La Pasqua di Cristo nel mondo religioso e culturale russo

MORS ET VITA DUELLO

CONFLIXERE MIRANDO

Sul “fronte russo” continuano a udirsi rumori di guerra, e di lì ci vengono im-magini impressionanti di rovine, lasciate sul territorio ucraino, anche se i morti e i feriti sono da entrambe le parti, in un conflitto dal forte sapore di scontro tra popoli “fratelli”, che hanno avuto una lunga storia in comune. È inevitabile inoltre che siano coinvolte anche le diverse confessioni religiose, le quali si rifanno al comune mondo cristiano: qui i credenti nel Signore, morto in croce e poi risorto, celebrano i medesimi misteri pasquali, pur con forme liturgiche diverse. E tuttavia essi non sanno superare le divisioni e ricercare l’intesa che deve impedire inutili distruzioni, ma più ancora i troppi morti, e più ancora sopire i risentimenti che si fatica a contenere e a impedire. Davanti ad un quadro desolante e sempre più imbarbarito da tanta violenza “gratuita” e selvaggia, non c’è molto spazio per discorsi di natura religiosa, per letture e visioni che parlino di rinascita, di risurrezione. Anzi, a volte anche simili auguri appaiono fuori luogo, intrisi di un sapore molto amaro. Come si fa a di-re che Cristo è risorto, in un quadro di devastazione, che pur si assicura di vo-ler ricostruire come prima? Non sarà più come prima! Non può essere come prima! Come si fa a ripetere l’augurio di pace del Cristo risorto? Raccontando l’evento della risurrezione e più ancora il suo farsi vedere ai discepoli il mattino di Pasqua nel cenacolo, dove entra a porte chiuse ed augura loro la pace, la sua pace, noi osiamo credere che tutto questo si rinnova anche oggi. Ma dove lui appare? Dove lui viene visto? Dove lui irrompe come allora con il suo augurio di pace? Se nel nostro non lontano oriente, invece di veder sorgere un nuovo sole di speranza, vediamo sempre più infittirsi le nubi tenebrose della disperazione, mentre noi vorremmo altre nubi cariche di pioggia, come facciamo a sperare? Ancora sentiamo a noi lontana questa guerra, come se non ne fossimo coinvolti. Ed invece il rischio di sentirci trascinati nel baratro è non molto dissimile da ciò che per le guerre precedenti si avvertiva, pur nella spensieratezza di chi non ci pensa mai, di chi si convince che non potrà mai succedere. Eppure è già successo. E può succedere ancora. Già a partire dalle esperienze passate di conflitti nel cuore dell’Europa ci siamo chiesti come siano stati possibili, laddove una civiltà secolare si era formata sull’umanesimo più che su altre considerazioni. Eppure anche allora si era scatenata l’assurdità del male, poi letta come “banalità”, nonostante la presenza di tanti pensatori animati dallo spirito umanistico.

Oggi troviamo popolazioni, che noi dobbiamo considerare parti integranti della “nostra Europa”, alle prese con una contrapposizione dal forte sapore di guerra civile, dove pure l’umanesimo non è mai mancato e si è sviluppato un pensiero e uno spirito da riconoscere e da valorizzare, e si è fatta strada una visione della persona umana, che anche ad essere segnata dal male, non per questo si adatta ad esso. Perché pure qui e adesso, lasciamo scatenare il caso, il male banalizzato, e non facciamo affiorare quella ricca cultura, che pure ha contribuito a formare quei popoli e con essi una larga fetta d’Europa? Già da precedenti esperienze di male siamo usciti, e fu come una risurrezione insperata, se non altro perché alcuni, anche a sparire travolti da una ferocia bestiale, hanno conservato e hanno la-sciato in eredità la propria fiducia nell’essere umano, auspicando tempi nuovi e migliori. Così oggi, a partire da quei luoghi e dalla ricca eredità di quella gente, possiamo e dobbiamo coltivare l’anima migliore, quel tipo di umanesimo, che per gran parte deriva dallo spirito religioso coltivato e lasciato in eredità. Possiamo indubbiamente trovare in quelle regioni e in quelle persone testimonianze di una fede che non si è lasciata travolgere dal male, ricerche di un umanesimo che si sente più radicato e più resistente rispetto al male che pur tracima. Proprio nelle visioni che riscontriamo in opere letterarie, in immagini e in testi religiosi, in figure di credenti capaci di una fede genuina anche ad essere calpestati e travolti dalla bufera dilagante del male, noi ricaviamo un annuncio di vita che è davvero più forte di ogni male e che anche oggi sentiamo risorgere dai campi di guerra, fumanti per le distruzioni, e dai corpi dilaniati dalle bombe e dalle torture. È Pasqua anche lì, dove più che mai si scatenano la violenza e la morte, ma nello stesso tempo affiora potente l’anelito di vita, che tanta gente continua a rivelare proprio dal gemito di morte e dalle ombre e dalle oscurità di tante devastazioni. Proviamo ad ascoltare le voci pur flebili, che si levano da questo mondo, oggi oscurato da censura e da propaganda di parte, da bombardamenti e da sparatorie che creano il silenzio della morte e il tacitare delle voci pur flebili di chi soffre. Tra queste voci è inevitabile sentire il richiamo della stessa violenza che ha voluto mettere a tacere la Parola di Dio nella fisionomia del Cristo: chi legge il male oscuro presente nel mondo riconosce il medesimo male che si è scatenato contro il Signore. Ma anche a dover considerare questa tragedia che continua a consumarsi, non riesce mai ad essere del tutto silenziata la voce che annuncia più forte l’amore, con cui la vita, quella di Dio e quella dell’uomo, riprende a scorrere. Qui viene offerto qualche saggio e qualche rimando a testi e ad autori che riflettono sul mistero della vita e della morte, così come si sono trovati a confliggere in un memorabile scontro, sia nella vicenda della morte di Cristo, come nella sua con-tinua passione dentro la carne e la storia umana.

NEL MISTERO

DELLA MORTE

La celebrazione pasquale, quella liturgica, vede al centro i misteri della passione del Signore che vanno a culminare nella sua risurrezione. Essi sono pur sempre misteri “evangelici”, perché, appartenendo al vangelo, sono una “bella notizia”, non solo per il fatto che producono la salvezza, ma perché in essi Gesù vive, in un mare di dolori, un amore sconfinato, che risulta essere in tal modo più forte della morte stessa. Questo va contemplato, vissuto e poi testimoniato, soprattutto riportando tale insegnamento nel contesto del dolore umano che continua nel mondo. La celebrazione non è solo ricordo dei fatti dolorosi che accompagnano il processo, la condanna e l’esecuzione di essa con la crocifissione, ma è, e deve sempre essere, la “memoria” dell’amore che appare grande proprio nel contesto del dolore. Così il patire umano non viene propriamente spiegato; ma gli si dà quel tipo di sbocco che permette ad esso di uscire dal non-senso per divenire, nell’amore, qualcosa di grande. La riflessione sul dolore, sempre presente nel vivere degli uomini e sempre più acuto in certi momenti e in certe pagine della storia, anche a non dare spiegazioni e giustificazioni, fa comprendere che su di esso l’uomo insiste a tornare, alla ricerca di un senso dentro un mistero che continua a tormentare. Anche nel mondo russo su questo argomento ci si impegna nella riflessione e dentro le sue grandi opere e i tormenti dei suoi scrittori più illuminati si è cercato di leggere la sofferenza umana alla luce di quella di Cristo.

