LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Il governo.

È interessante nella lettura dell’opera scritta da Matteo Ricci che, prima ancora degli aspetti religiosi, vengano segnalati quelli che riguardano la vita quotidiana, e soprattutto l’attività lavorativa con i prodotti principali, che risultano essere specifici della Cina e dei suoi abitanti. Sappiamo che l’autore, in quanto prete e gesuita missionario, ha come sua finalità la predicazione evangelica; ma, nel contempo, come già operavano anche altrove gli stessi gesuiti, formati a Roma, anche lui si dedica alla ricerca scientifica coltivata negli anni della formazione, riconoscendo che gli studi fatti sono importanti per avviare il dialogo con la popolazione locale. Si rendeva conto che, per far entrare la proposta evangelica, era necessario conoscere più attentamente il percorso operato dalla gente del luogo e mettersi al passo con essa, avendo cura di conoscere da vicino il vissuto quotidiano. Abbiamo visto che ha iniziato la sua opera monumentale con l’attenzione al territorio, da considerare alla stessa maniera con cui veniva visto dagli stessi Cinesi, e da presentare ai lettori europei con lo sguardo di chi vi abita, suggerendo in tal modo di nutrire verso i Cinesi un’attenzione rispettosa. Naturalmente, anche per la considerazione che Ricci ha nei confronti del mondo culturale cinese, non può mancare la stima verso i letterati, gli scrittori, i ricercatori in genere, Anzi, egli stesso fa notare che persino nel mondo militare cinese si ha cura di formare le persone tenendo conto della componente che possiamo definire umanistica.

Questo modo di far gradi di Licenziato e di Dottore si usa anco negli stessi anni ai soldati, con gli stessi nome di chiugin e di zinsu, e negli stessi luoghi; cioè il grado di Licenziato nelle metropoli, e quello di Dottore in Pacchino, in un altro mese diverso. Ma come in questo regno vagliono puoco le armi, e la arte militare è sì puoco stimata, si fa con tanto manco solennità, e si dà a sì puoca gente, che pare una Compassione. (Ricci, p. 38)

Dopo una rapida presentazione di ciò che si produce e di ciò che caratterizza la cultura cinese, Matteo Ricci nel capitolo VI del primo libro si dedica al governo della Cina, che gli permette di offrire una narrazione molto sintetica dei principali eventi storici, per spiegare come al suo tempo ci si trovi con un sistema politico, che egli cerca di far comprendere ai suoi lettori, usando anche i parametri del mondo europeo, pur segnalando che la storia e la politica cinese sono di gran lunga diverse e diversamente vanno comprese e analizzate. Di fatto, più che un susseguirsi di eventi storici, Ricci definisce nelle sue linee essenziali il governo, che, essendo monarchico, senza limitazioni di sorta, se non per il suo apparato burocratico, rende la Cina un impero. Lo è inoltre per il fatto che nell’estensione del suo territorio, la Cina comprende al suo interno varie popolazioni o gruppi etnici, dominati da un governo unico, la cui struttura viene proposta dall’autore per spiegare al lettore occidentale come deve essere intesa la Cina. Perciò a chi scrive, che pur dimostra di conoscere l’essenziale della storia cinese, la segnalazione che maggiormente conta è il fatto di essere in presenza di una struttura di governo, che è certamente il risultato di una lunga gestazione nella storia. Esso, inoltre, appare ben strutturato, e così si spiega come esso persista e come esso continui a rinnovarsi e a sussistere insieme, per tutti i sistemi di equilibrio che si sono creati nel corso dei secoli, per far giungere la Cina ad essere un grande Impero, come lo stesso Ricci deve constatare ed ammirare. Anche se nel capitolo si accenna a qualche personaggio ed evento storico – e non si potrebbe fare diversamente per un pubblico, come quello occidentale, che appariva sguarnito degli elementi essenziali della storia cinese –, poi però allo scrittore interessa maggiormente comunicare il sistema istituzionale cinese, che non ha corrispondenti nel nostro mondo, per quanto Ricci cerchi di spiegare i fenomeni, ricorrendo anche a qualche termine ed esempio appartenente al nostro occidente. Del resto è lui stesso a precisare quanto ha in mente di segnalare al lettore.

Non toccherò di questa materia se non quanto viene al proposito di questo sommario; percioché proseguirla come essa richiederebbe esattamente sarebbe cosa da farsi in molti Capitoli. In questo Regno non si usò mai altro che di Governo monarchico di un suolo Signore, senza aver notitia di altro. E nel principio, ancorché fusse un solo Re e signore, con tutto vi erano anco molti signori soggetti al signore Universale, sotto vari titoli, come tra noi, di Duchi, Marchesi e Conti. (Ricci, p.39)

Il modo stesso di procedere e soprattutto di presentare con i termini che qui usa ciò che egli intende dire circa il governo cinese, ci fa capire che non c’è solo in gioco il sistema monarchico, ma che questo, diversamente da ciò che si presentava in Europa, soprattutto in quel periodo, è di fatto un sistema imperiale ben radicato ed esteso.

Il percorso accidentato della storia di questo Impero ha messo in luce per il potere centrale momenti di fragilità, e, soprattutto in occasione delle invasioni da parte di altri popoli, il suo stesso venir meno; tuttavia, pur in presenza di questi alti e bassi, la struttura imperiale centralizzata, è stata capace di risorgere e di affermarsi più volte. Evidentemente si riteneva che solo con un potere fortemente centralizzato era possibile tenere in piedi un simile immenso territorio.

SINTESI STORICA

DELL’IMPERO CINESE

Qui Matteo Ricci delinea brevemente la storia cinese, essa pure squassata da traversie notevoli, che a volte sembravano creare le condizioni di una decadenza votata all’esaurirsi del sistema stesso. Eppure in mezzo alle tante vicende sconvolgenti, la Cina appare sempre con l’immagine di un Impero! Sulla base di ciò che scrive Ricci, è opportuno dire qualche cosa della storia di questo Paese, che da parte del gesuita è data in maniera fin troppo sintetica.

