MARCIA SU ROMA

Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con i quadrumviri:

da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi.

Il militante in primo piano a sinistra copre la figura di Michele Bianchi.

La foto fu scattata il 30 ottobre

quando Mussolini arrivò a Roma, convocato da Vittorio Emanuele III.

GLI EVENTI

E IL GIUDIZIO STORICO:

UN FATTO EVERSIVO

E COSTITUZIONALE

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INTERPRETAZIONE DEL FATTO

Questo evento (la marcia su Roma) e questa data (il 28 ottobre 1922) sono ormai entrati nei libri di storia come l’avvio del regime fascista in Italia. Contribuì a questa lettura già lo stesso regime, che nella nuova datazione, obbligatoria sui documenti ufficiali, si faceva partire tutto da lì e naturalmente tendeva a presentare i fatti successi con un alone mitico e, per certi versi, addirittura epico, quasi fosse stato concepito e realizzato un evento grandioso e glorioso, come se fosse stata combattuta una battaglia degna di essere enfatizzata, e di lì derivasse qualcosa di decisivo che segnava una sorta di spartiacque. Il fascismo già esisteva e la sua nascita è da far risalire al 1919, quando a Milano vengono fondati i Fasci di combattimento. Invece il regime, inteso come sistema totalitario, non è propriamente realizzato qui, se il governo presieduto da Mussolini è ancora di coalizione e i partiti hanno pur sempre voce in Parlamento. L’azione, considerata di forza e messa in campo con manipoli di milizie non inquadrate nell’esercito, si rivela di fatto una manifestazione, che poteva diventare eversiva e che in realtà non ha prodotto alcunché. Piuttosto il fatto mediante il quale si può dire che prende avvio la dittatura fascista è il famoso discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Tuttavia già nell’insediamento del suo primo governo le parole usate da Mussolini non lasciano dubbi circa la maniera con cui egli vuole prendere e tenere il potere e di fatto dall’incarico ricevuto nell’ottobre 1922 egli diventa Capo del governo, che poi presiedette fino al Gran Consiglio del 25 luglio 1943. I giudizi storici, che furono – e sono ancora – emessi sugli inizi della dittatura, sono di fatto legati a questo episodio, che fu ingigantito dal regime stesso e che invece deve essere meglio riletto, anche per capire la natura di certi eventi. Il partito, che qui pretende di avere la gestione del governo, nonostante l’esigua rappresentanza in Parlamento, sulla base dei risultati elettorali, proprio per questa sua determinazione, e per i fatti che accompagnano la sua richiesta di avere e di esercitare direttamente il potere, con il ricorso alla violenza, esprime parole e azioni che devono essere considerate di natura eversiva. Lo dimostra mettendo in campo uomini armati che convergono su Roma; nello stesso tempo si deve riconoscere che sia i dirigenti di partito, sia gli affiliati che vengono messi in campo esprimono la volontà di andare contro la legalità. E tuttavia non viene prodotto nulla di anticostituzionale, se di fatto è il re a chiamare Mussolini al governo. Insomma, la lettura da fare circa quanto è successo in quei momenti, non può essere lasciata alla retorica usata dal regime, quando lo diventa; e neppure va considerata a partire dalla retorica opposta che maschera la reale incapacità dei partiti di opposizione di comprendere i fenomeni in corso e di porvi gli argini necessari. Una lettura più attenta di ciò che è successo in quel giorno deve servire a comprendere eventi analoghi, mai identici, che possono generarsi e dare origine a fenomeni sicuramente aberranti. Se davvero questa “marcia”, poi ostentata con la figura possente del capo del fascismo che sta avanti alle sue “truppe di occupazione” – ma questo non avvenne affatto – è da considerarsi l’episodio emblematico della nascita di una dittatura, come il regime voleva e come i partiti d’opposizione hanno pure pensato, allora noi dovremmo vedervi una occupazione di stampo militare che non ci fu.

FU UN COLPO DI STATO? Leggi tutto “MARCIA SU ROMA”

Fermo e Lucia: pagine a confronto.

