LEGGENDO MANZONI: LE TRAGEDIE: IL CONTE DI CARMAGNOLA

 

Introduzione: l’interesse di Manzoni per la tragedia

Ci sono due opere nel lavoro letterario di Manzoni, che sembrano come massi erratici, capitati in un periodo problematico del suo vivere, e che di fatto rimangono tali, perché poi egli non percorse più questa strada, in cui si era cimentato, come era tendenza fare di quei tempi. Si tratta delle tragedie, che rivelano un gusto, tipico di quel momento, soprattutto in ambiti giovanili, come se quel genere fosse l’unico possibile per “accendere … l’animo de’ forti”. Con il tramonto dello spirito rivoluzionario e dell’era napoleonica e con l’avvento della “Restaurazione” sembravano ormai del tutto spenti gli animi, soprattutto per una partecipazione diretta nel vivere sociale: gli ideali di libertà, pur naufragati in mezzo a violenze e a guerre, sembravano ora impossibili da essere perseguiti, e c’era per questo un diffuso disorientamento. Manzoni, pur con la sua fede radicata, attraversava un periodo di tensioni non da poco, anche nel campo che gli era proprio, e che doveva divenire il “suo lavoro”, perché da una parte lo spirito neoclassico, che pur aveva fin qui respirato, non lo appagava con i suoi ideali, divenuti sempre più “mitici”, e il nuovo spirito romantico era ancora tutto da costruire e sembrava ancora una innovazione d’altri luoghi, non radicata nella tradizione della nostra letteratura. A questo si aggiungeva anche il fatto che l’appartenenza ad una scuola significava comunque una presa di posizione politica, in un momento nel quale la restaurazione vigilava per mortificare sul nascere ogni spirito ribelle o anche ogni inclinazione con le innovazioni. “Manzoni, nel ’15, aveva scritto in risposta a un invito dell’Acerbi, direttore dell’austriacante “Biblioteca”, di “non voler entrare in qualsivoglia associazione letteraria”; prima di tutto c’era il rifiuto delle posizioni di quella rivista; ma c’era in lui davvero la renitenza a “proferir giudizi letterari” e a “sentenziare sugli scritti altrui”. Quanto ai “conciliatori”, amico sì, partecipe, anzi guida quando occorresse delle loro idee; ma indipendente. (Ulivi, p. 163)

Sembra quasi più prudente dedicarsi agli studi, alle ricerche in questi campi, secondo lo spirito dei tempi nuovi; e tuttavia anche qui non è facile addentrarsi, sia per le polemiche continue che oppongono le scuole letterarie, sia perché ogni espressione è ormai sottoposta al vaglio della censura. In quegli anni di forti idealità avevano il sopravvento, soprattutto nelle menti giovanili e aperte al nuovo, forme espressive e messaggi che favorissero questi aneliti, con figure e vicende dalle forti tinte. Si privilegiava la forma del teatro e in particolare quello della tragedia, che si riteneva anche veicolo più facile per la trasmissione di grandi ideali. Ma la vena sembrava ormai smorzarsi, proprio perché era mutata l’aria e nello stesso tempo perché si erano accese polemiche sul modo con cui venivano prodotte le pièces teatrali. Manzoni invece scende in campo … 

Nella stessa lettera del marzo 1816 in cui informava Fauriel del progetto di un prossimo viaggio, Manzoni parlava anche, lo sappiamo, di una tragedia intrapresa. Era un tentativo teatrale – diceva – che s’informava a uno scopo preciso: quello di dare “un forte schiaffo alla regola dell’unità di tempo” … Subito dopo, nel luglio, informava l’amico sull’andamento del lavoro; andava avanti, e per di più pensava a un “lungo discorso” che avrebbe dovuto accompagnare la tragedia … (Ulivi, p. 166)

