S. Colombano e il suo contributo per l’Europa.

Introduzione: figure e movimenti per l’Europa

La visione dell’Europa non può prescindere dall’apporto che è venuto alla costruzione di questa “idea” (da far diventare sempre più realtà) da parte del monachesimo nel suo insieme, come fenomeno religioso, culturale e soprattutto umano. Dobbiamo parlare di monachesimo nel suo insieme e non solo di alcuni personaggi divenuti famosi, che possono restare come massi erratici, perché ciò che ha lasciato il segno è indubbiamente quanto cogliamo in forti personalità come pure in quell’esercito di persone senza nome, che ha comunque operato sulla scia delle indicazioni ricevute e ha contribuito a creare un humus, uno spirito. S. Benedetto, il padre del monachesimo occidentale, è stato proclamato da Paolo VI patrono d’Europa, a cui poi Giovanni Paolo II ha affiancato i due fratelli greci, Cirillo e Metodio, che sono stati gli apostoli dei popoli slavi. Se per costoro è anche facile pensare all’azione svolta nell’Est europeo contribuendo alla scrittura cirillica, all’evangelizzazione di diversi popoli, allo sviluppo di una coscienza più forte di questa gente per la loro appartenenza alla storia di un continente che sembrava averli emarginati, dall’altra si fa fatica a pensare alla figura di Benedetto come costruttore dell’Europa, visto che il suo personale ambito di azione si è circoscritto al centro Italia. Semmai sono i suoi monaci, poi, ad aver diffuso insieme con il Vangelo, una impostazione di vita che trae linfa dalla Regola, quella da lui scritta per dei principianti. Per ciò che noi conosciamo di Benedetto, a partire dalla sua Regola e dagli scritti del miglior discepolo che ha avuto, e cioè Gregorio Magno, non si dovrebbe parlare di un’azione a vasto raggio nei confronti di un continente, perché non vi è traccia in lui di un disegno che intendesse segnare profondamente i diversi popoli d’Europa. Anzi, egli avrebbe desiderato la “fuga dal mondo” per cercare solitudine, alla stregua di quello che già si era vissuto nei secoli precedenti nel deserto egiziano, dove si erano affollati gli anacoreti, che spesso vivevano da “stiliti”; semmai egli sembrava muoversi più nella linea del monache-simo basiliano, che in Cappadocia cercava di costruire una vita eremitica di isolamento dal mondo, attenuato da forme di collegamento fra i mona-ci, per i quali si prevedeva una vita “cenobitica”. Così nascono in Italia i monasteri che dobbiamo definire benedettini, sia perché dipendono dall’abbazia originaria di Montecassino, sia perché poi in essi vige la Regola benedettina, a cui un po’ tutti in Europa si rifanno, anche quando sorgo-no nuove forme di vita monastica, come quelle attorno al Mille.

Monachesimo e Barbari

Non c’era, insomma, nella mens di Benedetto la costruzione di un’Europa come visione di vita comune fra diverse popoli; e tuttavia quello che poi si costruì nei diversi centri monastici ebbe ripercussioni per la stessa vita europea, perché sia la Regola, sia l’azione culturale e religiosa dei monaci impregnarono fortemente la società di questi popoli diversi, che potevano avere un denominatore comune proprio a partire dai monasteri.

Proprio questa azione che hanno espresso i monaci richiamandosi a S. Benedetto  per la sua Regola, ha costituito uno dei collanti fondamentali nel costruire l’Europa in un periodo per altro molto burrascoso, dovuto principalmente al fenomeno che noi oggi definiamo “invasione barbarica”. L’Europa si è dunque costituita, pur con la nascita di Stati “nazionali”, legati ai diversi popoli barbarici e comunque con un denominatore comune nella lingua e nella cultura latina, grazie alla contemporanea azione delle “invasioni barbariche” e dell’azione religiosa e culturale del monachesimo benedettino. Certamente non sono solo questi due elementi a costituire l’anima profonda del sorgere di una “idea” di Europa (non ancora di una realtà, che del resto deve sempre ancora compiersi), ma bisogna riconoscere che, insieme con la contiguità cronologica, questi due fattori non si elidono, ma addirittura contribuiscono al formarsi di una coscienza sempre più radicata che coinvolge anche i popoli da poco assorbiti nell’ambito dell’Impero romano, che pur si disarticola sotto il profilo politico, ma rimane come ideale, come ricordo, come richiamo continuo ad un patrimonio perdurante.