LA REVISIONE DEL ROMANZO

La lettura che oggi si fa del “Fermo e Lucia” ha come scopo la verifica del profondo cambiamento che interviene nella stesura del romanzo, la quale risulta definitiva nell’edizione del 1840-42, quella poi divenuta ben nota al largo pubblico, che però non conosce e non legge la prima redazione. C’è indubbiamente un notevole cambiamento, anche se l’impianto della vicenda rimane immutato: gli stessi personaggi cambiano (alcuni persino nel nome, come lo stesso protagonista, Renzo); l’impostazione del percorso appare alla fine più organico, come se l’argomento stesso venisse maggiormente padroneggiato e meglio costruito; più ancora, il lessico e il linguaggio vengono talmente ripuliti da fluire con maggior scioltezza, e ne trae giovamento il racconto; anche il ridimensionamento di storie collaterali contribuisce a rendere più organico il racconto stesso. Il lavoro che ne deriva richiede parecchi anni, e soprattutto uno sforzo non indifferente in diverse direzioni, anche sotto la spinta di amici, che gli suggeriscono quel genere di limatura, che per lui diventerà revisione totale e, per certi versi, anche radicale.

Una volta finita la prima stesura del romanzo, o, come aveva scritto a Fauriel, il “noioso guazzabuglio”, il “grosso fascio di carte”, prima di mettersi a rielaborare il tutto aveva ascoltato e meditato i suggerimenti degli amici. Fauriel arrivò a Milano nel novembre del ’23, progettando un soggiorno fino all’aprile seguente. I suoi consigli furono preziosi, e la ripresa del lavoro ebbe luogo in gran parte dopo la sua partenza. Da allora in poi, tutto seguì con straordinaria sollecitudine. Il 30 giugno, infatti, lo stampatore, che anche questa volta era il Ferrario, inviava al R. I. Ufficio di Censura “il primo tomo del Romanzo storico del Signore Alessandro Manzoni intitolato Gli Sposi Promessi”. È chiaro, visto le date, che in tre o quattro mesi Manzoni aveva dovuto rifare i dieci capitoli di cui era composto il primo tomo. La tecnica era questa: sul margine di sinistra del foglio riscriveva quanto era stato scritto nella colonna di destra che recava la prima minuta (cioè il Fermo e Lucia). Come sempre succede, le correzioni meno importanti erano rimandate al lavoro sulle bozze. Prevedeva di avere pronto tutto il romanzo per la tipografia prima della fine d’ottobre del ’23; anche se, per esperienza, non si faceva troppe illusioni. Nel render conto nell’agosto a Fauriel, ancora a Parigi, di quanto era riuscito fino allora a fare, “in coscienza” Manzoni osservava: “I materiali sono ricchi: tutto ciò che può far fare agli uomini una triste figura c’è in abbondanza, la sicurezza nell’ignoranza, la presunzione nella stupidità, la sfrontatezza nella corruzione, sono ahimè i caratteri più salienti di quell’epoca, fra molti altri dello stesso genere. Leggi tutto “Fermo e Lucia: pagine a confronto.”

PERSONAGGI A CONFRONTO: IL CONTE DEL SAGRATO LA MONACA DI MONZA

PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

L’idea del romanzo derivò dunque da un cronista e da un economista, fonti del tutto degne di un tenace illuminista. E fu in quelle pagine ch’egli scoprì una grida sui matrimoni impediti. Questo matrimonio contrastato sarebbe stato per lui un buon soggetto per un romanzo, che avrebbe avuto come finale grandioso la peste “che aggiusta ogni cosa”. Così prima di pensare agli avvenimenti e ai personaggi, egli intendeva fissare con sicurezza le condizioni economiche, civili e politiche di un popolo, nella prima metà del XVII secolo. Sino al 1821 Manzoni non parlava che di liriche e di tragedie. Al ritorno da un viaggio a Parigi, pensa sì all’Adelchi, ma l’idea del romanzo si fa più insistente. Non può togliersi dalla testa la lettura di quelle grida, le figure di quei bravi. Nell’aprile del 1821 si mette a scrivere e informa quasi periodicamente il Fauriel dei progressi del suo lavoro. E furono due anni percorsi da una strana forma di allegria, quale non aveva mai provato. Furono insomma gli anni più felici della sua vita. E confesserà al suo amico e parente, il Giorgini (suo genero, avendo sposato la figlia di Manzoni, Vittoria), che alzarsi ogni mattino con le immagini vive del giorno innanzi alla mente, scendere nello studio, tirar fuori dal cassetto dello scrittoio qualcuno di quei soliti personaggi, disporli davanti a sé come tanti burattini, osservarne le mosse, ascoltarne i discorsi, poi mettere in carta e rileggere, era un godimento così vivo come quello di una curiosità soddisfatta. Sembra quasi sentire Pirandello dinanzi ai suoi personaggi, giulivo, anche se la materia che trattava fosse nera e dolorosa. (Macchia, p. 50-52) Leggi tutto “PERSONAGGI A CONFRONTO: IL CONTE DEL SAGRATO LA MONACA DI MONZA”