Se il suo immediato predecessore, Vittorio Alfieri (1749-1803), produceva tante tragedie scritte di getto, Manzoni, anche per le ricerche storiche che lo accompagnavano, vi si dedicò con cura meticolosa per anni. E di fatto la prima tragedia, Il Conte di Carmagnola, ebbe la sua prima edizione, ma non la messa in scena, nel 1819. Al di là dei risultati che egli poté ottenere, sia in termini di critica negli ambienti letterari, sia di pubblico, una volta rappresentata nei teatri – ma si dovette attendere il 1828 – va rilevata la novità che egli introduceva in questo genere e che poi divenne la sua guida nelle opere successive, soprattutto nel romanzo. È vero che anche i personaggi delle tragedie alfieriane sono figure desunte dalla storia, ma di fatto essi appaiono come ideali trasfigurati nelle mente dell’autore, per farne dei prototipi al servizio di una certa idea da propugnare, in genere come campioni della libertà, in positivo, o come tiranni, quando se ne vuol fare un’anima nera. E così i fatti sono piegati al messaggio da proporre. Non manca nel Manzoni la comunicazione di una figura ideale, se non altro perché è inevitabile nella tragedia far emergere i personaggi a tutto tondo, ma questi sono indicati a partire da ciò che sono nella loro verità storica, quella che si vuole raggiungere, rivedendo anche giudizi inficiati dall’immagine che se n’è fatta la storia, lasciata in mano ai potenti di turno. Così Manzoni rilegge la storia, documentandosi; e premette all’opera una nota con cui vuol segnalare che il “suo” personaggio va inquadrato in una storia da purificare rispetto alle ombre negative che sono sorte, anche in forza del fatto che si sia in presenza di uno sconfitto, di un perdente, consegnato come tale dalla storia e come tale assunto e giudicato.

Il Carmagnola nella storia

La vicenda è nota, per coloro che hanno coltivato la storia patria in quel periodo convulso, che è quello delle Signorie in Italia, durante il Quattrocento, in cui prevalgono lotte fratricide nella faticosa ricerca di un equilibrio di poteri fra Stati “regionali”. Le guerre continue sul territorio erano affidate a “compagnie di ventura” presso i cui comandanti prevalevano i sistemi della corruzione, dell’inganno, del tradimento. Il Carmagnola viene additato come l’esempio del traditore, essendo stato condannato a morte per questo, mentre per l’autore vi si dovrebbe leggere quel tipo di virtù che ne fa un uomo  di tutto rispetto, se non altro perché proviene dal popolo e si è fatto strada da sé.

Francesco Bussone detto il “Conte di Carmagnola”, solo perché era originario di quel paese, nel Piemonte, allora nel marchesato di Saluzzo, era nato da povera famiglia attorno al 1385. “Mentre era ancora giovinetto – scrive Manzoni – pascolava delle pecore, l’aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre guerriero.” Costui era alle dipendenze dei Visconti e alla sua morte, avvenuta nello stesso giorno in cui fu ucciso in una congiura Giovanni Maria Visconti (1412), la moglie, Beatrice Tenda, andò in sposa a Filippo Maria Visconti, portando in dote i suoi soldati di ventura. “Era tra essi – continua Manzoni – il Carmagnola e ci aveva già un comando … Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo … L’alta fama dell’esimio condottiero, l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de’ suoi servizi, gli alienarono l’animo del Duca.” Così nel febbraio del 1425 passò al servizio della Serenissima Repubblica. Qui dimostrò tutta la sua bravura consentendo a Venezia di acquistare vasti territori nella terraferma per accrescerne la potenza in Italia, e nella battaglia di Maclodio (12 ottobre 1427) poté vincere le armate di Filippo Maria Visconti che dovette limitare la sua signoria nel Milanese. Qui iniziano le sue disavventure, che diventano anche l’oggetto della tragedia …

Il Carmagnola nella tragedia

La tragedia, narrando di quel periodo che precede e spiega la sua fine ingloriosa, con la condanna a morte per decapitazione, vuole cercare come una spiegazione “storica”, mediante le documentazioni scritte, di questo esito, che appare sconvolgente. Naturalmente i dati storici non si mettono in discussione, perché il Carmagnola finisce i suoi giorni in questo modo tragico. E tuttavia le fonti sembrano non avere dubbi circa la sua colpevolezza, diversamente da Manzoni, il quale cerca una lettura differente, che nulla toglie alla fine infausta per il protagonista. Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono quest’opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoperato è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla. Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere improbabile. (p. 53) 

Naturalmente l’autore non parteggia per il Carmagnola solo perché si tratta di un vinto, del quale ha pietà, ma lo addita come uomo di virtù che viene travolto, più che da un destino amaro, da una malvagità imperante come sistema, la cui denuncia deve servire ad una presa di coscienza, che è negli scopi fondamentali della conoscenza storica, la quale non si limita a dare i fatti, ma a far riflettere su di essi, per trovarvi una ragione, un senso. Occorre sempre cercare fra i documenti non solo che cosa è successo, ma come quei fatti sono proposti, per cercare in essi quel percorso umano che fa emergere le persone.