C’è una pagina famosa, nel grande romanzo di Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, che diventa una sorta di racconto nel racconto, affidato alla mente, diabolica, di Ivan, il prototipo dell’ateo imbevuto delle ideologie occidentali e di fatto considerato come l’anima nera, l’ispiratore del delitto che si consuma nella sua famiglia e che la travolge. Mentre si trova a conversare con il fratello Alioscia, in un memorabile confronto di idee con il giovane seminarista, anima semplice, genuina e soprattutto credente, Ivan elabora la figura e il racconto del “Grande Inquisitore”, che nella Spagna del XVI secolo, sottopone a processo, ancora una volta, il Cristo, tornato fra i suoi, mentre si processano gli eretici, e con loro si continua a spargere sangue, addirittura in nome del Vangelo da difendere. Prima però del racconto Ivan fa una premessa, come lui stesso la chiama. Ed è un poemetto, nel quale ha un ruolo determinante la passione di Cristo, in grado di redimere anche chi è destinato alla condanna eterna …

Esiste … un poemetto scritto in un monastero (ovviamente tradotto dal greco): Il pellegrinaggio della Madre di Dio attraverso le pene, che presenta una potenza di immagini e un’arditezza non inferiori a quelle dantesche. La Madonna visita l’Inferno, ed è l’arcangelo Michele a guidarla “fra le pene”. Ella vede una schiera di peccatori e i loro tormenti. Fra gli altri, vede una schiera di peccatori molto interessante in un lago di fuoco: quelli fra loro che affondano nel lago e non riescono a riemergere, sono “già dimenticati da Dio” – espressione di eccezionale profondità e potenza. Ed ecco la Vergine, sconvolta e piangente, cade in ginocchio dinanzi al trono di Dio e chiede la grazia per tutti i peccatori dell’inferno che ha visti, per tutti, senza distinzioni. Ella supplica, non desiste, e quando Dio le mostra le mani e i piedi del Figlio suo con le ferite dei chiodi della croce e domanda: “Come posso io perdonare ai suoi torturatori?”, allora ella ordina a tutti i santi, a tutti i martiri, a tutti gli angeli e gli arcangeli di cadere in ginocchio insieme a lei e pregare perché sia concessa la grazia a tutti senza distinzioni. Alla fine, impetra da Dio la sospensione delle pene dal Venerdì santo al giorno della Santissima Trinità di ogni anno, e i peccatori dell’inferno ringraziano Dio e innalzano a lui inni di lode: “Giusto sei tu, o Signore, che così giudicasti”. Ecco, anche il mio poemetto sarebbe stato di questo genere se fosse apparso a quel tempo. Nel mio poema egli appare sulla scena, anche se poi non dice nulla, fa la sua comparsa e va via. Sono passati quindici secoli da quando il suo profeta aveva scritto: “Un altro poco e mi vedrete”; “In quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno li sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre”, come Egli stesso aveva predetto quando era sulla terra. Ma l’umanità lo aspetta con la stessa fede e la stessa commozione. Anzi, forse, con più fede di prima, giacché sono passati quindici secoli da quando sono cessati i pegni celesti per l’uomo:

Abbi fede nei suggerimenti del cuore

Perché i cieli non danno più pegni.

Non vi era rimasto altro che la fede nei suggerimenti del cuore! Vero è che a qual tempo si compivano molti miracoli. C’erano santi che compivano guarigioni miracolose; alcuni giusti, a quanto si dice nelle loro biografie, venivano visitati dalla Regina dei Cieli. Ma il diavolo non sonnecchiava e nell’umanità si affacciavano già dubbi sulla reale autenticità di quei miracoli. Proprio allora, al nord, in Germania si affermò una nuova terribile eresia. Un’enorme stella “ardente come fiaccola” (cioè come la Chiesa) “cadde sulle fonti delle acque ed esse divennero amare”. Questi eretici cominciarono a negare i miracoli in modo blasfemo. Ma quelli che rimasero fedeli credettero con maggior fervore.

Le lacrime dell’umanità si innalzarono a lui: come prima, lo aspettavano, lo amavano, speravano in lui, anelavano a soffrire e morire per lui, come prima. Erano ormai tanti secoli che l’umanità pregava con fede e fervore: “O Signore, manifestati a noi”, tanti secoli che lo invocava, così egli infine, nella sua misericordia, accondiscese a scendere dai suoi fedeli. Anche prima di quel giorno egli era sceso, aveva visitato alcuni giusti, martiri, santi ed eremiti, com’è scritto nelle loro vite. Da noi, Tjutcev, con fede profonda nella verità delle proprie parole, dichia-rò che

Con il fardello della croce

il Re Celeste nelle vesti di schiavo

ti attraversò tutta, Terra natia

distribuendo benedizioni.

Che sia stato sicuramente così, te lo assicuro. Ed ecco che egli sentì il desiderio di mostrarsi anche solo per un attimo al popolo, al popolo angariato, sofferente, macchiato dal peccato, ma un popolo che lo amava come un bambino. (I Fratelli Karamazov, L.V. p.328-330)

Fa riflettere il testo, proprio perché ricorre all’immagine del Cristo crocifisso presentato dal Padre alla Vergine – si tratta di un racconto, ovviamente – perché agli uomini colpevoli sia perdonato. Si deve notare che si tratta dei dannati all’inferno, i quali, secondo la classica dottrina non possono sperare in un cambiamento della propria condizione nell’al di là, dove noi li pensiamo dannati per sempre. Sulla base di questo dobbiamo ritenere che lo scrittore – non si dimentichi la sua amara e drammatica esperienza di graziato all’ultimo momento davanti al plotone di esecuzione – voglia immaginare che a partire dall’“icona” del crocifisso martoriato ci sia pur sempre da sperare da parte di tutti, perché l’immagine del condannato ce lo rivela come il Salvatore di coloro che sono dannati. E la sua presenza nel mondo (anche nella fase successiva del racconto, dove egli ricompare nella Spagna dell’Inquisizione ancora processato e condannato, ma stavolta da chi ha l’autorità nella Chiesa) sta a dire che Gesù si ritrova sempre in mezzo a coloro che possiamo considerare dannati, proprio perché perseguitati senza remissione, e comunque bisognosi più che mai della salvezza. Lo scrittore stesso si sente dalla parte di questi reprobi: egli è sempre assediato dal male e da una fine incombente, che non lo vede mai in grado di emanciparsi dal male, di riemergere, di ritrovare l’equilibrio. E quello che lui sperimenta, lo avverte come una condizione di vita appartenente alla sua generazione, sempre più travolta dai demoni.