Ma, da 1800 anni in qua (dal 221 a.C., data dell’unificazione della Cina da parte di Shi Huangli della dinastia Qin), fu sempre senza questi stati particolari; se bene, e prima di questo tempo e di poi, vi furono tra loro molte guerre e si divise anco in molti regni, ma mai fu signoreggiato da forastieri tutto intiero.

(Ricci, p.39)

Anche Ricci, come già i libri di storia cinesi, fa risalire al 221 a.C., quando a Roma era ancora in corso lo scontro della II guerra punica ad opera di Annibale, l’avvio di un lungo percorso storico caratterizzato dalla unificazione dell’immenso territorio sotto un’unica dinastia, che si impose secondo un tipo di governo “imperiale”. In questa epoca prendono piede i caratteri cinesi della scrittura; nel medesimo tempo si crea una fitta rete stradale che unifica il territorio, molto simile a ciò che, sempre in questo periodo, si va rafforzando nel sistema di governo a Roma e nel suo territorio. Per quanto però il capostipite della dinastia Qin abbia fatto molto per costruire un’immagine imperiale della Cina, poi – come ricorda Ricci – ebbe il sopravvento la ribellione, che diede origine a continue guerre civili. Ma ormai la visione imperiale si era imposta ed anche se imperversano le tensioni che portano ad uno scontro interno, la Cina, sotto la dinastia Han, conosce la sua massima espansione.

Ricci riassume la storia, senza mai entrare nella descrizione delle varie dinastie che si succedono, ma fa notare che comunque sulla Cina non vi fu mai dominazione straniera. Qui non viene detto, ma, nel medesimo periodo, cioè attorno al 1000, quando in Europa avvengono nuove ondate migratorie, che noi continuiamo a segnalare come invasioni barbariche, ad opera degli Ungari e dei Popoli del Nord, che noi identifichiamo con i Vichinghi o con i Normanni, pure in questo grande bassopiano dominato dai due fiumi, si ha una notevole crescita demografica; le migliorie sul piano tecnologico comportano produzioni migliori e soprattutto più abbondanti.

LA DOMINAZIONE MONGOLA

Sul lungo periodo, anche in seguito allo sviluppo sul piano tecnologico e produttivo, sui confini si affacciano popolazioni guerriere che dilagano nell’impero cinese dando origine all’invasione dei Mongoli, che hanno il sopravvento sull’etnia cinese. Il fatto è indubbiamente traumatico e ne dà conto anche Matteo Ricci.

Solo nell’anno del Signore 1206 venne dalla Tartaria un grande Capitano che, per congetture assai chiare, ci pare fosse il Tamorlano o qualche suo successore, scrivendosi di lui che si chiama Tiemor (qui Ricci inserisce, in maniera dubitativa, un dato effettivamente errato: non fu Tamerlano a conquistare tutta la Cina, ma il capo dei Mongoli Temujin (1167-1227) che col titolo di Gengis Qan, a partire dal 1206 gettò le basi dell’immenso Impero mongolo, conquistando la Cina settentrionale, l’Ucraina e la Polonia. L’impero fu ulteriormente ingrandito dai suoi successori, fra i quali Qubilay (1260-1294) che completò la conquista della Cina. Il nome Tiemor che Ricci attribuisce a Tamerlano “o a qualche suo successore”, era invece il nome del nipote di Qubilay che gli successe nel 1294 e il cui regno segnò l’inizio del declino del dominio mongolo) e che conquistò anco la Tartaria e la Persia. Questo in brieve tempo si fece signore di tutta la Cina, e così la governò ne’ suoi successori sino all’anno 1368, nel qual tempo, infiacchite le forze del Tartaro, e non potendo sopportare i Cinesi essere governati da forastieri barbari, si ribellorno in diverse parti sotto diversi Capi. (Ricci, p. 39)

Nelle poche righe qui riportate si parla del periodo dell’invasione mongolica, che deve essere stato un fatto traumatico per la Cina, così come i Romani avevano avuto l’incubo nei confronti dei Galli, e, poi, l’Europa medievale ha sempre temuto la vicinanza dei popoli barbari che premevano ai confini e che spesso si sovrapponevano ai popoli locali, senza mai realizzare appieno l’integrazione. Il fatto, comunque, non può essere sottaciuto: Ricci ne accenna, soffermandosi sulla figura, che qui appare mitica, del condottiero denominato Tamerlano. Per quanto costui abbia avuto grande fama, Matteo Ricci non cerca di offrire ulteriori notizie, come se il personaggio non meritasse alcuna informazione, trattandosi di uno straniero. Fa specie il fatto che si dia importanza alle figure dei personaggi emergenti, i quali, di fatto, non ebbero chissà quale fama, se non quella di voler rendere grande la Cina: l’epoca dei condottieri, sia quelli barbari, sia quelli locali, che rivelano di essere in grado di dominare la Cina, è quella dove la Cina appare divisa al suo interno, ma con la presenza di forti condottieri che devono far grande e quindi imperiale la Cina, costruita sulle grandi e monumentali opere, quella della grande muraglia, che avrebbe dovuto difendere dall’invasione mongolica. Eppure questa avvenne e fu perseguita da alcune figure che sono rimaste nella storia e che sono conosciute anche oltre la Cina stessa, se questi nomi risultano anche da noi famosi.

GENGIS KHAN (1162-1227)

Risulta, fra i condottieri mongoli, colui che ha unificato gran parte del mondo euroasiatico, visto che il suo dominio si estendeva dalla Cina settentrionale e, attraverso l’Asia centrale e la Persia, si estendeva alla parte europea della Russia e con la Polonia alle porte dell’Europa centrale.