La tragedia nello spirito del tempo

Come mai Manzoni sente l’esigenza di dedicarsi ad un’opera del genere? Donde nasce questo interesse? È vero che già sul finire del Settecento il genere teatrale tragico aveva avuto fortuna con Vittorio Alfieri, l’astigiano dal carattere forte, che nei suoi viaggi e nei suoi studi rivela una spiccata tendenza alla fiera contrapposizione con ogni forma di tirannide e di dispotismo, e proprio per questo privilegia nelle sue opere le figure che si oppongono all’assolutismo dovunque si manifesti, suscitando enorme consenso soprattutto nel mondo giovanile.

È vero anche che la fortuna sua suscitò l’emulazione nei tanti che apprezzavano questo genere e ne trasse giovamento anche lo spirito indomito di Ugo Foscolo (1778-1827). Non è improbabile che il giovane Manzoni fosse attratto da queste opere che venivano rappresentate nei teatri e che suscitavano forti passioni, laddove si rimarcava l’esigenza della libertà individuale contro ogni forma di tirannia. Ma la temperie nella quale nascono le sue due opere è di gran lunga diversa. Soprattutto la prima viene concepita negli anni in cui ormai aveva avuto il sopravvento la Restaurazione, che non lasciava spazio ad ogni velleità rivoluzionaria. Non si poteva perciò concepire alcunché di analogo a quello che invece furoreggiava negli anni precedenti.

Lo spiega da par suo De Sanctis quando tiene la lezione a Napoli proprio sul sentimento nazionale, abbinato al coro della tragedia del Carmagnola. Va da sé che solo questo “coro” rappresenta per lui il sentimento nazionale che dominava nell’animo dello scrittore, veramente lirico in questo elemento che appare aggiuntivo alla tragedia, mentre il resto della tragedia ha ben poco a che fare con quanto si respirava, ma non si osava dire, in quei tempi e soprattutto nel territorio in cui vive Manzoni.

Quando il Congresso di Vienna, consegnò la Lombardia e il Veneto mani e piedi legati all’Austria, quando l’imperatore Francesco II pronunziò quelle dure parole  – i Lombardi debbono dimenticare di essere italiani, non debbono avere altro legame fra loro che l’ubbidienza al loro signore – quando interrogato Metternich sul titolo da darsi a quel nuovo regno, egli che più tardi disse l’Italia essere una “espressione geografica”, rispose: “l’imperatore vuol distruggere lo spirito di unione e le idee costituzionali nel popolo italiano e perciò non vuole accettare il titolo di re d’Italia (parole duramente chiare scagliate al popolo per fargli forte impressione) e perciò l’imperatore non può volere un esercito italiano e certe istituzioni (il parlamento) che potessero essere fondamento di un prossimo grande stato” – successe un’esplosione di sentimento nazionale, i più arditi furono presi e la resistenza italiana fu schiacciata nelle prigioni di Mantova e dello Spielbergo. Dopo le prime prove i più ardimentosi abbandonarono il proprio paese o ritiraronsi nella solitudine delle case loro. (De Sanctis, p. 221)  

In questo clima maturano le società segrete, che poi sono quelle massoniche e carbonare, lette dal critico come dominate da un forte spirito religioso. A questo punto introduce Manzoni che si mette a scrivere il Carmagnola proprio in un contesto così drammatico.

Ora prendiamo Manzoni nel 1816, quando concepisce il Carmagnola e censura l’Alfieri perché introduceva il sentimento nazionale nella storia antica, quando si proponeva di chiudersi nella storia del secolo decimoquinto e non uscirne; prendiamo non più il critico, non il poeta, ma l’uomo, in mezzo a tutto quel movimento d’idee, di sentimenti, e vediamo quale impressione quella vita contemporanea fece su lui. Era possibile allora presentare agli Italiani soldati mercenari, avventurieri, lotte fratricide, senza introdurvi nulla di sentimento patrio? (De Sanctis, p. 224)

Ma di fatto, secondo il critico, è il coro il luogo nel quale scoppia questo sentimento patriottico da parte di Manzoni, laddove esplode vivo l’amor di patria e si sviluppa quel lavoro, che lui vuole rigorosamente ambientato nella storia, senza facili idealismi. Questi sono spesso introdotti in maniera anacronistica, senza il giusto rispetto delle contingenze storiche. Lo scrittore, in presenza di misure poliziesche da parte dello Stato e di reazioni che si trasformano poi in moti carbonari, si muove non per dettare quelle emozioni che verrebbero censurate, ma per elevare a ben altri sentimenti circa la grandezza dell’uomo, la sua virtù morale, la sua rettitudine d’animo che sono altrettanto importanti per far progredire la storia.