Nel bicentenario di Fermo e Lucia.

INTRODUZIONE: UNA NUOVA FASE

In un tempo relativamente breve, quello tra il 1821 e i 1823, Manzoni arriva a comporre la storia che poi diventerà famosa nell’edizione del romanzo di vent’anni dopo. Qui elabora la vicenda dei due giovani, con il corollario di altre vicende personali, che potrebbero essere storie a sé stanti, anche se poi vi metterà mano per una revisione sostanziale che riguarda i contenuti, ma soprattutto la forma espressiva. Comunque il canovaccio, che troviamo poi nelle edizioni successive, anche con i tagli doverosi, emerge fin dalla prima stesura ed è il frutto di una ricerca che lo interesserà per molto tempo. Qualcuno ipotizza che si tratti di due storie diverse. Ma così non è, anche se la conduzione della trama presenta differenze e gli stessi personaggi sono proposti con nomi e caratteri diversi. La lettura, a cui ci ha abituati la scuola, è quella condotta sulla edizione definitiva. Qui è utile conoscere il lavoro non indifferente che ha portato al capolavoro, tenendo conto che simile operazione non è solo un lavoro di rifinitura, ma è soprattutto la ricerca di un modo di scrivere che ha prodotto qualcosa che è ben di più di un romanzo, di un libro, di un’opera letteraria: qui è stato avviato un percorso che ha contribuito a costruire la cultura popolare di un Paese, ancora tutto da realizzare.

Non esiste forse romanzo la cui nascita resti più misteriosa. Noi non sappiamo, e forse non sapremo mai, attraverso quali tentativi il Manzoni si sia deciso ad affrontare il romanzo, anzi il romanzo popolare. Quali prove in campo narrativo lo resero sicuro di possedere quanto fosse necessario per lavorare in maniera ampia e decisiva su un genere con cui non si era mai cimentato, e per dar vita a personaggi, all’immagine della sua città, della sua terra e descrivere paesaggi sereni, e delitti e crudeltà atroci? Quale forza, quale determinazione lo spinsero insomma a cacciarsi in un’impresa che fu la sua gloria e il suo tormento … (Macchia, p. 49) Leggi tutto “Nel bicentenario di Fermo e Lucia.”

Pietro il Grande.

LA RUSSIA ENTRA NEL MONDO EUROPEO

Il regno di Pietro il Grande coincise con la più grande trasformazione vissuta dalla Russia fino alla Rivoluzione del 1917. A differenza della Rivoluzione sovietica, tuttavia, la trasformazione imposta alla Russia da Pietro ebbe uno scarso impatto sull’ordinamento sociale, poiché il servaggio rimase e i nobili mantennero tutte le loro prerogative. Ciò che Pietro cambiò fu la struttura e la forma dello Stato, trasformando il tradizionale regno zarista in una variante della monarchia europea. Pietro impose al tempo stesso profondi mutamenti alla cultura russa, con un lascito che persiste tutt’oggi accanto alla sua nuova capitale San Pietroburgo. (Bushkovitch, p.93)

