San Giustino: le due apologie e il dialogo con Trifone.

PREMESSA:

IL CRISTIANESIMO E IL PREGIUDIZIO

La religione cristiana si è presentata come una derivazione dal mondo ebraico: fin dalle sue origini, i promotori della sua diffusione, i discepoli mandati “fino agli estremi confini della terra” da Cristo dipendono strettamente dalla sinagoga, che frequentano tutti i sabati per le letture, mentre, passato il sabato, la sera stessa di quel giorno, si trovano nelle case per “la cena”, che diventerà progressivamente la loro riunione caratteristica. Fino al 70, anno della distruzione di Gerusalemme, i cristiani, pur nella diffidenza e nell’ostilità dei farisei e dei sacerdoti del tempio, cercano sempre il contatto con la sinagoga, come vediamo fare da Paolo nei suoi viaggi. E nei primi discorsi che troviamo riassunti da Luca negli Atti degli Apostoli, appare con chiarezza che il Dio di Cristo è sempre quello dei Padri d’Israele, e che dunque deve essere rivendicato questo legame con la storia ebraica. Anche tra la gente comune si riflette questa impostazione: quando a Roma, nel 49, avvengono tumulti a causa delle contestazioni ebraiche nei confronti dei cristiani, dovute a motivo di un certo Cristo, che, per quanto scrive Svetonio (“impulsore Chresto”), sembrava essere il fomentatore delle risse, Claudio volendo la pace e la tranquillità, decide di mandar via tutti, Ebrei e Cristiani. E così accontenta la popolazione che voleva la quiete pubblica. Ma di fatto il decreto di espulsione non va a buon fine, se molti rimangono ed altri confluiscono a Roma, dove, secondo Tacito, arriva di tutto, comprese le superstizioni più vergognose. Lo storico dice questo, mentre sta raccontando che Nerone si defila dalla responsabilità dell’incendio, che lui ha appiccato ad alcuni quartieri della città, accusando i cristiani di questo. Nell’esposizione si deve notare che lo storico ha raccolto alcune informazioni sul Cristo, pur riconoscendo questa fede come una pericolosa superstizione.

Nerone si inventò dei colpevoli e colpì con pene di estrema crudeltà coloro che, odiati per il loro comportamento contro la morale, il popolo chiamava Cristiani. Colui al quale si doveva questo nome, Cristo, nato sotto l’impero di Tiberio, attraverso il procuratore Ponzio Pilato era stato messo a morte; e quella pericolosa superstizione, repressa sul momento, tornava di nuovo a manifestarsi, non solo in Giudea, luogo d’origine di quella sciagura, ma anche a Roma, dove confluisce e si celebra tutto ciò che d’atroce e vergognoso giunge da ogni parte del mondo.

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Perciò si può ben comprendere che, se pochi anni dopo si scatena la repressione degli Ebrei e la distruzione di Gerusalemme, per la loro opposizione in armi al dominio romano, i cristiani devono far di tutto per tenersi alla larga da quel mondo e per creare una immagine di sé che non li associ al mondo ebraico, per quanto esso non possa essere del tutto cancellato. Di fatto i cristiani si trovano a vivere in un mondo che non sembra dimostrare accoglienza, rispetto, considerazione, approvazione. Eppure gli adepti aumentano, anche se dalle fonti sembra che si tratti di gente che sta ai margini della società e che confluisce nel Cristianesimo, sentendo parlare di liberazione dalla schiavitù e di un Regno futuro da vivere nella giustizia e nella fraternità. Così la diffidenza aumenta, come se si avvertisse proveniente da lì una sorta di rivoluzione sociale la quale potrebbe sovvertire il sistema e quindi anche l’equilibrio di potere. Fa specie che anche gli imperatori, definiti “adottivi”, quelli che si succedono dopo Cocceio Nerva (96-98), risultano ostili al mondo cristiano e favoriscano interventi vessatori nei loro confronti. Eppure questi imperatori appaiono capaci di un buon governo, guidati da buoni principi, dediti al-la cultura, ammirati un po’ dovunque. Se le persecuzioni scatenate da Nerone (54-68), prima, e da Domiziano (81-96), poi, apparivano come follie vessatorie di un potere costruito sulla violenza, non altrettanto si deve dire a proposito di ciò che succede con Traiano, il quale risulta uno dei migliori imperatori di questo periodo. Eppure possediamo di lui la risposta data al suo collaboratore nel Ponto, Plinio il Giovane, il quale chiedeva istruzioni sulla questione che comunque il governatore di origini comasche già affrontava con interrogatori e con punizioni esemplari, per quanto non ci fossero giustificazioni di sorta a partire dall’ammissione di colpe e di reati. La sola motivazione per questo accanimento era la pertinacia dei soggetti nel voler perseguire la propria religione, aborrendo quella tradizionale. Così Plinio scrive e chiede delucidazioni a cui Traiano risponde.

È per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani (…) Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte.

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Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furo-no altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. (…) Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. (…) Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata. Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo peri-colo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma.

La risposta lascia perplessi circa il senso di giustizia, perché la colpevolezza riconosciuta dovrebbe essere solo quella di non adeguarsi alle tradizioni religiose, quando si sapeva già che a Roma tutto era di fatto tollerabile, purché non in conflitto con le leggi fondamentali …

Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire …

In presenza di interventi del genere era necessario cercare una risposta adeguata da parte dei cristiani, che spesso subivano il martirio sempre con eroismo, anche a sapere che la loro condanna risultava ingiusta e ingiustificata sulla base della legge comune. Essa era sempre più determinata da una sorta di capriccio dell’autorità locale e per prevenire forme di intolleranza nell’opinione pubblica. Le riunioni dei cristiani nelle case prestavano il fianco a pregiudizi e creavano il sospetto che simili riunioni fossero come delle congiure o covassero trame oscure. Del resto i Cristiani in questo periodo erano occupati a consolidare le comunità dove spesso serpeggiava la disunione a causa dei personalismi, e la questione richiedeva la preparazione adeguata di quanti dovevano sostenere la responsabilità di governo delle comunità stesse.

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Ma non manca la necessità di opporre alle obiezioni formulate da Plinio una risposta che favorisse una conoscenza migliore dei cristiani e di ciò che essi facevano, scongiurando in tal modo il pregiudizio, sulla base del quale non solo si assisteva alle violenze private locali, ma anche alla formulazione di ordini disciplinari da estendere un po’ ovunque nell’impero. Quanto si trova scritto nella corrispondenza fra Traiano e Plinio diventa di fatto una norma da seguire e a cui ci si rifà anche nei secoli successivi per giustificare interventi punitivi. Non abbiamo una specie di incarico affidato per redigere un documento in difesa dei cristiani in simili circostanze; e però c’è chi si assume l’onere con un testo, che sembra rispondere alle obiezioni formulate al tempo di Traiano. Nel II secolo emerge la figura di Giustino, il primo filosofo cristiano …

S. GIUSTINO (100-163/7)

Ciò che sappiamo di lui lo deriviamo dai suoi testi.

Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, … (I apologia I)

Il nome è di chiara derivazione latina; per quanto lui si ritenga samaritano, perché nato nella località che oggi è chiamata Nablus. Dobbiamo ritenere che i suoi vengano da Roma, o comunque dal mondo latino, forse collocati in questo angolo di mondo che doveva essere controllato dopo la distruzione di Gerusalemme e nell’imminenza di un ennesimo scontro che avvenne nel 135, quando l’editto di Adriano stabiliva che gli Ebrei non potessero più stare in Palestina. Sulla base di ciò che troviamo nel suo libro filosofico, Giustino ebbe la possibilità di una buona educazione, se poi la sua giovinezza viene vissuta nella ricerca di natura filosofica, passando da diverse dottrine, sempre appassionato per la verità. Lui stesso si considera filosofo …

Ti dirò come vedo io le cose, dissi. La filosofia in effetti è il pi grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l’animo alla filosofia. Ciò nondimeno ai più è sfuggito che cos’è la filosofia perché mai è stata inviata agli uomini: diversamente non ci sarebbero stati né platonici né stoici né teoretici né pitagorici, perché unico è il sapere filosofico. (Dialogo 2,1)

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Ma la sete di verità, inappagata in tutte le scuole filosofiche percorse, lo fa approdare alla “vera filosofia”, che per lui è il Cristianesimo.

E chi mai si potrà prendere come maestro, feci io, e di dove si potrà trarre giovamento se neppure in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità?

Molto tempo fa, prima di tutti costoro che son tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito …

(Dialogo 7,1)

Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.

(Dialogo 8,1)

Questa sua immagine di filosofo e il lavoro introdotto per cercare di offrire basi razionali alla fede cristiana gli crearono non pochi problemi: nel mondo filosofico ebbe detrattori che lo accusavano di essere uscito dagli schemi comunemente accettati perché un discorso fosse considerato di natura filosofica, e nel contempo anche nel mondo cristiano il suo lavoro di razionalizzazione gli procurava qualche contrasto. Per lui, dunque, profeti dell’Antico Testamento e filosofi greci potevano essere buoni compagni di viaggio per condurre a Cristo, il solo obiettivo da raggiungere nella ricerca; e questo sta alla base del suo lavoro di ricercatore. Anche per le opere che ci sono giunte dobbiamo riconoscere che egli è debitore agli Ebrei e i pagani di quei testi che comunque non possono costituire da soli la base della verità, ma sono semplicemente come pedagoghi che conducono a Cristo, e a lui si deve approdare. Lo dice con estrema chiarezza Benedetto XVI nella sua catechesi, tenuta il 21 marzo 2007.

Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio.

