Nel bicentenario di Fermo e Lucia.

INTRODUZIONE: UNA NUOVA FASE

In un tempo relativamente breve, quello tra il 1821 e i 1823, Manzoni arriva a comporre la storia che poi diventerà famosa nell’edizione del romanzo di vent’anni dopo. Qui elabora la vicenda dei due giovani, con il corollario di altre vicende personali, che potrebbero essere storie a sé stanti, anche se poi vi metterà mano per una revisione sostanziale che riguarda i contenuti, ma soprattutto la forma espressiva. Comunque il canovaccio, che troviamo poi nelle edizioni successive, anche con i tagli doverosi, emerge fin dalla prima stesura ed è il frutto di una ricerca che lo interesserà per molto tempo. Qualcuno ipotizza che si tratti di due storie diverse. Ma così non è, anche se la conduzione della trama presenta differenze e gli stessi personaggi sono proposti con nomi e caratteri diversi. La lettura, a cui ci ha abituati la scuola, è quella condotta sulla edizione definitiva. Qui è utile conoscere il lavoro non indifferente che ha portato al capolavoro, tenendo conto che simile operazione non è solo un lavoro di rifinitura, ma è soprattutto la ricerca di un modo di scrivere che ha prodotto qualcosa che è ben di più di un romanzo, di un libro, di un’opera letteraria: qui è stato avviato un percorso che ha contribuito a costruire la cultura popolare di un Paese, ancora tutto da realizzare.

Non esiste forse romanzo la cui nascita resti più misteriosa. Noi non sappiamo, e forse non sapremo mai, attraverso quali tentativi il Manzoni si sia deciso ad affrontare il romanzo, anzi il romanzo popolare. Quali prove in campo narrativo lo resero sicuro di possedere quanto fosse necessario per lavorare in maniera ampia e decisiva su un genere con cui non si era mai cimentato, e per dar vita a personaggi, all’immagine della sua città, della sua terra e descrivere paesaggi sereni, e delitti e crudeltà atroci? Quale forza, quale determinazione lo spinsero insomma a cacciarsi in un’impresa che fu la sua gloria e il suo tormento … (Macchia, p. 49)

In effetti ciò che è destinato a divenire il capolavoro nasce in un momento piuttosto agitato, anche se la rivoluzione è ormai alle spalle e le vicende che ne sono seguite hanno preso la piega della “Conservazione”. Il tormento è piuttosto interiore; è il tormento di un uomo che è rimasto deluso dalla piega degli eventi e dal corso di una storia vissuta con le passioni giovanili e con il disincanto di chi sta per costruire più realisticamente il futuro.

La crisi personale del 1821

La delusione, seguita ai giorni convulsi dei moti del 1821, per l’amarezza del naufragio totale degli eventi che ci si aspettava dal vicino Piemonte, e soprattutto per la retata poliziesca che si scatenò contemporaneamente nel milanese, spinse lo scrittore a tentare altre strade rispetto a quelle che fin qui aveva seguito con le sue ricerche e con le sue sperimentazioni. Sembrava inclinato a scrivere in versi; sembrava continuare l’eredità lasciata da coloro che lui ammirava dell’età napoleonica, e che lo avevano stimolato sulla medesima strada, in modo particolare sul versante delle tragedie, il contributo migliore per raggiungere un uditorio più ampio e per diffondere idee eroiche e pugnaci. Ma anche questo filone appariva in esaurimento, sia nel suo animo, sia sul fronte politico e sociale di quegli anni. Con le delusioni, che devono essere state particolarmente amare, anche se ben poco trapela dalle sue lettere scritte in questo periodo (segno evidente della paura di essere scoperto, fors’anche perché tenuto sotto controllo), si apre una nuova fase per lo scrittore, che ancora non gli è chiara, ma che diventerà progressivamente un preciso percorso di natura squisitamente culturale.

A Milano c’è in corso la reazione austriaca. Intorno, dovunque, è la sensazione di un vento travolgente che mortifica: che abbatte. Fallito il piano concordato fra i carbonari lombardi e quelli piemontesi, la polizia austriaca aveva arrestato i capi della congiura: Confalonieri, Pellico, Borsieri. Anche Manzoni rischiò per un momento di risultare implicato. Si era aperta una serie di processi e di condanne. Qualcuno più fortunato, come il Berchet, era riuscito a passare il confine. Anche Giuseppe Arconati era scampato all’estero. L’atmosfera era cupa. Il tempo vertiginoso degli anni di Bonaparte dava il senso, ora, di stagnare in un enorme vuoto. Anche in famiglia, le cose non vanno affatto bene. Era sopraggiunta un’altra, grave malattia di Enrichetta. Gli interessi e le frequentazioni abituali sembrano diventate impossibili. Lo coglie il pensiero degli amici lontani; soprattutto di quelli che languiscono, ora, in qualche fortezza boema. All’inerzia forzata del presente si aggiungono le previsioni negative dell’avvenire. Qualche volta gli sembra di non riuscire ad abbozzare un giudizio, una sintesi degli avvenimenti. Forse potrà tentare di rifugiarsi negli studi. Ma anche quando guarda al passato, ne attinge una volta di più, a fondo, una coscienza di precarietà, come se, via via che gli eventi si affacciano, fosse in agguato a insidiarli una misteriosa forza negativa: il risucchio, il vortice di tutto. (Ulivi, p. 232-233)

IL GUSTO PER LE RICERCHE STORICHE

Gli studi di storia

In un simile contesto gli studi diventano il suo rifugio. Sono gli studi che poi lo inducono a scrivere; ma per il momento si limita a raccogliere dati mediante la lettura di testi che lo attirano.