In questa breve presentazione del capitolo dedicato alla figura e all’opera di Pietro il Grande, si coglie il grande ruolo che ha avuto questo personaggio nella storia della Russia, diventando pure egli una sorta di mito. Anche ad avere molte informazioni ed anche a riconoscerle veritiere, il personaggio si staglia nella storia russa come una figura unica e gigantesca per il ruolo che ha giocato. Molto è dovuto a lui circa l’apertura nei confronti dell’Europa, dalla quale ha cercato di ricavare il meglio per un ammodernamento delle strutture statali della Russia. Pietro il Grande ha sempre cercato di inserire la Russia tra le potenze europee, non solo per competere con i vicini, che sotto il profilo territoriale non potevano vantare il medesimo spazio vitale della Russia, ma potevano comunque ostacolarne il passaggio per competere con le grandi potenze centrali, come la Prussia, l’Austria, o, ancora più in là, la Francia e l’Inghilterra. Se evidentemente voleva competere con esse, la Russia avrebbe dovuto attrezzarsi di strumenti che risultavano in quel tempo, come assolutamente indispensabili alla costruzione di un Paese dalle pretese imperialiste. Una struttura appesantita dalla zavorra di tipo feudale, come era il sistema dei boiari, non avrebbe mai consentito la costruzione di un Paese più moderno, che sarebbe potuto diventare con la crescita della classe borghese, quella che cerca di allargare il campo del mercato e insieme anche un tipo di produttività che permetta il commercio fuori dei confini nazionali. Lo zar si rende conto che una simile struttura è possibile solo con la libera imprenditoria, quella che va alla ricerca di nuovi spazi, di nuovi mercati, di nuove attività, costruite grazie all’ingegno, alla concorrenza e ai capitali finanziari.  Leggi tutto “Pietro il Grande.”

La Russia verso l’Europa.

LA RUSSIA E IL MONDO CIRCOSTANTE

Nel corso della sua storia la Russia si presenta “tirata” ad oriente e ad occidente, perché il suo immenso territorio la spinge o da una parte o dall’altra in base alle convenienze del momento e soprattutto alle scelte politiche che vengono operate da chi la guida. Ovviamente le motivazioni sono da ricercarsi soprattutto nell’ambito economico, perché le sue risorse e le sue esigenze la spingono nell’una o nell’altra direzione in cerca di materie prime, ma anche di manufatti da vendere, soprattutto, o da acquistare. A dominare la scena in questo, sono ovviamente coloro che detengono gli interessi di natura economica, che tuttavia sono pur sempre una parte minima della popolazione: i ceti sociali più numerosi sono di fatto in prevalenza i lavoratori della terra, e sopra di loro ci sono i grandi latifondisti in possesso di estensioni notevoli di terreni da coltivare. La classe che noi definiamo “borghese”, quella cioè che troviamo nei “borghi”, nelle città, a capo di attività manifatturiere, è minoritaria, anche perché le città che si sviluppano sul criterio prevalente nel resto dell’Europa, e cioè sul ricorso al denaro, appaiono veramente poche e in prevalenza sono quelle che stanno maggiormente vicino ai Paesi dell’Europa occidentale. In particolare sono in contatto con le città baltiche, le sole dotate di un certo spirito imprenditoriale, ma comunque dislocate su un mare interno, dove si affollano altri competitori. L’espansione, poi, di natura territoriale, come succede nel medesimo periodo anche per altri Paesi europei, esige che ci sia pure l’esercito ben organizzato e tenuto efficiente anche con armamenti adeguati. Se per i Paesi europei occidentali la conquista di nuove terre richiede una buona rete di colonizzatori, che aprano nuove strade, ma soprattutto che siano in grado di sfruttare al massimo le regioni acquisite, altrettanto si deve dire per la Russia in espansione ad est. Ovviamente l’espansione richiede anche il supporto dell’esercito, che, anche a non essere composto di un numero cospicuo di soldati, deve comunque risultare dotato di mezzi che permettano di imporsi su una popolazione non ancora in grado di opporre strumenti adeguati. Lo Stato europeo in genere interviene garantendo la difesa, ma anche controllando con le “Compagnie” tutti gli affari economici che si possono aprire e incrementare. Il medesimo fenomeno si ha in Russia. Anche qui le imprese di tipo coloniale appartengono a buoni imprenditori che hanno investimenti da fare; essi però dicono di farlo in nome dello Stato a cui appartengono. Leggi tutto “La Russia verso l’Europa.”