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LE APOLOGIE

Gli scritti apologetici, ancora oggi, sono formulati in difesa della fede e servono a trovare argomenti da opporre a chi mette in dubbio tutto ciò che attiene alla religione o vuol contestare chi crede. In presenza di un diffuso pregiudizio è quanto mai opportuno opporre chiarimenti, anche senza far ricorso a polemiche dominate dall’astio, spesso accompagnato dal sarcasmo. Giustino cerca sempre di ricorrere a buone argomentazioni sulla base del suo armamentario filosofico razionale e, dovendo difendersi utilizza termini e discorsi che possano servire allo scopo, sapendo che il suo documento scritto è rivolto all’autorità suprema dello Stato e ai suoi collaboratori. Non scrive per la gente comune, ma si riferisce a quanti nella loro responsabilità di governo devono considerare i cristiani come sudditi dello Stato e proprio per questo necessitano di un trattamento giusto nella misura in cui anch’essi sono leali verso lo Stato. Esistono due apologie scritte da Giustino: la prima è indirizzata all’imperatore di quel tempo, Antonino detto il Pio (138-161), ma anche “al senato e al popolo romano”, sulla base delle formule in uso; la seconda è inviata al solo senato. Entrambe comunque sono redatte come un appello alle autorità perché prendano in considerazione quanti aderiscono alla religione cristiana per non essere oggetto di vessazioni e di ingiuste persecuzioni.

LA PRIMA APOLOGIA

Appare in maniera evidente da parte dell’autore che la persecuzione in atto nei confronti dei cristiani, anche a non essere dichiarata, come avverrà successivamente, non ha ragion d’essere, per il fatto che mancano reati punibili e tutto si compie sulla base del pregiudizio. Tenendo conto che il primo referente dello scritto è l’imperatore che viene definito “Pio” e che appartiene alla categoria dei filosofi, come è pure il suo successore designato, Marco Aurelio (161-180), lo scrivente, appellandosi alla razionalità, chiede loro di esprimere un giudizio sulla base di un attento esame della questione. Egli non vuole accattivarsi la simpatia e neppure chiedere pietà, ma che si giudichi sulla base di un criterio razionale. Rimane comunque alle autorità la decisione di giungere ad una pena inappellabile, segno che l’autorità può tutto; ma, se essa si fonda dul raziocinio, come è per imperatori filosofi, allora è necessario che il loro intervento censorio abbia un suo senso.

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All’imperatore Tito Elio Adriano Antonino Pio Cesare Augusto e al figlio Verissimo filosofo, ed a Lucio, figlio del Cesare filosofo e, per adozione, del Pio, amante del sapere, al Sacro Senato ed a tutto il popolo romano. Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro. La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false. Infatti la retta ragione suggerisce non solo di non seguire chi agisce o pensa in modo ingiusto, ma bisogna che in ogni modo e al di sopra della propria vita, colui che ama la verità, anche se è minacciato di morte, scelga sia di dire sia di fare il giusto. Voi dunque godete in ogni luogo la fama di essere pii e filosofi e custodi della giustizia e amanti della sapienza: se poi davvero anche lo siete, sarà dimostrato. Eccoci infatti dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame, senza attenervi a pregiudizi né al desiderio di piacere a gente superstiziosa: ritorcereste la condanna contro di voi stessi, con un comportamento irragionevole e seguendo una cattiva fama ormai inveterata. Noi infatti siamo persuasi che non possiamo subire alcun male da alcuno, a meno che si provi che siamo operatori di malvagità o che si riconosca che siamo malvagi: voi potete sì ucciderci, ma non nuocerci. (I Apologia I-II)

Una delle accuse ricorrenti, mosse ai cristiani, è quella di essere atei, mancando ad essi quella forma di “pietas”, che piegandoli al volere di Dio, li fa elevare a Dio stesso. Il fatto che essi invece abbiano elevato un uomo al rango di Dio, tenuto conto poi che è stato condannato a morte in maniera infamante, fa pensare che essi non ricorrano affatto a chi “abita in alto”.

Di qui ci è anche derivata l’accusa di atei. Certo ammettiamo di essere tali ri-spetto a questi supposti dèi, ma non certo rispetto a Dio verissimo, padre di giustizia e di sapienza e di ogni virtù, e immune da malvagità. Lui veneriamo e adoriamo, e il Figlio che da Lui è venuto e che ci ha insegnato queste dottrine, con l’esercito degli altri angeli buoni che Lo seguono e Lo imitano e lo Spirito Profetico: li onoriamo con ragione e verità trasmettendo con generosità quanto abbiamo imparato a chiunque voglia apprenderlo.

(I Apologia VI)

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Dunque, quale persona ragionevole non ammetterà che noi non siamo atei, dal momento che veneriamo il creatore di questo universo e diciamo che Egli non ha bisogno di sangue e di libagioni e di profumi, come ci è stato insegnato, e lo lodiamo, per quanto possono le nostre forze, con espressioni di preghiera e rendimento di grazie per tutto ciò che ne riceviamo, poiché sappiamo che il solo onore degno di lui è non consumare nel fuoco ciò che da lui ci viene per il nostro sostentamento, ma distribuirlo fra noi stessi e a quanti ne hanno bisogno? Sappiamo essergli grati, innalzandogli lodi e inni per essere stati creati e per tutti i mezzi atti a procurarci benessere per tutte le qualità dei prodotti e la varietà delle stagioni, ed elevandogli preghiere per vivere poi nell’incorruttibilità, a nostra volta, attraverso la fede in Lui. Dimostreremo poi che a ragione noi veneriamo Colui che ci è stato maestro di queste dottrine, e per questo è stato generato, Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare; abbiamo appreso che Egli è il figlio del vero Dio, e Lo onoriamo al secondo posto, ed in terzo luogo lo Spirito Profetico. In questo credono di dimostrare la nostra follia, dicendo che noi diamo il secondo posto, dopo l’immutabile ed eterno Dio, creatore di tutte le cose, ad un uomo posto in croce, poiché non conoscono il mistero che vi è dentro: questo vi esortiamo a considerare attentamente, poiché ci apprestiamo a spiegarvelo. (I Apologia XIII)

Giustino aggiunge di essere un suddito fedele dell’Impero, e i cristiani, come del resto nel vangelo è suggerito di dare a Cesare quello che è di Cesare, sono disposti a pagare i tributi, e quindi a servire lealmente lo Stato e addirittura a pregare per le legittime autorità. Seguono puntualizzate le accuse mosse ai cristiani, fra le quali quella di infanticidio, e Giustino risponde che i cristiani non sono affatto come fanno credere tanti pregiudizi accumulati su di loro, disseminando il mondo di falsità e odiosità nei loro confronti. Espone in maniera sintetica ciò che è scritto nei Vangeli per far conoscere la figura di Cristo, sia in riferimento alla sua nascita verginale, sia in riferimento alla sua morte di croce. Non manca neppure il riferimento alla devastazione di Gerusalemme, di cui si trova, come previsione, la traccia anche nel vangelo, scritto in realtà “post factum”: si avverte in Giustino la ricerca di una sorta di “captatio benevolentiae”, perché i suoi interlocutori erano intenti in quegli anni a fare una sorta di bonifica della Palestina dalla presenza degli Ebrei, con l’intento di cacciarli definitivamente da quel territorio, che appariva a loro non sufficientemente sottomesso all’autorità romana. È un incalzare di buone argomentazioni nell’intento di far desistere le autorità dal ricorso alla violenza per avere la meglio dei cristiani, analogamente a quanto veniva fatto in quei tempi agli Ebrei, soprattutto residenti in Palestina.

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E si aggiunge anche l’argomentazione che la violenza non fa desistere i cristiani dal conservarsi tali, anche se non mancano gli apostati.

I cattivi demoni non riescono a persuadere che non esiste il fuoco come punizione per gli empi, così come non poterono tenere nascosta la venuta di Cristo. Solo questo possono fare: che chi vive contro ragione, è cresciuto perversamente nei cattivi costumi ed è schiavo delle false opinioni, ci uccida e ci odi. Noi comunque non solo non li odiamo, ma – come è dimostrato – ne abbiamo pietà e desideriamo persuaderli a cambiare. Infatti non temiamo la morte, poiché sappiamo che, comunque, si muore e che non c’è niente di nuovo, ma in questo ordine di cose ritornano sempre le medesime realtà. Se di esse sente nausea chi ne fruisce anche solo per un anno, per essere per sempre liberi da passioni e da bisogni, occorre approdare alle nostre dottrine. Se poi si mostrano increduli asserendo che non c’è nulla dopo la morte e dichiarano che i morti raggiungono l’insensibilità, a noi fanno del bene, sottraendoci ai patimenti ed alle necessità di quaggiù; mentre, invece, mostrano se stessi malvagi, non umani e schiavi delle opinioni: infatti ci uccidono non per liberarci, ma per i privarci della vita e del piacere.

(I Apologia LVII)

La parte più interessante per noi di questo lungo scritto è quella conclusiva, dove abbiamo la descrizione di ciò che si fa nelle riunioni dei cristiani, tenuto conto delle tante accuse che vengono fatte per quelle assemblee, dove si immaginano nefandezze. Ed invece Giustino presenta con estrema chiarezza la celebrazione del sacramento che introduce alla fede cristiana e quindi il battesimo e poi la celebrazione dell’assemblea domenicale dell’Eucaristia, nella quale troviamo gli elementi essenziali ancora oggi praticati e in alcuni elementi ripristinati dalla riforma conciliare recente.

IL BATTESIMO

Esporremo in quale modo ci siamo consacrati a Dio, rinnovati da Cristo, affinché non sembri che, tralasciando questa parte, viziamo in qualche modo la nostra esposizione. A quanti siano persuasi e credano che sono veri gli insegnamenti da noi esposti, e promettano di saper vivere coerentemente con questi, si insegna a pregare ed a chiedere a Dio, digiunando, la remissione dei peccati, mentre noi preghiamo e digiuniamo insieme con loro. Poi vengono condotti da noi dove c’è l’acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell’acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell’universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo.