Solitamente – se consideriamo ciò che abbiamo studiato sui libri di scuola – questi due elementi, monachesimo e barbari invasori, si ritengono antitetici, perché i monaci avrebbero svolto compiti aggregativi e di difesa, quanto meno sotto il profilo culturale, della eredità classica e religiosa, mentre le popolazioni barbariche con le loro “invasioni” avrebbero creato solo rovinose lacerazioni, sia disgregando l’Impero romano, che era già in fase di dissolvimento, sia costituendo nuove entità politiche e istituzionali tra loro antagoniste. È una lettura che ha pure delle ragionevoli e suggestive spiegazioni, ma di fatto noi dobbiamo considerare che queste due forze, ritenute in opposizione tra loro, concorrono alla costruzione di quell’idea che poi ha preso piede, senza mai compiutamente realizzarsi. Ed in effetti questi due mondi che sembrano antagonisti, convivono e spesso insieme costruiscono qualcosa di estremamente positivo per comporre insieme quel mondo altomedievale destinato, soprattutto dopo il Mille, a divenire una realtà che si potrebbe dire corrispondente all’ideale europeo, per la compresenza di una tensione all’unità con la costruzione di una struttura unificante, come può essere l’Impero, erede della romanità, e come può essere la Chiesa, che si ritiene la vera erede di quel passato, e di una tensione al particolarismo, rappresentato dal sistema delle città comunali o degli Stati territoriali, in cui si rivendica il bisogno di una identità  che non si afferma mai contro altri poteri, ma riconoscendo con essi un legame che non deve mortificare la libertà.

Queste due esigenze sono ancora presenti e sono spesso ancora gestite in maniera contrapposta, come se una debba elidere l’altra e non invece opportunamente integrarla. Tutti questi tentativi messi in campo nel corso dei secoli, andrebbero meglio conosciuti e riconosciuti per poter realizzare quell’idea di Europa, che è sempre presente e sempre particolarmente precaria, proprio perché poco considerata e analizzata.

Il ruolo di S. Colombano

Il personaggio che può sintetizzare al meglio questa ricerca di integrazione fra le due forze in campo in questo periodo è proprio S. Colombano, monaco di stampo benedettino, pur non essendo di quella scuola, proveniente da un mondo barbarico di estrema periferia, come può essere l’Irlanda di questo periodo. Costui si trova ad agire sia in Francia (che era ancora la Gallia) sia in Italia, pur per un breve periodo, con popolazioni barbariche (Franchi e Longobardi) e con figure di notevole statura politica (Brunilde e Teodolinda) che sembrerebbero distruttive del mondo romano e che invece sono destinate a far rinascere ciò che ancora resta del mondo latino. Il monaco irlandese assomma nella sua persona i due mondi; e, proprio per il percorso, anche fisico, che compie nella sua esistenza sul suolo europeo, lo si può considerare come figura emblematica di questo lavoro unificante, che può realizzare sia il monaco sia il barbaro che coesistono in lui. Assumendo l’ideale monastico, che è per lui bussola esistenziale, e nel contempo vivendo questo suo modo particola-re di essere monaco, cioè uomo dei confini, uomo che sa sempre andare oltre senza mai stanziarsi, come sembrerebbe predominante in chi vuol fare il monaco, egli porta con sé l’eredità cristiana che trova nuova vitali-tà proprio a partire dai confini geografici estremi, e nello stesso tempo, perché si muove tra i regni barbarici. Colombano cerca di sviluppare questa eredità dentro un mondo che a molti appare come distruttore del passato e del mondo cristiano, se non altro per aver assunto l’arianesimo, che come eresia cristiana è mortifera per il Cristianesimo stesso. Andrebbero meglio conosciuti e sviluppati questo suo ruolo storico e questa sua missione evangelica, diversamente da quanto si conosce e si continua a riconoscere di lui, che appare piuttosto emarginato sia nel santorale cristiano sia nella cultura e nella storiografia europea.

Proviamo a conoscere qualcosa in più di Colombano, soprattutto per la sua collocazione nella storia europea, che è forse non molto nota, e per riscoprire il suo ruolo in un mondo che lo ha visto protagonista, senza riuscire poi ad avere quella notorietà che gli spetta e che per certi versi gli è riconosciuta, se non altro per i tanti segni diffusi un po’ ovunque del suo nome e della sua eredità spirituale e culturale. Sono pur sempre significativi i centri che ancora oggi portano il suo nome e che evidentemente conservano l’eredità o comunque una traccia del suo passaggio o della presenza di chi, continuando la missione, ne ha tenuto vivo il ricordo. Per noi in modo particolare vale la località di Bobbio, che conserva le vestigia del suo ultimo lavoro, visto che proprio lì si è consumata la sua esistenza iniziata in Irlanda e vissuta per diverse contrade in Europa.