Le sue conquiste avvenivano con il sistema della terra bruciata, che faceva vittime e distruzioni dovunque arrivava, lasciando così una nomea che ha fatto paura a tutti. E comunque ebbe anche la capacità di creare le condizioni per una cultura unificata. Ancora oggi viene considerato il fondatore della Mongolia, ridotta ad essere incuneata fra la Russia siberiana e la Cina, che si è tenuta la Mongolia interna.

KUBLAY KHAN (1215-1294)

Kublai Khan e Ghost of Tsushima - Tribe GamesE’ uno dei nipoti di Gengis Khan, che nello stesso secolo, conservò e accrebbe il dominio e il prestigio dei Mongoli nel mondo. È nel corso del suo regno che Marco Polo giunse in Cina, e, visitandola e facendola conoscere, parlò di fatto di questo Paese assoggettato ai Mongoli.

TAMERLANO (1336-1405)

Tamerlano - Wikipedia

Emulo di Gengis Khan, senza nessun rapporto di parentela con lui, portò i Mongoli a fare del cuore dell’Asia, a Samarcanda, il centro del mondo.

Su sollecito delle sue numerose mogli, fu incentivato ad abbellire la sua capitale Samarcanda e, nel corso della sua vita, incontrò diversi intellettuali della sua epoca, alcuni religiosi sunniti e sciiti di spicco e anche degli ambasciatori provenienti dall’Europa. Il suo innegabile carisma e la sua aura di formidabile condottiero e sovrano gli consentirono di creare un vasto impero che si estendeva dall’Anatolia alle rive del Gange, ma il suo decesso, avvenuto nel 1405 mentre stava marciando verso la ricca Cina che sperava di sottomettere, provocò un’irreversibile crisi la quale erose lentamente l’impero timuride nel corso del XV secolo. La sua biografia è nota in maniera abbastanza dettagliata grazie a varie opere quasi coeve che ne hanno permesso di ricostruire le vicende. Volendo sintetizzare all’osso il giudizio degli storici moderni su Tamerlano, un personaggio che ha suscitato opinioni divisive nel corso dei vari secoli, occorre affermare che l’emiro viene ritenuto un personaggio tanto abile quanto feroce e tanto affascinante quanto spregiudicato. (Wikipedia)

La lunga dominazione mongola segnò profondamente la Cina: la stessa muraglia, edificata nell’intento di arginare questa orda barbarica, sta a testimoniare che di lì i Cinesi sentivano una presenza malefica; ed essi, soprattutto in quei secoli, non sono stati in grado di contenere e di respingere. Ci volle una serie di sommovimenti, e anche la presenza di guide qualificate soprattutto nelle armi per poter raggiungere la piena indipendenza e più ancora la capacità di creare un impero nella Terra di mezzo, in grado di sostenere eventuali altri urti barbarici, che comunque non ci furono. E qui Ricci riprende la storia della Cina, per spiegarne il governo, lasciando intendere che nel percorso c’è stato spazio anche per la dominazione mongola, guardata con un certo fastidio, e che nel contempo la vera forza della Cina viene raggiunta ed esercitata nella misura in cui essa sa trovare “capi” in grado di renderla grande.

Il più valente e astuto fu uno della famiglia Ciu (Ziu), che chiamano Humvu (Hogwu, titolo di regno dell’imperatore Zhu Yuanzhang (nome postumo Taizu, 1368-1398), fondatore della dinastia Ming), che vuol dire Grande Capitano, il quale attraendo al suo agiuto altri huomini valenti, di un povero soldato venne ad avere tanto potere che, non solo scacciò fuora da questo stato il Re Tartaro e suoi Capitani, ma anco con grande felicità tutti gli altri ribelli e si fece absoluto signore di questa Monarchia, e le tiene sino al giorno di hoggi ne’ suoi successori e poteri, chiamandoli Tamin (Da Ming, “Grandi Ming”).

(Ricci, p. 39-40)

 

LA DINASTIA MING

Pure con il suo modo sintetico di narrare, Ricci offre il quadro storico che segue alla presenza dei Mongoli: in mezzo a notevoli contrasti si fa strada la nuova dinastia, quella ben nota dei Ming. Con questa dinastia, che va dal 1368 al 1644, la Cina si consolida, ed è quella che si presenta agli occhi di Matteo Ricci: è di etnia han, e quindi va considerata cinese a tutti gli effetti ed è l’ultima anche oltre l’epoca di Ricci, che si possa definire tale. Giunto a questa dinastia, lo storico gesuita non va a raccontare gli eventi più significativi che hanno caratterizzato questo periodo, e neppure parla delle figure emergenti al potere, ma offre al lettore il quadro istituzionale, che spieghi il sistema di governo presente in Cina. Questo è in effetti l’obiettivo che si prefigge l’autore di far sapere ai suoi lettori: tenuto conto che la relazione deve poi servire in modo particolare a quanti, da missionari, si presentano al mondo cinese, è quanto mai necessario che i missionari stessi si inseriscano in questo mondo conoscendo bene i meccanismi che presiedono alle relazioni sociali nel grande Impero.

Se il sistema di governo è monarchico c’è da supporre che esso sia garantito secondo una linea ereditaria; e in effetti la successione passa attraverso i figli, tenuto conto del fatto che gli Imperatori potevano avere diverse mogli. E tuttavia non sempre i figli erano all’altezza del compito loro affidato. Di qui le ribellioni o le successioni strappate con le armi, con l’assunzione del regno da parte di chi ne è veramente meritevole. L’autore sembra giustificare così anche i colpi di Stato e dare risalto a chi poteva detenere il potere acquistato con la rivolta. Così chiude la sua nota introduttiva a questa analisi del sistema di governo, che può e deve prevedere il ricorso alle armi, purché sia salvato lo Stato stesso.