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Poiché Cristo disse: “Se non sarete rigenerati, mai entrerete nel regno dei cieli”: è chiaro a tutti che è impossibile, una volta che si sia nati, rientrare nel ventre della madre. E dal profeta Isaia – come prima scrivemmo – è stato detto in che modo sfuggiranno ai peccati coloro che hanno peccato e si pentono. Ecco le sue parole: “Lavatevi, divenite puri, allontanate il male dalle vostre anime, imparate a fare il bene, difendete l’orfano, rendete giustizia alla vedova; allora venite e ragioniamo – dice il Signore. – E se anche i vostri peccati sono come porpora, li renderò bianchi come lana; e se anche sono come cremisi, li renderò bianchi come neve; ma se non mi ascolterete, una spada vi divorerà. Così infatti parlò la bocca del Signore”. E in proposito ecco la ragione che apprendemmo dagli apostoli. Poiché, nulla sapendo della nostra prima generazione, secondo necessità siamo stati generati da umido seme per l’unione dei genitori, e per natura abbiamo cattivi costumi e malvagie inclinazioni, per non rimanere figli di necessità e di ignoranza, bensì di libera scelta e di sapienza, e per ottenere la remissione dei peccati commessi prima, su colui che ha deciso di rigenerarsi e si è penti-to dei peccati si invoca, nell’acqua, il nome di Dio, Padre e Signore dell’uni-verso: e questo solo nome pronuncia chi conduce al lavacro colui che deve sottoporvisi. Nessuno infatti può dare un nome al Dio ineffabile; e se qualcuno osasse dire che ne esiste uno, sarebbe inguaribilmente pazzo. Questo lavacro si chiama “illuminazione”, poiché coloro che comprendono queste cose sono illuminati nella mente. E chi deve essere illuminato viene lavato nel nome di Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato; e nel nome dello Spirito Santo, che ha preannunziato per mezzo dei Profeti tutti gli eventi riguardanti Gesù. (I Apologia LXI)

Non si rileva un intento polemico nella descrizione del Battesimo, dove, rispetto al rito, si dice poco, mentre molto si vuol chiarire circa il senso dell’immersione nell’acqua, non solo volendo spiegare che si tratta di una purificazione, ma anche e soprattutto di una illuminazione. Chi legge, probabilmente non avrà da queste parole una spiegazione esauriente, perché il Battesimo comporta la presa di coscienza dell’appartenenza a Dio, che fa agire diversamente da chi, non illuminando la coscienza, si lascia andare alle forme istintive. Una simile presentazione del gesto purificatore induce a pensare che Giustino non sia preoccupato solo di difendersi da visioni negative che erano diffuse fra la gente ostile al mondo cristiano; qui si parla di “libera scelta e di sapienza”, per cui il rito non ha niente di “misterioso” e di esoterico; esso assume i contorni di una adesione personale, libera e soprattutto ben ponderata. Avvenendo nel nome delle persone divine essa non è adesione ad una dottrina, ma a persone.

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L’EUCARISTIA

Noi allora, dopo aver così lavato chi è divenuto credente e ha aderito, lo conduciamo presso quelli che chiamiamo fratelli, dove essi si trovano radunati, per pregare insieme fervidamente, sia per noi stessi, sia per l’illuminato, sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché, appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti, e di conseguire la salvezza eterna. Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio. Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato; egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: “Amen”. La parola “Amen” in lingua ebraica significa “sia”. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua consacrati e ne portano agli assenti. Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato. Infatti gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: “Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo”. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: “Questo è il mio sangue”; e ne distribuì soltanto a loro. I malvagi demoni per imitazione, dissero che tutto ciò avveniva anche nei misteri di Mitra. Infatti voi già sapete, o potete apprendere, come nei riti di iniziazione si introducano un pane ed una coppa d’acqua, mentre si pronunciano alcune formule. Da allora noi ci ricordiamo a vicenda questo fatto. E quelli che possiedono, aiutano tutti i bisognosi e siamo sempre uniti gli uni con gli altri. Per tutti i beni che riceviamo ringraziamo il creatore dell’universo per il Suo Figlio e lo Spirito Santo. E nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Pro-feti, finché il tempo consente. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.

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Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere; e, come abbiamo detto, terminata la preghiera, vengono portati pane, vino ed acqua, ed il preposto, nello stesso modo, secondo le sue capacità, innalza preghiere e rendimenti di grazie, ed il popolo acclama dicendo: “Amen”. Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati, ed attraverso i diaconi se ne manda agli assenti. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate.

(I Apologia LXV-LXVII)

Anche per questa pagina si deve riconoscere che l’autore non è preoccupato di contestare le voci di popolo circa i contenuti dell’incontro domenicale, dove ci si immagina che avvengano infamità e turpitudini. Qui invece si descrivono esattamente le parti della Messa, comprese quelle che, nelle revisioni successive, sono scomparse e che recentemente sono state ripristinate, quasi derivandole dal testo di Giustino. Va rilevato che la spiegazione della Parola, fatta dal “preposto”, termine da cui poi deriverà quello del “prevosto”, anche se qui designa il presidente dell’assemblea, è parte integrante ed essenziale della liturgia eucaristica, così come la raccolta delle offerte devono servire alla carità e quindi al sostegno dei poveri. È pure da segnalare che la domenica viene qui designata come “il giorno del Sole” (il “Soledì” o Sunday).

LA SECONDA APOLOGIA

Il testo nasce da un episodio avvenuto negli anni di governo di Antonino Pio: la tensione tra un marito dissoluto e la moglie cristiana, che decide di divorziare dopo vani tentativi di portarlo a più miti consigli, arriva in tribunale dove il marito si presenta, accusando la moglie di essere plagiata da un cristiano. Costui viene citato in tribunale e si trova a finire come il vero imputato, a causa del riconoscimento da parte sua di essere cristiano. Egli viene alla fine condannato a morte, come pure coloro che cercano di intervenire in sua difesa.

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Nel tribunale non viene affrontato il diverbio fra marito e moglie, ma solo la questione della confessione, fatta dal consulente della donna, di essere cristiano. Giustino aggiunge di trovarsi nella medesima condizione, a partire dal suo rivale in filosofia che lo accusa di essere ateo, solo perché egli non crede nella mitologia diffusa. Il suo accusatore non porta argomenti di natura filosofica, ma i soliti pregiudizi diffusi tra la gente comune. Nel suo ragionamento Giustino richiama il vero interlocutore della sua opera, che è il filosofo Crescenzio, a rivedere il suo giudizio malevolo sui cristiani, partendo dalla filosofia, analogamente a quello che ha fatto Socrate, sempre aperto alla ricerca. Giustino afferma che Socrate ha riconosciuto il Logos, cioè Cristo, non perché sia suo contemporaneo, ma perché la ricerca della verità mediante la ragione lo messo nella condizione di poter avere un’apertura mentale a quel Cristo che è già presente nel mondo, prima ancora che sia nato, come lo si può vedere nei profeti che ne preannunciano la venuta.

Quelli che vissero prima di Cristo e si sforzarono di investigare e di indagare le cose con la ragione, secondo le possibilità umane, furono trascinati dinanzi ai tribunali come empi e troppo curiosi. Colui che più di ogni altro tendeva a questo, Socrate, fu accusato delle stesse colpe che si imputano a noi: infatti dissero che egli introduceva nuove divinità, e che non credeva negli dèi che la città riteneva come tali. Invece egli insegnò agli uomini a rinnegare i demoni malvagi, autori delle empietà narrate dai poeti, facendo bandire dalla repubblica sia Omero sia gli altri poeti; cercava anche di spingerli alla conoscenza del Dio a loro ignoto, attraverso la ricerca razionale. Diceva: “Non è facile trovare il Padre e creatore dell’universo, né è sicuro che chi l’ha trovato lo riveli a tutti”. Questo è quanto fece il nostro Cristo con la Sua potenza. Infatti a Socrate nessuno credette fino al punto di morire per questa dottrina. A Cristo invece, conosciuto, almeno in parte, anche da Socrate (Egli infatti era ed è il Logos che è in ogni cosa, che ha predetto il futuro per mezzo dei Profeti e per mezzo di se stesso, che si è fatto come noi ed ha insegnato questa verità), credettero non solo i filosofi e dotti, ma anche operai e uomini assolutamente ignoranti, che sprezzarono i giudizi altrui, la paura, la morte. Poiché è potenza del Padre ineffabile e non costruzione di umana ragione. (II Apologia X)

Riconoscendo che la ricerca di Cristo come Logos è sempre presente nel cuore dell’uomo e che dunque Cristo è presente nel mondo prima ancora che compaia nella sua fisionomia umana, Giustino esalta la filosofia e nello stesso tempo, come filosofo, esalta pure la sua scelta di essere cristiano.

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Su questo vuole essere valutato e riconosciuto come giusto, da rispettare e da onorare.

Io confesso di vantarmi e di combattere decisamente per essere trovato cri-stiano, non perché le dottrine di Platone siano diverse da quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, così come quelle degli altri, Stoici e poeti e scrittori. Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, poiché Egli per noi si è fatto uomo affinché, divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori,

attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un’imitazione concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l’imitazione.

(II Apologia XIII)

Di fatto l’Apologia non divenne concretamente una difesa per la scelta di campo, operata da Giustino se lo stesso filosofo finisce negli ingranaggi di una spietata giustizia che lo conduce al patibolo. Abbiamo gli atti del suo martirio, una specie di resoconto notarile dell’interrogatorio a cui fu sottoposto con la conseguenza di finire condannato e giustiziato.

Dopo il loro arresto, i santi furono condotti dal prefetto di Roma di nome Rustico. Comparsi davanti al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: «Anzitutto credi agli dèi e presta ossequio agli imperatori». Giustino disse: «Di nulla si può biasimare o incolpare chi obbedisce ai comandamenti del Salvatore nostro Gesù Cristo». Il prefetto Rustico disse: «Quale dottrina professi?». Giustino rispose: «Ho tentato di imparare tutte le filosofie, poi ho aderito alla vera dottrina, a quella dei cristiani, sebbene questa non trovi simpatia presso coloro che sono irretiti dall’errore». Il prefetto Rustico disse: «E tu, miserabile, trovi gusto in quella dottrina?». Giustino rispose: «Sì, perché io la seguo con retta fede». Il prefetto Rustico disse: «E qual è questa dottrina?». Giustino rispose: «Quella di adorare il Dio dei cristiani, che riteniamo unico creatore e artefice, fin da principio, di tutto l’universo, delle cose visibili e invisibili; e inoltre il Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che fu preannunziato dai profeti come colui che doveva venire tra gli uomini araldo di salvezza e maestro di buone dottrine.