La biografia di S. Colombano

Possiamo ricostruire qualcosa di lui sia con le sue opere rimaste, sia con la biografia del suo contemporaneo, il quale scrive secondo i canoni delle biografie, che traggono ispirazione dalla Vita di S. Martino di Sulpicio Severo, sia con ciò che ancora rimane dei monasteri da lui eretti nel suo peregrinare per l’Europa. Qui può essere utilizzata in maniera sintetica la biografia tracciata da Papa Benedetto XVI nella sua catechesi.

Dall’udienza generale (11giugno 2008)

Il santo abate Colombano è l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo «europeo», perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 e indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione «totius Europae, di tutta l’Europa», con riferimento alla presenza della Chie-sa nel Continente (cfr Epistula I,1). Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda  settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita. All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della «peregrinatio pro Christo», del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Anne-gray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giova-ni chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord. A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza «tariffata» per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, «ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti cosa più grave sono disattese» (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno per difendere la tradizione irlandese. Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare e imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni. Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’ac-coglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità. Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle del Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi. Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: «Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di ama-re il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dal-l’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mon-do» . Queste parole, il santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

L’ideale europeo in S. Colombano

Nella Basilica di San Pietro a Roma, tra le numerose magnifiche cappelle se ne può trovare una dedicata ad un grande santo irlandese dell’Alto Medioevo, san Colombano. Il mosaico dietro l’altare mostra Colombano e i suoi discepoli come “peregrinantes pro Christo”, ambasciatori ed araldi del Vangelo di Cristo per tutte le terre d’Europa. (p. 5)Nel mosaico a lui dedicato nella Basilica di San Pietro, campeggia questa iscrizione: “Si tollis libertatem, tollis dignitatem”, se togli la libertà, togli la dignità. La frase, tratta da una delle lettere di Colombano, potrebbe essere stata pronunciata non dal monaco missionario agli inizi del VII secolo, ma da un nostro contemporaneo che oggi guarda il mondo e constata con tristezza e dolore che non tutti i popoli sono liberi: accanto alle vecchie forme di oppressione, le società moderne infatti conoscono nuove servitù che sono particolarmente distruttive della dignità umana”.  

Consideriamo questa frase come particolarmente significativa di Colombano, perché è il sintetico messaggio che si vuol dare a partire dalla sua immagine. Mi sembra quanto mai eloquente a riguardo della sua missione di uomo che dedica le sue forze per la costruzione di un mondo che noi oggi possiamo definire il mondo europeo, non tanto per i suoi ben noti confini geografici, quanto piuttosto per il suo animus culturale presente in coloro che vi abitano e che sono gli eredi di una particolare maniera di intendere la vita. Dovremmo domandarci che cosa è particolarmente significativo per caratterizzare l’uomo europeo, il vivere europeo, il mondo europeo. Non basta il fatto di abitare su un territorio che noi oggi definiamo così e che di fatto, rispetto agli altri continenti, appare come una propaggine del grande mondo asiatico, essendovi unito e staccato insieme dalla catena degli Urali. A partire dalla coscienza che ne hanno avuto i Greci che si sono identificati proprio nel loro distaccarsi dal grande mondo asiatico, definito barbarico, cioè estraneo al loro mondo, l’Europa è il mondo che si riconosce “ben ritagliato” (questo sarebbe il significato etimologico della parola), in quanto chi vi sta si riconosce per la sua libertà, cioè per la sua identità, raggiunta nell’af-fermarsi in relazione con altri, nel costruire insieme il proprio vivere, ciascuno con la propria coscienza, libera, viva, forte, coraggiosa, piena di dignità. Il mondo barbarico, e asiatico in particolare, viene visto dai Greci come un mondo di sudditi, cioè di esseri che vivono nella sudditanza e quindi senza libertà e senza dignità, proprio perché ridotti in servitù rispetto ad un re che comanda con un apparato che lo fa essere un dio da idolatrare. Basterebbe pensare a come Erodoto legga e consideri la figura di Serse in occasione delle guerre persiane, quando oltrepassando i Dardanelli, lo mostra mentre frusta il mare pensando in tal modo di dominarlo, andando ben oltre i suoi limiti, non tanto territoriali, quanto piuttosto umani. Proprio per questa sua proterva visione del mondo e della storia verrà umiliato con la sconfitta e questo grazie agli uomini liberi, che tali si affermano in questa circostanza. Sono pochi, sono deboli e tuttavia la loro coscienza li fa giganti e vittoriosi su coloro che, come i centauri del mito, appaiono come uomini, ma in realtà sono bestie.  Questa idea di Europa permane nel corso dei secoli e diventa l’eredità che è assunta nel mondo romano e che viene ulteriormente riaffermata e ricaricata con l’avvento del Cristianesimo, laddove l’insegnamento paolino mette in risalto proprio questa libertà dello Spirito che fa andare oltre la legge scritta, necessaria ma non sufficiente, se essa viene interpretata e vissuta alla lettera facendo mancare lo Spirito e la sua azione interiore.

