PARADISO – CANTO XXI DANTE INCONTRA S. PIER DAMIAN

LA RIFORMA DELLA CHIESA ATTORNO AL 1000

Le miserie che la Chiesa presenta soprattutto ai suoi vertici compaiono spesso nella Divina Commedia, perché il suo compositore si lascia spesso andare ai suoi giudizi amari e duri, legati anche alle esperienze dolorose che ha dovuto soffrire, a partire dall’esilio fino alla morte. Nello stesso tempo però non si può pensare che tutte queste sue reprimende dipendano da qualcosa di personale; il quadro che aveva davanti agli occhi, soprattutto in quelle istituzioni che dovevano servire ad assicurare pace e giustizia, non era affatto incoraggiante. Nello stesso tempo va anche detto – e lui ne era consapevole – che non solo la Chiesa del suo tempo – come non solo la nostra – presentava lati oscuri e doveva rilevare la non corrispondenza al mandato del suo Fondatore. Ogni forte richiamo alla conversione, emergente in ogni secolo, in presenza di un degrado, spesso disgustoso, si faceva comunque strada e si imponeva come ritorno alle origini. Chi, ancora oggi, invoca una purificazione di forte impatto a tutti i livelli, lo fa, non solo denunciando il male, ma anche indicando come modello a cui riferirsi il periodo della Chiesa apostolica. E tuttavia a leggere le lettere del Nuovo Testamento, considerate ispirate e dunque appartenenti al canone della Parola di Dio, non mancavano neppure allora dei peccato gravi, dei personaggi meschini o, addirittura, arroganti, che avevano pure creato non pochi guai allo stesso Paolo, non sempre tenero nei suoi giudizi verso di loro. Le tensioni dunque non mancano neppure nella Chiesa apostolica, che si pensava di poter considerare paradigmatica: anche qui si rivelano episodi disdicevoli di personaggi arrivisti, che cercano spazio per fare denaro, per avere visibilità, per occupare posti di prestigio.

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La peste di Milano -1630 – in Manzoni.


            MANZONI

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STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Non c’è dubbio che la pestilenza è sempre un tragico evento: ogni volta che scoppia si genera una tale paura da far scatenare sempre il peggio anche nelle reazioni di chi vi è implicato, e soprattutto da lasciare impressionato anche chi ne racconta le vicende. È un “evento”; e come tale “viene fuori”, spesso in modo inaspettato, con tutta una serie di conseguenze che fanno cambiare radicalmente il modo stesso di vivere. Gli storici, che ne raccontano la trafila, sono abituati a cercarne le cause; e tuttavia non sempre è possibile risalire ad esse, anche perché ne manca la documentazione. Non rimane che parlare di quanto avviene, registrando non solo i dati sanitari, ma anche quella trasformazione psicologica e sociale che avviene negli individui e nelle relazioni umane che essi esprimono. Ancora una volta si deve dunque segnalare che l’aspetto umano appare rilevante e che pertanto gli scrittori non si limitano alla cronaca, ma colgono l’occasione per far emergere quello spirito umano, che in parte risulta venir meno e divenir scadente, senza per questo escludere che si debbano anche registrare virtù eccelse e grandi forme di eroismo. Va poi riconosciuto che il fatto dell’epidemia è sempre più associato ad un “racconto”, il quale va ben oltre la registrazione dei fatti storici e che la stessa vicenda pestilenziale diventa parte integrante della narrazione, non solo una cornice, come succede nell’opera di Boccaccio. Anzi, potrebbe addirittura risultare come lo snodo dei fatti e quindi un elemento qualificante della vicenda che pone al centro figure marginali della grande storia, inserite in un affresco corale, dove la “storia” prevede fatti legati al “verosimile”. Così la narrazione, fatta da Manzoni, della peste a Milano del 1630, non è più, non è solo, una sorta di resoconto degli eventi che la accompagnano, ma diventa elemento essenziale della vicenda dei due sposi, che proprio lì, in quel grande momento tragico, possono vedere il compimento del loro sogno. Se tutto sembrava andare storto, se tutto addirittura lì sembrava naufragare, proprio in quell’evento i due protagonisti si incontrano e scoprono che i loro mali, nel crogiuolo di quella dolorosa esperienza di male universale, trovano uno sbocco inaspettato e sorprendente, perché, come sempre, “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. E Dio anche qui si rivela provvidente e benigno, sempre presente, anche quando si rimane disorientati per la sua assenza.