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E io, da semplice uomo, riconosco di dire ben poco di fronte alla sua infinita Deità. Riconosco che questa capacità è propria dei profeti che preannunziarono costui che poco fa ho detto essere Figlio di Dio. So bene infatti che i profeti per divina ispirazione predissero la sua venuta tra gli uomini». Rustico disse: «Sei dunque cristiano?». Giustino rispose: «Sì, sono cristiano». Il prefetto disse a Giustino: «Ascolta, tu che sei ritenuto sapiente e credi di conoscere la vera dottrina; se dopo di essere stato flagellato sarai decapitato, ritieni di salire al cielo?». Giustino rispose: «Spero di entrare in quella dimora se soffrirò questo. Io so infatti che per tutti coloro che avranno vissuto santamente, è riservato il favore divino sino alla fine del mondo intero». Il prefetto Rustico disse: «Tu dunque ti immagini di salire al cielo, per ricevere una degna ricompensa?». Rispose Giustino: «Non me l’immagino, ma lo so esattamente e ne sono sicurissimo». Il prefetto Rustico disse: «Orsù torniamo al discorso che ci siamo proposti e che urge di più. Riunitevi insieme e sacrificate concordemente agli dèi». Giustino rispose: «Nessuno che sia sano di mente passerà dalla pietà all’empietà». Il prefetto Rustico disse: «Se non ubbidirete ai miei ordini, sarete torturati senza misericordia». Giustino rispose: «Abbiamo fiducia di salvarci per nostro Signore Gesù Cristo se saremo sottoposti alla pena, perché questo ci darà salvezza e fiducia davanti al tribunale più temibile e universale del nostro Signore e Salvatore». Altrettanto dissero anche tutti gli altri martiri: «Fa’ quello che vuoi; noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli». Il prefetto Rustico pronunziò la sentenza dicendo: «Coloro che non hanno voluto sacrificare agli dèi e ubbidire all’ordine dell’imperatore, dopo essere stati flagellati siano condotti via per essere decapitati a norma di legge». I santi martiri glorificando Dio, giunti al luogo solito, furono decapitati e portarono a termine la testimonianza della loro professione di fede nel Salvatore.

IL DIALOGO CON TRIFONE

Nel panorama della prima letteratura cristiana questa è indubbiamente un’opera nuova e innovativa. Dato che Trifone è un personaggio appartenente al mondo ebraico, ci si immagina che qui si crei un dibattito tra cristiani ed ebrei, con lo scopo di mettere in campo le basi comuni e nel contempo anche le profonde differenze. Qui il dialogo è piuttosto un genere letterario molto di moda nell’antichità e tipico delle questioni di natura filosofica, con cui si mettevano in campo i diversi orientamenti, per-ché i lettori operassero poi le loro scelte.

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Giustino non dovrebbe avere come scopo quello di convincere il suo interlocutore a lasciare la propria fede e aderire a quella nuova. Se teniamo presente che Giustino è originario della Palestina, anche a non essere ebreo, dovremmo pensare che egli conosca bene quel mondo e che cerchi di contribuire al recupero di questa gente, tenuto conto che essa stava vivendo un momento particolarmente difficile: sotto la cenere della distruzione del 70 covava il risentimento verso il mondo romano, sempre più stanco delle rivolte in corso. Diversa-mente dalle Apologie dove la contrapposizione con il mondo pagano è tale da generare una persecuzioni pregiudiziale fino ad un giudizio di condanna inappellabile, qui non emerge la presa di distanza nei confronti del mondo giudaico, affiorata con le prime incomprensioni e soprattutto con il rischio corso dai cristiani di essere associati agli Ebrei nel comune disprezzo. Qui si tenta di trovare fra cristiani ed ebrei una base comune.

Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l’Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell’arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell’Antico Testamento si siano avverate con l’avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com’era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che quest’opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede. (Wikipedia)

Prevale di fatto una lettura di quest’opera che lascia trasparire una certa diffidenza con il mondo ebraico, anche se il dialogo avviene con metodi rispettosi dell’interlocutore ed argomenti razionali che vogliono fare appello al buon senso. Le interpretazioni successive, soprattutto da parte ebraica, mettono in luce una netta presa di distanza dentro il filone delle opere di provenienza cristiana, che non si rivelano accomodanti con l’ebraismo. E allora il dialogo è solo una formula letteraria, non un serio confronto di idee fra mondi diversi, che sembrano incomunicabili …

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Il confronto con il giudaismo fu ovviamente una delle dinamiche di crescita del cristianesimo fin dalle sue origini (già il vangelo di Matteo è un’apologia del cristianesimo nei confronti del giudaismo), ma il problema per noi è di conoscere la situazione al tempo di Giustino, dopo che, in particolare, le catastrofi del 70 e del 135 avevano del tutto frantumato l’unità nazionale giudaica. (…) I Cristiani d’altra parte denunciano un atteggiamento persecutorio da parte dei giudei, che ha una vivida eco nel nostro Dialogo; se Trifone accenna a una proibizione, da parte dei rabbini, ad avere contatti con i cristiani, Giustino parla di maledizioni contro questi ultimi inserite nella preghiera sinagogale e di persecuzioni ordite a danno dei cristiani dai giudei, i quali anzi con le loro calunnie sarebbero la causa prima delle persecuzioni inflitte dai pagani. (,,,) Gran parte della relativa letteratura era destinata ai cristiani e non ai giudei e mirava non a convincere e a recuperare il giudeo ma a schiacciarlo, in un confronto polemico fittizio ad uso interno, per salvaguardare i cristiani dalla propaganda giudaica e dalle ricorrenti tentazioni di riflusso verso il giudaismo. (…) Il dialogo appare un puro artificio letterario e Trifone risulta essere un “uomo di paglia”, un personaggio di comodo storicamente non credibile, che ha l’unica funzione di offrire il destro alle tesi cristiane. Non un dialogo, quindi, ma un monologo, una imposizione di un punto di vista unilaterale, attuata in modo più sottile, per non dire subdolo, grazie alla parvenza di un libero confronto da pari a pari. Vista così, questa letteratura cessa di essere un dialogo anche in quanto non è rivolta ai giudei, ma sono le loro difficoltà che essa si propone di risolvere, non è la loro con-versione che essa ha a cuore, ma si parla al giudeo perché senta il cristiano (o il pagano).

(Visonà p. 49-53)

Già le prime battute dl dialogo dove i due interlocutori si presentano si rivela la loro impostazione che non potrà avere modifiche nel corso del dialogo, dove prevale evidentemente la tesi cristiana di Giustino nella illusione che possa bastare il suo argomentare a convincere i lettori.

Un fuoco divampò nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua. In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore. Esse infatti incutono un certo timore e sono sufficienti a confondere coloro che deviano dalla retta via, mentre una quiete dolcissima pervade coloro che le mettono in pratica. Se dunque anche tu hai a cuore il tuo destino e reclami salvezza e hai fiducia in Dio – e se non ti senti indifferente al problema – hai la possibilità, una volta riconosciuto il Cristo di Dio e conseguita una completa iniziazione, di raggiungere la felicità.

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Come ebbi detto queste cose, carissimo, i compagni di Trifone scoppiarono a ridere, mentre lui sorrideva tra sé e diceva:

Accetto il resto di quanto hai detto e apprezzo il tuo slancio per il divino, ma forse era meglio se continuavi a esercitarti con la filosofia di Platone o di qualche altro filosofo, praticando la fortezza, la temperanza e la sapienza, piuttosto che farti traviare da simili fandonie e seguire uomini che non sono degni di nessuna considerazione. Finché infatti rimanevi in quel tipo di filo-sofia e conducevi una vita irreprensibile ti restava la speranza di un destino migliore, ma una volta abbandonato Dio e riposta la speranza in un uomo (che è naturalmente Gesù di Nazaret assolutamente non riconosciuto come Dio) quale mai salvezza puoi ancora sperare? Se vuoi prestare ascolto anche a me (ché ti considero ormai un amico) comincia col farti circoncidere, poi osserva, secondo l’uso, il sabato, le feste e i noviluni sacri a Dio, insomma, osserva tutto ciò che è scritto nella Legge e forse troverai misericordia presso Dio. Quanto al Cristo, se mai è nato ed esiste da qualche parte, è sconosciuto e non ha coscienza di sé né potenza alcuna fintanto che non venga Elia ad ungerlo e a manifestarlo a tutti. Voi, invece, raccogliendo una vuota diceria, vi siete fatti un vostro Cristo e a causa sua ora state andando cieca-mente alla rovina. (Dialogo 8)

Probabilmente non c’è stato il tempo per una revisione del testo, dove gli argomenti procedono sulla base di una certa foga argomentativa. Ci sono comunque i tempi cari della polemica antigiudaica in riferimento all’Antico Testamento, che non viene rifiutato, ma che è comunque ritenuto, come la Legge, “pedagogo a Cristo”. Ovviamente deve apparire che al centro ci sia proprio il Cristo, respinto dai Giudei e nel contempo la realtà del Nuovo Israele, rappresentato dalla Chiesa. La sua operazione non risulta comunque credibile e soddisfacente, se non perché egli rivela di citare bene i testi biblici che ha a disposizione, compresi quelli che riguardano il Nuovo Testamento, da poco emerso per iscritto dopo una fase orale. Per quanto egli voglia apparire come un intellettuale con buone doti di filosofo, e insieme rivelare conoscenze di natura teologica, il suo lavoro è ancora acerbo e richiede maggior profondità. Tuttavia è già indicato il percorso di un “dialogo” con le realtà che il mondo cristiano ha davanti a sé per un confronto ineludibile.

Giustino tenta una grande operazione: situare e unificare nel mistero di Cristo la sapienza pagana e la fede giudaica.