LO ZARISMO

Lo zarismo è un fenomeno tipico del mondo russo, sia perché questo termine è stato coniato lì, sia perché la sola nazione che l’abbia espresso è appunto la Russia; e questo non solo nel periodo monarchico. Abbiamo visto che il termine emerge al tramonto dell’Impero di Bisanzio, quando, per un matrimonio calcolato, con l’intervento del Papa di allora, Paolo II, il granduca di Mosca, come allora si chiamava il principe della città, mai riconosciuto re, viene definito così, e lui stesso si considera l’erede di un Impero ormai decaduto e sepolto. Non viene ancora celebrato un rito solenne di unzione e di incoronazione ma già il riconoscimento esiste, anche se viene ignorato nel resto d’Europa. Non siamo ancora formalmente all’affermazione di un Impero, anche se, sostenendo di voler continuare il titolo usato a Bisanzio, almeno in Russia un tale potere viene stabilito. Se in precedenza chi aveva un’autorità sulle città e il territorio circostante, lo aveva a partire dall’esercizio delle armi e all’affermazione di sé in campo militare, ora, anche perché era scomparso l’imperatore bizantino da cui si ricavava ogni titolo regale o dignità principesca, questo potere appariva assunto per virtù propria, senza che qualcuno se ne facesse carico di trasferirlo. Così lo zarismo si afferma come un potere autocratico, cioè un’autorità che il titolare affermava di avere da sé, dalle sue stesse virtù, senza riceverlo da qualcuno e, soprattutto, senza doverlo condividere con qualcuno. Di fatto, a Mosca, attorno alla figura dello zar, si forma una aristocrazia terriera, che cerca in ogni modo di condizionare e di limitare il potere assoluto degli zar. È inevitabile che si scateni una lunga e sanguinosa lotta, soprattutto quando lo zar è debole, perché ancora giovane, perché incapace, perché senza risorse adeguate in termini finanziari, militari, strategici. Ovviamente è necessario mettere in campo un esercito ben strutturato e soprattutto fedele, e con questo strumento l’autocrazia è perfetta. Per assicurarsi poi il favore popolare è necessario avere una gerarchia ecclesiastica asservita: essa, anche con la cerimonia religiosa dell’incoronazione garantisce la benedizione divina e dunque una derivazione del potere da Dio stesso. Questo impianto appare ben strutturato con Ivan IV, e, a partire da lui, viene ereditato da chi se ne avvale per dare un ruolo imperiale alla Russia stessa. Questo succede anche oltre la fase monarchica: la stessa rivoluzione bolscevica, attuata da Lenin, togliendo di mezzo l’alone sacrale, si avvale comunque dell’appoggio essenziale dell’esercito, perché il potere è acquisito e gestito con esso.

Non di meno succede anche oltre questo fase: pur in un regime che noi consideriamo “repubblicano”, si fa strada un potere che di fatto risulta autocratico, pur se raggiunto con l’esercizio elettorale. Anche chi comanda oggi, per quanto dica di avere il favore popolare grazie alle elezioni, è riconosciuto con un potere che viene esercitato in modo autocratico, come un novello zar. E così viene definito, anche a non portarne ufficialmente il titolo. Leggi tutto “LO ZARISMO”

La Russia di Mosca: LA TERZA ROMA

CORONA DI MONOMACO SIMBOLO DELL’AUTOCRAZIA RUSSA

Una leggenda narra che tale corona ( che questa piattaforma non consente di riportare qui)sia stata regalata dall’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco al nipote Vladimir, fondatore della città di Vladimir e antenato di Ivan III, il primo ad essere zar.

La leggenda serve come fondamento per costruire la teoria politica di “MOSCA – TERZA ROMA”.

Questa corona, detta di Monomaco, viene così definita per la prima volta in un documento del 1518, durante il regno di Vasilij III.