Dostoevskij parla dell’uomo del sottosuolo, quello che appare sommerso, come “interrato”, rinchiuso in una tomba e bisognoso di risorgere, di riemergere. Tutto il discorso, messo in campo da Ivan Karamazov con il suo Grande Inquisitore, sta proprio nell’accusare il Cristo di aver preferito per l’uomo la libertà nel dolore al benessere senza libertà. Perciò il Cristo che vuol tornare deve essere ancora una volta bandito.

Ecco alcune battute del celebre testo:

il segreto dell’esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere. Se l’uomo non ha ben fermo dinanzi a sé il fine per cui vive, egli non accetterà di continuare a vivere e distruggerà se stesso piuttosto che rimanere sulla terra, anche se avesse pani in abbondanza attorno a sé.

(I Fratelli Karamazov, L.V. p. 338)

Quello che non sapevi è che nel momento in cui l’uomo avesse rifiutato il miracolo, immediatamente avrebbe rifiutato anche Dio, giacché l’uomo cerca non tanto Dio, quanto i miracoli. E dal momento che l’uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si sarebbe creato da sé miracoli nuovi, con le proprie forze questa volta, e si sarebbe inginocchiato dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera, pur rimanendo cento volte ribelle, eretico e miscredente. Tu non scendesti dalla croce quando ti gridavano per ingiuria e per beffa: “Scendi dalla croce e allora crederemo che sei tu”. Tu non scendesti allora, perché ancora non volesti rendere schiavo l’uomo con il miracolo e anelavi alla fede libera, svincolata dal miracolo. Bramavi l’amore spontaneo e non gli entusiasmi servili dello schiavo dinanzi al potente che lo ha atterrito una volta per tutte. Ma anche in quel caso hai sopravvalutato gli uomini, giacché, infatti, essi sono schiavi per quanto creati ribelli. Guardati intorno e giudica da te come sono passati questi quindici secoli, da’ un’occhiata ai tuoi uomini: chi si è innalzato al tuo livello? L’uomo ha una natura più debole e più vile di quello che tu credevi, te lo giuro! È forse in grado di fare quello che hai fatto tu, eh?

(I Fratelli Karamazov, L.V. p. 340)

Dostoevskij conduce l’uomo per le vie estreme dell’arbitrio e della rivolta, per rivelare che nell’arbitrio si uccide la libertà, che nella rivolta si nega l’uomo. La via della libertà conduce o all’uomo-dio e su questa via l’uomo trova la sua fine e la sua rovina, o al Dio-uomo e su questa via trova la sua salvezza e il consolidamento definitivo della sua immagine.

L’uomo è tale solo in quanto è immagine e somiglianza divina, in quanto è Dio. Se non c’è Dio, se lui stesso è Dio, non c’è neppure l’uomo, allora perisce anche la sua immagine. Solo in Cristo si risolve il problema dell’uomo.

(Berdjaev, p. 39)

Anche nell’ultimo uomo, nelle più spaventose cadute dell’uomo si mantiene l’immagine e la somiglianza di Dio. Il suo amore per l’uomo non è stato un amore umanistico. In esso ha unito a una compassione infinita, una certa crudeltà. Egli ha predicato all’uomo la via del dolore. Ciò è in relazione con il fatto che al centro della sua concezione antropologica sta l’idea della libertà. Senza la libertà non c’è l’uomo. Dostoevskij sviluppa tutta la sua dialettica sull’uomo e il suo destino quale dialettica sul destino della libertà. Ma la via della libertà è la via del dolore. Questa via deve essere percorsa sino alla fine dall’uomo. Per conoscere sino in fondo ciò che è stato rivelato a Dostoevskij dell’uomo, bisogna seguire le sue ricerche sulla libertà e sul male.

(Berdjaev, p. 47)

Questo è solo un assaggio sulla visione che Dostoevskij coltiva a proposito della passione di Cristo, che è pure passione dell’uomo: vivendo il male dal di dentro, come del resto lo sperimenta lo stesso scrittore, per tutti i suoi trascorsi di vita, Cristo raggiunge la libertà, e quindi la realizzazione di sé, che propone pure all’uomo, perché passando di lì possa avere quel benessere a cui aspira, e che sogna di conquistare passando invece dalla fase dei miracoli che si aspetta da Dio. Gesù però non sceglie la via dei miracoli, neppure nel momento in cui, discendendo dalla croce, avrebbe dato spettacolo di sé e conquistato il cuore di tanti, che lì potevano vedere la loro liberazione del male. Gesù preferisce bere il calice amaro della passione fino in fondo e proporre questa via all’uomo, mediante la sua personale testimonianza e non solo con i suoi discorsi sull’argomento. Così, proprio la croce, e quel tipo di morte, assicura la libertà, che il Grande Inquisitore rimprovera al Signore tornato sulla terra, perché, da uomo di potere, lui non può pensare che l’uomo come singolo e come società ricerchi la propria libertà facendo perdere il potere a chi ce l’ha. È una visione potente e suggestiva. Essa può divenire anche suggestionante in un mondo e in un tempo dominato dal cosiddetto “male di vivere”, che avvolge e trascina con sé singoli e popoli in un turbine di male. Ma il male va vinto con l’antidoto rappresentato dal dolore assunto da Cristo sulla croce, come del resto viene biblicamente detto nella figura del serpente issato nelle oasi del deserto, quando Israele, incontrando il morso dei serpenti, conosce l’esperienza della morte a cui può sfuggire solo mediante l’antidoto.

Ma noi dovremmo aggiungere che non è propriamente il dolore, e soprattutto quel genere di dolore che proviene da una violenza tanto bestiale quanto gratuita, a garantire la salvezza che Dio vuol dare agli uomini dominati dal male.

È piuttosto l’amore, quello vero, e dunque non solo espressione di buoni sentimenti, a garantire la vittoria sul male: è l’amore di un Dio, cioè l’amore che proprio dentro il male anche più efferato, continua a dare, continua a mettere in gioco le migliori risorse umane.

Ai testi di riflessione si accompagnano le immagini della morte secondo l’iconografia bizantina, a cui si associa la tradizione russa. È sempre evidente l’abbinamento del tema del dolore, rappresentato dal Cristo morto, con quello della sua glorificazione, perché il dolore non è mai fine a se stesso e comunque nel messaggio evangelico è la modalità mediante la quale si esprime la gloria di Dio, in quanto con il dolore l’amore risulta essere ancora più forte e più vero; risulta essere l’amore di Dio. Così il Christus patiens è sempre il Christus gloriosus che sostiene tutti e tutto.