Ma è cosa da lodare molto fra loro che inanzi al Re passato perdere lo stato, sono i Cinesi tanti fedeli al Re Antico, che molti più tosto si lasciano amazzare che volere obedire al novo; ed è detto de’ letterati che dice: “La buona donna non è moglie di doi Mariti, ed il buon Vassallo non serve a doi signori”.

(Ricci, p. 40)

 

Sulla base del fatto che esiste un’autorità somma, rappresentata dall’Imperatore, dobbiamo parlare di una Monarchia assoluta, per la quale tutto il potere appartiene al Re. Non si può parlare di una specie di Costituzione o di Legge fondamentale dello Stato, che neppure in Europa si poteva riscontrare, quando del resto siamo alla vigilia di un sistema monarchico che in Europa è destinato a divenire “assoluto”, come è possibile vedere in tanti Stati europei nel corso del Seicento. Eppure Ricci riconosce l’esistenza di un sistema di leggi, che compaiono durante la dinastia Ming e che servono ad accompagnare il potere assoluto dell’Imperatore. Non c’è mai stato un impianto legislativo come quello che definisce lo Stato e quindi può apparire come una specie di Costituzione, diversamente da ciò che compare nella storia occidentale, dove la cosiddetta Legge delle XII tavole, riscontrata a Roma costituisce anche una struttura di base circa il sistema di governo. L’apparato di leggi cinese poteva sembrare qualcosa di simile e serviva soprattutto a definire meglio il governo.

Per quanto nella Cina non vi sono leggi antiche, come le nostre Imperiali o le antiche delle Dodici tavole, per le quali si governino, il primo Re di quella famiglia sempre fa nove leggi, le quali sono obbligati i Re suoi successori a guardare e non possono facilmente mutare le prime leggi stabilite e ricevute. Per questa causa le leggi et ordini che adesso si osservano nella Cina non sono antique, ma tutte fatte da Humvu novamente, pigliando pure e lasciando quanto gli pare degli altri antichi Legislatori (Hongwu inizialmente abrogò tutti i codici ereditati dalle dinastie precedenti, ma in seguito ne riabilitò alcune parti formando un corpus generale di leggi amministrative e penali dal titolo Duminglu (Legge dei Grandi Ming) pubblicato nel 1397) , nelle quali la principal mira che hebbe fu la pace e quiete del regno, et il perpetuare lo stato ne’ suoi successori. E conciosia cosa che per la grandezza di questo regno e per il puoco che questi letterati sanno delle altre nationi, sempre pensorno che il Re della Cina era signore legittimo de tutto il mondo, chiamorno e chiamano sempre il Re Thienzu, che vuol dire figliuol del Cielo e per essere il Cielo il loro supremo nume, puoco manco è tra loro dire Thienzu, come tra noi sarebbe “figliuolo di Iddio”. Ma il nome comune di che si chiama è Hoanti, che tanto monta come Imperatore o supremo Monarca; agli altri Re del mondo chiamano Guan.

(Ricci, p. 40-41)

Va segnalato che Ricci appare molto colpito dal fatto che la dinastia Ming da lui conosciuta, abbia particolarmente a cuore l’elaborazione di un “corpus” di leggi con cui ordinare e rendere stabile l’Impero cinese. La legge per lui ha come suo principale obiettivo il raggiungimento della pace e soprattutto lo stabilirsi di una quiete che consente il benessere generale e nel contempo un futuro che dia garanzia di continuità. Così chiarisce il valore e il significato delle leggi che devono regolamentare una nazione; anche nella consapevolezza che la pace e la tranquillità non devono mai essere date per scontare e sicure nel corso dei tempi, bisogna far sì che la formulazione della legge permetta di raggiungere e di conservare un simile obiettivo. C’è pure da aggiungere che per questa loro funzione gli Imperatori cinesi di questa benemerita dinastia hanno pure come loro fine quello di portare la medesima stabilità nel resto del mondo. Ricci dichiara che l’Imperatore va riconosciuto come il “signore legittimo” del mondo: dobbiamo intendere questo non solo come affermazione del diritto dell’Imperatore a divenire il sovrano di altre terre, aggiunte a quella della Cina, ma come giustificazione del suo potere, proprio perché da lui provengono le leggi che lo fanno essere un vero signore. Ed è pure notevole il fatto che una simile signoria venga riconosciuta con termini che noi sappiamo derivare dal mondo religioso. L’imperatore viene designato di fatto come il “figliuol del cielo”, dove il cielo, che è il “loro supremo nume” diventa di fatto sinonimo di Dio. E così il sovrano può essere dichiarato “figlio di Dio”. Questa visione della regalità corrisponde a ciò che si faceva strada anche nel mondo occidentale, dove le monarchie assolute si presentano e vengono riconosciute come espressione divina, come se il re derivasse la sua autorità direttamente da Dio, in una visione evidentemente molto religiosa. Ricci deriva una simile visione, che per tanti aspetti somiglia a quella dominante anche in Europa, come il frutto delle riflessioni di letterati cinesi, i quali concorrono a collocare il Re cinese come supremo monarca da cui derivano quelle leggi che costituiscono il nucleo essenziale dello Stato stesso. Così si può dire che lo Stato coincide con il Re ed il Re non può essere tale se non per il fatto che da lui proviene tutto il sistema legislativo. Da Humvu, dunque, il fondatore della dinastia Ming, deriva tutto l’impianto del “celeste” Impero.

Oltre il valore, di questo Umvu hebbe anco grande ingegno e giudicio; e così fece molti belli ordini del Governo de’ quali porrò qui alcuni de’ più principali.