GLI INIZI DI MOSCA

La città che noi oggi riconosciamo come capitale della Russia e che nel corso della storia è sempre stata considerata come strettamente legata alla Russia stessa, molto più della successiva Pietroburgo, è divenuta un centro aggregatore per i Russi solo a Medioevo inoltrato, quando le altre città all’intorno si sono avviate ad un lento ma inesorabile tramonto. Dobbiamo ritenere che gli stessi Russi non avevano la percezione di essere un popolo con la vocazione nazionale e imperiale, come si è costruita successivamente. Solo dopo il 1000, solo con la scelta del Cristianesimo le diverse tribù che abitano il bassopiano sarmatico, cercano anche di avviare quel senso di appartenenza, che finora le vedeva legate alle figure emergenti, soprattutto nell’ambito militare. Più che un popolo unito, qui c’erano popolazioni diverse, che si aggregavano nei centri abitati, dando origine ad una città con in mezzo un’altura o una fortificazione, chiamata “cremlino”. Lì aveva spazio colui che di fatto deteneva il potere, espresso soprattutto con le armi. Alcune città avevano dominanti i proprietari terrieri, o, nel caso di una ben avviata attività mercantile, si trovava a guidarle una sorta di corporazioni di mestieri, che di fatto dettavano la conduzione della politica locale. Fra tutte le città, quella che ha avuto una storia gloriosa ed orgogliosa, è Novgorod, fiera di ritenersi e di essere effettivamente “libera”: lì non poteva esserci nessun potere di natura monarchica, cioè un autocrate destinato a governare senza alcun controllo. E tuttavia anche qui, a volte, si avverte la necessità di avere un principe in grado di condurre le truppe contro i nemici: per questa città libera essi sono di fatto gli Svedesi e i Teutoni, i quali impedivano il libero accesso ai traffici sul Baltico. Di qui lo scontro, affidato ad Aleksandr Nevskij. Con lui entrambi i nemici sono bloccati, anche se poi l’eroe liberatore non potrà diventare il leader dei Russi, il capo riconosciuto con poteri monarchici. Anzi, da nessuna parte, in nessuna città, possiamo riscontrare qualcuno che porti questo titolo e che abbia un simile potere. Sulle città russe domina sempre un principe, a volte un duca o un granduca, qualcuno insomma che gestisce il potere grazie alla sua milizia e che ha il proprio riconoscimento con un titolo di stampo feudale, perché un altro potere superiore lo riconosce. In quest’area geografica la ricerca di un riconosci-mento viene fatta a partire da Bisanzio; ma ormai dopo la IV crociata (1202) anche quest’alta autorità ha perso il suo prestigio e soprattutto la sua forza.  Leggi tutto “La Russia di Mosca: LA TERZA ROMA”

La figura mitica di Aleksandr Nevskij

Il primo grande eroe della storia russa, colui nel quale i Russi stessi si identificano, soprattutto nei momenti più difficili della loro storia, è senz’altro Aleksandr Nevskij, che appare circondato da un alone “mitico”. È pur sempre un personaggio storico, le cui vicende sono note a partire dalle cronache coeve; ma nel corso dei secoli si tende a proporlo come un eroe nazionale, un cavaliere “senza macchia”, un lottatore gigantesco, un uomo senza pari, capace di raccogliere attorno a sé i Russi nella difesa della patria. Così, dalla storia egli trapassa al “mito”, e come tale sarà sempre proposto in diversi momenti della lunga storia russa; anche quando figure simili, proprie di un epoca autocrate o monarchica, dovrebbero essere demitizzate o addirittura cancellate, egli affiora, perché anche nell’epoca dell’ideologia bolscevica prevale la necessità di ricorrere all’appartenenza del mondo russo. In questo modo non è facile ricostruire nel modo più oggettivo possibile chi sia stato davvero quest’uomo, che a noi arriva sempre con una fisionomia che lo vuole santo, eroe epico, condottiero vittorioso.

Il personaggio di Alessandro Nevski sembra aver conosciuto, ancora in vita, un’apoteosi epica e morale e un’idealizzazione che il tempo doveva rafforzare e la cui linea di sviluppo è nettamente rintracciabile nelle successive Vite che gli sono state dedicate. (Durand- Cheynet, p. 9) Leggi tutto “La figura mitica di Aleksandr Nevskij”

Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.

Don Gesualdo … ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. … Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo.