Sono testi di storia, che lo orientano verso lavori in prosa e soprattutto dedicati alla ricerca storiografica. Nasce l’interesse per il genere letterario che oltralpe spopolava. Nasce il romanzo storico. Se la gestazione del romanzo richiede parecchio tempo (anche ad essere già elaborato nell’arco di due anni, fra il 1821 e il 1823), questo si deve ad un tormento interiore, mai sufficientemente dominato. Aveva un grande assillo per trovare una forma espressiva adeguata a quel tipo di contributo culturale, che si faceva strada nei suoi intendimenti. Indubbiamente la problematica linguistica è al centro dei suoi interessi e del suo lavoro culturale. Ciò che lo animava, e che non era sempre chiaro, si preciserà negli anni a venire e lo porterà a preferire la prosa rispetto alla poesia, che negli anni precedenti appariva al centro dei suoi interessi e della sua fama di scrittore. La prosa appariva la forma più adatta ai fini anche pedagogici che si prefiggeva; e la prosa richiedeva poi una forma espressiva nuova. Si faceva strada la convinzione che era necessario costruire una lingua davvero nazionale, al di là delle forme regionali esistenti, se si doveva giovare alla causa risorgimentale, fin lì espressione di piccoli gruppi e di poche voci, molto velleitarie e poco concludenti. Il problema della lingua emerge in modo chiaro e inequivocabile più avanti, quando già il racconto di contenuto storico si è dipanato; anche perché lui stesso si rende conto che quanto ha scritto ha bisogno più che mai di una revisione radicale. In questo momento egli ha da pensare ad un nuovo genere letterario: questo gli deriva dall’interesse per gli studi storici, a cui si dedica in vista delle opere che ancora richiedono un lavoro di lima. Negli anni successivi alla fulminea e fulminante esperienza di Napoleone, poi naufragata, lo scrittore è a Milano, lontano dai salotti parigini, frequentati in precedenza. Ed è avviato alle esperienze teatrali, che voleva indubbiamente innovativi rispetto a quelli in voga. Proprio per questo aveva intrapreso uno studio meticoloso in riferimento alle epoche storiche, nelle quali erano ambientate le vicende delle tragedie affrontate. Soprattutto per meglio trattare la storia narrata nell’Adelchi si era buttato a capofitto con le ricerche sull’epoca dei Longobardi; ma nel contempo si lasciava intrigare dalla scoperta e dalla lettura del romanzo di Walter Scott, Ivanhoe.

Nel primo concepimento del Fermo fu invece sicuramente Ivanhoe a essere determinante. I punti di contatto fra le due opere sono particolarmente notevoli: comune è l’idea di un romanzo storico in cui si mescolano l’interesse per uno sfondo reale e la suggestione di una vicenda inventata; comune a entrambe è l’azione insieme di personaggi della storia e di personaggi d’invenzione; la presenza di un complesso di avvenimenti drammatici che si frappongono e ostacolano il normale sviluppo delle vicende dei protagonisti; la presentazione dei difficili rapporti fra due popolazioni di diversa origine; l’alternanza fra lo sviluppo della vicenda di invenzione e ampi brani documentari di ricostruzione storica e di ricreazione di un ambiente. Malgrado questa analogia strutturale il risultato fu però molto diverso … Manzoni è infinitamente più profondo di Scott (Suitner, p. 29)

C’è, in effetti, nella sua opera, maggior rigore documentaristico, perché Manzoni fa un lavoro di ricerca indubbiamente molto accurato: lo studio è meticoloso, anche se poi non tutto quello che ha raccolto entra nella elaborazione del suo romanzo; anzi, qualcosa diventa addirittura uno scritto a parte, come succede per la Storia della colonna infame. Se Scott si trova in difficoltà con il suo romanzo più celebre, che tratta di storia inglese, mentre lui è scozzese, Manzoni ha la possibilità di addentrarsi in una storia, che può definire italiana, e più ancora locale e regionale, propria del mondo che egli conosce bene. La sua storia non è comunque pensata solo in chiave regionalista; essa è una vicenda che mette in campo un problema avvertito un po’ dovunque nella penisola: si tratta cioè del rapporto fra la popolazione italiana e il dominatore straniero, problema che persiste all’epoca del Manzoni e che sta diventando tormentoso nel clima del primo Risorgimento, dopo lo sconvolgimento dell’età napoleonica. Così il suo racconto diventa significativo un po’ dovunque, e, più ancora, riguarda gli Italiani, per questa loro condizione storica; e diventerà ancor più determinante, anche per il notevole lavoro che poi sviluppa affrontando la questione della lingua. Ma il lavoro più raffinato è poi quello con i personaggi, storici o inventati che siano. Manzoni li scolpisce a tutto tondo, creando figure che diventano sempre più reali, anche quando appaiono come macchiette, anche quando giganteggiano nei loro vizi o nelle loro virtù. Non diventano mai miti o eroi, ma, proprio a partire dalla loro stessa vicenda, fatta di alti e bassi, vengono come torniti e offerti nella loro umanità. Tutto questo naturalmente avviene soprattut-to nella edizione più aggiornata, quando la revisione non è solo sul piano linguistico e formale, ma attiene pure la sostanza della sua storia e dei suoi personaggi: la vicenda è narrata con sapiente architettura e le figure umane sono dipinte con mirabile armonia. Mettendosi al lavoro già nei primi mesi del 1821 – lui stesso segnala al primo capitolo la data del 24 aprile 1821 – nelle stessa introduzione dà il primo assaggio del suo modo di raccontare: egli ha come obiettivo una storia, che lui dice di aver scoperto in un manoscritto e che vuole riprodurre con una lingua meglio curata …