Potremmo dire che Colombano, per quella espressione che lo segnala nel mosaico di S. Pietro, è davvero uomo dal profondo spirito europeo, anche a provenire da una terra lontana e periferica, anche ad essere stato monaco con una vita che si potrebbe pensare ritirata e “fuori dal mondo”, anche ad aver intrapreso viaggi che lo hanno visto un po’ dovunque, ma sempre con il medesimo ideale da raggiungere, da realizzare.

3 momenti della sua vita monastica

La sua esistenza va inquadrata in tre momenti fondamentali, legati a tre abbazie e a tre luoghi dello scenario europeo, come pure a tre passaggi diversi della sua esistenza, che per quei tempi appare già sufficientemente lunga. Ognuno di questi momenti e di questi luoghi può rappresentare anche simbolicamente un aspetto del contributo che Colombano dà allo sviluppo della storia europea.

IN IRLANDA: BANGOR

I primi anni di vita si snodano sulle strade d’Irlanda, l’isola che rimase sconosciuta anche ai tempi dei Romani e che di fatto viene integrata al sistema del mondo circostante grazie alla figura e alla missione del suo grande patrono, S. Patrizio. Costui era stato fatto prigioniero in Britannia e poi, una volta fuggito e ritornato sulla sua terra natale, aveva deciso di diventare missionario presso i Celti che vi abitavano, divenendo il primo vescovo dell’isola e colui che ne segnerà la storia. La sua vicenda si snoda nel V secolo, quando nel resto dell’Impero era ormai in corso una decadenza paurosa segnata dagli sconvolgimenti creati dai barbari. Qui si era formato un sistema di vita che privilegiava il mondo rurale, anche per la conformazione stessa dell’isola e i centri abitati erano di fatto legati alle abbazie che sorgevano e che improntavano il vivere sociale sulle attività rurali. E questo sistema, in presenza di un degrado galoppante sul resto del continente, favoriva l’attività missionaria dei monaci irlandesi che cercarono di esportare il loro sistema di vita, austero e impegnato nella bonifica dei territori per renderli sempre più produttivi. Così l’isola che era stata evangelizzata dal primo missionario proveniente dalla Britannia, in poco tempo si trova a dover restituire quanto aveva ricevuto creando figure di missionari che si muovono sul territorio europeo. Insomma, l’Europa in questo Alto Medioevo si realizza grazie a questo genere di comunicazione che fa muovere gli uni verso gli altri, portando i benefici ricevuti e poi vissuti come eredità su cui costruire il futuro anche altrove. In questo caso, diversamente da come era stato altrove, non si riscontrano missionari caduti in odio alla fede come martiri. Quello che qui appare come elemento dominante dell’azione missionaria è soprattutto la comunicazione della fede. E’ interessante a questo proposito la figura di S. Brigida d’Irlanda, con alcuni caratteri leggendari, come si evince dal testo di Jacopo da Varagine, che diventa molto popolare.

A questo proposito si dovrebbe valutare bene come mai dalle nostre parti questa figura insieme con quella di S. Barbara, trovi particolare rilievo nella Villa Suardi a Trescore Balneario (BG), con i dipinti di Lorenzo Lotto. Entrambe sono proposte nella chiesetta che vede la centralità della figura di Cristo rappresentato come la vite vera a cui si dà l’assalto da parte degli eretici: siamo negli anni delle prime aspre contestazioni luterane contro il sistema cattolico e gli anni in cui l’Occidente si trova sotto la minaccia dei Turchi (il padre di Barbara viene rappresentato come se fosse un turco, proprio perché è ostile alla scelta di fede della figlia, rappresentata nuda come se ella opponesse, alla eresia e all’infedele, la sua “nuda fede”). Anche se oggi la figura di Brigida d’Irlanda è ai più sconosciuta, ella aveva avuto una notevole fama nel medioevo e sopravviveva fino ai tempi del Lotto.