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Il Verbo Cristo è la pienezza di ciò che è presente come seme nella prima e come figura nella seconda, così che il Cristianesimo diventa la vera Filosofia e il nuovo Israele. Forse i mezzi non sono adeguati all’intento. Giustino è stato giudicato un mediocre come filosofo, come teologo, come esegeta, come scrittore. In parte è vero: il suo pensiero non è rigoroso, la sua speculazione teologica non è sopraffine, la sua esegesi è impacciata e il suo greco assolutamente scadente. È facile sotto-valutare Giustino e perdere così la corposità del suo contributo, che è un contributo di sostanza che fa forza sui suoi limiti personali, al di sotto dei quali recuperiamo un patrimonio di fede su Dio, la creazione, l’incarnazione, la redenzione, la Chiesa, il battesimo, l’eucarestia, l’escatologia, di una ricchezza e di una saldezza quale è sorprendente trovare in un unico autore della prima metà del II secolo. (Visonà p. 70)

CONCLUSIONE

In una presentazione a volte sommaria di quest’uomo e dei suoi scritti, si insiste all’eccesso sul fatto che siamo in presenza del primo intellettuale cristiano: certamente così voleva essere inteso anche lui. È indubbiamente un primo tentativo di andare oltre il solito proselitismo che faceva presa nella gente comune, per offrire una immagine della nuova religione che cerca di penetrare anche negli ambienti finora negati persino da una certa supponenza dei circoli culturali dell’epoca. Giustino cerca un contatto, per quanto non appaia adatto e sufficiente. È comunque necessario che ci si muova in questa direzione, sia da parte di certa letteratura e filosofia, sia da parte del mondo cristiano, talvolta rinchiuso nei propri schemi e in certi intendimenti dottrinari da esibire senza alcuna discussione. Qui si apre la strada, anche se forse ancora non è chiaro il metodo e neppure sono chiariti i contenuti da offrire per tenere aperto il dialogo. Esso è ancora oggi faticoso, quando prevale la pretesa dottrinaria da imporre o il pregiudizio di chi nega la possibilità di una reale discussione, se la fede e la ragione sono dissociate come realtà inconciliabili. Non si è veri credenti senza la ragione; ma anche certo razionalismo freddo, che rifiuta a priori gli atti di fiducia, pure loro essenziali nel vivere umano, non può fare a meno della fede. Il dibattito sull’argomento rimane vivo e aperto e deve richiedere anche oggi un dialogo aperto e sincero. Va riconosciuto a Giustino lo sforzo sincero di entrare in comunicazione con un mondo che si presenta ostile verso chi aderisce alla fede cristiana. Poi però la forma apologetica e quella di un dialogo unidirezionale non si rivelano adeguati ad entrare in una comunicazione che vuole servire la Verità …

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S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.

S. Clemente nella chiesa di Santa Sofia a Kiev

PREMESSA:

NELL’EPOCA POSTAPOSTOLICA

E LA SITUAZIONE A CORINTO

Fra gli scritti dei primi anni dopo la redazione dei testi neotestamentari (vangeli e lettere apostoliche), spiccano alcuni, che al loro primo apparire vengono catalogati come testi ispirati, e quindi parte integrante del “canone biblico”. Poi però, anche ad essere sempre ben valutati, e a farvi ricorso nelle circostanze che presentano i medesimi problemi, non dovunque sono inscritti nell’insieme dei libri biblici, e di fatto in poco tempo si troverà estromesso da essi. Uno fra i documenti meglio apprezzati e circondati da stima e onore, è la lettera scritta da Clemente, che è il quarto vescovo di Roma, e che assume un rilievo non indifferente nella Chiesa di allora, grazie a questo scritto. Si tratta di una missiva per i cristiani di Corinto, dove continuavano le divisioni già documentate nella prima lettera di S. Paolo ai cristiani di quella città. Siamo comunque a 40 anni circa dal testo paolino; e quindi le persone a cui Clemente si rivolge sono altre; ma il problema persiste, segno di una comunità segnata da questo male, ben radicato. L’apostolo, fin dalle prime battute della sua lettera tocca l’argomento, rilevando la presenza di “partiti”, cioè di gruppi che facevano riferimento all’appartenenza a qualche figura carismatica. Non sembra che ci siano forme di eresie, e quindi di dottrine varie e contrapposte; prevale invece quel tipo di personalismo che non favorisce affatto la familiarità e la fraternità.

1Corinzi, 1,10-12

Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo.

Se anni dopo – siamo alla fine del I secolo – il medesimo clima affiora, vuol dire che un simile malessere è radicato: non basta più la lettera di Paolo, che pur si dovrebbe ritenere un intervento autorevole e da considerarsi indiscutibile; occorre che la figura di spicco in quel periodo prenda posizione, aggiornando la lettura della questione.

Paolo ormai è morto da anni: egli scrive la lettera verso il 58, e scompare dalla scena nel 67, all’epoca delle persecuzioni di Nerone. Corinto era una delle comunità in cui aveva dato il meglio di sé, anche in un periodo particolarmente delicato della sua esistenza. Era arrivato qui, attorno al 49 da Atene, dopo il flop del discorso tenuto all’Areopago, e si era ripreso con l’intervento salutare della coppia, Aquila e Priscilla, che aveva voluto con sé alla ripresa dei suoi viaggi. Poi, però, aveva inviato i suoi ispettori, gli  (= episcopoi, cioè gli ispettori), con l’incarico di sorvegliare l’andamento della comunità. E, non bastando quello che avevano fatto i collaboratori, aveva inviato due lettere, dalle quali era nata una certa corrispondenza. Nella prima, oltre al tema della divisione nella comunità, legata ai personalismi, Paolo affronta diverse questioni, in relazione al fatto che la comunità rivelava in tanti ambiti divergenze che potevano dare adito a spaccature. Anche la questione dell’Eucaristia, per la quale l’apostolo dà il suo primo racconto di ciò che era successo nell’ultima cena, veniva affrontata, perché di fatto non avveniva secondo le ragioni espresse dal Maestro al momento della sua istituzione. L’apostolo rileva che il ritrovo eucaristico aveva perso le sue motivazioni profonde, perché avveniva in un contesto litigioso, o comunque ben poco fraterno, se cia-scuno faceva quel che voleva. In questo modo la comunione, significata dal pane che si mangiava insieme, non era più garantita e prevaleva l’indegnità a presentarsi alla tavola comune.

1Corinzi 11,17-22

Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Come mai vi erano queste divisioni e queste venivano ritenute parti-colarmente gravi sia con Paolo, sia con Clemente? Si potrebbe dire che qui c’è una sorta di “difetto di fabbrica”: Corinto è “un porto di mare”, anche piuttosto importante e frequentato, e la gente che vi soggiornava appariva piuttosto raccogliticcia, provenendo un po’ da ogni dove e risultava in tal modo instabile.

Quindi era facile che anche tra i fedeli della nuova religione potessero annidarsi tipi poco raccomandabili. Del resto la lettera di Paolo segnala un peccato grave da giustificare il suo intervento piuttosto duro: uno vive “more uxorio” con la moglie di suo padre, relazione sgradita e biasimevole anche per chi non è cristiano e inaccettabile per chi lo è, e avverte la cosa come uno scandalo vergognoso.

1Corinzi 5,1-5

Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!  Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù,  questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore.

Siamo dunque in presenza di una comunità dove le divisioni non succedono solo sulla base di questioni dottrinali, come sempre più spesso avviene alla fine del I secolo, e quindi negli anni del pontificato di Clemente. C’è piuttosto quel genere di contenzioso che mette gli uni contro gli altri, nel desiderio di prevalere e nella prospettiva di esercitare appropriazioni indebite, soprattutto nei rapporti personali: questi erano sempre più deteriorati perché prevalevano interessi privati, e di conseguenza esplodevano le forme possessive a danno di altri. Se una simile concezione di vita serpeggia anche fra i cristiani, allora la dottrina stessa è in pericolo, perché si viene meno all’essenziale del Vangelo, che raccomanda apertura agli altri, senso di fraternità, dono vicendevole … Di solito, nell’analisi dei problemi presenti fra i cristiani in questo periodo, si tende ad insistere sul proliferare di dottrine eretiche, legate a deviazioni dalla proposta evangelica che appare molto esigente. Già nei testi neotestamentari dilagano le raccomandazioni a non lasciarsi ingannare da dottrine inconsistenti e fuorvianti, che un po’ dovunque si formano e si diffondono. Questo capita già negli anni in cui sono ancora viventi e operanti gli apostoli: a loro ci si rivolge per avere la garanzia che la Chiesa nel suo insieme non defletta dal Maestro e si mantenga fedele a lui. Quando però essi scompaiono, e in particolare non ci sono più né Pietro né Paolo, uccisi nella bufera neroniana, occorre trovare un ceto dirigente in grado di figurare credibile e autorevole con tutti, anche nelle comunità più dissite.

Nei suoi viaggi Paolo aveva legato a sé le diverse comunità create o incontrate, e, sia mediante lettere, sia mediante gli ispettori da lui inviati, come Timoteo e Tito, aveva tenuto sotto controllo gruppi diversi. Alla fine del I secolo, ultimo fra gli apostoli, rimaneva Giovanni, piuttosto avanti negli anni, secondo tradizioni diffuse sul suo conto. Già a lui ci si era rivolti in mezzo alla stessa persecuzione in cui è implicato Clemente, perché sostenesse le comunità frastornate da una situazione pesante; e lui aveva risposto con l’Apocalisse, una visione del cammino della Chiesa in mezzo ai mostri che la vogliono insidiare, per cui è necessario “togliere la coltre di male” e vedere sotto il disegno di Dio sempre “in fieri”. Il passaggio all’età successiva, post-apostolica, richiedeva la presenza di personaggi autorevoli e tali da risultare accetti anche oltre il proprio territorio. Il caso di Clemente emerge in un simile contesto: egli non è prestigioso solo perché si presenta come vescovo di Roma, e quindi successore di Pietro, ma perché, intervenendo con la sua lettera nei confronti di una comunità instabile e litigiosa, si rivela un punto di riferimento, accettato unanimemente, anche fuori della sua Chiesa. Con lui non abbiamo ancora il “Papa” come lo intendiamo oggi, ma qualcosa del genere sta emergendo: del resto, anche oltre Corinto, questa lettera viene conosciuta e apprezzata. Troviamo per la prima volta che il vescovo di Roma viene consultato e ricercato come riferimento per garantire l’unità alla Chiesa stessa. Così il suo messaggio viene accettato, condiviso e seguito. Ovviamen-te è un testo meritevole, e tale da dar lustro allo scrivente. Nello stesso tempo si inizia a riconoscere che il Papa può essere fatto intervenire per diverse questioni, e così avverrà sempre più già nel II secolo. Non sempre la consultazione del Papa porta alla soluzione del problema messo sul tappeto e alla formulazione di una linea condivisa. Fra Papa Aniceto (155-166) e il vescovo di Smirne, Policarpo (69-155), viene discussa la data della Pasqua, ma non si raggiunge l’intesa; e tuttavia è Policarpo a consultare il Papa. Così l’intervento di Clemente fa riconoscere che in presenza di questioni dibattute e controverse, il referente da consultare è ormai sempre più chiaramente il vescovo di Roma. E Clemente assume un ruolo significativo.