Nella seconda metà del secolo decimo settimo, quando scriveva il nostro autore, quella maniera che dominava in tutta la letteratura italiana e ha conservata una turpe celebrità sotto il nome di secentismo; e che consisteva principalmente in uno sforzo per trovare il maraviglioso ebbe nei diversi paesi d’Italia diverse modificazioni, e tendenze principali: dove fu principalmente una affettazione di sagacità raffinata, dove una esagerazione impetuosa d’idee di sentimenti e di immagini. In Lombardia, dove pochissime idee erano diffuse e ventilate, donde nessun libro veramente importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana si studiava pochissimo e da pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue straniere, le quali del resto non avendo ancora opere ben pensate non potevan comunicare idee in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in modo pedantesco, e molti studii trascurati anzi sconosciuti, il linguaggio comune doveva esser rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale; e lo era infatti al massimo grado. Sur un tal fondo si ricamava poi di quelle arguzie, si appiccava quella ricercatezza che era la tendenza generale di tutta la letteratura italiana; e ne usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d’ignoranza affermativa, quella continuità d’idee storte espresse in solecismi ( = parlare scorretto), lo scrivere insomma di cui si è dato un saggio (fa riferimento al testo con cui si apre il racconto che lui dice provenire da un manoscritto …). E il nostro autore non era uno dei peggiori del suo tempo: era anzi alquanto al di sopra della proporzione media; ma in verità s’io avessi avuto la pazienza di trascrivere la sua storia voi non avreste quella di leggerla. La storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch’ella dovesse rimanersi sempre sconosciuta. Ci siamo quindi risoluti di rifarla interamente, non pigliando dall’autore che i nudi fatti. (Fermo e Lucia, p. 12-13)

Così la vicenda da raccontare si va formando nella fantasia dello scrittore, che pure trova argomenti nei suoi studi di storia per dare concretezza e sviluppo all’idea iniziale. Questo lavoro richiede ovviamente uno studio approfondito dei tempi in cui è collocata la vicenda dei personaggi; ma su questo Manzoni ha già le attrezzature necessarie e un buon metodo di lavoro, affinato con lo sfondo da dare alle sue tragedie. Ciò che deve ulteriormente affinare è l’indagine sui personaggi che nella prima redazione sono abbozzati e che nella limatura successiva acquistano un rilievo notevole, per non dire un assetto nuovo che li fanno diventare anche altro rispetto al primo affiorare. Lo stesso protagonista, che nel primo romanzo è chiamato “Fermo”, diventa in seguito “Renzo” con l’aggiunta del cognome “Tramaglino”, che lo fa essere un giovane dal carattere vivace, fino a lasciarsi invischiare in trame complesse nelle quali rischia di essere travolto, e per le quali non è affatto “fermo”, stabile, sicuro.

Gli storici di riferimento: Gioia e Ripamonti

Da dove nasce questa vicenda particolare che rimane sempre appuntata sui protagonisti di un matrimonio, che veniva avviato nelle sue pratiche, ma non portato a termine nella sua celebrazione? Il caso dei due giovani “rimasti promessi” dà origine ad una vicenda travagliata, anche se tutta legata a due personaggi nient’affatto grandi nella storia e per nulla destinati ad emergere, come sono, invece, gli eroi dei racconti epici. Anche nella scelta di questi due giovani, mai in grado di essere eroi, mai destinati a diventare famosi, sta la vera novità del romanzo storico in Italia. Il desiderio di scrivere di storia gli deriva dalla lettura del romanzo di Scott, ma la sua vicenda, anche avendo sullo sfondo la grande storia, pone al centro gente comune. È vero che ci sono pure dei personaggi di riguardo, ma costoro sono puro contorno e comunque sono visti nella loro umanità, fatta di grandezza e di miseria, insieme.

Già se non ci fosse stato Walter Scott, a me non sarebbe venuto in mente di scrivere un romanzo. Ma, trovai nel Ripamonti quegli strani personaggi della Signora di Monza, dell’Innominato, del cardinal Federigo, e la descrizione della carestia, della rivolta a Milano, del passaggio dei lanzichenecchi e della peste; e viste le grida dei governatori di Milano, riportate nella sua opera, dal Gioia, ho pensato: Non si potrebbe inventare un fatto, a cui prendessero parte tutti questi personaggi e in cui entrassero tutti questi avvenimenti? E fu la grida che il dottor Azzeccagarbugli fa vedere a Renzo e in cui si parla delle violenze per impedire qualche matrimonio, quella che mi spinse a inventare il fatto dei Promessi Sposi”. Così avrebbe confidato un giorno a Cristoforo Fabris. (Ulivi, p. 234)

Inventare” è il termine più corretto per parlare della trama di questo suo romanzo: la storia nella sua più alta accezione sta sullo sfondo, come lo scenario che “invera” la vicenda. L’affresco del Seicento lombardo è in re-altà la cornice necessaria perché appaia più realistica la vicenda dei personaggi più dimessi, che diventano il contenuto del quadro. Essi sono pura invenzione dell’autore; e tuttavia nel suo lavoro di scrittore diventano vivi e veri, anche perché nelle grida spagnolesche, che lui scopre, si fa riferimento a situazioni particolari, in cui è proprio la povera gente che subisce soverchierie, inganni e violenze. Invece di rimanere sul generico, l’autore fa emergere figure concrete con una storia più vicina alla gente comune, dove ciascuno può ritrovarsi per qualcosa di simile. Sullo sfondo della grande storia appare la piccola storia di povera gente, che diventa così protagonista; essi non sono più semplici elementi di contorno. Da casi generici e anonimi, come quelli che si possono avvertire nelle grida esaminate sui testi di Melchiorre Gioia, si arriva a figure umane non più senza nome.

Secondo la testimonianza del figliastro Stefano Stampa, ritenuta general-mente attendibile, la prima idea della vicenda narrativa del romanzo venne all’autore dalla “grida” sui matrimoni impediti che Azzecca-garbugli fa vedere a Renzo nel III capitolo. Manzoni venne a conoscenza di questa “grida” con ogni probabilità dall’operetta di Melchiorre Gioia Sul commercio de’ commestibili e caro prezzo del vitto. Gli scritti di Melchiorre Gioia, non solo questo ma anche altri, offrivano informazioni preziose sulla situazione storico-economica della Lombardia seicentesca, sulla carestia destinata a sfociare nella terribile peste del 1630. (Suitner, p 35)

Melchiorre Gioia (1767-1829) non è propriamente uno storico, ma nella sua travagliata esistenza si è occupato di Statistica, in anticipo sui tempi, da applicare soprattutto nel campo economico. La fonte storica invece per Manzoni è Giuseppe Ripamonti (1573-1643), prete brianzolo, originario di Ravellino (Lecco) che ebbe una vicenda travagliata con il Card. Federigo Borromeo: costui lo mise in carcere, fece attendere la convocazione del processo, lo condannò e poi lo assolse. Oltre a scrivere la storia della Chiesa di Milano, in un latino forbito, fu autore di una storia della peste del 1630, a cui Manzoni attinse per il suo romanzo.