LA PESTE DI MILANO (1630)

IN MANZONI:

AUTORITA’ E CITTADINANZA

DI FRONTE AL MALE

Nel caso di Manzoni, rispetto agli autori precedenti, non ci troviamo in presenza di un uomo che è passato da questa drammatica esperienza, per quanto siano ricorrenti anche nel corso della sua vita delle epidemie. Raccontando nel suo romanzo della peste avvenuta nel 1630, egli studia il fenomeno a partire dalle carte consultate e dagli autori coevi alla pestilenza, che ne hanno trattato nelle loro cronache. Non siamo dunque in presenza di una scena che lo scrittore ha sotto gli occhi, o ha sperimentato di persona, come è stato per Tucidide e Boccaccio. Leggi tutto “La peste di Milano -1630 – in Manzoni.”

Boccaccio e la peste di Firenze

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Le diverse pestilenze che si sono succedute nella storia sono indubbiamente eventi drammatici, soprattutto per chi si trova coinvolto. Ma non necessariamente le informazioni su di esse ci arrivano da scrittori di storia con il loro intendimento cronachistico, più o meno dichiarato, e soprattutto con la finalità di ricercarne le cause e le conseguenze, come dovrebbe essere per chi si dichiara uno storico. Per certi versi i racconti più drammatici e più suggestionanti sono quelli di autori che non hanno nella loro finalità quella di raccontare vicende a cui hanno assistito. Anzi, spesso ci troviamo in presenza di scrittori che, mettendo sullo sfondo il quadro della pestilenza, propongono un racconto di pura invenzione allo scopo di voler uscire da un clima pesante di terrore per rifugiarsi in un contesto che vorrebbe essere purificatore, per far raggiungere una sorta di beatitudine paradisiaca.

È ciò che noi possiamo trovare nel racconto di Boccaccio circa la pestilenza del 1348. Non è per lui l’evento chiave del racconto, perché l’obiettivo della sua opera non è quello di trattare quanto è successo in quel periodo. Il resoconto della devastazione di quell’anno è solo lo scenario sul quale lo scrittore vuole impostare la sua opera, che ha tutto il sapore di una narrazione fantastica e fantasiosa per creare evasione e fuga. Se si vuole cercare una descrizione più accurata, dal chiaro intento storico, bisogna andare ad altri testi, come possono essere le croniche medievali del tempo o le “Istorie” successive. Nelle “Istorie fiorentine” di Machiavelli quel gravoso evento è liquidato con poche righe: “ … nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono” (II, 42).

Ma, come al solito, non basta raccontare che cosa è successo; qui vi è in gioco ben altro, perché l’evento narrato viene avvertito come un segno particolarmente forte che deve far riflettere e deve soprattutto far reagire: anche in una tragedia simile, è possibile costruire una storia positiva, che può diventare una “via salutis”, un vero e proprio cammino salvifico. Così il Decamerone non è solo una silloge di racconti da godere, espressione di un mondo gaudente che vuol mettere da parte gli affanni ed evadere nella fantasia. Esso è piuttosto il percorso umano di “salvezza”, analogo a quello dan-tesco, che concepisce la salvezza come grazia dal cielo e non come opera dell’uomo.

