismo. Ne era convinto anche Gramsci, che il 15 novembre pubblicava un articolo intitolato La caduta del fascismo. Quello stesso giorno, alla Camera, Giolitti passò all’opposizione, con una breve dichiarazione in difesa della libertà, rivolgendo un appello al presidente del Consiglio: “On. Presidente, per carità di Patria, non tratti il popolo italiano come se fosse un popolo che non merita la libertà che ha sempre avuto nel passato”. Il 22 novembre anche Salandra svolse un ordine del giorno nel quale si chiedeva al governo di “assicurare la pace pubblica mediante la rigorosa osservazione della legge”, e nel suo discorso, pur continuando a manifestare fiducia nel presidente del Consiglio e nel fascismo stesso, deplorò la politica del partito fascista, citando fatti e portando argomenti che erano gli stessi che da quasi due anni esponevano coloro che avevano per primi denunciato il sistema totalitario dello Stato-partito … (Gentile (II), p. 159-160)

I deputati dell’opposizione, il 27 giugno 1924, avevano deciso di abbandonare l’aula per protesta e di trovarsi ad esprimere la propria opposizione, con l’auspicio di avere dalla propria parte il popolo italiano in un sussulto morale, che in realtà non ci fu. E neppure ci fu la reazione del Re a loro sostegno.

Era di fatto una sorta di secessione, che, si richiamava a quella “mitica” della plebe di Roma vissuta sul colle Aventino e che divenne famosa con l’apologo di Menenio Agrippa, intervenuto per convincere a rientrare. Per questo sarà definita “dell’Aventino”. Non ne sortì alcune effetto. Il governo, per quanto sembrasse travolto dallo scandalo derivato dal rapimento e dall’uccisione di Matteotti, si rafforzò, e, in seguito al memoriale di Cesare Rossi, Mussolini decise di intervenire con un discorso, prima che il Re manovrasse per far decadere il governo. L’opposizione aventiniana fu di fatto sterile, anche perché al suo interno era divisa: i deputati comunisti decisero ad un certo punto di rientrare alla Camera, così come nel gennaio 1926 molti erano tornati per la commemorazione della Regina Margherita, da poco defunta. Qualcuno poi manovrava perché si passasse all’azione, che avrebbe dovuto prevedere anche una insurrezio-ne armata. Ma non se ne fece nulla. Di fatto l’Aventino durò fino al no-vembre 1926, quando, dopo l’attentato a Mussolini, con l’introduzione di leggi speciali, i deputati aventiniani furono dichiarati decaduti.

IL DISCORSO DEL 3 GENNAIO 1925

Il clima piuttosto infuocato nell’autunno 1924 portava a credere che la situazione potesse precipitare: molti dell’Aventino si illudevano che il fascismo avesse i giorni contati e nell’ambito stesso dei fascisti c’era pure chi temeva il collasso. Chi stava attorno a Salandra e a Giolitti si preparava ad un ipotetico nuovo governo per uscire da una impasse foriera di scontri di piazza, piuttosto pericolosi. Mussolini dava l’impressione di non saper trovare una onorevole via d’uscita, anche a temere che potesse risultare incriminato, soprattutto dopo la denuncia del memoriale di Cesare Rossi.

Che Mussolini non volesse lasciare il potere è pacifico. Al punto in cui erano arrivate le cose, lasciarlo avrebbe voluto dire esporsi al rischio di un procedimento giudiziario: gli aventiniani non gli avrebbero certo dato tregua e un simile procedimento avrebbe sanzionato, certamente, la sua fine politica e, molto probabilmente, la sua condanna, troppi essendo gli addebiti che gli sarebbero stati mossi per sperare di poter uscire indenne dalla prova. Nulla però autorizza a credere che Mussolini il 30 dicembre pensasse ad un vero e proprio colpo di stato. Del resto, con lo stesso discorso del 3 gennaio egli non avrebbe fatto che un mezzo colpo di stato, incentrato molto più sul piano politico che non su quello giuridico. Se, fino alla mattina del 31 dicembre, Mussolini pensò ad un colpo di stato, pensò al colpo di stato del 20 dicembre; pensò cioè a una grande operazione trasformistica … che gli permettesse di rabberciare la situazione e salvare se stesso, buttandosi nella selva delle manovre e dei compromessi a lui tanto cari e sacrificando in pratica il fascismo intransigente. (De Felice (I), p. 704-705)

L’esplicito riferimento che lo storico fa ad un “colpo di Stato” in corso d’opera, lascia intendere che la situazione era davvero molto seria, per non dire drammatica. Il pericolo di un pronunciamento proveniva dalle file più esasperate del fascismo stesso che avvertiva il venir meno dello spirito rivoluzionario. Del resto esso non era mai esploso, perché nessuna azione era stata fatta per accaparrarsi dello Stato e per farlo divenire “fascista”, cioè uno Stato-Partito. Così Mussolini si vede costretto ad anticipare coloro che già si muovevano in maniera minacciosa e che potevano travolgere anche e soprattutto la sua persona.

Nella notte dal 30 al 31 anche nel capoluogo toscano come in altre località … si era sparsa la voce che nella riunione del Consiglio dei ministri fossero state decise le dimissioni del governo. Ciò aveva provocato la reazione degli intransigenti, che avevano stampato un manifesto in cui si affermava che il governo fascista era pronto ad applicare tutte le misure necessarie a tutelare gli interessi del paese e avevano mobilitato i fascisti del contado … “La adunata – avrebbe riferito in un suo rapporto l’ispettore generale di PS Valenti qualche giorno dopo – era impressionante, a tinta prettamente rivoluzionaria, ed i fascisti fiorentini, non dilaniati come in altre regioni, da lotte interne, mostravano di essere in piena efficienza, agguerriti, più forti di quanto non fossero alla vigilia della marcia su Roma e pronti a qualsiasi evento”.