(Mastro – don Gesualdo, parte III, cap. II, p. 198)

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SEMPRE PIU’ NEL MONDO DEI VINTI

Verga si era prefisso di completare il ciclo dei “vinti”, analizzando una serie di personaggi che, pur nei diversi gradini della scala sociale, sono destinati ad essere trascinati via dalla storia, nella sua inesorabile corsa. Ma anche ad aver chiaro il piano redazionale, Verga non riuscì a portare a termine il suo intento. E questo non tanto perché gliene mancasse il tempo, quanto piuttosto perché, se si era esaurita la sua vena narrativa in questa direzione, non aveva neppure senso che si proseguisse in questa visione che voleva essere realistica, ed era divenuta pessimista ad oltranza. Per comprendere meglio il suo disegno incompiuto, dovremmo pensare al clima culturale nel quale lo scrittore si trova immerso durante gli anni ’80 del secolo, quando egli è ormai nel pieno della sua maturità u-mana e letteraria. All’inizio di quel decennio compare il suo capolavoro sulla famiglia di pescatori, animata, nei suoi protagonisti, dal desiderio di affrancarsi da una vita di stenti, non tanto per raggiungere posizioni im-probabili e impossibili, quanto piuttosto per procedere in un vivere più umano, sia nella direzione della salvaguardia dei valori della famiglia, come vorrebbe Padron ‘Ntoni, sia nel cercare altrove nel mondo quel ri-scatto che il paese di origine non garantisce affatto, come è nei sogni di ‘Ntoni, il nipote. È così tratteggiata una famiglia e insieme è delineato il percorso generazionale, che tuttavia non assicura affatto la redenzione, il riscatto sociale, quello auspicato e fatto balenare nel periodo epico e glorioso del Risorgimento, in cui uno dei componenti della famiglia, il giovane Luca, viene sacrificato nella battaglia di Lissa, che lo inghiotte. In base a quanto Verga dice sul ciclo dei vinti, qui dovremmo essere alla base della scala sociale, quella fatta di proletari, secondo lo schema di tipo marxista predicato in quei tempi, ma non condiviso dallo scrittore, che non proveniva da quelle fila. L’analisi offerta nel romanzo non segue i criteri che la filosofia e la dottrina politica, già dibattuta in quegli anni, metteva in circuito. E neppure si deve pensare che la chiave interpretativa del romanzo sia quella di natura sociologica e in particolare regionalista, quasi a volere una sorta di riscatto sociale e politico delle terre del Sud, rimaste deluse dopo l’epopea garibaldina. Da acuto lettore del suo mondo, era inevitabile che Verga parlasse della sua terra e offrisse nei suoi “eroi vinti” l’immagine del titanismo di riscatto, reso impossibile dalla mancanza di quella Provvidenza, che invece aveva arriso agli eroi del romanzo manzoniano, espressione vertice della letteratura romantica, ormai superata. Proprio la “Provvidenza”, la barca da cui ci si riprometteva il riscatto, finiva sugli scogli e con essa il sogno di rivincita, di risurrezione. La classe degli “umili”, come li considerava Manzoni, tutti fiduciosi nella divina Provvidenza che comunque “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”, non appariva ancora nella nuova Italia come la classe che potesse divenire protagonista della propria storia, capace di riscatto. E tuttavia essa costituiva indubbiamente, almeno sotto il profilo numerico, la forza su cui puntare per costruire una nuova “storia”; ma occorreva che ne venisse una coscienza più matura. Finora viene a mancare quella che poi emergerà come coscienza di classe. E non si poteva affatto pensare che Verga puntasse su questo nella sua analisi del mondo rurale o contadino, il mondo cioè di coloro che solo potevano immaginare, secondo schemi consolidati, di tentare un vivere diverso, che tuttavia non li avrebbe mai portati a cambiare la propria “natura”. Cercare la scalata sociale, quella che può far pensare di uscire da una atavica povertà per raggiungere una posi-zione impensabile e impossibile, risultava essa pure ardua e destinata al fallimento, a ricacciare il “nuovo” eroe tra i vinti. È quanto succede al “nuovo” eroe, che di fatto è anche l’ultimo. Lui pure, come già la famiglia Malavoglia, è destinato al fallimento, e il suo è per tanti versi davvero molto rovinoso. E tuttavia anche in questo suo lavoro Verga ha qualcosa da dire non solo sull’Italia della fine Ottocento, ma, proprio perché non si limita a registrare il suo tempo, a fare dell’analisi di carattere sociologico o ideologico, egli può offrire una lettura “umanistica” che travalica la contingenza e si spinge a considerare il personaggio “tipo”, come un per-sonaggio “metastorico”, per quanto sia di fatto inquadrato in un periodo ben preciso della storia siciliana e italiana. Leggi tutto “Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.”