Anche ad essere in parte piegato, il corpo morto non lascia trasparire il tormento delle sofferenze e le piaghe sono ridotte all’essenziale. Colpisce poi il fatto che le tavole di traverso appaiono come assi inclinati su cui gli arti si depositano, quasi fossero divenute letto su cui le membra si abbandonano nel sonno della morte. Sullo sfondo-oro del cielo, secondo la tradizione bizantina, sta il corpo del Cristo, esangue, e quindi con il medesimo colore dello sfondo, quello del cielo e quello della croce, in questa fusione fra il terrestre della mortalità umana (marrone) e il celeste della divinizzazione (giallo), che pur quella morte esprime. Sono di colore celeste le mura e le case che stanno sullo sfondo e che rappresentano la città, fuori della quale il condannato è stato crocifisso: essa è già simbolicamente la Gerusalemme celeste che sorge proprio da questa divina immolazione. La croce, piantandosi nel terreno roccioso, ha spaccato la terra, sotto la quale si intravede il teschio di Adamo, che secondo la tradizione viene collocato proprio ai piedi della croce, perché su di lui il Signore crocifisso esercita la sua morte espiatrice e dona la sua salvezza, rappresentata dal sangue: esso, scendendo dalla croce, va proprio a bagnare il cranio del primo uomo. Attorno stanno le figure di completamento della scena. Da una parte Maria, la madre, sorretta dalle donne, rivolge lo sguardo afflitto al Figlio morto sulla croce. Con la medesima afflizione sta il discepolo amato, il quale, però, volge la testa in basso e si batte il petto, nel ricono-scimento della colpa umana. Dietro a lui, il centurione si rivolge all’uomo in croce riconoscendolo, con il braccio alzato, come figlio di Dio proprio a partire da quel modo di morire.

Nella tradizione dell’Oriente cristiano, i canoni pittorici usati danno il realismo della crocifissione descrivendo il momento supremo della crocifissione; e tuttavia ci sono già i segnali della glorificazione. Per tale ragione le immagini di Gesù trafitto a morte sono caratterizzate da una sorta di soave levità, anche quando intorno l’iconografo accentua, con la gestualità e la postura dei personaggi di contorno tutta la drammatica intensità del momento. Si vuol dire, in altre parole, che la ricchezza meditativa della Chiesa, fornita dalla riflessione secolare degli antichi Padri, pur senza svilire la forza evocativa del frangente raffigurato, riesce pur tuttavia a sublimarlo in ciò che si aspetta e che è già messaggio di fede: Cristo è morto, ma la sua morte è sorgente di vita. Non a caso il sangue che cola dalle ferite dei chiodi irrora il teschio di Adamo, che si trova sepolto sul Golgota, nel punto in cui il legno è conficcato nel terreno. Così si compie il riscatto dal peccato originale; così si rinnova l’Alleanza infranta tra uomo e Dio.

NEL MISTERO

DELLA SEPOLTURA

Se già l’immagine del Crocifisso, appeso nel suo corpo morto sul legno, è la drammatica icona del dolore da leggere nella sua funzione salvifica, altrettanto si deve dire a proposito del medesimo corpo, tolto dalla croce e tenuto pronto per la sepoltura. Anche questa immagine ha impressionato la mente fervida di Dostoevskij: egli è rimasto folgorato davanti alla raffigurazione del corpo morto di Cristo, opera di Holbein il giovane (1497-1543), da lui ammirata quando si trovò a Basilea. Questa immagine viene ricordata più volte nel romanzo “L’idiota”, dove il protagonista, il principe Miskin, venendo via dalla Svizzera, porta con sé copia di questa raffigurazione che l’ha suggestionato.

I tre quaderni dei materiali preparatori dell’Idiota sono fitti di appunti, nota bene e “piani definitivi”, che si susseguono l’un l’altro … E così in questi quaderni si affastellano immagini, balenano simboli e una moltitudine di richiami letterari e pittorici … Il Bene cerca una figura in cui incarnarsi, un’immagine che lo renda visibile nella storia e tra le righe di un libro. Questioni brucianti come la felicità sulla terra (che se ne trascina appresso altre come il benessere materiale, la morte, la malattia e l’esclusione dal consesso umano che essa comporta) si traducono nelle immagini della fresca verzura contro il rosso dei mattoni, delle rigeneratrici cascate svizzere contro lo schifoso scorpione che striscia per i muri dei nostri incubi, o nel simbolo dei raggi del sole al tramonto. Dostoevskij non parte da idee, ma da reminiscenze, immagini e visioni. (Ghidini, p. 185-6)

L’immagine di riferimento, che è pure una visione, è quella del Cristo deposto dalla croce e ormai composto, come cadavere nel sepolcro. Quella che viene offerta da Holbein è indubbiamente una raffigurazione che mette in evidenza un uomo “scarnificato” e nel contempo un cadavere da cui è uscito tutto il sangue, lasciando così le membra già avviate a decomporsi, se non altro per il colore livido delle estremità. È un Cristo così segnato dalla violenza e dalla morte, che non aiuta affatto a credere, perché non ci si può immaginare l’imminente risurrezione e che quel corpo possa costituire l’involucro nel quale è andato a rinchiudersi Dio stesso. Qui, più che il quadro dell’artista tedesco vale ciò che scrive Dostoevskij nel suo romanzo, facendolo dire in prima persona al protagonista, che così risulta essere l’alter ego dello scrittore.

(cliccare sul link sottostante per vedere l’immagine cui il testo si riferisce)

Gesù morto di Rogozin

Mi ricordai di un quadro che avevo visto da Rogozin, appeso sopra a una porta. Era un quadro che non valeva un granché da un punto di vista artistico, ma che mi aveva fatto una profonda impressione: si trattava di un Cristo deposto dalla croce. Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogozin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore (secondo il mio calcolo) prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo, appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo,fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: “Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Gesù in quello stato, come poterono credere all’imminente resurrezione? Se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle quando la loro prima vittima è stato proprio Colui che, da vivo, impartiva i suoi ordini alla stessa natura. Colui che disse: “Talitha cumi!”, e la bambina morta risuscitò; Colui che esclamò: “Alzati e cammina!”, e Lazzaro, che era già morto, uscì fuori dal suo sepolcro?”. Guardando quel quadro, si è presi dall’idea che la natura non sia altro che un mostro enorme, muto, inesorabile, una macchina immensa ma sorda e insensibile, capace di afferrare, lacerare,

schiacciare e assorbire nelle sue viscere un Essere che, da solo, valeva come la natura intera con tutte le sue leggi e tutta la terra che, forse, fu creata solo perché potesse nascere quell’uomo! Il quadro dà proprio l’impressione di questa forza cieca, crudele, stupida, alla quale tutto è fatalmente soggetto. Dentro di esso, non c’è nessuno fra quelli che erano soliti seguire Gesù. In quella sera, una sera che annientava tutte le loro speranze e forse anche tutta la loro fede, coloro che seguirono Gesù dovettero provare un’angoscia senza nome. Atterriti, si dileguarono, sostenuti soltanto da una grande idea, un’idea che nessuno avrebbe più potuto togliergli o cancellargli: se il Maestro, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì?

(L’IDIOTA parte III, capitolo VI, p. 339-49)

Insomma, l’immagine livida di Colui che viene sepolto – e la fede richiede che da parte nostra si abbia a sottolineare pure questo fatto, che diventa per noi mistero – non può prestarsi a suscitare la fede; ma più ancora rappresenta quel tipo di sconfitta, che porta alla disperazione e quindi ad un vivere senza senso. E là dove il non-senso prende il sopravvento è possibile tutto, è possibile anche il delitto più efferato e nel contempo banale, come il caso emblematico di Raskolnikov narrato in “Delitto e castigo” in un vivere segnato dalla morte e quindi senza più possibilità di redenzione e di risurrezione.