Nella Storia di Ripamonti, e nel De peste dello stesso autore, Manzoni trovò addirittura i capisaldi narrativi del suo racconto: la Milano dominata dagli spagnoli, la carestia e la peste, l’opera di Borromeo, perfino la storia della monaca di Monza e della conversione dell’Innominato. Se dovessimo indicare un’unica “fonte” dei Promessi Sposi questa potrebbe appunto essere il libro di Ripamonti, e la cosa è tanto vera che qualche studioso, un po’ paradossalmente, ha addirittura proposto di identificare nella cronaca del canonico lombardo il famoso manoscritto anonimo inventato da Manzoni nell’Introduzione. (Suitner, p 35)

Recentemente, nel 1993, è stato anche scoperto un incartamento riguardante un processo, tenuto a Venezia contro un nobile vicentino tra il 1605 e il 1607, il cui contenuto sembra molto simile alla trama del romanzo manzoniano. Così viene riassunta la vicenda: L’imputato principale è un giovane nobile residente in un villaggio in cui esercita un incontrastato dominio. È circondato da una piccola corte di nobili e da uno stuolo di bravi. Sono molte le violenze da lui esercitate, anche assieme al più giovane cugino, compagno di ozi e di bagordi. A proteggere le sue malefatte interviene spesso lo zio, il personaggio più temuto e rispettato dell’ambiente. Tra le vittime principali emerge Fiore, una giovane contadina del luogo che vive con la madre vedova. Nonostante le minacce del nobile che da tempo le ha manifestato pressantemente le sue attenzioni, ella riesce a sposarsi. Nottetempo i due giovani aristocratici inviano però i loro bravi alla sua casa, per condurla violentemente nel loro palazzo, dove la giovane viene ripetutamente stuprata. Sorte non dissimile incontrano altre giovani contadine del paese. Laddove la violenza non giunge a compimento viene ormai impedito l’imminente matrimonio a sposi già promessi, fidanzati, mariti e padri sono percossi e minacciati. Più di una coppia, dopo aver affrettatamente concluso il matrimonio, deve allontanarsi dal paese. A proteggere le vittime ed in particolare la giovane che vive con la madre vedova, è un frate che da alcuni anni esercita l’attività di curato del villaggio. È questo personaggio, fra Ludovico Oddi, che riesce ad opporsi alle prepotenze nobiliari e a spingere la giovane a ribellarsi alle soverchierie ricevute. Per toglierlo di mezzo lo zio dei due giovani nobili ricorre alla curia vescovile vicentina, ottenendo che il frate sia pro-cessato dal tribunale ecclesiastico con l’accusa di difendere la giovane donna per rivalità in amore con il nipote Paolo Orgiano. (Suitner, p. 36)

Sono evidenti lo somiglianze, ma più ancora le differenze. Anche se vicende simili offrono lo spunto per narrare la sua storia, questa appare pur sempre originale, per il modo con cui è condotta. Del resto Manzoni ricorre, nelle diverse edizioni, alla scoperta di un manoscritto che lui intende trascrivere di nuovo; anzi nell’edizione in esame, quella del 1821-23, ci sono ben due introduzioni, la prima definita “contemporanea alla stesura dei primi capitoli” e la seconda “rifatta da ultimo”.

Al lavoro per la scrittura del romanzo

Aveva, dunque, un buon materiale di partenza, ricavato da quanto aveva letto avidamente dalle fonti richiamate. Ma poi è stato necessario mettere mano a tutta questa storia complessa per saperla armonizzare in un racconto credibile e soprattutto affascinante. Probabilmente tutto questo lavoro avviene in contemporanea con quei moti, che, sull’orizzonte politico, facevano sperare in un cambiamento rispetto allo stagnante clima di restaurazione. E il fatto che egli, a più riprese, nello stesso 1821, si lasci attrarre da quanto succede nel campo politico, dice chiaramente che le illusioni in quella direzione venivano sempre cullate. Ma illusioni restavano! I moti e, soprattutto, il clima deludente che li accompagnava, non impedivano a lui di continuare il suo lavoro di ricerca. Nel contempo si rendeva conto che tutto questo poteva giovare meglio alla causa. Inoltre la ricerca nel campo storico e i primi tentativi di mettere “nero su bianco” quanto andava elaborando gli permettevano di superare queste delusioni.

Nella primavera del 1821 (il 24 aprile, secondo la data segnata sul manoscritto) Manzoni iniziò la stesura del romanzo. Scrisse con ogni probabilità i primi due capitoli (Il curato di … – Fermo) e la prima Introduzione. Poi mise l’opera da parte e si volse, fra le altre cose, al completamento dell’Adelchi, che aveva lasciato interrotto. Solo dopo aver completato la tragedia ritornò al romanzo, lavorandovi con alacrità probabilmente dalla primavera del 1822. Il manoscritto reca la data finale del 17 settembre 1823 … Non si può che restare ammirati di fronte alla rapidità di esecuzione di Manzoni, che contrasta singolarmente con il lungo lavoro di revisione e di correzione che seguirà. (Suitner, p. 37)

Sembra tutto finito in un tempo relativamente breve, ma così non è. Anzi, inizia un periodo piuttosto lungo di elaborazione, che darà origine al capolavoro. Si tratta, in effetti, di un unico romanzo, quanto meno perché le vicende narrate sono le medesime, pur con alcuni episodi e personaggi diversamente trattati. In realtà la scrittura del testo ha dato origine ad opere diverse.