LA PESTE DI FIRENZE (1348)

in BOCCACCIO:

IL MALE DESCRITTO E VISSUTO

NELLA SOCIETA’ DEL TEMPO

Quando scoppia a Firenze la pestilenza, ed ha il suo apice nel 1348, la situazione della città presentava già alcuni aspetti di criticità. Il crollo del sistema bancario con l’insolvenza del re inglese diede origine ad una crisi economico-finanziaria drammatica. Ci furono anche tumulti popolari fomentati dal “duca Di Atene”, che era stato chiamato dai mercanti facoltosi per gestire il potere politico. Ma il vero tracollo si ebbe con il sopraggiungere della peste. Boccaccio, che aveva trascorso la sua adolescenza a Napoli, dove il padre curava gli interessi finanziari della banca dei Bardi, era già stato costretto in quegli anni tumultuosi a rientrare per il fallimento della banca, perdendo così l’ambiente, in cui aveva maturato la sua vocazione letteraria. Proprio in occasione della peste concepisce il suo capolavoro, che avrebbe dovuto costituire una fonte di guadagno in un momento “nero”, non solo per la peste. Non scrive per documentare l’evento: questo è sola cornice in cui inserire il quadro delle lieta brigata che racconta le sue storie. E neppure si prefigge intenti didascalici, come se volesse educare una società che è allo sbando completo. Egli ha il solo scopo di allietare, proprio nel momento in cui non c’è motivo alcuno per godere, nella speranza che egli ne possa trarre vantaggi di natura economica e così tornare alla bella vita d’un tempo. E sembra quasi fuori posto il brano in cui descrive il propagarsi del morbo con tutti i suoi effetti devastatori. In realtà il quadro fortemente drammatico è la cornice da cui parte il percorso salvifico che l’uomo deve fare, per superare non solo i mali del momento, ma anche quelli ricorrenti nella storia umana. C’è chi vi riconosce quasi una prosecuzione della “Comoedìa” dantesca, perché anche qui l’uomo è come smarrito in una “selva oscura”, rappresentata dalla peste nera. E perciò ha bisogno di uscire dall’Inferno per salire, purificandosi sulla montagna del Purgatorio, fino ad elevarsi nel Paradiso di un vivere più spensierato, come quello sperimentato dalla bella brigata di giovani che si ritrovano nel contado, per sfuggire ai miasmi di un’aria morta, come quella pestilenziale. Leggi tutto “Boccaccio e la peste di Firenze”

Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte

INTRODUZIONE

Le diverse letture dello scrittore

Il II centenario della nascita di Dostoevskij è un’occasione per cercare di comprendere meglio lo scrittore difficilmente catalogabile con gli schemi di certa storia della letteratura. È anche l’occasione per rileggere testi, indubbiamente non facili, che, data la complessità delle vicende e soprattutto dei personaggi che vi si trovano, con tutti i loro tormenti interiori, possono disorientare chi vi si accosta senza una appropriata introduzione. C’è chi vi trova la vena autobiografica, che, senza alcun dubbio, permea molte pagine di quest’uomo, tanto inquieto e tanto toccato dal dolore, dal male, dallo stesso azzardo che lui ha conosciuto a partire dalla frenesia del gioco. C’è chi vi legge il tormentato ottenebramento, a cui va incontro un’Europa avviata ad un progresso industriale con l’illusione, coltivata, di poter godere del benessere, mentre invece essa scivola inevitabilmente verso una catastrofe, poi dilagata nelle tragedie del Novecento. C’è chi vi legge la ricerca spasmodica di una salvezza, tanto desiderata e nel contempo così difficilmente perseguita, mentre, con i contorcimenti psicologici che muovono verso la follia, imperversa una specie di “cupio dissolvi”, derivata dalla perdita della spiritualità, quella cristiana, a cui egli punta decisamente come la sola fonte di autentico rinnovamento.