Proprio l’immagine del Cristo deposto dalla croce sembra negare la possibilità di redenzione della materia, la cui inerzia ottusa, così evidente in un cadavere, sembra non poter essere in nessun modo trascesa. Myskin osserva: “a causa di questo quadro si può perdere la fede”, che come Dostoevskij stesso era rimasto sconvolto alla vista del quadro a Basilea. (Ghidini, p. 187-8)

Insomma, la visione di un simile strazio mette a dura prova la fede di ogni credente. E questo non riguarda solo il cadavere di Cristo, ma la condizione di morte che prende ogni vivente e lo riduce allo stesso modo con cui è ridotto il Cristo, colui che si è proposto come la Vita e la Risurrezione. Proprio in quel suo ridursi, le affermazione scritte nel vangelo suonano come una sorta di beffa. E così la fede conosce quello smarrimento che ha preso i discepoli, fuggiti in presenza della passione del Maestro, e le donne, più coraggiose di loro nello stare sotto la croce, ma poi venute via a “quello spettacolo”, perché il cuore non reggeva più. Come è possibile uscirne?

Il principe, il protagonista del romanzo, quello in cui noi dovremmo leggere l’incarnazione nell’oggi del Cristo, anche a portarsi la nomea di “idiota”, non ha soluzioni costruite sui ragionamenti; del resto anche nel vangelo non troviamo propriamente dottrine o insegnamenti di natura filosofica, ma solo racconti, parabole, immagini, come quelle usate per spiegare il Regno. E allora, come si può salvare questo mondo, domi-nato dal male e soprattutto da quel genere di male che deturpa tutto. La formula, ben nota ai più, a proposito di Dostoevskij, dice che “la bellezza salverà il mondo”. Ed è il messaggio di fondo del romanzo dove domina impietosa l’immagine del Cristo il cui corpo sta per consumarsi.

Perfino il messaggio più importante che Dostoevskij affida (al principe), la bellezza salverà il mondo, palpitante nucleo della fede orientale, non verrà direttamente dalle sue labbra, ma sempre nell’eco delle sue parole nei discorsi degli altri personaggi (Ippolit, Kolja, Aglaja …). Il principe tace all’esplicita domanda di Ippolit che gli chiede per ben due volte se abbia mai detto una cosa simile: “E’ difficile giudicare la bellezza; io non sono ancora pronto. La bellezza è un enigma”. Nel romanzo, infatti, appaiono insieme la Bellezza della Madonna che porta in sé il dolore del mondo e quella demoniaca che trascina alla rovina: appaiono entrambe in Nastas’ja Filippovna, il cui ritratto sembra la descrizione della Madonna Sistina di Raffaello, ma il cui orgoglio e l’attrazione per l’abisso ricordano il capriccio fatale di Cleopatra.

(Ghidini, p. 197)

Potrebbe già bastare questa sorta di illuminazione, proveniente dall’oscurità della sepoltura di Cristo. La bellezza, quella divina, davvero salvatrice, riemerge potentemente anche grazie all’attesa di essa, al desiderio espresso, alla ricerca avviata nell’ambito artistico e letterario, dove anche ciò che appare realisticamente manifestazione dell’abbruttimento con la violenza e la morte, offre, a chi vi sta davanti in contemplazione, qualcosa di grandioso, qualcosa che rimanda al trascendente, perché nell’umano, così ridotto, si rivela Dio nel suo amore che eleva, che insublima. È necessaria allora la Bellezza e la contemplazione di essa, per poter superare il male sempre presente, per poterlo vincere, per poter risorgere.

Non appartiene né all’arte bizantina né a quella russa che da essa deriva, una immagine che ci offra il Cristo morto nel momento in cui è deposto dalla croce, per poi essere rinchiuso nell’oscurità della terra e del sepolcro. C’è invece il trionfo pasquale del Cristo che spalanca, rovescia e calpesta le porte dell’abisso sotterraneo, dove sono rinchiuse le anime di quanti sono morti prima del Cristo e ne attendono l’uscita grazie alla sua espiazione.

Più che a ricercarlo sulla terra, nel giardino dove lo trova Maria di Magdala, o nella locanda, dove lo scoprono i due di Emmaus, egli va cercato e trovato trionfatore, e dunque forte e gigantesco, in quell’azione che lo vede affiorare dall’Ade tenebroso per portare con sé quanti giacevano nelle tenebre e nell’ombra della morte. Questa è la concezione della risurrezione, che dal greco si deve riconoscere come ANASTASIS (= ANASTASIS), cioè lo “stare risalendo e mettendosi eretto”, come risulta nelle icone, per le quali il Cristo, che prima era stato colpito e assorbito nella morte, ora è potentemente uscito a nuova ed eterna vita, capace di fare altrettanto per gli altri.

In Dostoevskij la bellezza che deve salvare il mondo è sempre una ricerca e un impegno, nella consapevolezza che continua a coesistere il male e il bene. Essi sono in un conflitto continuo, non ancora esaurito ma con la prospettiva di incamminarsi verso il meglio da tutti auspicato e auspicabile. Forse nel seguito dell’ultimo romanzo, che ovviamente non c’è stato, anche se veniva dato per possibile, qualche forma di sbocco si sarebbe potuto intravedere, se non altro perché alla storia dei fratelli Karamazov, in cui regnano il peccato, il male e la disgrazia, ci sarebbe poi stata la continuazione con il giovane Alioscia, che fa la parte dell’agnello innocente e sacrificale per tutta la famiglia.

Dunque, dalle tenebre del peccato si può uscire. Ed è doveroso dare spazio anche nella cultura russa e orientale a quell’esperienza di uscita dalle tenebre, che deve risultare come una sorta di risurrezione. La Russia nel suo insieme, non tanto come entità politica, quanto come espressione di una straordinaria storia popolare di profonda cultura, impregnata di notevole spiritualità deve in effetti “sprigionarsi” in un’esperienza di autentica risurrezione. Ed è quanto mai auspicabile non tanto nella direzione di un imperialismo politico da opporre ad altri, più che mai da superare, ma nello sviluppo di una cultura già presente che deve muoversi nello sviluppo di un umanesimo sempre migliore, sempre più allargato e approfondito.