L’immagine di questa santa, che a noi arriva anche con l’apporto di testi dal carattere favolistico, serve a mettere in chiaro che proprio dalla periferia, in tempi calamitosi e oscuri, si fa strada una luce, rappresentata da colei che ne è il simbolo, per il fatto che essa riveste connotati che sono simili a quelle riscontrate nei racconti mitici del mondo celtico locale. Analogamente si rivela lo stesso Colombano che il biografo dice provenire da una madre a cui era stata fatta la rivelazione di portare in grembo un “sole scintillante … fulgente di straordinario splendore e recare al mondo una grande luce”.  Il giovane Colombano prende la decisione di lasciare la sua terra natia e di spostarsi sull’isola andando “a cercare la vita monastica il più lontano possibile da casa. Optò per un giovane monastero di recente formazione, situato a nord, nell’Ulster. Si trattava di Cleenish, sito su un’isoletta su un lago, il Lough Erne, poco più che un gruppo di capanne dove si conduceva una vita di preghiera, di silenzio di lavoro”. (p. 42)

Ma da qui passa quasi subito al luogo che diventa decisivo per la sua formazione: Bangor. Questa si trova nell’Irlanda del Nord: “Il nome della località, in lingua gaelica Beannchar, significa “luogo del coro”, il che conferma che la lunga storia di questo luogo è legata strettamente alla presenza monastica, che iniziò con la metà del VI secolo e durò fino alla conquista inglese …” (p. 44)

Ciò che deve essere segnalato di questo periodo è lo strutturarsi di una vita monastica all’insegna di una regola di vita molto severa e dura, che per qualche periodo coabiterà con il sistema benedettino, il quale poi avrà il sopravvento, essendo caratterizzata dal senso della misura, dell’equilibrio, dalla moderazione.

Quale potrebbe essere per questo periodo il contributo che Colombano dà alla causa europea? Egli certamente non si prefigge compiti istituzionali o idee di aggregazione fra popoli. E tuttavia questo suo impegno per regole di vita che devono formare non solo il monaco ritirato dal mondo, ma anche chi vive nel mondo attorno all’abbazia, dice l’importanza di costruire comunità armoniose ben regolate, ben costruite non tanto in presenza di schemi rigidi, quanto piuttosto di indicazioni che poi risultano elaborate sul principio benedettino della misura, della moderazione. In effetti, se all’inizio il sistema di Colombano appare piuttosto rigido, poi di fatto anche nei suoi monasteri o in quelli che a lui si ispirano e che proprio in questo periodo di dilagante barbarie si diffondono, prevale la regola benedettina, che diventa così il sistema di vita non più solo dei principianti, ma di chi vuol costruire una società fondata sulla condivisione e collaborazione di tutti in una armoniosa compresenza.

Proprio perché per anni a Bangor la comunità monastica ha elaborato una bella convivenza, ecco la chiamata a portare altrove questo sistema di vita e quindi la ripresa della missione, secondo la consuetudine tipicamente irlandese, legata alla figura di S. Patrizio. Così Colombano con altri dodici fratelli parte per il continente. Ecco cosa dice il suo biografo circa questo suo desiderio di andare altrove:

Incomincia a prendere in considerazione il progetto e ad anteporlo a quanto preferisce in cuor suo, preoccupandosi così di procurare agli altri ciò che tornasse loro utile piuttosto che soddisfare le proprie necessità. Certamente, tutto ciò non avveniva senza la volontà dell’Onnipotente che preparava il suo novizio ai futuri combattimenti per ottenere con le sue vittorie gloriosi trionfi e impadronirsi delle falangi dei nemici sconfitti con il loro ricco bottino. Chiamò dunque Colombano e gli manifestò la decisione per lui dolorosa, ma utile agli altri, di dargli, con il vincolo della pace, e il conforto del suo aiuto, dodici compagni di viaggio, tutti distinti per pietà. Riunita la comunità dei fratelli, chiese a tutti l’aiuto della preghiera, perché il Divino donatore concedesse il sostegno della sua benevolenza nel viaggio che stavano per intraprendere”. (p. 55)2.

IN FRANCIA: LUXEUIL

Incomincia così la seconda fase della vita di Colombano, quella che si ca-ratterizza per la “peregrinatio” attraverso il continente europeo portando con sé l’esperienza irlandese, che sarà determinante per salvaguardare, in mezzo alla invasioni barbariche e ai dissidi continui sfociati nelle guerre, una eredità religiosa e culturale, che finirà per imporsi, anche sul declino dei regni barbarici che erano sempre più dominati da faide interne. Di fatto egli si trova ad attraversare il territorio che noi oggi chiamiamo “Francia” e che era appunto in fieri con l’avvento dei Franchi, popolazione germanica che cercava di stanziarsi in luoghi toccati dal sistema romano. Ma anche questo regno barbarico dopo i primi anni di relativa serenità, appare consumato da faide familiari che toccano la famiglia regnante e coinvolgono il regno del suo insieme, quello che appare a ridosso del Reno e che viene definito Burgundia, da cui deriverà poi la Borgogna. Qui nel gioco politico ha il sopravvento Brunilde, la regina, che regna dopo la morte violenta del marito e in presenza di un figlio ancora in minore età. È una figura molto forte, dinamica, ma pure potente e prepotente, in quanto ricorre anche alla violenza nei suoi giochi di potere. Di fatto, almeno inizialmente accoglie e protegge Colombano e i suoi, dando loro la possibilità di stabilirsi a Luxeuil (Franca Contea).