Il pensiero dello scrittore: il senso della vita in mezzo al male

Non è facile seguire il suo pensiero, anche perché egli propriamente non è un filosofo, per quanto appaia sottesa, nei suoi testi, una certa filosofia della vita. E non è neppure un pedagogista o uno psicologo che si premura di scandagliare l’animo umano, soprattutto quando è in formazione, perché possa crescere secondo criteri ragionevoli, se non sono di fatto razionali. Egli è principalmente uno scrittore di romanzi, avendo trovato questa vena espressiva non solo come fonte di guadagno per vivere, ma come la sola modalità per lui di comprendere e spiegare il suo vissuto, estremamente tormentato, anche da una serie di circostanze drammatiche che hanno segnato la sua esistenza. Ciò che racconta sono indubbiamente vicende umane che lo sfiorano, se non altro perché molti dei suoi personaggi vivono qualcosa che appartiene alla sua stessa esistenza e riflettono mali e tormenti che lo toccano: chi ben conosce quanto egli ha vissuto, non fatica a trovare molti elementi autobiografici. E tuttavia, come succede a tanti scrittori, le sue storie sono pur sempre vicende umane, scandagliate soprattutto nel tormento interiore. Esse riflettono il parto travagliato di un umanesimo, soprattutto russo, che era in corso, in un mondo da troppo tempo in letargo e vorticosamente avviato a trasformazioni se-gnate poi dalla tragedia. Per quanto egli rifletta il mondo russo, di cui è figlio, e di cui, soprattutto, è espressione, tutto quello che scrive a proposito dell’uomo travalica comunque quel particolare mondo, e, per tanti versi, anche la sua epoca, così travagliata e sottoposta a cambiamenti, come sempre succede, non facilmente gestiti e soprattutto gestibili. Leggi tutto “Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte”

PASQUA DI LUCE

Non è facile parlare della risurrezione di Gesù, perché nessuno ha potuto vedere l’evento nel suo svolgersi, nessuno potrà mai raccontare che cosa sia veramente successo in quella tomba nell’attimo in cui il cadavere riprendeva vita.

Nessuno lo ha visto rialzarsi, aprire l’imboccatura della porta con la lastra fatta rotolare davanti e addirittura sigillata. Nessuno lo ha visto uscire. Nessuno ha ricevuto la rivelazione di come si sono svolti i fatti …Tanti però possono dire di averlo visto vivo, di averlo incontrato. Solo perché lui si è fatto presente, si è fatto riconoscere, si è fatto toccare.

E da allora il “passa-parola” è proprio questo: il Signore è risorto e io l’ho visto perché lui si è fatto vedere a me. La Pasqua da vivere è l’esperienza di vederlo negli occhi stupiti e folgorati di quanti hanno avuto il dono di essere raggiunti da Lui. Non per nulla si parla anche di una specie di illuminazione, come se nello sguardo rimanesse questa luce intensa che sfolgora, che affascina, che abbacina.

LA PASQUA VISSUTA

IN UNA COMUNICAZIONE DI LUCE

I RACCONTI DEI VANGELI E DEI TESTIMONI

Naturalmente questa luce avvolgente non appare come una esperienza diretta, quella che le donne e i discepoli possono dire di aver provato davanti al sepolcro o nel momento dell’apparizione del risorto. Non risulta mai che il Risorto sia visto da loro avvolto di una luce abbagliante. Pur pensando di avere a che fare con un fantasma, perché sapevano amaramente che era morto, questa sua apparizione non risulta esserci in un alone di luce. Non lo vedono, come alcuni di loro lo hanno visto in occasione della Trasfigurazione, dentro un fenomeno che non riescono neppure a descrivere dettagliatamente. Qui non c’è nulla di clamoroso a segnalare il risorto, che del resto faticano a riconoscere. Leggi tutto “PASQUA DI LUCE”

Meditiamo la Passione di Cristo

«La “Via Crucis” è una devozione molto popolare, che si è affermata da noi sull’esempio di quanti, andando in Terra Santa, camminano per le vie di Gerusalemme sulle quali sono segnate le tappe del percorso fatto da Gesù, …  Oggi si tende ad ampliare la meditazione su altri momenti delle ore drammatiche della Passione di Gesù, … perché il nostro cammino, sempre più virtuale e non più esercizio fisico, sia un autentico accompagnamento ai dolori del Signorema soprattutto al suo messaggio di vita e d’amore che deve risultare più evidente.

Il Signore non vuole che noi soffriamo, ma vuole che nelle nostre immancabili sofferenze, ci dimostriamo, come lui, capaci di continuare ad amare, a servire il disegno del Padre, a rivelare da noi lo Spirito, a manifestare un vivere all’insegna del bene, del dono, della generosità, della vera passione.  Ciò che contempliamo, ciò che meditiamo, ciò che riviviamo deve aiutarci a concepire la sua e la nostra passione come il modo migliore di vivere.