NEL MISTERO

DELLA RISURREZIONE

Dove si può trovare la Bellezza che salva il mondo? Ovviamente nella “Divina Liturgia”, quella che appartiene al mondo bizantino (di cui Mosca si sente l’erede), che conserva la lunga tradizione di fede e di preghiera. E questa Liturgia raggiunge in modo particolare il suo apice nella celebrazione pasquale: i testi che la liturgia propone in questa circostanza sono un’autentica introduzione al grande evento pasquale, vissuto come mistero e proprio per questo celebrato nella sola modalità che la fa essere riflesso della liturgia celeste. In essa non vige la ricerca di una comprensione che fa leva sul raziocinio, sulla filosofia che vuol spiegare, ma solo quella che attinge alla contemplazione, fatta di visione ed insieme di silenzio che consente l’ascolto. Dostoevskij non si immerge in questo mondo; e tuttavia sa che la grande anima russa attinge qui il meglio e la tradizione che permette di conservare quanto di più bello la storia russa ha costruito nel corso dei secoli. Dopo l’amara esperienza dell’ateismo che tutto voleva cancellare, senza comunque riuscirvi, risorge l’anima profonda della Russia, che certamente va ricercata nelle belle manifestazioni liturgiche, segnate fortemente dalla Bellezza. Pavel Florenskij nei suoi scritti sul Cristianesimo e la cultura in Russia, elaborati proprio negli anni oscuri del trionfo dell’ateismo, ci fa capire che cosa sia veramente questa bellezza che salva.

L’esperienza originaria della bellezza spirituale viene vissuta e compresa dall’ortodossia entro la prospettiva della visione, la quale assume in sé la via apofantica (= assertiva) del silenzio concettuale, e trova la forma più significativa di espressione nella visione-contemplazione iconografica e nella visione-ascolto della liturgia …

Nel culto liturgico della Chiesa orto-dossa sono contenuti l’essenza stessa della concezione del mondo e il principio di ogni cultura, un vedere ascoltando e un ascoltare vedendo, un risuonare interiore della parola (liturgica) che non appartiene più ai sensi e riempie tutto lo spazio … Per la coscienza ortodossa, la liturgia rappresenta nel suo senso più profondo l’anima stessa della “forma culturale”. (Valentini, p. XXVIII)

Così la liturgia è il luogo nel quale il credente, avendo davanti a sé l’ico-na, appesa sull’iconostasi, il muro che separa il presbiterio dalla navata dove sta la gente, può contemplare, e nel contempo, mediante le preghie-re cantate dagli officianti della liturgia, può elevare la sua anima, la sua esistenza, la sua persona al mondo celeste, di cui la liturgia della Chiesa è sempre riflesso. Dalla bellezze delle cose umane si risale a colui che è la Bellezza. Ovviamente nel caso della liturgia pasquale, l’icona della risur-rezione e il canone pasquale della festività consentono di risalire alla Pa-squa divina, nella liturgia divina.

L’uomo fa memoria di Dio e invoca l’ospitalità nel grembo della sua me-moria, luogo dell’accoglimento della grazia divina … Come sottolinea più volte Florenskij in questi scritti, in modo particolare nelle Lezioni, è nel culto che la persona umana, attraverso la partecipazione ai sacramenti, attinge alla fonte della deificazione, penetra in un in un mondo che forma e struttura la divina Presenza, accede a un universo santo nel quale ogni realtà è santificata. (Valentini, p. XIX)

IL CANONE DELLA DOMENICA DI PASQUA

Caratteristica della liturgia pasquale bizantina, continuata anche nella tradizione russa, è il cosiddetto Canone della Domenica di Pasqua, una celebrazione che fa uso di testi liturgici cantati secondo una melodia particolare, che riassume i diversi momenti dell’evento pasquale, rendendo partecipe il popolo di Dio all’evento. Tra tutti sono da considerare i testi che vengono usati nel corso del Mattutino, cioè della celebrazione che introduce nella solennità.

Gli storici della liturgia bizantina ci dicono che, al suo formarsi, la liturgia delle ore non era particolarmente ricca dal punto di vista innografico, soprattutto nei monasteri, il cui ufficio era prevalentemente scritturistico. Le cose cambiano nel corso del VI secolo, quando alcune composizioni poetiche, i kontàkia, iniziano ad essere utilizzati.

Il più celebre di questi compositori è san Romano il Melòde, siriano di origine che prestò il suo servizio diaconale in una città che corrisponde all’odierna Beirut: alcune delle sue composizioni, seppur in forma molto ridotta, sono tuttora presenti nella tradizione bizantina. Ma nel secolo successivo, queste composizioni poetiche cedono progressivamente il posto a nuove composizioni, sicuramente più modeste negli sviluppi poetici, ma con un contenuto teologico più essenziale. Fino ad allora nei monasteri il Canone era un lungo inno liturgico costituito da nove odi bibliche che erano utilizzate già da qualche secolo. Le nuove composizioni poetiche erano costituite da brevi strofe (chiamate tropari) che venivano intercalate ai versetti finali di ciascuna delle odi del canone scritturistico, traendone evidentemente spunto per il tema iniziale. Va da sé che, più il canone poetico prendeva piede, più velocemente il canone scritturistico veniva abbandonato, al punto tale che tra una strofa e l’altra del canone poetico oggi ci sono dei ritornelli che possono variare da un canone all’altro in base al soggetto del canone stesso. Il canone poetico è quindi costituito da una prima strofa (irmos) che ha una melodia propria e che serve da modello per le successive strofe della stessa ode. Tali composizioni, essendo di natura poetica, sono, almeno nella loro lingua originale (il greco), strutturate metricamente, in modo che la melodia, accoppiandosi mirabilmente con il testo, riesca a dare ritmo all’intero canto, rendendo esplicito un equilibrio sostanziale tra musica e parola che viene teologicamente collegato al dogma cristologico delle due nature in Cristo, umana e divina, unite senza confusione e separazione, mescolanza e divisione. La struttura metrica, su cui le altre strofe della stessa ode sono composte e che ne rende estremamente facile il canto nel testo greco, si perde, purtroppo, nelle traduzioni nelle varie lingue. Se per i greci è normale il canto integrale di un canone, presso i russi ad esempio si canta solo il primo tropario (l’irmos) di ogni ode e i vari ritornelli, mentre i tropari successivi vengono cantati in una specie di recto tono con alcune limitate varianti. Il solo fatto che presso i russi il Canone del Mattutino di Pasqua venga integralmente cantato rende già molto evidente l’eccezionalità del momento. In effetti il Canone rappresenta il punto focale del Mattutino di Pasqua: l’intera parte dell’ufficio che negli altri giorni precede il Canone viene omessa, e la tensione musicale dell’intera composizione sale subito al suo vertice. Considerato da un punto di vista strettamente musicale, il Canone non è particolarmente complesso, in quanto consiste da un numero limitato di frasi variamente articolate ma costantemente ripetute. Laddove possibile, sono i due i cori che eseguono il canto del canone, alternandosi continuamente nelle varie strofe di ogni ode, mentre tutto il popolo presente canta il ritornello tra una strofa e l’altra: “Cristo è risorto dai morti”, così come il tropario di Pasqua che si canta tre volte alla fine di ogni ode: “Cristo è risorto dai morti, con la morte calpesta la morte, e ai morti nei sepolcri fa dono della vita!”.