(De Felice (I), p. 715)

In questo clima surriscaldato e con il timore che intervenisse pure il Re, Mussolini decide di fare il “suo colpo di Stato”, con il discorso alla Camera, mediante il quale egli chiarisce i suoi intendimenti, se ancora ci fosse stato bisogno di esplicitare la sua concezione di Stato. Si tenga conto che l’opposizione non è presente e tuttavia egli parla con forza contro di essa, ma nel contempo sta pure dicendo che non la farà mancare all’interno dello stesso partito, perché il governo è forte!

Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre. Un discorso di siffatto genere può condurre e può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: «La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia.» Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo, e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire. Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo. Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle 150.000 alle 160.000 persone, se-condo attestano le statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutte le classi borghesi e sui membri singoli della borghesia, una Ceka che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione. Ma la Ceka italiana non è mai esistita. Nessuno mi ha mai negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto corag-gio ed un sovrano disprezzo del vile denaro.

(Qui, per provare che non è affatto l’organizzatore di una struttura come quella in uso in Russia, dove si eliminano fisicamente gli avversari, ricorda i suoi interventi dopo il rapimento di Matteotti)

Ricordo e ho ancora ai miei occhî la visione di questa parte della Camera, ove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita ed avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta.

Come potevo, dopo un successo — lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie — dopo un successo così clamoroso che tutta la Camera ha ammesso, comprese le oppo-sizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario (Matteotti) che io stimavo perché aveva una certa «crânerie», un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? Che cosa dovevo fare? Sono cervellini di grillo quelli che pretendevano da me in quell’occasione gesti di cinismo che io non sentivo di fare, perché ripugnano al più profondo della mia coscienza, oppure dei gesti di forza.

(Ricorda in effetti interventi di forza, come quello in occasione della crisi di Corfù, per dire che, certo, in alcune occasioni, la forza è necessaria, ma …)

Fu alla fine di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: Voglio che ci sia la pace per il popolo italiano, e volevo stabilire la normalità della vita politica. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale e nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali. C’era veramente un accesso di necrofilia. Si facevano inquisizioni anche su quello che succedeva sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva lo stesso! Io sono stato sempre tranquillo e calmo in mezzo a questa bufera che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. C’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno volle vendicare l’ucciso (Matteotti) e sparò su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca (fa riferimento al deputato Armando Casalini che fu ucciso in tram a Roma).Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione o di normalità. Reprimo gli illegalismi. Non è menzogna quando dico che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti.

(Qui Mussolini rivendica di avere sempre lasciato fare all’inchiesta, di volere leggi discusse in parlamento mentre dall’Aventino si inveisce con accuse infamanti e con il richiamo alla questione morale)

Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa!

Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi. In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandano: c’è un Governo? Questi uomini hanno una dignità come uomini? Ne hanno una anche come Governo? Sono stato io che ho voluto che le cose giungessero a questo determinato punto estremo. È ricca la mia esperienza di vita di questi sei mesi. Io ho saggiato il Partito. Come per sentire la tempra di certi metalli bisogna batterli con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini. Ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento quando il vento è infido, scantonano per la tangente. Ho saggiato me stesso. E guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della Nazione. Un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere. Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, ed il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: basta! La misura è colma! Ed era colma perché? Perché la sedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano. Questa sedizione dell’Aventino ha avuto delle conseguenze perché in Italia oggi chi è fascista rischia ancora la vita! Nei soli mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, dei quali uno ha avuto la testa schiacciata fino ad essere ridotta un’ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio settantatreenne, è stato ucciso e gettato da un muraglione. Poi tre incendî si son avuti in un mese, tre incendî misteriosi nelle Ferrovie: uno a Roma, l’altro a Parma ed un terzo a Firenze. Quindi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento perché è necessario documentare attraverso i giornali di ieri e di oggi. (E qui Mussolini elenca una serie di episodi di violenza contro i fascisti) Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Ed allora viene il momento in cui si dice: basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora … Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario.

Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria.

Dopo una breve sospensione della seduta, la Camera approva la proposta di Mussolini di un rinvio e di una riconvocazione a domicilio. Era l’atto di nascita della dittatura, l’affossamento insieme delle velleità della “rivoluzione fascista” e delle forze politiche di opposizione. Suckert (Curzio Malaparte), dopo aver criticato le misure di polizia subito impartite da Federzoni , si chiese se il discorso del 3 gennaio fosse stato “un atto sincero di fede rivoluzionaria, o non piuttosto una mossa dell’abilissima tattica mussoliniana, una maschera rivoluzionaria gettata, per ingannare gli amici e gli avversari, sul viso della normalizzazione”. Sul fronte opposto toccò a “Rinascita liberale”, la rivista di Adolfo Tino e Armando Zanetti, cogliere in quella data la “Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare e l’esplicito inizio di una fase di reazione”. La stessa facilità con cui Mussolini avrebbe provveduto alla sostituzione, subito dopo il 3 gennaio, dei dimissionari Oviglio con Rocco alla Giustizia, Casati con Fedele all’Istruzione e Serrocchi con Giuriati ai Lavori pubblici, avrebbe dimostrato come lo stesso ruolo della monarchia andasse illanguidendosi e come il 3 gennaio avesse segnato un momento di rottura, se non ancora sul piano costituzionale, certo per la gestione del governo del Paese da parte del fascismo. (De Felice (II), p. 38)

È IL POTERE DI UN UOMO SOLO

Ovviamente non basta una data e neppure un discorso, per quanto inequivocabile, a decidere che qui si sia passato il “famoso Rubicone”, per dare origine ad una dittatura, così come al tempo di Cesare quel gesto fu ritenuto un atto “sacrilego” e contro il fragile equilibrio “costituzionale” della Roma antica. Mussolini non diventa dittatore solo per le parole dette alla Camera in quella circostanza. Ma indubbiamente a partire da qui ogni forma di opposizione fu messa a tacere, sia nei parlamentari, sia nei giornali, sia in tutte quelle forme di aggregazione che solitamente si reggono sul libero dibattito. Si addivenne al silenzio con una serie di provvedimenti legislativi, che divennero particolarmente stringenti all’indomani del fallito attentato del 31 ottobre 1926. Va riconosciuto che comunque le basi di un simile sistema dittatoriale sono gettate con questo discorso che Mussolini tenne ad una Camera che era già sua, se sugli scranni mancavano gli oppositori. La durezza del suo linguaggio che certamente aveva come obiettivo i transfughi dell’Aventino, andava comunque a colpire anche il fascismo intransigente, che lui avvertiva come un pericolo e che sembrava propenso ad una specie di colpo di Stato nel quale travolgere il governo presieduto dallo stesso Mussolini.