Tutte le volte che facciamo la Via Crucis entriamo in questa sua Passione, che dobbiamo fare anche nostra, sapendo che essa è il vivere di Dio e deve diventare il vivere dell’uomo. 

Qui ci lasciamo condurre  da “Una vita di Cristo”, scritta dal romanziere milanese, Luigi Santucci (1918-1999), con cui egli ci offre una rilettura dei vangeli, in chiave moderna. »

Don Ivano ci propone quattro momenti:

  1. L’ULTIMA CENA: Prendete e mangiate Questo è il mio corpo Offerto Per voi
  2. NEL GETSEMANI: Padre, se possibile, passi da me questo calice! la tua volontà sia sempre fatta!
  3. TU SEI IL RE DEI GIUDEI? – TU LO DICI: IO LO SONO! -ECCE HOMO!
  4. Nelle tue mani rimetto lo spirito! E chinata la testa, Emise lo spirito!

Per continuare a leggere, cliccare QUI : 210326 SANTUCCI – LA PASSIONE

DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO

DANTE E LA POLITICA

Il canto VI di ogni cantica del suo poema ha un contenuto politico. Questo rivela, se già non si aveva a sufficienza da quanto Dante ha coltivato e ha fatto nella sua giovinezza, che l’argomento sta particolarmente a cuore al poeta. Del resto egli fu parte in causa nei giochi politici che poi lo travolsero, e dedicò alla politica molte delle sue energie, sia quando era nell’agone, sia quando ne fu estromesso.

Per Dante la politica è partecipazione diretta alla società, in quella forma di governo che non è solo direzione degli affari, ma è soprattutto corresponsabilità, in qualunque posizione sociale uno si trovi e qualunque sia il lavoro che uno svolga. Dante ha pure esercitato funzioni direttive, essendo stato priore a Firenze; ma la sua politica non è vissuta solo in quelle che noi chiameremmo oggi “le stanze dei bottoni”, dove si prendono decisioni; è vissuta sul campo e nelle discussioni anche animate. Anche quando ne risulterà estromesso – e lo sarà in modo drammatico e infamante – egli avverte sempre la sua responsabilità nel contribuire alla “cosa pubblica”. E ci sarà sempre, anche se poi i giochi si fanno duri ed egli sarà costretto, un po’ sdegnosamente, a “far parte per se stesso”, fuori dagli schemi di partito, fuori dalle leve di comando, mai del tutto fuori da quell’amor di patria, che lo farà sentire sempre fiorentino, pur a darne giudizi feroci, sempre italiano, pur a provare amarezza e sdegno per le condizioni in cui si trova la “serva Italia”.

FLORENTINUS O YTALUS

Se Firenze lo mette al bando e lui rimarrà “bandito”, Dante amerà sempre la sua “Fiorenza”, anche da esule ferito nel suo onore, sempre firmandosi come exul inmeritus perché egli ritiene di non aver mai “meritato” quel genere di condanna. Per lui essere fiorentino è invece un titolo di merito e come tale e gli si ritiene sempre, dovunque si troverà a vivere. Solo quando deve richiamare l’attenzione nei confronti dell’Italia, si firmerà con il titolo di “ytalus”. E tale Dante è non perché abbia a cuore un’Italia unita, come noi oggi la intendiamo, ma perché in essa riconoscerà la presenza più unificante possibile dalla lingua volgare, che naturalmente è tutta da costruire e che indubbiamente gli contribuisce a creare