CLEMENTE

Stupisce il fatto che, in presenza di un testo sicuro sotto il profilo storico e di notevole importanza per il contenuto, non siano allo stesso modo sicure le notizie circa il personaggio, sul quale si possono fare alcune congetture e trovare testi di contenuto leggendario. Un personaggio di nome Clemente è citato da Paolo nella lettera ai Filippesi, ma non è possibile che si possa risalire a lui.

Filippesi 4,1-3

Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

C’è chi sostiene che da parte di Pietro gli siano state imposte le mani per divenire vescovo. Se così è, si deve pensare che fosse di Roma, o comunque che abitasse lì. Sulla base di questa supposizione qualcuno lo identifica con un personaggio influente di nome Clemente, che appartiene alla gens Flavia, dominatrice della scena sul finire del I secolo. Il capostipite della famiglia “Flavia” in quel periodo è Vespasiano (69-79), divenuto imperatore, dopo aver fatto la sua carriera come un funzionario scrupo-loso e come un generale rigoroso, capace di imporsi nell’anno dell’anar-chia totale, successiva alla morte di Nerone (68). Già i due figli che gli succedono rivelano la presenza di squilibri: Tito (79-81) non ebbe modo di farli esplodere perché morì presto; Domiziano (81-96) invece, dopo anni di un governo dispotico, fu tolto di mezzo in una congiura. Proprio costui avrebbe eliminato il rivale, appartenente alla medesima famiglia e che portava il nome di Clemente. Si è pure ipotizzato che coincidesse con il Papa, avendo lo stesso nome. Ma di fatto non è così. Del resto Papa Clemente forse è morto in esilio, e la segnalazione di un culto diffuso in Crimea e in Ucraina, avvalora questa tesi. Per questo motivo, essendo lon-tano da Roma, e impossibilitato ad esercitare la sua carica, si ritiene che abbia dato le dimissioni e sia morto lontano dall’Urbe, senza finire martire. Qui interessa il testo della lettera la cui paternità è certa.

PRIMA LETTERA AI CORINZI

DI CLEMENTE

Anche ad essere di un autore originario di Roma, che comunque non si cita con il suo nome, la lettera è redatta in lingua greca, anche perché è riservata ad una comunità di quel mondo. Chi scrive ricorre al “noi”, anche perché rappresenta l’insieme della Chiesa che risiede a Roma, e si rivolge analogamente ad una Chiesa sorella che risiede a Corinto. Vi si respira un autentico senso di fraternità, nonostante l’intervento sia stato richiesto per dirimere le divisioni presenti. Per i riferimenti al martirio di Pietro e di Paolo e di altri esponenti della Chiesa e per il clima persecutorio che ancora aleggia a Roma si deve pensare che questa lettera sia proprio degli ultimi anni del secolo, e riflette il medesimo clima di persecuzione che si avverte nell’Apocalisse di Giovanni, che potrebbe essere coeva. La persecuzione a cui si fa riferimento è quella prodotta da Domiziano, già indotto in modo maniacale a colpire diverse credenze religiose, mentre lui si avviava al riconoscimento di sé come “Dominus et Deus”.

La Chiesa di Dio che è a Roma alla Chiesa di Dio che è a Corinto, agli eletti santificati nella volontà di Dio per nostro Signore Gesù Cristo. Siano abbondanti in voi la grazia e la pace di Dio onnipotente mediante Gesù Cristo. Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l’una dietro l’altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all’empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso. Chi, fermandosi da voi, non ebbe a riconoscere la vostra fede salda e adorna di ogni virtù? Ad ammirare la vostra pietà cosciente ed amabile in Cristo? Ad esaltare la vostra generosa pratica dell’ospitalità? A felicitarsi della vostra scienza perfetta e sicura? Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona, e camminavate secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri anziani. Esortavate i giovani a pensare cose moderate e degne. Raccomandavate alle donne di compiere tutto con coscienza piena, dignitosa e pura, amando sinceramente, come conviene, i loro mariti; insegnavate a ben accudire alla casa, attenendosi alla norma della sottomissione e ad essere assai prudenti. Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Con-tenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi. Così una pace profonda e splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e una effusione piena di Spirito Santo era avvenuta su tutti. Colmi di volontà santa nel sano desiderio e con pietà fiduciosa, tendevate le mani verso Dio onnipotente, supplicandolo di essere misericordioso se in qualche cosa, senza volerlo, avevate peccato. Giorno e notte per tutta la vostra comunità vi adoperavate a salvare con pietà e coscienza il numero dei suoi eletti. Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza rancori. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile. Vi affliggevate per le disgrazie del prossimo e ritenevate le sue mancanze come vostre. Senza pentirvi mai di ogni buona azione, eravate pronti ad ogni opera di bene. Ornati di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i comandamenti e i precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro cuore. Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e prigionia.

Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. Per questo si sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la quale anche “la morte venne nel mondo”. (I-III)

Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza. (V)

Già nell’avvio di questa lunga lettera è posta la questione che giustifica un simile intervento: c’è la divisione rovinosa e si suggerisce di seguire l’esempio di coloro che hanno superato il male attraverso il martirio. Poi l’autore, con una serie di citazioni bibliche e di esempi desunti dalla Scrittura, insiste sulla necessità di salvaguardare l’unità, mediante l’umiltà, lo spirito di servizio: proprio le persone dedite al sacrificio sono coloro che devono essere considerate degne di imitazione. Tra i capi c’è sempre il rischio di trovare chi cerca il proprio interesse: di qui la necessità di una scelta giusta e di una formazione adeguata.

I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero.

Sarebbe per noi colpa non lieve se esonerassimo dall’episcopato quelli che hanno portato le offerte in maniera ineccepibile e santa. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse allontanati dal posto loro stabilito. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore. (XLIV)

Qui è affrontato il tema della successione apostolica, che risulta essere l’argomento principale di questa lettera, scritta nell’intento di verificare questo passaggio ormai in atto un po’ dovunque nella Chiesa. Probabilmente anche l’autore, che è a capo della Chiesa madre di Roma, ha riscontrato non pochi problemi circa questo passaggio, se si deve dare peso alla notizia che abbiamo circa la sua consacrazione a vescovo di Roma come successore di Pietro, senza che poi, alla morte di costui, gli subentrasse nel ministero. Tra lui e l’apostolo, di fatto, ci sono di mezzo altre figure che sono prevalse e che lui non avrebbe ostacolato nel diventare vescovi di Roma per conservare la pace nella Chiesa. Questo è comunque il segnale che ci possono essere state, se non delle divisioni, almeno dei contrasti in relazione a chi poteva essere considerato più degno della successione o come l’erede designato dallo stesso Pietro. In effetti i passaggi fra una autorità e l’altra sono sempre delicati, un po’ ovunque; e anche nella Chiesa si richiede che vengano individuati criteri piuttosto chiari per garantire una successione condivisa da tutti. Le parole qui usate ri-flettono comunque una situazione che non si è rivelata facile, soprattutto se alcune persone – come potrebbe essere per lo stesso Clemente – sono state ostacolate, nonostante avessero i requisiti richiesti. E questo vale anche a Corinto: forse è questa la ragione più importante perché il vescovo di Roma intervenga nelle tensioni in atto. Di qui l’accorato appello all’u-nità sulla base dell’appartenenza all’unico Dio e all’unico Cristo. Già dai primi tempi della Chiesa, dunque, le contese si fanno sentire e i richiami all’unità non si contano.

Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore.

Disse, infatti: “Guai a quell’uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che pervertire uno del miei eletti”. Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo. Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all’inizio della sua evangelizzazione? Sotto l’ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo (Apollo) stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna. E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si è ribellata ai presbiteri. E tale voce non solo è giunta a noi, ma anche a chi è diverso da noi. Per la vostra sconsideratezza si è portato biasimo al nome del Signore e si è costituito un pericolo per voi stessi. (XLVI-XLVII)

Sempre più accorato si fa l’appello all’unità, riconoscendo comunque che sono pochi i fomentatori del dissenso. Ciò che sconcerta è comunque il fatto che essi trovino consensi anche fra gente che rimane salda nella dottrina, per quanto segua personaggi non degni della carica che rivestono o che vogliono rivestire. Quindi non siamo in presenza di una divisione sulla base della dottrina, quanto piuttosto sulle forme di arrivismo che trovano spazio anche nella Chiesa, causando in essa la tensione e soprattutto una immagine poco credibile. Di qui l’intervento di Clemente che fa appello alla lettera di Paolo, nella quale si evidenzia il medesimo problema e il medesimo disagio. Si deve riconoscere in queste parole che la soluzione ai problemi va ricercata nei testi divenuti autorevoli degli apostoli e quindi nell’appello alla Scrittura. Il peccato di Corinto è sostanzialmente la ribellione ai “presbiteri”, che fa pensare ad uno scisma in corso, non tanto per questioni dottrinali, quanto piuttosto per il riconoscimento o meno dell’autorità nella Chiesa.

Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della vostra lingua. E’ meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza.