FERMO E LUCIA

Qui interessa l’edizione del “Fermo e Lucia”, che di fatto è un lavoro a sé, e che merita una considerazione a parte, rispetto alla successiva edizione, la quale è sempre stata definita una revisione. Senza entrare ancora nell’analisi di questa opera, ben poco nota e letta, se non da quanti risultano addetti ai lavori, e tuttavia utilizzata, almeno per qualche particolare, nella seconda trasposizione televisiva del capolavoro manzoniano da parte della RAI (del 1989, con la regia di Salvatore Nocita), è opportuno cercare di comprendere il modo che ha Manzoni di lavorare fin dai primi capitoli intorno a questo materiale, che richiede notevole elaborazione e che lo impegna per parecchi anni. Possiamo così andare oltre le questioni che hanno occupato insegnanti e studenti sui banchi di scuola, dove, del resto, l’analisi si sofferma sull’edizione finale. Non è il caso neppure di addentrarci nella lettura e di cercare confronti con l’edizione definitiva del romanzo, quella a tutti nota dalle aule scolastiche.

Preme solo cercare di capire come lavorasse l’autore e come dunque bisogna ben intendere che cosa egli volesse operare sul fronte culturale italiano, per immettersi sul filone coevo europeo, e nello stesso tempo avere come obiettivo il con-tributo non indifferente circa la trasformazione della società italiana.

I problemi inerenti il romanzo storico nella letteratura italiana

Nell’aprile 1821, quando l’autore mette mano a questa opera, ancora non è del tutto concepito il piano. Manzoni non sa ancora come dovrà definire questa sua opera, di cui stende i primi due capitoli. Non affronta ancora la questione, poi a lungo dibattuta, della lingua, che diventerà un rovello continuo, perché qui c’è ancora da definire il tipo di contenuto. C’è indubbiamente la consapevolezza di voler fare un racconto e quindi di elaborare una storia, di cui esistono tracce nei documenti coevi, anche se non con i nomi dei personaggi, anche se non con gli intrecci che in corso d’opera appariranno. Dalle prime battute c’è comunque la questione importante per Manzoni dell’intreccio di una vicenda particolare da collocare sullo sfondo di un quadro storico ben documentato. L’obiettivo di fondo è indubbiamente “il vero”; e anche quando esso non risulta essere un avvenimento di cui si abbiano documenti accertati, quell’evento deve risultare “verosimile”.

Solo più avanti, a romanzo ormai edito nella versione oggi conosciuta come la “Quarantana”, Manzoni entra nella questione su come si debba intendere il romanzo storico. Ecco alcune delle affermazioni che l’autore offre nel trattato dedicato alla questione, “Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione” (1845).

Il romanzo storico va soggetto a due critiche diverse, anzi direi direttamente opposte; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d’accessorio, ma l’essenza stessa d’un tal componimento; così l’esporle e l’esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d’entrare, senza preamboli, nel vivo dell’argomento. (p. 891)

Premette le osservazioni dei possibili lettori.

La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell’umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia, nel senso più usuale del vocabolo. (p. 891)

La questione più delicata e dibattuta riguarda i rapporti fra ciò che risulta documentato, e quindi appartenente al “vero”, e quanto invece appartiene alla fantasia dello scrittore, e quindi risulta “inventato”, pura “favola”, che pur potrebbe essere considerato “verosimile”. Il romanzo storico allora si costruisce sui fatti che appartengono al mondo della storia, in cui sono mescolati anche situazioni ed eventi, che potrebbero succedere e che però sono frutto della fantasia creatrice dell’autore.

È un componimento, nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa né stabilire, né indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devono entrare … (p. 899)

Per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d’alcune specie di fatti umani, ma qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani.

(p. 902)

È vero, dunque, il fatto documentato; è verosimile o favoloso il fatto inventato dall’autore.

Qui, nell’opera di studio del 1845, Manzoni propone le sue riflessioni teoriche sulla questione del romanzo storico, quando ormai la sua opera è già nota ed è già riconosciuta di valore. Anni prima, nell’affrontare la composizione del suo primo romanzo, quasi a voler chiarire le obiezioni che potevano essere sollevate in questo suo lavoro, considerato una novità assoluta nel panorama letterario italiano, e in linea con le novità provenienti da altri Paesi europei, l’autore ricorre alla finzione di un manoscritto, rinvenuto e rielaborato come base di partenza per la sua storia. Così anche il documento, che dovrebbe essere alla base del dato storico, di ciò che è “vero”, viene allegato dallo scrittore, come se fosse del Seicento … Manzoni stesso nella Introduzione non fa mistero che egli si diverta a far credere di essere partito da un testo antico, da lui letto e rifatto, mentre in realtà è anch’esso costruzione sua nei contenuti e nella forma espressiva, che poi ritiene necessario rielaborare, trattandosi di un lessico e di una costruzione che non sono più di uso comune e che appare come un impedimento ai lettori per appassionarsi alla “sua storia”.

Proprio questa finzione letteraria gli permette di affrontare un periodo storico precedente e nello stesso tempo gli dà l’avvio per la questione della lingua. 

Aveva trascritta fino a questo punto una curiosa storia del secolo decimosettimo, colla intenzione di pubblicarla, quando per degni rispetti anch’io stimai che fosse meglio conservare i fatti e rifarla di pianta …

È qui il luogo d’antivenire un’accusa la quale per grave e pericolosa ch’ella sia, potrà leggermente esser data a questo scritto: cioè che non sia altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo, ma una pura invenzione moderna. Prego coloro i quali fossero disposti ad ammettere questo sospetto, a riflettere che essi verrebbero ad accusare l’editore niente meno che di aver fatto un romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi. E benché questa non sia la sola gloria negativa di questa nostra letteratura, pure bisogna conservarla gelosamente intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e di non lettori i quali per opporsi a ogni sorta d’invasioni letterarie si occupano a dar se non altro molti disgusti a coloro che tentano d’introdurre qualche novità. Oltre che di questo genere, quand’anche non sia altro che una esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati è altrettanto falso e frivolo, quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo cavalleresco in versi. (Fermo e Lucia, p 4-5)

Si avverte una certa dose di polemica in quello che scrive. È una polemica diffusa in quegli anni, e di cui forse era investito lo stesso scrittore, che trovava appoggio dagli amici e un certo distacco dagli ambienti pedanti e puritani di una letteratura di nicchia, per nulla aperta alle novità, definite tali, perché provenienti dall’estero e non congruenti con la tradizione letteraria italiana. Manzoni cerca di superare questo clima ostile, facendo ricorso al manoscritto, come se volesse portare alla luce un documento del passato e ripulirlo per renderlo accessibile ai contemporanei. In realtà la storia è tutta sua! Tale manoscritto viene presentato con una lingua involuta, che lo scrittore vorrebbe rendere più scorrevole – perciò non solo per quel testo, ma anche per la sua opera che vorrebbe essere un rifacimento, dovrà successivamente fare un intervento chiarificatore sul piano linguistico –, ma soprattutto deve intervenire per rielaborare il contenuto con l’affastellarsi di situazioni appartenenti alla grande storia ed altre che non lo sono affatto.