Così colui che poi vorrà farsi chiamare “Duce” si impadronisce dello Stato, il suo obiettivo finale, essendosi impadronito del partito, il suo mezzo, necessario per raggiungere il fine prefissato. Nello stesso tempo va pure chiarito che in realtà lo Stato che Mussolini vuol occupare è il Governo del Paese, tenuto conto che in relazione a questa sua finalità politica, da una parte deve rispettare la monarchia, la quale viene comunque usata per ottenere quanto era nei piani di Mussolini. Una lettura più attenta di quel che è successo mostra all’evidenza che non ci fu un vero e proprio totalitarismo, se effettivamente c’è da spartire lo Stato con il Re; ma costui era comunque stato ridotto al grimaldello per raggiungere ciò che più conta. A questo punto nasce per Mussolini l’esigenza di costruire uno Stato che sia davve-ro secondo la sua impostazione e la sua visione e proprio per questo dovrà creare strutture adeguate perché lo Stato sia ridotto a divenire il suo partito, allo stesso modo con cui il partito era servito a dare la scalata allo Stato. Sulla base di una simile visione va ritenuto che il solo obiettivo di governare da solo, e di farlo con la forza bruta, dice chiaramente la pochezza del sistema, perché manca di una visione politica, di un’alta scuola di democrazia e più ancora di sistemi istituzionali adeguati a reggere …

nella scuola politica fascista, la sola idea fondamentale era l’antidemocrazia “in mezzo alla congerie di luoghi comuni e di filosofemi che forma il bagaglio dottrinario di essa”; ma neppure l’idea dell’antidemocrazia aveva un fondamento teorico, anche se era diffusa fra le giovani generazioni, e si sarebbe esaurita per propria inconsistenza, in quanto contraria al progresso della civiltà moderna che era democratica, se “non si fosse instaurata una dittatura, la cui origine di dominio è solo nella forza materiale”, anche se gli intellettuali della dittatura ora fornivano al partito che aveva conquistato il governo improvvisate dottrine per conservarlo”. “Il guaio è – soggiunge con evidente rammarico Ingrosso (Gustavo Ingrosso è un giurista napoletano, sindaco e presidente della Corte dei Conti e insegnante universitario, anti-fascista) – che queste dottrine politiche esso non afferma e proclama con gli scritti e con la parola solamente. Ahimè! Esso le attua, anzi le costruisce teo-ricamente, dopo averle attuate, o meglio, perché le ha attuate. Ed è qui il vero pericolo della nuova scuola politica”.

(Gentile (II), p. 179-180)

I rilievi che lo storico Gentile apporta a proposito della rivendicazione che Mussolini fa di voler creare uno Stato totalitario, inteso soprattutto come Stato forte vengono prodotti dalla contestazione che il giurista Gustavo Ingrosso (1877-1968) aveva già avanzato in quel medesimo periodo per segnalare quanto fosse inconsistente il quadro culturale di riferimento da cui si pensava di derivare la costruzione dello Stato fascista. È una contestazione di carattere culturale ed è tale da rendere evidente il particolare vuoto che stava dietro l’azione di Mussolini e la costruzione del suo appa-rato. Il giudizio appare netto e particolarmente impietoso.

Appena conquistato il governo, ben presto “lo Stato fascista si è rivelato essere non lo Stato forte che gli incauti fiancheggiatori del fascismo avevano sognato, ma niente altro che Stato-Partito”. Ingrosso attribuisce il cambiamento non ad accidenti casuali e improvvisate decisioni, ma alla “logica conseguenziale” che si poteva riscontrare nell’operato del partito fascista, nonostante “un groviglio di contraddizioni” nei discorsi di Mussolini e i continui “contrasti, ricorsi e mobilità di propositi e incostanza di decisioni” nella sua azione di governo, perché erano “contraddizioni esteriori e formali”, dipendenti da “esigenze di tattica”, mentre “la linea fondamentale della sua politica è ferma, costante, ed è sempre drizzata come una lama ad un fine: la conquista prima, la conservazione dopo del Governo, per sé e per il partito”.

(Gentile (II), p. 180-181)

Nella medesima direzione critica si muove anche De Felice, proprio a partire da questo momento nel quale noi dovremmo parlare di deriva autoritaria, di trasformazione dittatoriale del potere. E questo avveniva, ben diversamente da ciò che succede altrove negli stessi anni: se in URSS e nella Germania divenuta nazista è il partito a prevalere, qui da noi, invece, è un uomo solo ad occupare il Governo, mentre l’Italia continua, almeno formalmente, ad essere una monarchia, come se questo aspetto non avesse alcun peso per il dittatore, il quale si appoggiava lì per avere garantito il suo potere. Proprio quando viene gettata la maschera di questo “pasticcio”, si può dire che Mussolini può cercare di costruire il suo sistema di Stato; ma ormai, anche questo gli è impossibile, non solo perché c’è la guerra, già perduta, ma anche perché è più che mai prigioniero di colui che egli si illude sia il suo alleato. Insomma, qui nasce una dittatura anomala, che non ha solo prodotto i guai di un sistema violento, ma ha condotto alla guerra e più ancora a quel genere di vuoto e di inconsistenza, che non dà neppur la possibilità di riprodursi …