Si potrebbe dire che Luxeuil è la migliore espressione del monachesimo secondo Colombano, anche se poi egli rimane, almeno da noi, legato a Bobbio, che fu in realtà la sua dimora per poco tempo. Qui si struttura il monastero secondo quel tipo di immagine che avrà il sopravvento nel Medioevo, come luogo di bonifica del territorio e come luogo di cultura, nel quale vengono custoditi e moltiplicati i testi del mondo classico e patristico. È proprio il sistema colombaniano  che prevede la costruzione dei monasteri a ridosso delle foreste, senza il loro disboscamento, e lontano dalla città, per uno sfruttamento razionale del territorio che permette la pace del vivere, l’armonia con la natura, la ricerca della solitudine per la preghiera e lo studio, alternati al lavoro. Qui oltre alla Regola che egli derivava da Bangor, Colombano scrive la sua opera più famosa, le ISTRUZIONI.

Si tratta di una breve catechesi,articolata in tredici punti, che tocca gli aspetti fondamentali della vita cristiana; sono indicazioni di carattere spirituale che forniscono un vero e proprio testo di meditazione. Il termine “istruzioni”  è quanto mai appropriato, dal momento che questi tredici brani forniscono ai monaci, ma anche ad ogni lettore, una vera e propria guida pratica alla vita cristiana. (p. 89)

 

Ecco un testo di questa opera in cui si parla della necessità di essere vigilanti:

“Vegliate e pregate in ogni momento. perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” . Fratelli, se ascoltiamo e crediamo questo, il nostro atteggiamento di vigilanza dimostrerà la nostra fede. La parola del Signore possa destare i nostri sensi, scuotere il torpore di morte in cui ci crogioliamo, perché possiamo essere sempre preparati, sgombri da ogni preoccupazione temporale. Così aspetteremo l’avvento dell’ultimo giorno che ci porterà pena o gloria. Il Signore ci insegna a vegliare e a pregare senza interruzione. Questo suo monito affini dunque la nostra anima, per non essere discepoli infedeli o ascoltatori senza orecchi. Dio è amore e bontà. Senza stancarci invochiamo con tutto il cuore la sua misericordia ineffabile, preghiamolo di ispirarci il suo amore per mezzo di Gesù, suo Figlio: supplichiamolo di unirci a lui per l’eternità, come se gli fossimo inseparabilmente saldati. Chiediamo al Signore di elevare i nostri sensi sopra le cose terrene, di fissarli sulle realtà celesti, fintanto che siamo in questo corpo mortale. Aspettiamo così senza rimpianti la sua venuta, per corrergli incontro quando verrà, con la gioia e la piena fiducia dell’amore che gli sono care. Quanto sono beati, quanto felici quei servi che il Signore al suo ritorno troverà ancora svegli. Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell’universo, che tutto riempie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmente della sua carità divina da farmi divampare del suo amore fin sopra le stelle! Potessi allora ardere dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Iddio mi doni di corrispondere alla sua grazia, affinché la mia lucerna risplenda continuamente di notte nel tempio del mio Signore, per illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Dio. Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri. Degnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna. Siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo. Dona dunque, Signore Gesù, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne. Fa’ che io guardi, contempli e desideri te solo; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio. Nella visione dell’amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli e arda. Degnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo senza posa e meditiamo giorno e notte le tue parole. Dégnati di infonderci una carità degna di te che sei Dio, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all’infuori di te, che sei eterno; e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare. Sta infatti scritto: ”Le grandi acque non possono spegnere l’amore”. Possa questo avverarsi per tua grazia anche in noi, o Signore Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Colombano indica ai suoi discepoli la via difficile e affascinante della gioia vera, che consiste nel piacere a Dio, nel compiere quanto ci comanda, cioè vivere con rettitudine e cercare con amore le realtà eterne. L’uomo giusto vuole e desidera ciò che è giusto. Come è possibile pervenire a questo? Ancora una volta con l’esercizio costante. (p. 95).