Il rapporto tra storia e invenzione sembra poter essere risolto secondo una ricetta nuova e diversa da quella offerta dai romanzi di Walter Scott, come ben riassume la lettera di Visconti a Cousin dell’aprile 1821: … In questa mescolanza di storia e poesia … Alessandro è ben deciso a evitare l’errore in cui è caduto Walter Scott … (costui) non si preoccupa affatto, quando ciò gli convenga, di allontanarsi dalla verità storica; …

Manzoni invece si propone di rispettare totalmente la verità dei fatti cui fa riferimento, limitandosi semmai a toccarli solo marginalmente, e riservando invece maggior attenzione e dettagli al racconto della storia inventata che costituirà l’oggetto centrale della sua narrazione. (Raboni, p. 72-73)

E ancora a Fauriel nel novembre 1821 così scrive …

Per darle rapidamente conto della mia idea di romanzo storico … le dirò che lo concepisco come la rappresentazione di un certo quadro della società realizzato attraverso vicende e caratteri così verosimili da poterli credere ricavati da una storia reale che si è scoperta. Quando vi siano implicati personaggi e eventi storici credo che questi vadano trattati con lo scrupolo esatto dello storico; e in questo senso mi pare ad esempio che il personaggio di Riccardo Cuor di Leone in Ivanhoe sia difettoso. (Raboni, p. 74)

Come si può intuire da queste osservazioni, il suo lavoro di scrittore, che si apre alle novità ormai presenti nel panorama europeo, non è dei più facili. Alle delusioni politiche si accompagnano anche quelle nell’ambito letterario. Ma non per questo Manzoni desiste. Anzi, si convince sempre più della necessità di un lavoro più meticoloso.

La collocazione del “Fermo e Lucia” nel lavoro letterario di Manzoni

C’è la tendenza oggi a ritenere che, pur con le notevoli somiglianze di contenuto tra le due opere, la prima stesura, che ha per titolo “Fermo e Lucia”, sia altra cosa rispetto al romanzo completamente rivisto nel 1827 e, successivamente, nella edizione a dispense del 1840-42, non solo nell’ambito linguistico. La disposizione delle scene e del materiale storico di fondo appare molto diversa nella edizione, poi divenuta stabile e diffusa. La prima stesura invece venne poi analizzata dai critici e dagli studiosi per cercare di capire il senso profondo di questo immane lavoro di revisione.

Può essere utile fare un confronto tra brani che raccontano il medesimo episodio, per esaminare il lavoro raffinato sul piano linguistico, soprattutto se lì non compaiano sostanziali differenze circa i personaggi, le situazioni e la scena descritta. Ben più laboriosa è invece l’indagine quando ci rendiamo conto di essere in presenza di episodi che appaiono simili, ma in realtà sono narrati con ben diversa impostazione. 

È quanto si riscontra nel caso degli episodi narrati nell’VIII capitolo, quello della “notte degli imbrogli e de’ sotterfugi”, i quali sono nel “Fermo e Lucia” disseminati in diversi capitoli: la dispersione dei tre episodi, che risultano uniti nel medesimo capitolo con la redazione definitiva, non consente di leggerli insieme e di scoprire l’architettura organica e sapiente, che fa pensare all’intervento della Provvidenza, capace di condurre anche gli errori dei due sposi, le cattiverie dei “bravi”, le pur buone intenzioni di fra Cristoforo verso il compimento di un disegno organico che garantisce una gioia “più certa e più grande”. Sotto questo profilo il primo romanzo è indubbiamente utile per riconoscere il lavoro di cesello prodotto dall’autore, non solo sul piano formale. Qualcuno legge nel romanzo, in uso oggi nelle scuole, una sistemazione di stampo ideologico, per la quale la connotazione religiosa si impone, quasi mortificando la libertà espressiva che si vorrebbe riconoscere nel romanzo di prima fattura. Ma qui appare evi-dente un certo pregiudizio circa la supposta tesi di voler fare con il ro-manzo una specie di propaganda religiosa. Non risulta che ci sia questo intendimento … Il primo romanzo è indubbiamente una specie di laboratorio, che presenta i limiti di un lavoro “di getto”, come era stato spesso nelle sperimentazioni poetiche di quello stesso periodo. Ovviamente le odi civili sono, in quegli stessi mesi, elaborate, sulla agitazione e sulla frenesia, in presenza di notizie che suscitano emozioni e tumulti interiori: ecco perché nascono in pochissimo giorni, come non era mai successo in precedenza. Anche “Fermo e Lucia” appare un lavoro che non ha richiesto molto tempo: si tratta di un romanzo con vicende che si intrecciano e che richiedono giorni e mesi di elaborazione. E tuttavia il manoscritto è pronto in due anni. Ma già in quel tempo si sviluppano le incertezze e i dubbi che inducono l’autore ad un lavoro meticoloso di revisione.