Così parla la sapienza maestra di virtù: “Ecco, io emetterò per voi una parola del mio spirito e insegnerò a voi il mio discorso. Poiché chiamai e non ascoltaste, prolungai i discorsi e non foste attenti, ma frustraste i miei consigli e disobbediste ai miei richiami. Anch’io riderò della vostra rovina, e mi rallegrerò se arriverà lo sterminio su di voi e se improvviso giungerà il tumulto e sovrasterà la catastrofe simile al turbine e quando avverranno l’angoscia e l’oppressione. Accadrà che voi m’invocherete e non vi ascolterò; i cattivi mi cercheranno e non mi troveranno. Odiarono la sapienza, non vollero saperne del timore del Signore, né vollero ascoltare i miei consigli e disprezzarono le mie esortazioni. Per questo mangeranno i frutti della loro condotta e si sazieranno della loro empietà. Saranno uccisi per aver commesso ingiustizie contro i fanciulli e il giudizio distruggerà gli empi. Chi mi ascolta riposerà fiducioso sulla speranza e vivrà tranquillo lontano da ogni male”. (LVII)

Qui il tono si fa duro e assume il linguaggio ben noto nei testi scritturistici da parte dei profeti che si appellano al Mosè del Deuteronomio, preoccupato lui pure che al suo venir meno sia garantita nel popolo ebraico, sempre diviso, un’autorità indiscussa e indiscutibile; proprio per questo Mosè ricorre al giovane Giosuè, che appare dominato dai suoi trascorsi militari e che dunque interviene con mano pesante. Qui non si arriva a tanto e tuttavia l’autore si fa sentire con una certa forza, perché il male presente appare come una cancrena da togliere con il bisturi.

LA PREGHIERA

Segue una lunga preghiera, che viene introdotta come se l’autore venisse ispirato da ciò che sta dicendo in maniera accorata, perché solo da Dio è possibile scongiurare questo male nella Chiesa. È uno dei primi testi di preghiera, che troviamo al di fuori delle fonti bibliche …

Noi saremo innocenti di questo peccato e chiederemo, con preghiera assidua e supplica, che il creatore dell’universo conservi intatto il numero dei suoi eletti che si conta in tutto il mondo per mezzo dell’amatissimo suo figlio Gesù Cristo Signore nostro, col quale ci chiamò dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso, a sperare nel tuo nome, principio di ogni creatura: Tu apristi gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te, il solo altissimo nell’altissimo dei cieli, il santo che riposi tra i santi, che umilii la violenza dei superbi, che sciogli i disegni dei popoli, che esalti gli umili e abbassi i superbi.

Tu che arricchisci e impove-risci, che uccidi e dai la vita, il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne, che scruti gli abissi, che osservi le opere umane, che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati, creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra, e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo, l’amatissimo tuo figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato. Ti preghiamo, Signore, sii il nostro soccorso e sostegno. Salva i nostri che sono in tribolazione, rialza i caduti, mostrati ai bisognosi, guarisci gli infermi, riconduci quelli che dal tuo popolo si sono allontanati, sazia gli affamati, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, consola i vili. Conoscano tutte le genti che tu sei l’unico Dio e che Gesù Cristo è tuo figlio e “noi tuo popolo e pecore del tuo pascolo”. Con le tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo. Tu, Signore, creasti la terra. Tu, fedele in tutte le generazioni, giusto nei tuoi giudizi, mirabile nella forza e nella magnificenza, saggio nel creare, intelligente nello stabilire le cose create, buono nelle cose visibili, benevolo verso quelli che confidano in te, misericordioso e compassionevole, perdona le nostre iniquità e ingiustizie, le cadute e le negligenze. Non contare ogni peccato dei tuoi servi e delle tue serve ma purificaci nella purificazione della tua verità e dirigi i nostri passi per camminare nella santità del cuore e fare ciò che è buono e gradito al cospetto tuo e dei nostri capi. Sì, o Signore, fa’ splendere il tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la tua mano potente e scamparci da ogni peccato col tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l’onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da te. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen. (LIX-LXI)

Qualcuno arriva a considerare la preghiera come una specie di anafora (o preghiera eucaristica), nella quale ha il suo peso anche il riferimento alle autorità civili. Per esse i cristiani sono chiamati a pregare, anche quando queste si rivelano ostili. Sulla base di ciò che troviamo raccomandato anche nelle lettere di Paolo, in cui i cristiani sono invitati a supplicare Dio per chi governa, chiunque egli sia, si deve ritenere quanto mai necessaria la preghiera come appello a Dio, perché la funzione e l’esercizio del governo siano vissuti a favore del bene comune, che è innanzitutto la salvaguardia dell’unità e della fraternità. Così la questione che sembra circoscritta alla Chiesa e in particolare a quella locale, con il richiamo all’autorità civile si estende a comprendere un po’ tutti, per la custodia del mondo, la sua pace e la sua tranquillità. È davvero un bell’esempio dello stile di preghiera solenne che i capi ecclesiastici di quel tempo esprimevano nelle riunioni per il culto. Ritenere che sia una preghiera di tipo eucaristico non sembra avere riscontro nella realtà, perché manca ogni riferimento all’eucaristia, perché non si trovano le parole della consacrazione, perché non si trovano le espressioni proprie e inconfondibili delle anafore, laddove si invoca la presenza dello Spirito e si fa riferimento al sacrificio di Cristo. Tuttavia nelle preghiere eucaristiche ancora in uso si trovano invocazioni per l’unità della Chiesa, per la fraternità fra gli uomini, per il richiamo al servizio dell’unità da parte di autorità ecclesiastiche e civili. Si tratta dunque di un testo considerato di valore un po’ sempre. La lettera si conclude con le esortazioni finali che richiamano i temi fondamentali della lettera e con l’invio di una delegazione che permetta di conservare i rapporti con la comunità secondo lo stile dell’apostolo Paolo, nella speranza che si possano avere i frutti sperati.

Fratelli, vi abbiamo scritto abbastanza sulle cose che convengono alla nostra religione e sono utili a una vita virtuosa per quelli che vogliono osservare la pietà e la giustizia. Abbiamo toccato tutti i punti che riguardano la fede, la penitenza, la vera carità, la continenza, la saggezza e la pazienza.

Vi abbiamo ricordato che nella giustizia, nella verità e nella magnanimità bisogna piacere santamente a Dio onnipotente, amando la concordia, dimenticando le offese, nell’amore e nella pace con una benevolenza continua, come i nostri padri, di cui abbiamo già parlato, si resero graditi con l’umiltà verso il Padre, Dio e creatore, e tutti gli uomini. E questo abbiamo ricordato con piacere, perché eravamo certi di scrivere a fedeli eccellenti che hanno approfondito le parole dell’insegnamento di Dio. E’ giusto che noi con tali e tanti esempi sottostiamo, prendendo il posto dell’obbedienza. Desistiamo dalla vana sedizione per raggiungere senza biasimo lo scopo propostoci nella verità. Ci darete esultanza di gioia se, divenuti obbedienti a ciò che vi abbiamo scritto mediante lo Spirito Santo, smorzerete la collera ingiusta della vostra gelosia, secondo l’esortazione fatta in questa lettera alla pace e alla concordia. Vi abbiamo inviato uomini fedeli e saggi, vissuti in mezzo a noi con modi corretti dalla gioventù alla vecchiaia, che saranno testimoni tra noi e voi. Abbiamo fatto questo perché sappiate che ogni nostro pensiero è stato ed è che ritroviate presto la pace. Dio che tutto vede ed è padrone degli spiriti e signore di ogni carne, che ha scelto il Signore Gesù Cristo e noi mediante Lui ad essere suo popolo, conceda ad ogni anima che implora il suo mirabile e santo nome, fede, timore, pace, pazienza e magnanimità, continenza, purezza e prudenza. E sia gradita al Suo nome per mezzo del sommo sacerdote e nostro protettore Gesù Cristo, per il quale sia a lui la gloria, grandezza, potenza e onore, ora e nei secoli dei secoli. Amen. Rimandateci presto nella pace e nella gioia i messaggeri da noi inviati, Claudio, Efebo e Valerio Bitone con Fortunato perché ci annunzino quanto prima la pace e la concordia invocate e desiderate, e presto noi ci rallegriamo della vostra serenità. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi e con tutti quelli ovunque chiamati da Dio per mezzo Suo e a Lui sia gloria, onore, potenza e maestà e regno eterno, dai secoli nei secoli dei secoli. Amen. (LXII-LXV)

La lettera appare conclusa con la segnalazione dell’invio della delegazione; ma poi viene riaperta, perché l’autore si premura di sollecitare il rinvio della delegazione, dalla quale ci si aspettano risultati positivi e quindi la notizia del ritorno all’unità, dopo aver estirpato le divisioni e soprattutto le cause che l’hanno creata. Ciò significa che è possibile comminare degli anatemi, mediante i quali chi fomenta lo scisma, possa essere, secondo il significato della parola “anatema”, tagliato via dalla comunità per farvi ritornare la concordia. Il richiamo è fatto con S. Paolo, che aveva parlato così con i Corinzi di 40 anni prima. Clemente appare nella finale meno duro, volendo fare appello alla coscienza dei Corinzi.

SECONDA LETTERA DI CLEMENTE

Questa lettera viene attribuita a Clemente, ma già nei primi tempi della Chiesa non era considerata sua, e veniva ritenuta posteriore di circa 50 anni. È S. Girolamo a dire che “si riporta una seconda sua lettera, che fin dai tempi antichi non viene riconosciuta sua”. Di fatto è un testo della metà del II secolo: la lettera, anche se appare nei toni come un’omelia, viene attribuita a lui, perché nei codici appare associata alla prima lettera. È di fatto un sermone su vari argomenti e con diverse citazioni evangeliche dedotte da Matteo e Luca, che hanno fatto pensare ad un testo in cui i due evangelisti vengono come armonizzati per dare origine a un nuovo vangelo. I temi trattati riguardano principalmente l’autocontrollo, il pentimento e il giudizio.