 

Perciò bisogna esercitarsi costantemente nella pietà e nella giustizia. Che cosa ci aiuta a mantenerci in esercizio? L’intelligenza che, vagliando ogni cosa e non trovando fra le cose di questo mondo nulla di stabile a cui attaccarsi, ragionevolmente si volge all’unica realtà che rimane in eterno. Il mondo infatti passerà, anzi ogni girono passa e volge alla fine (vi è forse in esso qualcosa che non sia destinato a finire?) e, in certo modo, si poggia sulle colonne della vanità. Ma quando ciò che è vano finirà, allora cadrà e non potrà sussistere. Ciò che non ha fine, invece, non si può dire che appartenga al mondo. Tutte le cose tramontano o muoiono e passano e non sussistono. Che cosa dunque deve amare l’uomo per essere saggio? Un’immagine morta, ora muta ora dotata di voce, che vede e non comprende? Se la comprendesse, forse non l’amerebbe; ma anche in questo essa reca danno, in quanto non si mostra qual è veramente. Chi infatti comprende, sia per sé che per un altro, di essere fiore di terra e fango tratto da fango, per quale dignità è reso figlio di Dio e abitante del cielo, lui destinato a ritornare presto in polvere, e che mai potrebbe conseguire tale dignità se non mediante l’anima?

 

Questo suo vivere in una sorta di confine geografico, secondo l’impostazione del monachesimo irlandese, prosegue anche qui, proprio perché questa fondazione e le altre che sorgono risultano essere tali, laddove popoli barbarici si incontrano e nello stesso tempo si contendono. Il confine non è insomma motivo per rinchiudersi, ma per muoversi ancora di più favorendo l’incontro con altri popoli in nome di una appartenenza che va ben oltre gli schemi linguistici o etnici, in quanto ci si riconosce partecipi della medesima vita di fede. Come già nello stile irlandese, anche Colombano cerca la comunione con il centro sentendosi posto ai confini: è noto il suo continuo richiamarsi a Roma per “esse cum Petro”, in sintonia con il Papa del tempo, Gregorio Magno (590-604), propugnatore convinto della missionarietà della Chiesa e quindi sostegno di tutti coloro che si muovevano presso i barbari con l’intento di farli divenire cristiani. Lo stesso sentimento di fraternità lo dimostra anche con i suoi successori e in particolare con Bonifacio IV (608-615). A lui scrive in modo accorato per la salvaguardia dell’unità della Chiesa.

 

Soffro infatti, lo confesso, per la cattiva reputazione della cattedra di san Pietro; so tuttavia che la cosa mi supera, e perciò, come si dice, sarò il primo a mettere la faccia nel fuoco. Ma che mi importa di salvare la faccia di fronte agli uomini, quando è necessario manifestare lo zelo per la fede? Non resterò confuso davanti a Dio e agli angeli; è lode per Dio restar confusi davanti agli uomini. Se sarò ascoltato, il vantaggio sarà di tutti, se sarò disprezzato, il danno sarà mio. Io infatti parlerò da amico, da discepolo, da vostro servo, non da estraneo. Pertanto parlerò liberamente come a nostri maestri, a nocchieri della nave spirituale, a mistiche sentinelle, dicendo: “Vigilate, perché il mare è tempestoso ed è gonfiato da raffiche di vento funeste”. Non si tratta solo di un’onda minacciosa solitaria, che, in un mare mosso, si innalza a vertiginose altezze dai vortici spumeggianti come uno scoglio incavato, e seppur da lontano ci gonfia e spinge le vele innanzi a sé, mentre la Morte cammina sulle onde, ma è uno sconvolgimento di tutto il mare, che in verità da ogni parte si gonfia ed è agitato e minaccia di far naufragare la mistica nave. Perciò, io, timido marinaio, oso gridare: “Vigilate, perché l’acqua è già entrata nella nave della Chiesa e la nave è un pericolo”. 

Se i venti sono minacciosi per la Chiesa, che non ha più la figura gigantesca di Gregorio, non di meno nella società civile infuria la violenza politica, che vede al centro ancora Brunilde, per quanto già avanti negli anni. Proprio per le sue mene, Colombano è costretto a lasciare Luxeuil e a mettersi in viaggio. Il percorso che segue sembra volerlo riportare in Irlanda, ormai vecchio. In realtà il suo è un continuo peregrinare lungo la Loira fino a Nantes, per poi tornare verso i Vosgi e di qui oltre il Reno fino al territorio degli Svevi. Ma Colombano non si ferma. Lascia il disce-polo Gallo in quella località che poi prenderà il suo nome dando origine ad una città e ad una abbazia dove si trova una antica biblioteca di grande valore storico, San Gallo. Colombano è intenzionato a recarsi a Roma, come se volesse concludere lì la sua peregrinazione e la sua vita pellegrinante.

IN ITALIA: BOBBIO

Qui si apre la terza fase e ultima, della sua esistenza, che fa capo a Bobbio, sugli Appennini piacentini. L’obiettivo sembrava quello di raggiungere Roma e poi qui, sulla tomba degli Apostoli, morire. Di fatto, scendendo, forse, dallo Spluga, dalle regioni che noi oggi chiamiamo svizzere, passa dal corso dell’Adda e qui si imbatte con un altro popolo barbarico, insediato da alcuni anni, proveniente dall’Est europeo. Si tratta dei Longobardi che segnano profondamente la penisola in questo periodo. La figura dominante è quella di Teodolinda (570-627).