Nel suo cammino verso lì’instaurazione di un regime totalitario e autoritario di massa il fascismo avrebbe in effetti cercato di troncare tutti i ponti con il passato, si trattasse delle opposizioni “classiche”, degli stanchi residui dello Stato liberale o di quelle stesse forze politiche, economiche e sociali che ne avevano più o meno direttamente favorito il successo. In questa corsa all’affermazione del totalitarismo e al conseguimento di un monopolio del potere, il fascismo agì indubbiamente con mano pesante nei confronti di qualsiasi tipo di opposizione politica organizzata; ciò che comunque differenziò quel processo da quello già in atto in Unione Sovietica e da quello che si sarebbe verificato nella Germania nazionalsocialista fu il ruolo assegnato in esso al partito. Se infatti, sia in Unione Sovietica che nella Germania nazista, lo Stato sarebbe stato subordinato e quindi fagocitato dal partito, nell’Italia fascista si sviluppò un processo inverso: al centro del regime era lo Stato, con il partito confinato per certi versi in una posizione secondaria, pronto, se necessario, a essere del tutto sacrificato se le superiori esigenze della costruzione e della salvezza dello Stato lo avessero richiesto.

(De Felice (II), p. 39-40)

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La particolare lettura che già in quei frangenti, un secolo fa, si dava dell’esperienza dittatoriale mussoliniana – più che fascista – può servire a leggere meglio questa vicenda, uscendo anche dalle secche di contrapposizioni ideologiche che si trascinano. Il caso, tutto italiano, di Mussolini e della sua conquista e gestione del potere, anche a vedere attorno la struttura e la retorica di una organizzazione di partito, è in realtà una occupazione del governo, e una gestione di esso, da parte di Mussolini, e permessa del resto dal capo dello Stato, con cui il duce convive, fin quando la convivenza diventa possibile. Ciò che Mussolini costruisce poi nella Repubblica sociale dovrebbe essere la vera impostazione del fascismo, anche se la guerra in corso non consentiva l’elaborazione di uno Stato, come lui l’avrebbe desiderato. Così questa particolare dittatura è dovuta ad un uomo, che aveva questo obiettivo fisso da raggiungere nel suo avventuroso modo di concepire e di attuare i suoi progetti di vita. Evidentemente aveva bisogno di costruirsi un apparato, che però fu soltanto un mezzo di cui servirsi per raggiungere i suoi scopi. Nel concreto della situazione, tutta italiana, egli dovette tener conto della presenza del Re, che tuttavia fu relegato ad una figura di contorno rispetto alla centralità che, nella visione di Mussolini, doveva avere il governo, identificato con la sua persona, con il Duce. Colui che in quegli anni si considerava il suo discepolo, e cioè Hitler, ha seguito la medesima impostazione, senza avere comunque la necessità di condividere il governo con una personalità superiore.

Egli non istituì una “Republik”, alternativa a quella di Weimar, bensì un “Reich”, senza la necessità di costituirvi un “Kaiser”, visto che lui ne era divenuto il “Führer”. Anche ad avere subordinato un “Partei”, Hitler, come aveva fatto Mussolini, non riteneva che di lì venisse il suo potere (non per nulla scatenò la “notte dei lunghi coltelli”, per sbaragliare le SA, che avrebbe voluto alle sue dipendenze e che comunque potevano diventare imbarazzanti e antagoniste nel gestire il potere assoluto). Con questa impostazione dittatoriale questi due fenomeni non potevano avere eredità, se tutto era concentrato nella loro persona: caduti loro, tutto sarebbe crollato e quel che si pensa di voler costruire allo stesso modo, come se ne fosse la continuità, è di fatto ben altro. È diverso invece il caso della dittatura del proletariato, dove pure esistono personalità ingombranti, come quella di Stalin o di Mao: qui il partito continua con il suo apparato, anche quando vengono a mancare i capi, che pure si servono del partito per la gestione assoluta del potere. Si deve quindi arguire che il sistema dittatoriale di destra è costruito sulla personalità dominante del capo e che comunque costui ha come suo obiettivo il “governo”, esercitato e mantenuto con la violenza.

BIBLIOGRAFIA

1.Renzo De Felice (I)

MUSSOLINI IL FASCISTA

La conquista del potere (1921-1925)

Einaudi, (1966, 1995, 2019)

2.

Renzo De Felice (II)

BREVE STORIA DEL FASCISMO

Mondadori (2000, 2016, 2020)

3.

Emilio Gentile (II)

TOTALITARISMO 100

Ritorno alla storia

Salerno, 2023

4.

Gianpaolo Romanato

UN ITALIANO DIVERSO

Giacomo Matteotti

Longanesi, 2011

20

La marcia su Roma : 28 ottobre 1922

Mussolini riceve l’incarico dal re

IL FASCISMO AL GOVERNO:

FU VERA RIVOLUZIONE?

PRODROMI DI UNA DITTATURA

NEL DISCORSO ALLA CAMERA

NELLA LEGGE ELETTORALE

 

INTRODUZIONE:

MUSSOLINI, NON IL PNF, AL POTERE

La “marcia su Roma” si concluse con un compromesso fra Mussolini e le forze politiche dello Stato liberale. Episodio in sé modesto, anche come “colpo di stato”, essa non è considerata dagli storici una svolta di grande importanza nella storia dell’Italia contemporanea e dello stesso fascismo: il vecchio ordine non era stato distrutto e il nuovo governo presentato da Mussolini senza speciale ardore rivoluzionario, era simile al risultato di una tradizionale operazione trasformista di collaborazioni temporanee. (…) Piuttosto che una marcia su Roma i fascisti la consideravano simbolicamente una marcia contro Roma … (Gentile (I), p.323)