Quand’anche Manzoni avesse meditato, per un periodo più breve o più lungo, di dare definitiva veste di stampa al suo abbozzo, ciò non implicherebbe di necessità che ci troviamo di fronte a due romanzi diversi, se dovessimo prendere alla lettera questa tesi. Spesso gli autori pensano di avere concluso un lavoro e poi lo riprendono e lo trasformano prima di decidersi a pubblicarlo. Considerare il Fermo come la prima stesura dei Promessi Sposi sembra rispondere a sostanziale buon senso. Fin dall’Ottocento l’elaborazione del romanzo manzoniano ha prestato il campo a una quantità impressionante di studi centrati sul confronto fra le redazioni, e la voga di queste ricerche, molte di sapore un po’ scolastico e altre anche pregevolissime, non accenna minima-mente a calare (Suitner, p. 39

Così non possiamo dire che Manzoni ha scritto due romanzi, perché le due redazioni raccontano un’unica storia, sempre quella, pur con modalità diverse e con personaggi analizzati e proposti in maniera molto differente. E tuttavia le due redazioni richiedono una lettura che aiuti a capire come questa sua revisione non sia solo un abbellimento, una sorta di miglioria formale, ma la ricerca di un diverso sentire che ha per obiettivo una proposta culturale, capace di rinnovare la lingua e il linguaggio, e nello stesso tempo anche la maniera stessa di elaborare del materiale da esporre, perché la comunicazione nella forme e nella sostanza sia sempre più chiara ed efficace, per tutti. Indubbiamente sono due lavori diversi, anche se ci troviamo in presenza di una storia comune, che a tratti può avere personaggi ed episodi differenti. Anche solo per la notevole distanza di tempo fra le due edizioni, dobbiamo riconoscere che i lavori sono espressione di uno spirito che matura nel tempo e che predispone un nuovo materiale per una letteratura a servizio della società civile in continua evoluzione, nonostante il trionfo della Restaurazione.

L’autore era stato soprattutto assorbito dallo sforzo di mettere sulla carta il suo grande materiale narrativo, storico, ragionativo, tenendo insieme con piglio autoritario i mille fili e i mille elementi dell’opera. Era ovvio che si fosse preoccupato meno dell’armonia fra le varie parti della narrazione, dei fattori di architettura compositiva, e ovviamente anche delle particolarità linguistiche e stilistiche. In sede di revisione, anche sulla scorta delle osservazioni degli amici, affrontò decisamente questi problemi, arrivando a una notevole modificazione strutturale. Nel Fermo e Lucia la narrazione tendeva a procedere per grandi blocchi tematici, separati fra di loro. Manzoni intervenne nella divisione dei capitoli e, soprattutto nella seconda parte dell’opera, cercò di alternare via via la storia di Renzo alle vicende di Lucia, i casi di Milano a quelli dei personaggi che entrano in contatto con la sua “promessa”. Anche nei Promessi Sposi esiste una notevole tendenza a creare questi blocchi di materia narrativa, ma in misura considerevolmente minore che nella prima stesura. (Suitner, p. 39-40)

Lavoro finito da rifinire

C’è di che stupirsi per il lavoro svolto da Manzoni con il suo “Fermo e Lucia”: va riconosciuto che, anche a richiedere ben due anni, l’operazione fatta sembrava essere effettivamente “di getto”, come era stato per le odi civili. La materia era tale da richiedere una revisione non indifferente, anche per chiarire le tante questioni in discussione fra le diverse scuole di pensiero in Italia, come pure in Europa. Manzoni non era certamente uno scrittore che si potesse definire provinciale, anche perché manteneva rapporti stretti con altri Paesi, soprattutto con gli amici francesi, che avevano un notevole peso. 

Proprio a partire dalle obiezioni, quelle che gli venivano mosse e quelle che riteneva possibili, pur non venendo mai dichiarate apertamente, non è mancato da parte sua un’opera di rilettura, che ha pure comportato tagli notevoli, sia per snellire la lettura del romanzo, sia per aprire altri spazi di analisi e altri testi, pur sempre utili sotto il profilo culturale. Quello che poi affiorerà, risulterà certamente più lineare e più coerente con la storia, lasciando da parte quelle annotazioni storiche, linguistiche, moraleggianti, che potevano non essere del tutto coerenti con la natura stessa del romanzo.

In generale … Manzoni si rese conto che alcuni di questi argomenti dovevano avere una trattazione a sé, e in modo particolare cercò di ridurre una quantità di digressioni che si possono definire di tipo meta-letterario. Erano quei brani in cui l’autore rifletteva direttamente sul suo lavoro o sulla letteratura e la lingua, passi che potevano essere di non lieve ostacolo alla distensione della dimensione narrativa. Così, oltre alle osservazioni sulla lingua, sparì nei Promessi Sposi la bella divagazione sui romanzi d’amore … e sparirono parecchi piccoli riferimenti “interni” all’opera letteraria o alle difficoltà dello scrittore … Continui interventi dell’autore … erano chiaramente un po’ faticosi e rischiavano anche facilmente di creare un effetto di compiacimento letterario e di finire nello stucchevole … (Suitner, p. 41)

C’è in effetti nel Fermo e Lucia un Manzoni più filosofo e più moralista, secondo quel sentire che gli riscontriamo nelle Osservazioni sulla morale cattolica di quegli stessi anni, opera mai conclusa. La morale non ha bisogno di emergere in maniera diretta, così come il gusto per certi episodi o certe situazioni non del tutto coerenti con la vera finalità della storia, che non è solo quella di raccontare per suscitare piacere. L’obiettivo – non va dimenticato – è sempre quello dell’“utile”, da non appesantire con facili moralismi.

Manzoni nel Fermo e Lucia scriveva con minori preoccupazioni, non attutiva i suoi giudizi e le sue polemiche, allargava facilmente il discorso a considerazioni varie sul mondo, sui tempi, sul carattere dell’uomo in generale … Manzoni iniziava spesso i suoi capitoli con una considerazione filosofica o morale … Nella revisione lo scrittore lombardo meditò maggiormente i suoi giudizi, soprattutto quelli sulla società o sui comportamenti umani … Spariscono il racconto dettagliato dell’amore di Gertrude, degli omicidi di Egidio, del ratto di Lucia nonché dell’impresa che aveva dato la notorietà al Conte del Sagrato. Don Rodrigo non muore più da satanico eroe del male, dopo aver inforcato un cavallo nel lazzaretto in un estremo tentativo di ribellarsi al suo destino, ma appare a Renzo moribondo, accasciato su un materasso, con le membra segnate dal terribile male. La notizia della sua anonima morte raggiungerà i protagonisti soltanto alla fine della storia. (Suitner, p. 42-43)