Insomma, la vicenda del Carmagnola non è rivisitata con i sentimenti patriottici che ci si potrebbe attendere in un momento drammatico su questo fronte, ma è cercata con il rigore dello storico che in tal modo viene rispettato anche dall’autorità politica sempre sospettosa, perché in essa vengono illustrate virtù umane, che pur non devono mancare per un problema politico e sociale di autentico rinnovamento. Comunque questi valori o queste virtù non sono idealizzate al punto da assurgere ad archetipi, ma sono concretamente incarnate in figure, le quali sono grandi senza per questo risultare così ideali, da sembrare mitiche. Si ripromette in tal modo di rinnovare questo mondo, per quanto la forma espressiva sia ancora quella poetica, che egli cerca però di avvicinare al linguaggio parlato e non a quello aulico, anche se di fatto la poesia non gli consente di raggiungere quegli effetti che si troveranno poi nel romanzo, soprattutto con quei rifacimenti, che dicono la continua limatura.

I problemi da affrontare nel comporre tragedie

Per il solo fatto che l’opera fu composta nell’arco di tre anni, fra il suo concepimento e il suo “parto” nell’edizione a stampa, dobbiamo rilevare che la cosa non fu un’impresa facile, anche perché lo stesso scrittore si rendeva conto di avere molti ostacoli da superare.

Vi era un certo modo di intendere la tragedia che non corrispondeva più a quelle fin qui portate sulla scena; vi era il problema della critica in riferimento alle leggi che presiedevano al genere letterario usato; e, cosa non trascurabile, vi era il problema della censura, apparendo lo stesso scrittore come uno da tenere in guardia nel clima di sospetti che si muovevano in diverse direzioni. Le difficoltà vengono superate, non senza tensioni che mettono a dura prova lo scrittore, il quale cerca spazio in questo genere. Poi, però, lo lascia per dedicarsi con più cura al romanzo, nel quale sente di poter meglio far trionfare la sua visione della storia, che nelle tragedie sentiva restringersi con le critiche che gli piovevano da ogni parte.

Il problema della fedeltà alla storia rimane l’attenzione prioritaria, rispetto a quanto invece si faceva con i testi precedenti, nei quali contava la idealizzazione dei personaggi. Ecco perché non manca una ricerca accurata sui documenti, e nello stesso tempo, trattandosi di un’opera, che deve risultare molto personale, non può non introdurre elementi considerati verosimili, se non possono essere veri. Questi sono soprattutto i personaggi necessari per far emergere nel protagonista quegli elementi o quelle virtù umane che lo fanno grande e ne esaltano la fisionomia, recuperandola ad una storia che è stata particolarmente ingrata per una serie di falsificazioni. Nel caso del Carmagnola, costui appare dai documenti come un traditore. E tuttavia questa sua immagine risulta costruita dai tempi infami in cui è vissuto, dove la virtù dell’uomo considerato forte, onesto, coraggioso, viene guardata con sospetto per una politica costruita sui raggiri, per una visione dell’uomo forte, che si deve imporre anche con i sistemi illeciti. Lo stesso Manzoni raccoglie tutte le congetture del caso sia dell’epoca sia del suo tempo.  

Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che d’essersi lasciato ingannare da uno stratagemma  … (51-52)

Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d’un’opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n’ho potuto raccogliere … (53)

… Mi pare che … il timore e le vendette private dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato (54).

Proprio per questo la storia va ricostruita, cercando di far emergere la verità di un uomo che merita, dopo la condanna, una sorta di assoluzione postuma. È necessario per questo introdurre figure che nella storia non esistono, ma che possono qui servire a questa specie di processo della verità, come se fossero avvocati e testi insieme, perché poi chi deve giudicare, il pubblico, possa farsi un’idea, meno pregiudiziale, del personaggio. 