Alla fine di ogni ode, su una melodia più dolce e quasi come un breve riposo rispetto alla continua tensione musicale, i due cori insieme ripetono l’irmos cantato all’inizio. Durante il canto di ogni ode, sacerdote e diacono incensano tutta la chiesa e ciascun fedele, riempiendo ben presto l’aria del profumo dell’incenso: sprigionandosi dai carboni ardenti, l’incenso disegna nuvole di fumo che si illuminano alla luce delle candele che i presenti tengono in mano accese per tutta la durata del Canone. Al termine dell’incensazione, il celebrante si rivolge ai fedeli lanciando l’inno della vittoria: “Cristo è risorto!”, a cui ciascuno risponde con tutta la fede, la gioia e la voce possibili: “E’ veramente risorto!”.

Leggendo i testi delle odi, ci troviamo in presenza di espressioni di giubilo, con cui i fedeli sono invitati a far crescere nel cuore e nella vita l’esultanza interiore per il grande evento che si sta celebrando. Ognuna di esse ha dei riferimenti scritturistici: chi ha familiarità con la Bibbia può cogliere la connessione con alcune pagine che raccontano episodi della storia d’Israele, quando il popolo di Dio, in presenza di eventi prodigiosi esprimeva il suo cantico di lode al Signore. Non è improbabile che tali antifone cantate siano la risposta corale alla proclamazione di brani della Scrittura che si leggevano nel corso della Veglia notturna, come vediamo consolidato anche nella nostra liturgia occidentale per la Veglia Pasquale. Alcune immagini e alcune parole possono essere ritrovate anche nella liturgia ambrosiana, la quale attinge non poco a certe espressioni del rito bizan-tino, tenuto conto del fatto che lo stesso S. Ambrogio dipendeva in tanta parte dagli scritti di S. Basilio, suo contemporaneo.

PRIMA ODE

Il richiamo all’inno di vittoria lascia intuire che qui il cristiano vive la medesima esperienza di Israele nel passaggio del Mar Rosso, quando viene elevato il cantico di Mosè che diventa l’inno nazionale ebraico.

Giorno di risurrezione! Risplendiamo, popoli! Pasqua, Pasqua del Signore!

Dalla morte alla vita e dalla terra al cielo

Cristo, Dio nostro, ci conduce cantando l’inno di vittoria.

Purifichiamo i sensi

e vedremo nella luce inaccessibile della risurrezione

il Cristo sfolgorante che ci dice: Rallegratevi!

Lo udremo chiaramente, cantando l’inno di vittoria.

I cieli esultino in modo degno, la terra si rallegri;

festeggi l’universo intero, visibile ed invisibile:

Cristo è risorto! Eterna esultanza.

SECONDA ODE

Anche in questo caso è facile pensare all’esperienza ebraica dell’acqua che sgorga dalla roccia in pieno deserto, quando il popolo, avvertendone la mancanza, si lamenta con Dio e con Mosè. Questa immagine è poi strettamente legata all’esperienza battesimale, secondo la spiegazione che ne dà S. Paolo. Le ultime espressioni di questa lode corrispondono ad una antifona che si usa ancora oggi nella messa pasquale di rito ambrosiano.

Venite beviamo una bevanda nuova

miracolosamente sgorgata non dalla pietra sterile

ma dal sepolcro di Cristo, fonte di incorruttibilità:

in esso stiamo saldi!

L’universo intero di luce si ricolma: cielo e terra, e tutte le profondità!

Festeggia tutta la creazione il risorgere di Cristo:

in esso stiamo saldi!

Ieri ero sepolto con te, o Cristo, oggi io risorgo con te che sei risorto;

crocifisso ieri con te, glorificami, Salvatore, nel tuo regno.

TERZA ODE

Qui si fa riferimento al rito pasquale ebraico che prevede il sacrificio dell’Agnello: questa immagine viene associata ad ogni situazione di sofferenza ingiusta che coinvolge il credente e il popolo nel suo insieme, nelle tante si-tuazioni della storia dove c’è da soffrire. Alcune di queste parole sull’agnello sacrificato tornano pure nel prefazio ambrosiano della liturgia pasquale …

Oggi è la salvezza del mondo,

poiché Cristo è risorto perché è l’Onnipotente.

Come un maschio che apre un seno verginale,

è apparso Cristo come uomo,

è chiamato Agnello, senza difetto perché privo di colpa,

Lui, la nostra Pasqua, e come Dio vero è proclamato perfetto.

Come agnello di un anno, Cristo la nostra corona benedetta,

si è immolato volontariamente per tutti, Pasqua purificatrice,

e di nuovo risplende dal sepolcro per noi, splendido sole di giustizia.

Davide, progenitore di Dio,

ha danzato con giubilo davanti all’arca, che era solo un’ombra;

ma noi, popolo santo di Dio,

vedendo realizzarsi le figure, godiamo di divina letizia,

poiché Cristo è risorto perché è l’Onnipotente.

QUARTA ODE

Qui affiora il richiamo alla luce, che nella liturgia notturna ha un posto di rilievo: siamo nel cuore della celebrazione, quando, cominciando ad albeggiare, o comunque andando sempre più incontro alle luci dell’aurora, tutto si risveglia e sembra di vivere l’esperienza della risurrezione, dove Cristo appare come la stella del mattino. Anche qui si possono riscontrare alcune espressioni che troviamo oggi nel preconio pasquale ambrosiano.

Vegliando al primo albeggiare,

al posto degli aromi offriamo al Signore i nostri canti,

e vedremo Cristo, sole di giustizia, che la vita per tutti fa sorgere.

Vedendo la tua misericordia incommensurabile,

i prigionieri dell’Ade corsero verso la luce, o Cristo,

con passo esultante, lodando la Pasqua eterna.

Con le nostre lampade andiamo incontro al Cristo

che come uno sposo esce dal sepolcro,

e con le schiere celebriamo festanti la Pasqua salvifica di Dio.

QUINTA ODE

Qui si parla della discesa agli Inferi di Cristo, che nell’iconografia è già un messaggio di risurrezione, o, se vogliamo, è proprio il passaggio dalla morte alla vita, coinvolgendo “i prigionieri dell’ombra di morte”. L’immagine biblica di riferimento è la vicenda di Giona inghiottito dal pesce e poi rilasciato. Molto originale è il rimando ai sigilli inviolati della tomba nell’uscita di Gesù dal grembo della terra, analogamente alla sua uscita dall’utero materno di Maria, rimasta vergine “inviolata”.

Sei disceso nelle profondità della terra,

spezzando gli eterni legami che incatenavano i prigionieri, o Cristo,

e dopo tre giorni come Giona dal pesce sei risorto dalla tomba.

Sei risorto dal sepolcro o Cristo, serbandone intatti i sigilli,

tu che alla tua nascita non violasti il seno della Vergine:

hai aperto per noi le porte del paradiso.

Mio Salvatore, vittima vivente e non immolabile,

volontariamente come Dio ti sei offerto al Padre,

e risorgendo dalla tomba tutta la stirpe di Adamo fai risorgere.

SESTA ODE

Un’altra immagine biblica con riferimento alla Pasqua è quella dei tre fanciulli rinchiusi nella fornace e poi liberati “miracolosamente”, di cui si parla nel libro di Daniele.