CONCLUSIONE

Si dovrebbe a questo punto leggere il Fermo e Lucia per cogliere quale sia il lavoro fatto dallo scrittore in quei primi anni del terzo decennio dell’Ottocento. Esso ne riflette i tormenti che assillavano Manzoni in quel periodo, spesso ritenuto fra i più sereni e i più adatti al suo lavoro di scrittore. Va riconosciuto che, per avviare il nuovo genere, che poi si affermerà come il più significativo in quel secolo e anche oltre, quella prima stesura fu indubbiamente utile. Perciò è quanto mai opportuno che si dedichi un po’ di attenzione anche a questo particolare romanzo, non solo da parte degli addetti ai lavori. Pur con tutti i limiti, che faranno ancor più desiderare l’edizione finale, si potrà meglio comprendere il lavoro di Manzoni non solo nell’ambito letterario, ma anche in quello più ampio della cultura, che travalica il suo tempo e il nostro Paese. Va poi riconosciuto che il problema principale, qui solo affrontato e, nella stesura definitiva, applicato, è per lui quello del linguaggio e della lingua. Già la questione diventa di prima grandezza, perché non si tratta solo dell’operazione di abbellimento, quanto piuttosto di uno squisito lavoro culturale, per formare ciò che è ritenuto essenziale in tutto l’Ottocento, e cioè creare il senso di appartenenza ad un Paese, ad una storia comune, ad una eredità culturale, che non solo va conservata, ma va altresì accresciuta e consolidata. Qui dunque noi possiamo riconoscere il contributo che ha dato lo scrittore alla causa nazionale, anche senza dover intervenire nell’arengo politico o nei moti rivoluzionari con azioni dirompenti. La questione linguistica si impone così non solo come operazione di letterati per la loro produzione, ma come un obiettivo sempre necessario di assicurare un comune sentire. Questo deve favorire una solida coesione nazionale, non solo perché ci si intende nel parlare, ma perché questo parlare sia davvero più profondo, più vero, più adatto a far crescere quel senso di umanesimo che costituisce l’anima profonda, non solo dell’appartenenza ad una nazione, ma soprattutto del sentirsi impegnati ben oltre i confini geografici per la casa comune. Così per Manzoni la ricerca storica non è più solo il rinchiudersi in un “piccolo mondo antico”, ma è sempre più riflessione sul vivere, che deve crescere in senso di umanità, e qui la comunicazione verbale appare il mezzo più importante da valorizzare. 

Se ne fa così un impegno morale che va ben oltre la preoccupazione di scrivere per “divertire” o per incentivare il gusto della ricerca storica: Manzoni avverte di avere una responsabilità nella formazione di una coscienza che non si limiti al solo appartenere ad una nazionalità; anche quando cerca tra le lingue in uso nel nostro Paese una lingua mediana, questa non è solo per livellare tutti, ma è per favorire una elevazione “spirituale” che impegna a guardare ben oltre i limitati orizzonti del vivere personale.

Che cosa poi significhi scrivere bene non credo che alcuno possa definirlo in poche parole, e per me, anche con moltissime non ne verrei a capo. Ecco perché alcune della idee che mi sembra doversi intendere in quella formola. A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate: e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso. Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodochè se un parlatore o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’esser molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì e del no. (Fermo e Lucia, p. 14-15)

È evidente che la confessione di avere scritto male il romanzo implica l’inesistenza in Italia, di questa lingua comune (anche limitatamente ai ceti colti: “moralmente parlando”), sia sotto la specie del toscano, che non ha “seguito il corso delle idee”, sia sotto altra specie unitaria; e giustifica il ricorso del narratore ad una lingua composita, non però formata da mol-tissimi scrittori e parlatori che gliene abbiano preparati i materiali, come a suo avviso sarebbe stato fisiologico per l’opera di un sommo ingegno in una società matura ad accoglierlo, ma da lui stesso attingendo alla tradizione letteraria toscana, al lessico francese, fornitore di termini intellettuali a tutta l’Europa (gli europeismi di Leopardi), al lessico classico largamente penetrato, con valori moderni, nel francese, a locuzioni lombarde, e procedendo ad ardite estensioni analogiche, con due mire essenziali: piegare l’italiano a esprimere esattamente tutto il pensiero, sia pure il più moderno ed estraneo alla tradizione, e portarlo e mantenerlo sul fronte avanzato della lingua viva per renderlo e mantenerlo social-mente comune (Nencioni, p, 28-29)

La questione linguistica, che noi immaginiamo già risolta, perché si è creata nel tempo una lingua nazionale, in realtà è ancora e sempre da affrontare e da costruire, non perché si debbano integrare vocaboli o modi di dire, ma perché nel percorso personale e sociale la lingua stessa subisce i contraccolpi e diventa sempre problematico quel comune sentire e il comune intendersi, sempre necessario per un autentico vivere sociale, dove le idee, pur diverse e spesso anche contrapposte, devono servire a costruire un mondo sempre più integrato e da integrarsi nel rispetto di ogni individuo e della sua storia personale. Mentre intrattiene i suoi lettori, lo scrittore li educa al senso della storia e ad un linguaggio adatto a far sentire appartenenti ad una nazione, ma soprattutto a costruire una visione del mondo a dimensione umana …

BIBLIOGRAFIA

1 Alessandro Manzoni, OPERE (a cura di Lanfranco Caretti) – Mursia, 1965

2 Alessandro Manzoni, FERMO E LUCIA – Mondadori, 1985

3 Ferruccio Ulivi, MANZONI – Rusconi, 1984

4 Franco Suitner, I PROMESSI SPOSI, UN’IDEA DI ROMANZO

Carocci, 2012

5 Giulia Raboni, COME LAVORAVA MANZONI – Carocci, 2017

6 Giovanni Nencioni, LA LINGUA DEI PROMESSI SPOSI

Il Mulino, 2012

7 Giovanni Macchia, MANZONI E LA VIA DEL ROMANZO

Adelphi, 1994