L’autore ha sentito istintivamente che una tragedia puramente storica, senza personaggi ideali, non poteva che riuscir fredda. Cercando il modo di combinare la storia e l’ideale, il poeta viene alla strana risoluzione di ficcare nella tragedia personaggi ideali, cioè, per Manzoni, inventati. Infatti tutti i personaggi della tragedia sono storici, tranne due, Marino e Marco, oltre i due commissari che sono anche in parte inventati. Quando si viene alla catastrofe, quando i veneziani sospettano che il Carmagnola li tradisca per favorire Filippo Visconti, sorgono nel Senato due correnti. Da una parte è la ragion di Stato, il patriottismo superiore alla stessa moralità, l’idea che si riassume nel “salus publica suprema lex esto”. Il rappresentante di questa idea è un senatore, Marino … Rimpetto a quella idea c’è l’idea contraria, l’idea della moralità, della virtù, dell’amicizia, la quale non può consentire che così vigliacca insidia si trami contro Carmagnola. Rappresentante di essa è Marco, il quale non crede possibile che il conte sia traditore e invano si adopera a fargli comprendere che gli si tende un tranello, prima che vi caschi. (De Sanctis, p. 184-5) 

Evidentemente occorre puntare su quanto essi dicono, perché lì si delinea il problema che determina la fine del Carmagnola; e nel contempo lì si trova il messaggio che l’autore vuol dare con la sua ricerca storica. Tale lettura deve dunque raggiungere la mente e il cuore degli spettatori, che trovano qui non solo la narrazione di quanto è avvenuto in quel periodo, ma la riflessione che se ne deve fare, perché la storia stessa possa insegnare. Proprio per questo appare ai critici (e altrettanto a chi, poi, partecipando a teatro, ne deve segnare il successo), come un testo da leggere, più che non un testo per teatro, in cui dovrebbe prevalere la scena e quindi il movimento, l’azione …

Non per nulla il critico De Sanctis ne legge su questo fronte il limite, perché in effetti nel teatro prevalgono i discorsi, che risultano come tanti ragionamenti, rispetto all’azione che dovrebbe prevalere in una rappresentazione scenica. I discorsi, affidati ai due personaggi inventati, introdotti come elementi contrapposti nella ricerca della colpa o della discolpa del protagonista, servono ad argomentare se sia giustificata o meno la condanna dell’uomo, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche su quello storico.

Nel quarto atto mette in bocca ad un personaggio (Marino) la narrazione dei fatti in cui è il processo psicologico, la tragedia: quei fatti perciò riescono freddi, sfuggono all’attenzione dello spettatore, perché narrati e non rappresentati. (De Sanctis, p. 203)

Come si vede tutto il dramma è vuoto di azione; vi sono magnifici discorsi; ma sono discorsi: nulla fa tanto danno alla rappresentazione di un dramma come il vuoto dell’azione. Oggi che i più mediocri scrittori sono pratici del teatro, vanno all’eccesso opposto, presentano una catena di fatti e di situazioni, sopprimendo del tutto i discorsi. Ma, ripeto, nulla rende così fredda la rappresentazione come i discorsi: allora si ha ciò che dicesi la “stagnazione”, sorge la disattenzione, la noia, la quale si sente anche nella lettura di uno solo di quelli. (De Sanctis, p. 204)

Il critico che scrive in un’epoca nella quale stava prevalendo una letteratura costruita sullo psicologismo, più che non sulla narrazione di eventi, legge evidentemente con questo approccio il lavoro, indubbiamente, non ben riuscito. Se da una parte l’autore voleva rendere protagonista delle sue scene la storia, poi di fatto faceva prevalere la cura per l’analisi del personaggio principale, che del resto voleva rileggere in chiave storica con l’intento di rivalutarlo. Eppure quel personaggio è ben stagliato nella sua epoca come un condottiero, per il quale erano necessarie, dentro il suo secolo, non solo le doti militari, ma anche una certa scaltrezza, che apparteneva all’epoca degli inganni e quel genere di durezza che si trova negli uomini d’arme. La rivalutazione morale dell’uomo lo rendeva esente da questi schemi, ma nello stesso tempo ne faceva un ideale anacronistico e quindi non compatibile con la sua storia. Evidentemente deve prevalere per il tempo dell’autore un’immagine morale che sia di gran lunga superiore a quella esaltata e diffusa in un periodo costruito sulle trame più insidiose. Così lo incalza sempre De Sanctis:  