Perché si vede chiaro nelle Historie antiche che tutte le famiglie reali si persero o per ribellioni di parenti del Re o di altri stati particolari, per stare grande parte del Governo nelle loro mani, ordinò che nessun Parente del Re avesse mai nessun governo nel Regno, né di Città né di soldati; e a quei che li agiutorno a conquistare il regno, diede solo governo de’ soldati per sé e per i suoi successori. Et, acciocché per altra parte restassero contenti, fece che a tutti figliuoli del Re si desse Titolo di Guan, che è come Regolo, con rendite grandissime, non di terre, ma di danari che se gli dessero dell’erario pubblico ogn’anno; e che tutti i magistrati gli riverissero come Re, senza essere nessuno soggetto a loro; e i figliuoli e nepoti di questi, sino a tutte le generazioni, che se gli desse un altro titolo un grado manco, et anco con rendita competente e honore che se gli facesse sino in certo termine più lontano di nipoti, ai quali se gli dà tanto che gli basta per vivere molto onestamente senza far nessun arte o mercantia. Provvide anco che a tutti questi parenti gli fussero maritate le loro figliuole con buona rendita per sé e per i suoi mariti, con varie differentie di più o manco, conforme alla vicinità di parentesco, che avessero al tronco reale. A gli compagni del Re Humvu nella Conquista del Regno non solo diede grandissime rendite, ma anco grandi titoli, come di Duchi, Marchesi e Conti, che loro chiamano Cum, Heu, Pa, per sé e per i suoi successori et vari privilegij e Capitanie de soldati, ma in tutto suggetti ai pubblici Magistrati.

(Ricci, p. 41)

Fin qui l’autore tratta del culmine della piramide governativa e delle difficoltà sempre presenti, soprattutto nei momenti delicati del passaggio di padre in figlio, in quel genere di successione che risulta qui spesso molto complicato, soprattutto se l’erede non ha forze sue e il sistema della “nobiltà” si fa arrogante in presenza della debolezza del vertice. C’è però un piano, che si potrebbe definire dell’apparato burocratico o comunque del governo vero e proprio, che ha il compito di eseguire le norme dettate dal Re e di portare a termine tutti i progetti finalizzati al bene e allo sviluppo della popolazione. C’è bisogno di un’amministrazione che sia in grado di svolgere bene il proprio compito, acquisendo quelle competenze che permettono di governare e di farlo bene. Ricci parla in effetti di una formazione adeguata messa in campo per garantire un buon apparato statale, riconoscendo che anche in questi casi si riveli la “malizia” e l’ingiustizia, che si potrebbe pensare che esploda con il male tipico di un simile settore, che è quello della corruzione. Ricci non ne parla, ma lo fa intuire.

I MANDARINI

Quei dunca che hanno nella mano tutto il governo del Regno sono assunti puoco a puoco dai Dottori e Licenziati fatto per lettera et essame, come dicessimo nel Capitolo precedente. E per conseguire questi magistrati non hanno necessità di nessuna gratia o favore, non dico de’ magistrati, ma né anco dello stesso Re, percioché tutto si dà per essami di lettere, prudentia, virtù et habilità che mostrano avere negli offitij passati; se bene questo si intende quanto alle legi di Humvu, lasciando quello che la malitia humana tra gentili di puoca coscientia continuamente fa di ingiustizia contra que-sta e contra tutte le legi e buona ragione.

I Magistrati del Governo et anco della guerra sono chiamati da loro con nome Quon fu, che vuol dire Presidente, i quali per nome honorifico si nomano Laoie o Laotie, che vuol dire signor Padre. I Portuguesi, dal Commandare che fanno sempre, gli chiamano Mandarini, il qual nome già è inteso per i nostri paesi. (Ricci, p. 42)

Con questo termine, che lo stesso Ricci ricorda essere di origine portoghese, vengono designati quei funzionari di governo, che in gran parte sono desunti dalla famiglia imperiale o dall’aristocrazia che circonda l’Imperatore stesso. Essi ricevevano una certa preparazione per svolgere le loro funzioni, ed erano sottoposti agli esami di rito, formando poi una casta, nella quale poteva allignare anche la corruzione. Nella sua permanenza in Cina Ricci incontra queste figure, e ne deve dipendere se vuole accedere ai più alti gradi. Provenendo dal sud, e in particolare dalla colonia portoghese di Macao, egli cerca di risalire fino a Pechino, passando dai funzionari che ne favoriscono l’accesso alla capitale. Così egli comprende di dover meglio capire il sistema del “mandarinato” per vedersi facilitato l’accesso al vertice del potere, perché riconosceva che dai mandarini bisognava passare e che con loro era necessario costruire rapporti di familiarità.

Ricci ammirava l’importanza, la dignità e il potere dei mandarini. Il gesuita non fu il primo occidentale a essere colpito: molti altri visitatori stranieri dell’impero cinese, prima e dopo Ricci, inclusi i frati Martin de Rada e Augustin de Tordesillas, restarono impressionati dal potere dei mandarini. L’originalità delle osservazioni di Ricci, che ci fanno ben comprendere la sua personalità, sta nei suoi ripetuti confronti fra il mandarinato imperiale e la gerarchia ecclesiastica cattolica romana.

La Cina era una terra senza nobili, governata da mandarini “che sono come dei in terra”. Nei loro yamen,

non parlano con nissuno di fuora se non in pubblico in una sala o corritore molto grande a modo di chiesa, e il laotie (= venerabile signore, appellativo onorifico dei mandarini), che loro li chiamano, sta nel fine come in una cappella, con una banca avanti con frontale, come un altare, e lui dietro sedendo in una sedia con un vestito molto straordinario e con certe orecchie di panno molto maggiori che di un cavallo, che è signale della loro dignità, come il cappello rosso di cardinale. Nel mezzo vi è una via molto larga e ben fatta con le sue porte per dove non può entrare nissuna persona né andare se non lui. Ai lati di questa stanno due altre per dove vanno gli altri, e stanno molti huomini armati in sua guardia secondo i gradi vicino a lui e fora alla porta. E quando gli parlano è in ginocchioni, e lontani un tirar di sasso, molto alto (…) e i mandarini danno tanto crudeli battiture per puoca cosa che molti muoiono, et tanto facilmente gli battono come il maestro tra noi i fanciulli suoi scolari.