Il loro camminare in mezzo al fuoco diventa l’immagine con cui il corpo mortale si riveste di immortalità, come qui si dice al’inizio e alla fine dell’ode. La parte centrale è invece occupata dalla testimonianza delle donne “mirofore”, che portano l’annuncio della Pasqua “mistica”.

Colui che salvò i fanciulli dalla fornace,

fattosi uomo, soffre come un mortale,

e con la sua passione riveste la natura mortale di splendore incorruttibile;

il solo benedetto, il Dio dei Padri, gloriosissimo.

Le donne ricolme di saggezza con unguenti corsero da te,

ma esultanti adorarono come Dio vivo

quello stesso che prima come morto tra le lacrime cercavano,

e la Pasqua mistica, ai tuoi discepoli, o Cristo, annunciarono.

Festeggiamo la disfatta della morte, la distruzione degli inferi,

l’inizio di un’altra vita, quella eterna,

ed esultanti cantiamo colui che ne è la causa,

il solo benedetto, il Dio dei Padri, gloriosissimo.

Sacra e solenne è questa notte salvifica e luminosa,

che preannuncia il giorno fulgido della risurrezione,

nel quale la Luce che non ha principio ha rifulso su tutti col suo corpo.

SETTIMA ODE

Ci si avvia all’esplosione di gioia universale, che coinvolge tutti i popoli nella lode a Dio, il quale ha creato ogni cosa come prodigio stupendo, e ha rinnovato il mondo con un’azione potente, ancor più gloriosa. Viene allargato lo sguardo a comprendere tutte le creature rinnovate, che trovano in Dio il punto in cui convergere, e, nel suo giorno solenne, il momento più alto della storia. Anche in queste parole troviamo espressioni presenti nella liturgia ambrosiana, laddove si parla della festa delle feste …

Questo è il giorno annunciato e santo, unico sabato, re e signore.

Festa delle feste, e solennità delle solennità,

in cui benediciamo Cristo nei secoli.

Venite, partecipiamo del nuovo frutto della vite,

nel solenne giorno della risurrezione,

della divina esultanza del regno di Cristo,

cantiamo a lui come Dio nei secoli.

Leva intorno i tuoi occhi o Sion e guarda:

ecco vengono i tuoi figli a te, risplendenti di luce divina,

dall’occidente e da settentrione, dall’oriente e dal mare,

e in te benedicono Cristo nei secoli.

Padre onnipotente, Verbo e Spirito,

unica natura in tre ipostasi, sovrasostanziale, più che divina:

in te siamo stati battezzati,

e te noi credenti benediciamo nei secoli.

OTTAVA ODE

La conclusione si raggiunge con le parole della Vergine nel suo cantico e con il richiamo al suo rallegrarsi per la bella notizia. Il richiamo a Maria, la vergine di Sion suscita l’evocazione dell’altra Sion, giovane fanciulla, che è la Chiesa, madre e vergine, invitata a rallegrarsi e ad esultare con il cuore di Maria.

Magnifica, anima mia, il risorto dopo tre giorni dai morti,

Cristo, che dona la vita.

Risplendi, risplendi, nuova Gerusalemme:

la gloria del Signore si è levata su di te.

Danza, ora, ed esulta, Sion, e tu, pura Madre di Dio, rallegrati,

per il risorgere di colui che è nato da te.

Magnifica, anima mia,

colui che volontariamente ha sofferto ed è stato sepolto,

e il terzo giorno è risorto dal sepolcro.

Cristo, nuova Pasqua, vittima vivente,

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.

Oh, la tua voce amatissima, divina e dolcissima;

promettesti, o Cristo, di rimanere con noi fino alla fine dei secoli:

possedendo quest’ancora di speranza, fedeli rallegriamoci.

Maria Maddalena corse al sepolcro,

e vedendo Cristo, conversò con lui come se fosse il giardiniere.

O Cristo, Pasqua grande e santissima, o Sapienza, Potenza e Verbo di Dio!

Concedici di comunicare chiaramente

nel giorno senza tramonto del tuo regno.

Un angelo cantò alla piena di grazia:

Vergine pura, rallegrati! Di nuovo ti dico: Rallegrati!

Tuo Figlio dopo tre giorni è risorto dalla tomba rialzando i morti.

Popoli, esultate. Facciamo nostre le parole di Maria:

anche la nostra anima magnifica il Signore Gesù Cristo,

colui che volontariamente ha sofferto la passione,

è stato sepolto in una tomba come qualsiasi mortale,

ma è risorto da essa come Dio.

INVOCAZIONE DI PACE

Ricorriamo ad alcune espressioni dell’Atto di consacrazione di PAPA FRANCESCO al Cuore Immacolato di Maria, in cui egli supplica in modo particolare la pace

che deriva dalla croce di Cristo e dal suo presentarsi risorto al mondo.

Regina della pace, ottieni al mondo la pace.

Il tuo pianto, o Madre, smuova i nostri cuori induriti.

Le lacrime, che per noi hai versato, facciano rifiorire questa valle,

che il nostro odio ha prosciugato.

E mentre il rumore delle armi non tace, la tua preghiera ci disponga alla pace.

Le tue mani materne accarezzino quanti soffrono

e fuggono sotto il peso delle bombe.

Il tuo abbraccio materno consoli

quanti sono costretti a lasciare le loro case e il loro Paese.

Il tuo Cuore addolorato ci muova a compassione e ci sospinga

ad aprire le porte e a prenderci cura dell’umanità ferita e scartata.

Santa Madre di Dio, mentre stavi sotto la croce,

Gesù ti ha affidato ciascuno di noi.

Madre, desideriamo adesso accoglierti nella nostra vita e nella nostra storia.

In quest’ora l’umanità, sfinita e stravolta, sta sotto la croce con te.

E ha bisogno di affidarsi a te, di consacrarsi a Cristo attraverso di te.

Il popolo ucraino e il popolo russo, che ti venerano con amore, ricorrono a te,

mentre il tuo Cuore palpita per loro e per tutti i popoli

falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria.

Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo

e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi,

la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina.

Accogli questo nostro atto che compiamo con fiducia e amore,

fa’ che cessi la guerra, provvedi al mondo la pace.

Il sì scaturito dal tuo Cuore aprì le porte della storia al Principe della pace;

confidiamo che ancora, per mezzo del tuo Cuore, la pace verrà.

A te dunque consacriamo l’avvenire dell’intera famiglia umana,

le necessità e le attese dei popoli, le angosce e le speranze del mondo.

Attraverso di te si riversi sulla Terra la divina Misericordia

e il dolce battito della pace torni a scandire le nostre giornate.

Donna del sì, su cui è disceso lo Spirito Santo, riporta tra noi l’armonia di Dio.

Disseta l’aridità del nostro cuore, tu che “sei di speranza fontana vivace”.

Hai tessuto l’umanità a Gesù, fa’ di noi degli artigiani di comunione.

Hai camminato sulle nostre strade, guidaci sui sentieri della pace. Amen.