Nel Conte di Carmagnola dunque, la maggior parte è narrazione, vi sono discorsi più che azione. E vi è una curiosa singolarità. Manzoni vuol darci un dramma storico, e non si accorge che strozza il conflitto drammatico in un solo atto, riempiendo il rimanente di discorsi, il che se mantiene la parte, diciam così, “materiale”, della storia, falsifica, fraintende la parte spirituale di essa. Nel secolo decimonono un dramma pieno di discorsi e soliloqui è concepibile, perché è un secolo in cui si discorre più che si operi (è una sua visione, legata ad una certa filosofia idealista, propria di un uomo che avrebbe voluto da patriota dedicarsi alla rivoluzione e che di fatto finì per dedicarsi agli studi e all’insegnamento): essendo l’intelligenza molto sviluppata, noi siamo avvezzi a ripiegarci su di noi, c’è dell’Amleto nel nostro secolo. Ma nel Medio Evo la vita era tutta al di fuori, e quei capitani di ventura erano tutt’azione; e non c’era molto sviluppo d’intelligenza. (De Sanctis, p. 204-5) 

Insomma, anche per la diffusa contestazione all’opera, sia dalla critica coeva, sia dal pubblico, quando si arrivò a portarla in scena, quest’opera appariva con tutti i suoi limiti. Questi però non impediscono all’autore di sperimentare questo genere e di tentarvi un rinnovamento in nome della storia. Si potrebbe dire che qui egli inizia quel genere di interesse, che poi darà origine al suo capolavoro, chiarendo come sia necessario  un altro tipo di percorso per far trionfare quella concezione di storia, che egli nutriva e che diventerà tanta parte nella sua produzione e nel suo vivere. E tuttavia non si possono negare pagine interessanti, forme espressive riuscite, e qualche figura che svolge un ruolo decisamente nuovo nel panorama del teatro.

LETTURE ANTOLOGICHE

Entrando ora nel dramma, sia per conoscere da vicino alcuni protagonisti, sia per comprendere quei momenti che danno origine alla tragedia, non si può non essere d’accordo con De Sanctis nel dire che tutto si spiega nel mettere a confronto due concezioni del potere e due modi di esercitarlo, che fanno pensare ad una lotta senza quartiere tra il potere civile, rappresentato dal Senato della Serenissima, e il potere militare, che viene affidato al Carmagnola.

Da una parte, il potere militare turbolento, indisciplinato; dall’altra, il potere civile conscio della sua debolezza, furbo, volpe, come quello è leone. Ultima conseguenza è che il leone è vinto dalla volpe, trionfa il potere civile; il conte soggiace. (De Sanctis, p. 196)

È già stato rilevato che i due personaggi “inventati” e assurti a rappresentare le due concezioni del potere che si scontrano, sono concretamente Marino e Marco, cioè due uomini dello Stato con vedute diverse e contrastanti: nei loro discorsi, tenuti nel momento cruciale, quando ormai il dramma si avvia verso l’epilogo, e che rappresentano bene che cosa Manzoni vuol mettere a confronto perché ci sia poi la “vittima sacrificale” della storia, proprio quell’uomo venuto dal nulla e che finisce nel nulla, stritolato dal meccanismo di un potere di fatto assoluto, anche se qui si difende con la “ragion di Stato”. Non è chi non veda che l’autore ha ben presente il clima di sospetto e di tensione interna negli Stati, dove per la salvaguardia della potenza e della ragion di Stato, i cittadini, quelli che si sono riconosciuti liberi e uguali con la rivoluzione, sono di fatto sacrificati, perché niente e nessuno ci possa essere al di sopra dello Stato stesso.

Per contestualizzare i loro interventi, diciamo che siamo ormai al punto decisivo in cui si deve dire davanti al Senato come si comporti il condottiero di ventura. Costui ha indubbiamente fatto vincere i Veneziani nella lotta contro il Visconti, e tuttavia non solo non sa cogliere il frutto della vittoria, ma di fatto, oltre a tergiversare con il nemico, di cui era stato prima il condottiero fidato, ora dà piena libertà ai prigionieri catturati nella battaglia di Maclodio. Era di fatto una consuetudine, anche perché, trattandosi di soldati di ventura e proprio per questo “assoldati”, si poteva così ottenere che, avendo salva la vita, essi potessero passare al campo del nemico o comunque tenersi alla larga, per averla scampata bella. Questa decisione non viene affatto approvata dai commissari mandati dal governo per accertarsi della cosa, e sulla base di questa decisione da cui il Carmagnola non vuol affatto recedere, prevale la sensazione che egli voglia tradire, come del resto aveva già fatto in precedenza con il Visconti.

ATTO IV, SCENA I