Il solo mandarino che Ricci incontrò a Macao fu probabilmente lo zhixian di Xiangahan, il magistrato di contea che aveva giurisdizione su Macao e che in determinati casi aveva il potere di intervenire direttamente. Anche se lo zhixian era un funzionario locale minore, appartenente al settimo grado dei nove previsti dal sistema dei mandarini … Ricci fu impressionato dalla pompa e dal potere del suo ufficio. Mostrandosi ben disposto nei confronti dei padri, il mandarino permetteva loro di stare in piedi mentre rispondevano alle sue domande sulla religione occidentale. Quando lo zhixian attraversava le strade della città, era preceduto da uomini armati e da altri che portavano insegne e annunciavano a gran voce il suo passaggio. Alcuni cittadini allora si precipitavano dentro casa, o sbarravano le finestre, gli altri tacevano e si gettavano in ginocchio quando il mandarino compariva su una lettiga trasportata a spalla dai portatori proprio “come il papa”. La cosa che più colpì Ricci fu che “questi laotie sono figliuoli di agricoltori et artegiani molto bassi che per lettere montano a questo stato”. A parte la crudeltà delle punizioni, i mandarini della Cina imperiale ricordavano a Ricci la gerarchia cattolica: per mezzo dell’erudizione acquisivano onore, dignità e potere, e l’élite dei letterati, grazie alle proprie conoscenze, era considerata al di sopra della gente comune, distinzione marcata da cerimoniali, discorsi e consuetudini.

(Po-Chia, p. 93-94)

La particolare considerazione che ha Matteo Ricci riguardo ai mandarini lo porta a considerare che di fatto il vero potere è nelle loro mani e che comunque lo straniero che si affaccia alla Cina deve prima di altri passare da loro.

Poi, nella misura in cui il mandarino ha una sua personalità spiccata, lo straniero potrà risalire i vertici e arrivare fino alla corte imperiale, come è successo per lui. Già nel testo che vuole spiegare il sistema di governo, Ricci sostiene che per quanto il sistema debba essere considerato monarchico per la presenza dell’Imperatore, poi però va riconosciuto come “repubblicano” per il fatto che nei singoli distretti emerge la figura del mandarino che ha il compito di presentare al sovrano le relazioni e le richieste che riguardano il suo territorio. Di fatto l’Imperatore, nella misura in cui si fida del suo funzionario, non può fare altro che sanzionare ciò che suggerisce e ciò che ha fatto il suo mandarino.

Se bene abbiamo detto di sopra esser questo governo Monarchico, con tutto ciò, considerando questo che ho già detto et ho da dire in questa materia, tiene molto del Republico. Percioché, se bene tutto quanto si fa nel governo deve essere approvato dal Re nei publici memoriali che i magistrati gli danno di tutto quello che hanno da fare, con tutto il Re non fa altra cosa che approvare e riprovare quello che gli propongono, e quasi mai fa niente sopra qualche negocio senza l’essergli proposto prima da’ magistrati che hanno cura di quello. E così mai fa nessun favore o gratia a nessuno, se non gli fusse proposto da’ magistrati esser degno o meritevole di tal gratia o favore. E nei memoriali che gli danno i particolari, che sono molto puochi, percioché tutti hanno da passare et esser revisti per i magistrati, che sono presidenti di tali memoriali, il Re quando vuol fare qualche cosa di quello che gli chiedono o propongono, non fa altro che scrivere in esso: “Tal magistrato essamini questo negocio e mi dia aviso di esso”. Et è cosa certa, nella quale ho fatto diligentia per saperla bene, che non potrebbe il Re dare ad uno, a chi egli volesse bene, un presente di danari o altra cosa, né fargli un favore di qualche offitio, o aumentargli il grado, se qualche magistrato non glielo propone, il quale non si metterà di nessun modo a far questo, senza qualche custume che vi fosse o legge per farlo. (Ricci, p. 42-43)

Ciò che Ricci dice a proposito dei legami fra il potere centrale dell’Imperatore e lo stuolo notevole di mandarini che hanno il compito di governare nei vari distretti, è che le direttive e i consigli sono accompagnati dal denaro, che Ricci definisce come un “presente”, un donativo evidentemente per far passare da una parte e dall’altra determinate decisioni.

È ovvio che un simile modo di coltivare le relazioni all’interno della “macchina statale” porta presto a quelle forme degenerate che vanno sotto il nome di “corruzione”. E comunque il giro di denaro è necessario per tenere in piedi il sistema. Non per nulla Ricci inserisce qui le sue considerazioni circa l’erario …

Le rendite, tributi e gabelle del Regno, che montano senza dubio più di cento e cinquanta milioni l’anno, non entrano nell’erario del suo Palazzo, che possa egli spenderli a sua voglia: ma tutto, o sia in argento, che è la sua moneta, o in Granriso, che è il vitto ordinario di questa natione, si raccoglie ne gli erarij e Granari della stato e di essi si pagano il vitto ordinario per l’istesso Re, Regine, figliuoli e parenti, eunuchi et altri officiali con splendidezza et abundantia regia, ma né più né meno di quello che le leggi gli assegnalorno. Del resto pagano tutti i Magistrati, i Soldati e gli publici officiali del regno, che è una cosa molto magiore di quello che i nostri europei possono pensare. Di questo anco fanno le fabriche dei Palazzi del Re e de’ suoi parenti et altri publici edificij, e si spende nelle guerre et apparechi di armi, fortezze e muri, che in un regno sì grande mai mancano, tanto che con essere il danaro e vettovaglie in tanta copia, alcuni anni non basta e si impongono novi tributi. (Ricci, p. 43)