Fu un vero e proprio colpo di mano? quello che oggi si potrebbe definire un “golpe”? Il potere non venne raggiunto con una prova di forza, come poteva sembrare dalle parole roboanti, dette alla vigilia, e dall’ammassamento di uomini in armi, ma non inquadrati nell’esercito, e incitati a muoversi sulla capitale per una dimostrazione di piazza. Questa però non ci fu. E non ci fu da parte del futuro duce un atto “teatrale” per raggiungere l’obiettivo di assumere le responsabilità di governo. Gli venne, certo, affidato l’incarico di formarlo su esplicita richiesta da parte del Capo dello Stato, il quale non mancò di indicare alcune figure che dovevano entrare nella compagine governativa. Tutto ciò avveniva secondo le consuetudini costituzionali. Perciò non si può parlare di “nascita della dittatura”, in questa circostanza, anche se poi si fisserà questa data come l’inizio di un sistema che è certamente stato “dittatoriale”. Più che fermare l’attenzione sull’episodio in sé, che non ha nulla di clamoroso e neppure di drammatico, si potrebbe dire che ci fu l’avvicendamento da un governo all’altro, tenuto conto che il ministero Facta era già di fatto dimissionario e che la continua ricerca di uomini, disponibili ad assumere l’incarico, era rimasta infruttuosa, anche per i veti incrociati, e soprattutto perché si riteneva che si dovesse cercare un outsider, uno letteralmente fuori del sistema, in grado di evitare gli scontri e di impedirli, vista l’impasse pericolosa che aveva sullo sfondo pulsioni di natura rivoluzionaria. Ma qui la rivoluzione non si prospettava affatto da parte del fascismo, che veniva ritenuto certamente pericoloso e nel contempo si riteneva di poter assorbire, diversamente da quello che stava succedendo sul fronte della sinistra, dove i massimalismi potevano risultare debordanti e di fatto contenibili solo dai mezzi e dai metodi fascisti. 

Da parte del sistema istituzionale, monarchia e Parlamento, non ci si immaginava affatto che Mussolini fosse la soluzione inevitabile per impedire un paventato clima rivoluzionario, mediante il quale ci si figurava qualcosa di analogo a quanto era successo in Russia e a quanto continuava a succedere con quella forma di instabilità che era la guerra civile. Di fatto i fascisti erano avvertiti come mestatori e alla base dei disordini; ma essi potevano essere assorbiti al sistema nella misura in cui potevano essere responsabilizzati dentro il sistema parlamentare. Mussolini, presentandosi in Parlamento avrebbe dovuto smorzare i toni battaglieri e contenere quanti avevano adottato la violenza come sistematica forma di imposizione della propria visione della politica. Se il Re e le forze parlamentari, legati al sistema costituzionale, non temevano la deriva dittatoriale dei fascisti, non si rendevano conto di ciò che effettivamente era quel movimento, ben prima che si presentasse come un partito dentro il sistema dei partiti. Il fascismo, in realtà, si era presentato come altro rispetto ai partiti tradizionali, e perciò in contrapposizione, vanificando la speranza che, assunto il potere, esso potesse rimanere assorbito dal sistema. Questo, in realtà, era morente! Mancava una considerazione più attenta del fenomeno fascista, che alimentato con le violenze, non poteva così facilmente assorbirle o addirittura eliminarle. Nel quadro di quei giorni ciascuno rivelava di voler raggiungere il proprio obiettivo immaginando di riuscire ad assorbire chi si riteneva un ostacolo, senza che in realtà lo fosse veramente. Ciascuno, dunque, giocava le proprie carte, cercando di barare; ma chi risultava il baro “migliore” nel suo gioco era proprio Mussolini: egli metteva in campo quanto poteva servire per avere e per detenere, con il governo, il potere nel Paese. Alle debolezze dei vecchi apparati, incapaci di vedere le vere questioni sull’orizzonte, e più che mai convinti di poter assorbire una fenomeno, evidentemente non capito, si contrapponeva un movimento, che, pur con la convinzione di poter assumere le redini del governo, non era ancora in grado di esprimere lucidità nei suoi obiettivi e persino nei mezzi da usare per raggiungere questi risultati. In questo quadro, dove ciascuno dei protagonisti cerca di farsi avanti dicendo di operare in nome e in favore del popolo, quest’ultimo appariva più che mai stanco dei disordini, reso insicuro dalle violenze incontrollate, incapace di avvertire i reali pericoli che stava correndo una democrazia fragile, come si presentava allora l’Italia. Ovviamente non erano diffusi gli organi di stampa per condizionare o comunque guidare un’opinione pubblica frastornata e per nulla consapevole della posta in gioco. In effetti l’opinione pubblica non c’è ancora e non è debitamente formata per contenere i pericoli sull’orizzonte. Leggi tutto “La marcia su Roma : 28 ottobre 1922”

MARCIA SU ROMA

Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con i quadrumviri:

da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi.

Il militante in primo piano a sinistra copre la figura di Michele Bianchi.

La foto fu scattata il 30 ottobre

quando Mussolini arrivò a Roma, convocato da Vittorio Emanuele III.

GLI EVENTI

E IL GIUDIZIO STORICO:

UN FATTO EVERSIVO

E COSTITUZIONALE

1

INTERPRETAZIONE DEL FATTO

Questo evento (la marcia su Roma) e questa data (il 28 ottobre 1922) sono ormai entrati nei libri di storia come l’avvio del regime fascista in Italia. Contribuì a questa lettura già lo stesso regime, che nella nuova datazione, obbligatoria sui documenti ufficiali, si faceva partire tutto da lì e naturalmente tendeva a presentare i fatti successi con un alone mitico e, per certi versi, addirittura epico, quasi fosse stato concepito e realizzato un evento grandioso e glorioso, come se fosse stata combattuta una battaglia degna di essere enfatizzata, e di lì derivasse qualcosa di decisivo che segnava una sorta di spartiacque. Il fascismo già esisteva e la sua nascita è da far risalire al 1919, quando a Milano vengono fondati i Fasci di combattimento. Invece il regime, inteso come sistema totalitario, non è propriamente realizzato qui, se il governo presieduto da Mussolini è ancora di coalizione e i partiti hanno pur sempre voce in Parlamento. L’azione, considerata di forza e messa in campo con manipoli di milizie non inquadrate nell’esercito, si rivela di fatto una manifestazione, che poteva diventare eversiva e che in realtà non ha prodotto alcunché. Piuttosto il fatto mediante il quale si può dire che prende avvio la dittatura fascista è il famoso discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Tuttavia già nell’insediamento del suo primo governo le parole usate da Mussolini non lasciano dubbi circa la maniera con cui egli vuole prendere e tenere il potere e di fatto dall’incarico ricevuto nell’ottobre 1922 egli diventa Capo del governo, che poi presiedette fino al Gran Consiglio del 25 luglio 1943. I giudizi storici, che furono – e sono ancora – emessi sugli inizi della dittatura, sono di fatto legati a questo episodio, che fu ingigantito dal regime stesso e che invece deve essere meglio riletto, anche per capire la natura di certi eventi. Il partito, che qui pretende di avere la gestione del governo, nonostante l’esigua rappresentanza in Parlamento, sulla base dei risultati elettorali, proprio per questa sua determinazione, e per i fatti che accompagnano la sua richiesta di avere e di esercitare direttamente il potere, con il ricorso alla violenza, esprime parole e azioni che devono essere considerate di natura eversiva. Lo dimostra mettendo in campo uomini armati che convergono su Roma; nello stesso tempo si deve riconoscere che sia i dirigenti di partito, sia gli affiliati che vengono messi in campo esprimono la volontà di andare contro la legalità. E tuttavia non viene prodotto nulla di anticostituzionale, se di fatto è il re a chiamare Mussolini al governo. Insomma, la lettura da fare circa quanto è successo in quei momenti, non può essere lasciata alla retorica usata dal regime, quando lo diventa; e neppure va considerata a partire dalla retorica opposta che maschera la reale incapacità dei partiti di opposizione di comprendere i fenomeni in corso e di porvi gli argini necessari. Una lettura più attenta di ciò che è successo in quel giorno deve servire a comprendere eventi analoghi, mai identici, che possono generarsi e dare origine a fenomeni sicuramente aberranti. Se davvero questa “marcia”, poi ostentata con la figura possente del capo del fascismo che sta avanti alle sue “truppe di occupazione” – ma questo non avvenne affatto – è da considerarsi l’episodio emblematico della nascita di una dittatura, come il regime voleva e come i partiti d’opposizione hanno pure pensato, allora noi dovremmo vedervi una occupazione di stampo militare che non ci fu.

FU UN COLPO DI STATO? Leggi tutto “MARCIA SU ROMA”

Fermo e Lucia: pagine a confronto.

LA REVISIONE DEL ROMANZO

La lettura che oggi si fa del “Fermo e Lucia” ha come scopo la verifica del profondo cambiamento che interviene nella stesura del romanzo, la quale risulta definitiva nell’edizione del 1840-42, quella poi divenuta ben nota al largo pubblico, che però non conosce e non legge la prima redazione. C’è indubbiamente un notevole cambiamento, anche se l’impianto della vicenda rimane immutato: gli stessi personaggi cambiano (alcuni persino nel nome, come lo stesso protagonista, Renzo); l’impostazione del percorso appare alla fine più organico, come se l’argomento stesso venisse maggiormente padroneggiato e meglio costruito; più ancora, il lessico e il linguaggio vengono talmente ripuliti da fluire con maggior scioltezza, e ne trae giovamento il racconto; anche il ridimensionamento di storie collaterali contribuisce a rendere più organico il racconto stesso. Il lavoro che ne deriva richiede parecchi anni, e soprattutto uno sforzo non indifferente in diverse direzioni, anche sotto la spinta di amici, che gli suggeriscono quel genere di limatura, che per lui diventerà revisione totale e, per certi versi, anche radicale.

Una volta finita la prima stesura del romanzo, o, come aveva scritto a Fauriel, il “noioso guazzabuglio”, il “grosso fascio di carte”, prima di mettersi a rielaborare il tutto aveva ascoltato e meditato i suggerimenti degli amici. Fauriel arrivò a Milano nel novembre del ’23, progettando un soggiorno fino all’aprile seguente. I suoi consigli furono preziosi, e la ripresa del lavoro ebbe luogo in gran parte dopo la sua partenza. Da allora in poi, tutto seguì con straordinaria sollecitudine. Il 30 giugno, infatti, lo stampatore, che anche questa volta era il Ferrario, inviava al R. I. Ufficio di Censura “il primo tomo del Romanzo storico del Signore Alessandro Manzoni intitolato Gli Sposi Promessi”. È chiaro, visto le date, che in tre o quattro mesi Manzoni aveva dovuto rifare i dieci capitoli di cui era composto il primo tomo. La tecnica era questa: sul margine di sinistra del foglio riscriveva quanto era stato scritto nella colonna di destra che recava la prima minuta (cioè il Fermo e Lucia). Come sempre succede, le correzioni meno importanti erano rimandate al lavoro sulle bozze. Prevedeva di avere pronto tutto il romanzo per la tipografia prima della fine d’ottobre del ’23; anche se, per esperienza, non si faceva troppe illusioni. Nel render conto nell’agosto a Fauriel, ancora a Parigi, di quanto era riuscito fino allora a fare, “in coscienza” Manzoni osservava: “I materiali sono ricchi: tutto ciò che può far fare agli uomini una triste figura c’è in abbondanza, la sicurezza nell’ignoranza, la presunzione nella stupidità, la sfrontatezza nella corruzione, sono ahimè i caratteri più salienti di quell’epoca, fra molti altri dello stesso genere. Leggi tutto “Fermo e Lucia: pagine a confronto.”

Pasqua 2023: Il Signore è risorto!

CRISTO SIGNORE E’ RISORTO!

Non sta rinchiuso nelle viscere della terra. Vuole raggiungere i suoi.