Fratelli, questo è il concetto che dobbiamo farci di Gesù Cristo: considerarlo quale Dio, quale giudice dei vivi e dei morti; e non dobbiamo tenere in poco conto la nostra salvezza. Se noi abbiamo un meschino concetto di Lui, è meschino anche l’oggetto della nostra speranza. Chi ascolta queste cose e le reputa piccole, pecca; e noi pure pecchiamo, se ignoriamo donde fummo chiamati e da chi e a quale luogo destinati e quante sofferenze volle sopportare Gesù Cristo per noi. Qual compenso gli daremo noi, o quale frutto, degno di quello che ci fu donato da Lui? Di quali benefici non siamo debitori a Lui? Egli ci prodigò la luce; come un padre ci chiamò suoi figli e ci salvò quando perivamo. Quale lode dunque o quale compenso, daremo noi a Lui per le grazie ricevute? Noi eravamo ciechi d’intelletto, adoravamo oggetti di pietra, di legno, d’oro, d’argento e di bronzo, opere umane; e tutta la nostra vita non era altro che morte. Eravamo circondati da oscurità, i nostri occhi erano pieni di nebbia; per volere di Lui riacquistammo la vista e dissipammo la nube in cui eravamo avvolti. Egli ci usò misericordia e ci salvò, mosso a compassione alla vista dei nostri molteplici errori e della rovina in cui giacevamo senza alcuna speranza di salute fuori di quella che viene da Lui. Egli ci chiamò quando ancora non eravamo, e dal nulla volle che passassimo all’esistenza.

Dà l’impressione di un testo che raccoglie, a mo’ di frasi fatte, una specie di apoftegmi, cioè di detti sentenziosi, che possono far presa per la loro brevità ed essenzialità. Anche per questo la lettera si conservò …

CONCLUSIONE

La prima lettera, più che il suo autore, rappresenta un documento notevole circa il cammino della Chiesa, con la visione qui espressa dell’autorevolezza legata al successore di Pietro. Noi oggi abbiamo una visione del “primato petrino” che fa leva su aspetti di natura giuridica, legata anche ad una tradizione storica, in cui la missione di Pietro si è ammantata di un potere giurisdizionale che sconfina poi nella natura politico – istituzionale: il Papa ha un ruolo primaziale, che l’ha fatto persino diventare un sovrano con tanto di territorio da governare e dei sudditi a cui provvedere. Certamente questo ha pure giovato al suo servizio nella Chiesa, ma di fatto ha creato non pochi motivi di divisione, che si sono trasformati in scismi. Sono ben noti quelli che la storia registra come fenomeni traumatici, che hanno prodotto scomuniche, incomprensioni e confini invalicabili nella dottrina, come si vede con il mondo orientale; ma non è da meno quello che si ebbe al tempo del superamento della cattività avignonese, quando si giunse ad avere addirittura tre papi e a far prevalere la tesi conciliarista della superiorità del Concilio rispetto al Papa, senza comunque giungere ad una situazione ancor più traumatica. Questa si produsse con l’avvento della Riforma e con lo strascico delle guerre di religione. Simili venti rovinosi sono un po’ sempre presenti nella Chiesa e spesso si rafforzano proprio sulla figura e sull’azione del Papa, nonostante che si sia tentato di rafforzare la sua missione con la tesi dell’infallibilità: problemi simili a quelli segnalati nella lettera di Clemente tormentano la Chiesa nella storia e anche nel momento attuale. I tentativi di dissociarsi dal Papa, di non riconoscerne l’autorità e le parole, hanno contribuito, e contribuiscono ancora, alla creazione di gruppi scismatici, dove possono allignare eresie e dottrine, che si sono allontanate dalla retta fede. Secondo l’autore della lettera la causa di simili rotture dipende dalle forme di personalismo e di soggettivismo che stanno trionfando anche nell’ora presente. Inoltre il peso di una tradizione che ha fatto prevalere una visione di natura giuridica nel ruolo del Papa, più che un suo servizio primaziale nell’ambito spirituale ha ulteriormente prodotto tensioni di non facile soluzione. La visione di tipo giuridico, dunque, non ha giovato a conservare e ad accrescere l’unità della Chiesa. In questo primo intervento autorevole avvenuto al di fuori della propria Chiesa, Clemente rivela che con l’autorevolezza, senza mai sconfinare in un potere giuridi- camente inteso, si può operare nella linea evangelica di confermare i fra-telli nella fede, come Cristo afferma nel vangelo, sostenendo di volere Pietro con questo servizio nella Chiesa.

È una indicazione significativa, che anche recentemente, con Giovanni Paolo II, si è fatta strada per una rivisitazione della missione di Pietro nella Chiesa, in cui si confermi ciò che è scritto nel vangelo, senza le sovrastrutture che si sono create nel corso dei secoli, quando di fatto si è rischiato di snaturare il compito di Pietro. Così la lettera induce a ritenere il compito del Papa, davvero necessario per garantire l’unità nella Chiesa, e nel contempo chiede che il Papa, con il suo intervento, di fatto richiesto, deve contribuire a costruire un più forte senso dell’unità e della comunità, senza cadute in avanti con gli arrivismi e i personalismi. L’unità, costruita con la convergenza e non mediante l’allineamento conformistico, e la comunione, che non impedi-sce il pluralismo e le diversità, non sono salvate solo difendendo la pu-rezza della dottrina, perché di fatto risultano più devastanti gli scismi, rispetto alle eresie. E nella lettera si fa riferimento soprattutto ad essi, facendoli derivare da una accentuazione dei personalismi, un male presente non solo nella Chiesa, ma divenuto, anche oggi, un problema non indifferente, pure nell’ambito civile, nel causare l’indebolimento della democrazia e di una partecipazione che è assolutamente necessaria a conservare il sistema democratico. È un po’ inevitabile che emergano le figure autorevoli, e queste sono indubbiamente necessarie per la conduzione della Chiesa e della società, anche a diversi livelli. Tuttavia sono necessari quei contrappesi che permettano a chi ha responsabilità di governo di non gestire la cosa pubblica come se fosse privata, e comunque di favorire il comune sentire, senza il quale non ci può essere la ricerca del bene comune. È dunque una salutare riflessione da non circoscrivere solo entro le mura della Chiesa, anche se qui la questione è circoscritta ad un gruppo ancora ristretto nella società di allora, destinato comunque ad accrescere il suo peso: tutto questo si pone nei periodi di passaggio e non lo è da meno il periodo nel quale viviamo. La lettera mette in guardia da fenomeni già diffusi al tempo di Paolo e ben radicati ed emergenti nei tempi di passaggio, come è quello vissuta alla fine del secolo I, quando scompaiono gli apostoli e coloro che sono i testimoni diretti del primo cammino della Chiesa. Con la nuova generazione è necessaria una impostazione che metta in guardia dalle degenerazioni già in corso. Di fatto si fa appello ad una autorità riconosciuta come preminente.

APPENDICE:

LA CHIESA DI S. CLEMENTE

Come contributo alla conoscenza di S. Clemente si può pensare alla chiesa romana che lo ricorda. Oggi la basilica si erge sopra le rovine di quelle che l’hanno preceduta e in particolare di quella che viene fatta risalire ai primi tempi: l’attuale, che sta fra l’Esquilino e il Celio, deve la sua struttura di base all’edificio del secolo XI. Qui già prima si onorava la memoria di Papa Clemente. Le mura erano (e ancora lo sono, in parte) affrescate con la storia del santo, derivata da racconti leggendari. È rimasta famosa la scena in cui si riscontrano parole scritte, quasi come in un fumetto attuale, e messe in bocca ai personaggi. Esse documentano il passaggio dalla lingua parlata latina, che già sconfina nel volgare, ad un nuovo modo espressivo.

ISCRIZIONE DI S. CLEMENTE

Affresco (XI secolo)

Basilica di S. Clemente al Laterano – Roma

L’episodio qui riprodotto in immagine è derivato dalla Passio Sancti Clementis (un testo anteriore al secolo VI): il nobile Sisinnio, che ha catturato il santo e lo vuole trascinare in prigione, interviene in modo rozzo e volgare a costringere i suoi servi, perché, prendendo con la forza il santo, lo conducano al luogo della sua pena. Costoro, accecati come il loro padrone, sentono molto pesante quel corpo e faticano a sostenerne il peso: di fatto essi hanno tra mano una colonna di marmo.

Per dare vivacità alla scena il pittore ha pure scritto le parole che dobbiamo pensare in bocca ai personaggi, e ne vien fuori un dialogo molto vivace, con parole che appartengono al linguaggio popolare. Siamo a Roma e quindi i vocaboli sono quelli della parlata romanesca della gente comune, compresi i termini poco consoni all’ambiente di una chiesa, che ancora hanno una certa forma derivata dal latino, ma di fatto appartengono maggiormente alle espressioni comuni, che stanno arrivando al volgare. Questa sarebbe una delle prime testimonianze del volgare, che sta diventando lingua italica. Non tutto è chiaro di quel concitato dialogo, ma la ricostruzione condivisa da gran parte degli esperti, potrebbe essere questa:

Sisinnio:

Fili de le pute, traite! Gosman, Albertel, traite!

Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!

S. Clemente:

Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis!

Sulla bocca del nobile stanno di fatto parole ormai vicine al “volgare” e anche con la classica espressione di volgarità. Sono il segno che ormai è dominante questo modo di parlare, il solo che possa essere compreso da chi vede la scena dipinta. Ciò che viene messo in bocca al santo è invece una frase che ancora appartiene al mondo latino, anche se alcune forme non rispettano più la grammatica (“duritiam” dovrebbe essere un complemento di causa, che andrebbe preceduta da “ob”) e neppure la forma fonetica (“traere” nel fonema latino prevede l’h in mezzo e quindi la forma corretta è “trahere”). Questa parte latina si avvicina molto a ciò che si può leggere sul documento scritto; non tutto è stato riportato perché sulla parete non poteva stare. Riferendola in latino, per quanto non totalmente corretto, si voleva creare la distanza fra il santo che parla il latino e i persecutori che invece si rivelano volgari nei modi e nel loro parlare.

Propriamente non interessa alla ricerca sulla lettera di S. Clemente, ma completa il quadro a proposito del santo, di cui era rimasta ormai famosa, a livello popolare, la narrazione del martirio. E ancora di più diventava ben nota in presenza di espressioni simili, probabilmente usate anche in chiesa, per raccontare il fatto, in cui doveva prevalere la componente del miracolo, accompagnata dai modi rozzi e violenti dei personaggi che devono essere denigrati agli occhi e alle orecchie degli spettatori.