Come si può notare la gran parte delle entrate per lo Stato viene destinato alla difesa, che in realtà si caratterizza soprattutto con le spedizioni militari e quindi con le guerre: la ragione principale delle tasse è proprio per venire incontro alle esigenze di natura militare e per mantenere efficiente un sistema che non è solo di natura difensiva. Naturalmente ci sono diversi settori nei quali necessita il ricorso al denaro per amministrare l’immenso Impero: e qui Ricci presenta quelli che noi possiamo considerare come i diversi ministeri: in ordine l’autore parla del Ministero del Personale (si fa riferimento ai vari magistrati ai quali assegnare i diversi uffici necessari per l’amministrazione del vasto Impero), del Ministero delle Finanze (e qui ci sono coloro che devono raccogliere e distribuire i proventi delle tasse), del Ministero dei Riti (che non riguardano propriamente le questioni religiose, ma quella che potremmo chiamare l’etichetta di corte), del Ministero della Guerra (che propriamente si occupa dei soldati con tutti i graduati dell’esercito), del Ministero delle Opere pubbliche (che si interessa dei Lavori pubblici e quindi della costruzione di tutto ciò che serve per la vita civile e militare: edifici, ponti, strade …) e poi del Ministero delle Pene (corrispondente al nostro ministero della Giustizia che si interessa ai tribunali e all’amministrazione carceraria …).

A questi deve poi aggiungere un organo di governo, che Ricci paragona a quello degli Efori in uso a Sparta, laddove costoro potevano intervenire per tenere sotto controllo le alte cariche dello Stato. Altrettanto succede qui, perché il Consiglio è composto, come dice Ricci, di “più di sessanta Dottori e gente scelta in sapere, prudentia e fidelitate”; costoro possono intervenire a censurare persino l’Imperatore, e Ricci rimane molto meravigliato della presenza di una simile istituzione …

ofitio molto simile a quello degli ephori di Lacedemonia, se non fosse che questi non hanno altro potere che di parlare e più tosto di scrivere, non potendo far niente se non gli è concesso dal Re. Ma fanno sì bene il loro offitio che ci fa maravigliare; percioché mai cessano di parlare o latrare con i loro memoriali. Conciosia cosa che nel vero mai manca materia e non perdonano né a Sciansciù (con questo termine si definisce il Presidente del Consiglio) né a Colao (con questo termine si designa il Consiglio del Re fatto di poche persone), né all’istessa persona del Re, quanto manco ad altri mandarini dentro e fuora della corte; e tutto con molta libertà, interezza e dimostrazione di desiderio del ben commune. E, se bene il Re si adira molte volte con loro e, perché toccano molto al vivo in sua persona et magistrati grandi, e gli priva di ogni offitio e rendita, o abassa o castiga molto atrocemente, con tutto ciò loro non cessano di una o più volte tornare a riprendere la stessa cosa, mentre gli dura l’offitio. E mentre non si dà qualche remedio al male che vedono farsi al buon governo. (Ricci, p. 46)

Come si può notare è una istituzione particolare del mondo cinese e forse del tempo di Ricci, che rivela come il cosiddetto potere assoluto trovava comunque qualche freno ad opera di chi doveva vigilare perché si avesse a cuore il cosiddetto “bene comune”, esplicitamente citato da Ricci, evidentemente perché ne verificava il richiamo parlandone con gli amici da cui aveva desunto non solo la descrizione di simili istituzioni, ma anche la loro funzione e più ancora l’effettiva percezione che si aveva di esse al vertice, come pure, se non nell’opinione pubblica, in coloro che svolgevano ruoli di primo piano nella gestione del potere. La segnalazione di questi personaggi, che lui paragona agli efori, lascia stupito lo stesso Ricci, che riconosce di essere di fronte a qualcosa di inedito e di interessante, soprattutto per una gestione del potere non abbandonato al libero arbitrio dell’Imperatore stesso.

Il fatto che comunque egli debba segnalare anche atrocità, non si può dare per scontato che un simile Consiglio fosse sufficiente a tenere a bada le intemperanze del capo di turno. Probabilmente nel periodo della sua presenza in Cina, l’autore deve aver constatato un buon funzionamento del cosiddetto eforato. Esistono poi altri Collegi, di cui però Ricci non parla. Segnala invece quella che noi potremmo considerare una specie di “Accademia imperiale”.

Vi sono anco nella Corte diversi Collegij per vari cose, ma il più nobile di tutti è il Collegio di Hanliniuen che è de’ letterati del Re, dove non stanno se non dottori scielti tra gli migliori negli essami, che ogni tre anni si fanno. Questi, sino ad uscire di esso non si mettono nel Governo, ma sono più gravi che quei che governano, e così è cosa che molto si pretende. Il loro offitio è fare la Compositione del Re, scrivere le historie del Regno, le leggi ed altri statuti. Di essi escono i maestri del Re, del Principe et altri suoi figliuoli: sempre studiano e vanno montando di un offitio in altro che vi è nel Collegio, sino ad offitij molto grandi, e non gli dà se non cosa di grande dignità, e mai escono d’offitio nessuno. Fuora della Corte nessuno può essere Colao che non sia di questo Collegio. Guadagnano molto in Compositione che gli chiedono per varie cose; percioché basta esser Compositione di Hanliniuen per esser tenuta per cosa elegantissima. E tutti gli essami de’ Dottori e Licentiati o sono fatti da loro o uno di loro tiene il primo luogo. E così hanno molti Discepoli, per il Costume di questo Regno, che tutti quei che pigliano il grado sotto di qualche essaminatore resta tutta la sua vita suo discepolo e sempre lo riverisce, presenta e serve come Maestro.