Si fa vedere ai suoi. Si fa incontrare. Entra nel cuore di ciascuno …

Io l’ho visto! Io l’ho incontrato! Io lo porto con me!

Non è cambiato il quadro del mondo, sempre segnato dal male …

Ma a chi si fa vedere e a chi arriva a vederlo, a incontrarlo, cambia il cuore.

E tu l’hai visto? Tu lo hai incontrato sui tuoi passi? E ti senti cambiato?

Non fa cose prodigiose per convincere. È lui già un prodigio!

La sua “passione” è affascinante, perché lui ci mette e ci rimette …

Qualcuno l’ha davvero visto in giro? E l’ha visto con la passione nel cuore?

Allora ce ne sono altri come lui a portare attorno la passione.

Allora questa sua passione sta diventando il nuovo vivere per tutti.

Veramente è stato visto! Veramente chi l’ha visto si sente più vivo che mai

CRISTO RISORTO E’ ANCORA TRA NOI!

Se ne accorge chi non si lascia sgomentare dal tanto male diffuso …

Lo fa vedere chi invece di lamentarsi si rimbocca le maniche per il bene …

Lo porta con sé chi, credendoci davvero, si fa credibile agli altri …

Lo vive chi non si lascia umiliare e risponde sempre con la passione …

Lo può dire chi ce l’ha dentro e lo sa comunicare come la vera gioia …

Lo testimonia chi, anche a passare dal dolore, ha la speranza di uscirne …

RISORGIAMO ANCHE NOI CON LUI!

HA VINTO E VINCE ANCORA LA MORTE

Questa icona bizantina è la celebrazione della risurrezione con la discesa di Gesù agli Inferi: lì, dopo aver scardinato le porte, che ha sotto i suoi piedi, e che nella voragine aperta rivelano il mondo sotterraneo nel buio più completo, dentro il quale tutti i suoi elementi (chiavi, chiodi, bulloni e cardini …) sono gettati via, il Risorto fa uscire dalle loro tombe i progenitori, Adamo ed Eva, afferrati per i polsi ed elevati a sé con la sua grande energia. Egli è il Risorto immerso nella mandorla divina, simbolo di fertilità e di rinascita, come è l’uovo di Pasqua, e rivestito di un abito luminoso e splendente. Attorno i santi patriarchi e profeti lo indicano come colui nel quale si compiono le promesse divine. Così il mondo può rinascere, come ben si vede nella montagna che sta dietro e che sembra spaccarsi per far uscire il nuovo seme di vita, colui che è davvero, come Vincitore della morte, il Dio della Vita.

IL RISORTO CI PRECEDE

(Omelia di Pasqua di don Primo Mazzolari)

Chi ci rimuoverà la pietra dall’ingresso del sepolcro?” (Marco 16,3). Così di-cevano Maria Maddalena, la madre di Giacomo, e Salome, mentre la mattina del primo giorno della settimana, molto per tempo, andavano al sepolcro per imbalsamare Gesù. Quando si oscurano in noi le grandi certezze della fe-de e della speranza, i nostri problemi divengono meschini, e banali le nostre preoccupazioni. Guardiamoci intorno, o meglio consultiamo noi stessi. Il vecchio mondo s’inabissa, il nuovo faticosamente emerge da un mare di do-lori e di sangue: e noi quasi non ci facciamo caso … Nessuno e niente fer-merà il crollo: nessuno e niente arresterà la novità che cammina con passo sicuro. È come la Pasqua; è la Pasqua: poiché ogni cosa che muore, come o-gni cosa che incomincia a vivere nella morte, è un aspetto della Pasqua. Nes-suno e niente può fermare la Pasqua: non la paura coagulata dei piccoli uo-mini, non le coalizioni dei più divergenti interessi e dei più contrastanti sen-timenti, non le guardie più o meno prezzolate poste a custodia dei sepolcri della storia. Credo ai terremoti che scuotono le profondità della storia, e agli angeli, che li guidano e che siedono sereni sulle pietre rovesciate dei sepol-cri per gli annunci che fanno paura soltanto agli uomini senza fede. A nessu-na delle tre donne che camminano verso il sepolcro canta in cuore l’Alleluia della grande speranza. L’Alleluia è nato spontaneamente dall’infinita bontà del Signore, che, invece di guardare alla nostra mancata attesa, pone il suo sguardo pietoso sul nostro bisogno di vita. La Pasqua si ripete. Quanti cre-dono veramente al Risorto? Quanti, fra gli stessi che in questi giorni affol-lano le chiese, sentono negli attuali avvenimenti il ritorno del Cristo, come sentiamo nell’aria e nei campi il ritorno della primavera? Chi di noi vuole la Pasqua, come un impegno, preso nell’Eucaristia, per la giustizia, la pace e la carità di Cristo nel mondo? Come le donne ci mettiamo in cammino all’alba verso le chiese. Non sappiamo sottrarci a certi misteriosi richiami e abbiamo gli aromi per imbalsamare Gesù … Il nostro sacramento pasquale è ancora u-na volta un atto di pietà, come se il Signore avesse bisogno di piccole pietà: i morti vogliono la pietà, il vivente vuole l’audacia. “Non vi spaventate. Gesù è risorto, non è qui. questo è il luogo dove era stato deposto”. Le civiltà, le culture, la tradizione, le grandezze, perfino le nostre basiliche, possono essere divenute il luogo ove gli uomini di un’epoca l’avevano posto. Il comanda-mento è un altro: “Andate, dite ai discepoli e a Pietro che egli vi precede”. Do-ve? Dappertutto in Galilea e in Samaria, a Gerusalemme e a Roma, nel cena-colo e sulla strada di Emmaus … “Egli vi precede”. Questa è la conseguenza della Pasqua. Se, alzandoci dalla tavola eucaristica, avremo l’animo disposto a tenergli dietro ove egli ci precede, lo vedremo, come egli disse.