Andando ramingo per tante città italiane, senza mai trovare un’ospitalità sicura, se non in modo temporaneo, egli più che mai avvertirà lo stato miserevole di queste città, divise al loro interno: ciò sarà motivo di tanta miseria, anche in presenza di cospicui guadagni negli affari. E perciò il suo disegno politico si amplierà anche oltre le mura cittadine per cercare di costruire con una doverosa purificazione un mondo diverso da quello in cui c’è solo da perdersi, come si è perso lui, come è smarrito ogni uomo, incapace di risorgere in presenza delle belve affamate che impediscono la salvezza. Solo la guida della ragione, rappresentata da Virgilio; solo la guida della grazia, rappresentata da Beatrice, può condurre alla purificazione e alla beatitudine. È questo il percorso che ritiene di dover fare lui, come rappresentante dell’umanità smarrita, perché tutti possano ricostruirsi in un mondo davvero quanto mai desolato. Leggi tutto “DANTE NELL’ITALIA DEL SUO TEMPO”

MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI

NEL GETSEMANI: Padre, se possibile, passi da me                       questo calice! La tua volontà sia sempre fatta!

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INTRODUZIONE1

Il percorso tradizionale della “Via Crucis” teneva presente la strada percorsa da Gesù per arrivare al Calvario e dunque solo il momento finale della sua Passione. Ma la Passione per Gesù ha richiesto anche altri momenti non meno dolorosi. E comunque essa non si riduce alle sole ultime ore di vita, come se il Signore avesse sofferto solo in quei momenti. Certamente quelle ore di violenza, che si potrebbero definire senza senso, come lo sono le tante ancora presenti nelle vicende di molte persone, hanno rivelato un uomo che, a fronte di tanto accanimento ingiusto, risponde sempre con dignità e soprattutto con l’amore di chi si dona, manifestando così l’amore di Dio che è possibile all’uomo. E noi dobbiamo considerare la sua passione soprattutto a partire dall’amore, che in una cornice di violenza brutale, Gesù continua ad esprimere: questo suo insegnamento deve essere raccolto come vita secondo lo Spirito, quanto mai necessaria alla nostra esistenza perché sia davvero più umana. Più che piangere o disperare per queste violenze che lo travolgono, noi dobbiamo cogliere come “vangelo”, e quindi come bella ed edificante notizia, la sua volontà di andare fino in fondo nel disegno del Padre, che lo vuole come espressione della sua “giustizia”, per noi uomini e per la nostra salvezza. La giustizia di Dio non è affatto quella forma di castigo con cui noi vorremmo vedere l’intervento di Dio che volendo riportare le cose a posto, punisce gli avversari, riversando su di loro la sua giusta ira. Dio invece esprime la sua giustizia tendendo la mano all’uomo, compreso colui che fa del male e lo fa anche alla sua persona, perché si ravveda, si converta, si rinnovi. Già nell’atto del tradimento di Giuda e nel rinnegamento di Pietro e dell’abbandono da parte dei discepoli, Gesù ha una parola amichevole per colui che lo consegna, ha uno sguardo pietoso per colui che dice di non conoscerlo, ha un intervento di difesa per i discepoli che si disperdono senza essere inseguiti e colpiti, mentre il pastore va a morire per loro. Così l’esercizio della “Via Crucis” non deve essere solo una lamentosa considerazione dei dolori di Gesù, ma una riflessione salutare sul suo modo di affrontare il male e le cattiverie, mediante l’amore che si dona, mediante la risposta coraggiosa alla volontà di Dio, che chiede sempre il dono d’amore come risposta al male dell’uomo, perché l’uomo conosca un’altra maniera di vivere. Impariamo allora a considerare la passione di Gesù, che è pure la passione di tante persone, come il momento nel quale ci viene rivelato il vivere di Dio che può diventare il miglior vivere per l’uomo ….