(Ricci, p. 47)

L’apparato di governo che presiede all’Impero cinese trova il suo centro a Pechino, la quale appare così già da allora, la capitale del Paese e nel contempo la sede abituale dell’Imperatore; ma Non ha meno importanza Nanchino, che fu ritenuta capitale in diverse circostanze storiche e lo divenne soprattutto nel periodo repubblicano, fino all’avvento del comunismo di Mao. Anche Ricci ne parla in relazione al rapporto che la dinastia Ming ebbe con Nanchino.

Questi et altri offitij di questa corte di Pacchino, eccetto quei di Colao, sono nella corte di Nanchino, se bene con assai meno di autorità. La causa di questo fu che Humvu, fece la sua corte in Nanchino.

Ma doppo la sua morte un suo nipote, detto Iunlo, che stava nelle parti del settentrione, e con un buono esercito per resistere ai Tartari, novamente cacciati fuora di questo stato, vedendo il Primogenito di Humvu herede del Regno (in realtà il successore di Hongvu non fu il suo primogenito, bensì suo nipote Zhu Yunwen, con il titolo di regno Jianwen (1398-1402); questi tentò inutilmente di contrastare il potere dei vari principi, figli e nipoti di Hongvu, fin quando, dopo un periodo di guerra civile, Yongle, del principato di Yan nella Cina settentrionale, si proclamò imperatore), esser huomo di puoco sapere, determinò pigliare il regno per sé. E, facendosi con facilità da obedientia dalle provincie settentrionali, fu con grande essercito a Nanchino, e con forza di armi, di presenti e lusinghe, soggettò le altre provincie, e scacciò fuora da Nanchino il suo zio, facendosi signore di tutta questa Monarchia. E perché il suo potere principale era nelle parti settentrionali, e quivi vi era un grande pericolo de’ Tartari ritornare a recuperare il regno, volse far la corte in queste parti nell’istesso luogo dove la tenne il Re Tartaro (si tratta di Kubilay Khan), e la chiamò Pacchino, che vuol dire Corte del settentrione. E per non far dispiacere alle parti australi, lasciò anco la “Corte del mezzogiorno”, che questo vuol dire Nanchino, con gli stessi Magistrati, offitij e Privilegi, come prima stava. (Ricci, p. 47-48)

CONCLUSIONE

La lettura di queste pagine ci rivela Matteo Ricci alle prese con la storia della Cina, senza che ce ne dia una trafila esauriente di vicende e di personaggi. Anzi, si potrebbe dire che la questione storica non vada a genio allo scrittore, come se egli fosse occupato e preoccupato di parlare d’altro. In effetti egli è dominato dall’interesse per la Cina che ha davanti agli occhi e dallo scopo di parlarne, nella prospettiva di farla conoscere meglio a quanti dovranno poi trasferirsi in essa e quindi dovranno viverci e operare. Non si deve dimenticare che il fine dei suoi scritti è quello di preparare i futuri missionari gesuiti nell’inserimento in quel Paese per portarvi il vangelo. E, dovendo farlo, essi non possono trascurare come sia fatto il Paese, non solo sotto il profilo geografico, ma anche sotto quel-lo istituzionale, come risultava in quel periodo storico. Ricci ha dapprima cercato di conoscere bene il Paese, e soprattutto si è sforzato di lasciar trasparire ai Cinesi stessi che egli si era messo dalla loro parte nel considerare il grande mondo in cui voleva abitare e con cui voleva dialogare.

Nell’intento poi di conoscerlo meglio da vicino, non poteva non entrarvi e attraversarlo; e per fare questo era necessario passare da quell’apparato di Stato fatto de piccoli e grandi ministri o funzionari, che erano in stretto contatto con il governo centrale. La loro conoscenza e soprattutto la loro familiarità, conquistata col tempo, avrebbero favorito l’ascesa da Macao verso Pechino, ma soprattutto l’accesso alla corte imperiale, dove Ricci si aspettava, con l’accoglienza, anche la possibilità di una libera azione nel celeste Impero. L’apparato governativo, costruito per assicurare stabilità e continuità allo Stato, doveva essere ben conosciuto perché esso risultava necessario non solo per accedere alle varie zone del grande Paese, ma soprattutto per poter trovare udienza a Palazzo, con il sostegno di funzionari di rango. Insomma, più ancora della conoscenza storica e della conseguente conoscenza politica, se si voleva penetrare nel Paese, era quanto mai necessario riuscire a penetrare nell’apparato di governo, che Ricci cerca di intendere, non necessariamente facendo ricorso a sistemi analoghi in uso in Occidente, ma sforzandosi di capire come funziona questa macchina e soprattutto come sia possibile accedervi con rispetto e nell’in-tento di considerare l’apparato governativo a partire da esso, mettendosi nella medesima prospettiva. Se, per spiegarsi ai suoi lettori occidentali, deve ricorrere a termini in uso da noi, poi però egli fa prevalere i termini e gli appellativi di quel mondo, evitando di voler paragonare ai nostri schemi un apparato che è indubbiamente molto diverso. Continua anche in questa sua disanima del mondo cinese, quella forma di rispetto che vuole la salvaguardi e non l’assimilazione della Cina allo schema europeo, quello che da noi spesso si considera come il modello ideale a cui riferirsi e da ricopiare anche a quelle latitudini. C’è invece da imparare anche da un mondo avvertito come lontano e che tale non è.

BIBLIOGRAFIA

1.

Matteo Ricci

DELLA ENTRATA DELLA COMPAGNIA DI GIESU’

E CHRISTIANITA’ NELLA CINA

Quodlibet (Macerata) 2000

2.

Ronnie Po-chia Hsia

UN GESUITA NELLA CITTA’ PROIBITA

Matteo Ricci, 1552-1610

Il Mulino – 2012