IL RISORTO CI ACCOMPAGNA

Signore Risorto, togli anche noi dalle catene della mortalità, che appesantiscono il nostro vivere imprigionato dal male, a tiraci a te, riconoscendo che la tua passione è vita vera.Signore Gesù, apri questo mondo ad accogliere il seme di vita, perché sia più accogliente con chi nasce e con chi si sta formando, più benevolo con chi soffre e vuol vivere meglio, più incoraggiante con chi è debole e sfiduciato.

Tu che trionfi sulle oscurità infernali che ci vogliono mortificare, dona la tua pace di Risorto, perché possiamo portare la vera pace, dona il tuo perdono, perché diventiamo più misericordiosi, dona il tuo amore, perché ora diventi il nostro, quello che dona sempre.

Tu che sei l’eterno Vivente, il comunicatore di Vita, quella vera, raggiungi ciascuno di noi con la viva passione del cuore, riaccendi la speranza, anche a trovarci dentro tanti segni di morte, risveglia quella fede che ci fa sentire la tua persona accanto a noi: con te, solo con te, possiamo rinnovarci e rinnovare questo mondo!

La Pasqua di Cristo nel mondo religioso e culturale russo

MORS ET VITA DUELLO

CONFLIXERE MIRANDO

Sul “fronte russo” continuano a udirsi rumori di guerra, e di lì ci vengono im-magini impressionanti di rovine, lasciate sul territorio ucraino, anche se i morti e i feriti sono da entrambe le parti, in un conflitto dal forte sapore di scontro tra popoli “fratelli”, che hanno avuto una lunga storia in comune. È inevitabile inoltre che siano coinvolte anche le diverse confessioni religiose, le quali si rifanno al comune mondo cristiano: qui i credenti nel Signore, morto in croce e poi risorto, celebrano i medesimi misteri pasquali, pur con forme liturgiche diverse. E tuttavia essi non sanno superare le divisioni e ricercare l’intesa che deve impedire inutili distruzioni, ma più ancora i troppi morti, e più ancora sopire i risentimenti che si fatica a contenere e a impedire. Davanti ad un quadro desolante e sempre più imbarbarito da tanta violenza “gratuita” e selvaggia, non c’è molto spazio per discorsi di natura religiosa, per letture e visioni che parlino di rinascita, di risurrezione. Anzi, a volte anche simili auguri appaiono fuori luogo, intrisi di un sapore molto amaro. Come si fa a di-re che Cristo è risorto, in un quadro di devastazione, che pur si assicura di vo-ler ricostruire come prima? Non sarà più come prima! Non può essere come prima! Come si fa a ripetere l’augurio di pace del Cristo risorto? Raccontando l’evento della risurrezione e più ancora il suo farsi vedere ai discepoli il mattino di Pasqua nel cenacolo, dove entra a porte chiuse ed augura loro la pace, la sua pace, noi osiamo credere che tutto questo si rinnova anche oggi. Ma dove lui appare? Dove lui viene visto? Dove lui irrompe come allora con il suo augurio di pace? Se nel nostro non lontano oriente, invece di veder sorgere un nuovo sole di speranza, vediamo sempre più infittirsi le nubi tenebrose della disperazione, mentre noi vorremmo altre nubi cariche di pioggia, come facciamo a sperare? Ancora sentiamo a noi lontana questa guerra, come se non ne fossimo coinvolti. Ed invece il rischio di sentirci trascinati nel baratro è non molto dissimile da ciò che per le guerre precedenti si avvertiva, pur nella spensieratezza di chi non ci pensa mai, di chi si convince che non potrà mai succedere. Eppure è già successo. E può succedere ancora. Già a partire dalle esperienze passate di conflitti nel cuore dell’Europa ci siamo chiesti come siano stati possibili, laddove una civiltà secolare si era formata sull’umanesimo più che su altre considerazioni. Eppure anche allora si era scatenata l’assurdità del male, poi letta come “banalità”, nonostante la presenza di tanti pensatori animati dallo spirito umanistico. Leggi tutto “La Pasqua di Cristo nel mondo religioso e culturale russo”

PERSONAGGI A CONFRONTO: IL CONTE DEL SAGRATO LA MONACA DI MONZA

PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

L’idea del romanzo derivò dunque da un cronista e da un economista, fonti del tutto degne di un tenace illuminista. E fu in quelle pagine ch’egli scoprì una grida sui matrimoni impediti. Questo matrimonio contrastato sarebbe stato per lui un buon soggetto per un romanzo, che avrebbe avuto come finale grandioso la peste “che aggiusta ogni cosa”. Così prima di pensare agli avvenimenti e ai personaggi, egli intendeva fissare con sicurezza le condizioni economiche, civili e politiche di un popolo, nella prima metà del XVII secolo. Sino al 1821 Manzoni non parlava che di liriche e di tragedie. Al ritorno da un viaggio a Parigi, pensa sì all’Adelchi, ma l’idea del romanzo si fa più insistente. Non può togliersi dalla testa la lettura di quelle grida, le figure di quei bravi. Nell’aprile del 1821 si mette a scrivere e informa quasi periodicamente il Fauriel dei progressi del suo lavoro. E furono due anni percorsi da una strana forma di allegria, quale non aveva mai provato. Furono insomma gli anni più felici della sua vita. E confesserà al suo amico e parente, il Giorgini (suo genero, avendo sposato la figlia di Manzoni, Vittoria), che alzarsi ogni mattino con le immagini vive del giorno innanzi alla mente, scendere nello studio, tirar fuori dal cassetto dello scrittoio qualcuno di quei soliti personaggi, disporli davanti a sé come tanti burattini, osservarne le mosse, ascoltarne i discorsi, poi mettere in carta e rileggere, era un godimento così vivo come quello di una curiosità soddisfatta. Sembra quasi sentire Pirandello dinanzi ai suoi personaggi, giulivo, anche se la materia che trattava fosse nera e dolorosa. (Macchia, p. 50-52) Leggi tutto “PERSONAGGI A CONFRONTO: IL CONTE DEL SAGRATO LA MONACA DI MONZA”