 

Quando sul finire dell’anno 612 Colombano giunse a Milano, immaginava o semplicemente sperava che tra i Longobardi, nemici dei Franchi, avrebbe trovato buona accoglienza. Di fatto, oltre ad una calda accoglienza gli accadde molto di più: Teodolinda, che era stata resa edotta delle qualità e della fama di santità dell’Abate pellegrino giunto alla sua corte; gli chiese di fermarsi presso di lei e di mettere a disposizione tutte le sue capacità nella lotta all’eresia.

Colombano non poté rifiutare questa richiesta, mise ancora una volta da parte il progetto di giungere a Roma, e si accinse a questa nuova missione (p. 149).

Inizia così la breve ma significativa permanenza di Bobbio, avendo posto proprio in questa località il suo centro di irradiazione, a servizio di un popolo barbarico che andava conquistato alla causa cattolica. Si potrebbe dire che proprio qui si consuma la missione “europea” di Colombano in questo tentativo, sostenuto da Teodolinda, già in buoni e collaborativi rapporti con Gregorio Magno, di mettere a disposizione le esperienze, non solo religiose, maturate in quegli anni, per un lavoro capillare di sensibilizzazione, sia tra le autorità, sia tra la popolazione civile, per integrare l’eredità barbarica con quella cristiana e romana. Questo lavoro di integrazione, avviato ma non concluso, è indubbiamente determinante perché nulla vada perduto di ciò che ogni popolo porta con sé e che deve costituire il denominatore comune per costruire il cammino della civiltà. Colombano ne è cosciente e lo dice a chiare lettere ancora al Papa Bonifacio IV: Vigilate, dunque, per la pace della Chiesa, soccorrete le vostre pecore, le quali, già impaurite, per il terrore dei lupi, temono per di più fortemente voi stessi, piene di panico perché sospinte da un ovile all’altro. Così sono esitanti: un po’ vengono, un po’ si allontanano, come vengono così vanno e sempre sono in preda al timore. Perciò, o Papa, usa i fischi del vero pastore e la voce conosciuta e sta’ tra le pecore e i lupi, affinché, liberate dalla paura, ti riconoscano di nuovo quale loro vero pastore. Infatti, questo popolo, mentre sostiene molti eretici, è tuttavia zelante, subito come un pavido gregge si turba e non torna tranquillo in fretta, perché l’Italia ha avuto molti lupi, i cui piccoli non possono essere tutti facilmente sterminati, tanto numerosi sono quelli allevati nelle tane … Ma quando un cortese re dei Longobardi chiede di scrivere a un ottuso straniero irlandese, quando l’onda di un antico torrente rifluisce all’indietro, chi non si meraviglierà anziché falsare la verità? Io tuttavia non trepiderò, né, trattandosi di Dio, temerò le lingue degli uomini che dicono più spesso il falso che il vero, dal momento che si deve vincere la timidezza piuttosto che lasciarsi vincere dalla viltà, quando le circostanze lo esigono.

Così Bobbio diventa un centro di grande importanza per il futuro del monachesimo, quello irlandese certo, ma anche quello di marca benedettina, per il cammino successivo della faticosa costruzione di una civiltà che si possa definire europea. Bobbio rimarrà anche oltre Colombano: il vecchio abate avvia questa nuova fondazione, ma di lì a breve deve congedarsi dal mondo. Muore il 23 novembre 615.

 

Conclusione

Dobbiamo constatare che l’uomo non ha avuto neppure nella Chiesa il giusto riconoscimento del suo ruolo di “navigatore in mari tempestosi” per impostare una visione della vita che sta alla base della civiltà per noi oggi definita “europea”. Il concorso di tanti elementi, unificati dalla sua persona e dalla sua azione un po’ dovunque, è da ritenersi fondamentale per lo sviluppo di una visione della cultura, della spiritualità e del vivere che si possa definire umanistica. La visione di una esistenza da costruire partendo dalla periferia per cercare il centro unificante, la costruzione di un vivere armonioso con la natura, la ricerca costante di una regola di vita austera, ma anche misurata nella sua austerità e poi l’incontro fra i diversi popoli da armonizzare con la spiritualità cristiana, sono elementi ineludibili per costruire ancora oggi questa idea di Europa tutta da conoscere, da riconoscere e da sviluppare. Colombano ha dato il suo contributo; il suo contributo va sempre più sviluppato.

BIBLIOGRAFIA

Paolo Gulisano –   COLOMBANO:UN SANTO PER L’EUROPA -Ancora, 2007