Continuiamo la lettura del testo di LUIGI SANTUCCI, addentrandoci in uno dei momenti più significativi della Passione di Gesù, quello che in genere noi definiamo la sua “agonia”. Essa è il combattimento, tutto interiore, che può prendere ciascuno di noi, quando, attorno, il male e la violenza, l’inganno e la cattiveria hanno il sopravvento e sembrano schiacciare. Allo sconforto, allo smarrimento, può subentrare l’angosciosa prospettiva di non farcela e magari anche la dolorosa reazione di chi si sente abbandonato da Dio e di finire disperato nella propria solitudine amara. Anche Gesù nei momenti di preghiera che precedono le ore drammatiche del processo e della esecuzione della condanna, avverte il completo abbandono dei suoi e soprattutto quel silenzio misterioso del Padre, che non gli rinnova, come in altre occasioni, il suo compiacimento, il suo appoggio. La mano, tesa a sostegno, sembra mancare; la risposta alla sua implorazione d’aiuto non si fa sentire; solo un angelo compare con il calice da bere, a confermare che non c’è altra strada se non quella del sacrificio personale. Seguendo attentamente Gesù in questa sua preghiera, ci rendiamo conto del vero significato della preghiera: non viene avanzata per chiedere qualcosa a Dio, ma per disporre la propria volontà alla volontà di Dio, in un esercizio che lo porta ad essere davvero Figlio, cioè “tutto suo Padre”. E poi davanti al traditore, davanti a chi lo cattura, vien fuori ancora colui che si rivela disponibile, come è sempre Dio con noi. Gesù sembra preso nel vortice di avvenimenti che lo risucchiano; in realtà il vero vangelo si riconosce laddove si dice che è lui a consegnarsi nelle mani, perché è lui a vivere quel momento in piena disponibilità. Noi ci lasciamo impressionare da quanto succede, per sottolineare la perfidia di Giuda, la debolezza dei suoi, la brutalità di gente che pensa di essere forte solo perché, in gruppo e col favore delle tenebre, riesce ad avere la meglio su di uno. Ma il più grande è Lui e lo è nel dono che fa di sé!

                                                   1- GESU’ E’ TUTTO SOLO

Qui lo scrittore vuole mettere in risalto la completa solitudine di Gesù nelle ore notturne della preghiera. Gli amici non ci sono perché dormono. Il Padre non si fa sentire in quel momento. Gesù è davvero solo, con la sua angoscia!

IL SILENZIO

Incominciò ad aver paura e a rattristarsi. Leggi tutto “MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI”

MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI

A CENA: Prendete e mangiate,

questo è il mio corpo offerto Per voi1

INTRODUZIONE

La “Via Crucis” è una devozione molto popolare, che si è affermata da noi sull’esempio di quanti, andando in Terra Santa, camminano per le vie di Gerusalemme sulle quali sono segnate le tappe del percorso fatto da Gesù, una volta uscito dal palazzo del Pretorio, per salire la collinetta del Calvario. Quando questo cammino non è più possibile là, si diffonde da noi la stessa cosa, con la creazione, soprattutto in alcune zone montuose, dei percorsi che altri pellegrini possono fare, meditando sulla Passione di Gesù. E poiché l’itinerario è faticoso, si creano delle fermate, chiamate stazioni, durante le quali si eleva il pensiero ai dolori di Cristo. Le stazioni, poi, vengono segnalate da alcune immagini capaci di suscitare la compunzione e di favorire la meditazione e la preghiera. In genere queste fermate richiamano alcuni episodi evangelici, ma non vengono mai a mancare anche altri che il vangelo ignora e che la devozione popolare evoca, come possono essere le probabili cadute, come può essere l’incontro con la Madre, come è il particolare della Veronica, legata all’immagine sul panno, che si dice proveniente come reliquia dalla Palestina. Di fatto, trattandosi del cammino che conduce Gesù verso il Calvario, le stazioni mettono in risalto questi momenti. Oggi si tende ad ampliare la meditazione su altri momenti delle ore drammatiche della Passione di Gesù, facendo sempre affidamento alle immagini, che noi possiamo ricavare non solo dalla figure dei quadri appesi alle pareti della chiesa, ma anche alle opere d’arte, e, ultimamente, anche alle espressioni di altri generi, come sono le musiche, le immagini da film, le opere di letteratura e di poesia. Se tutto concorre al bene e alla edificazione spirituale, anche queste espressioni possono servire perché il nostro cammino, sempre più virtuale e non più esercizio fisico, sia un autentico accompagnamento ai dolori del Signore, ma soprattutto al suo messaggio di vita e d’amore che deve risultare più evidente. Il Signore non vuole che noi soffriamo, ma vuole che nelle nostre immancabili sofferenze, ci dimostriamo, come lui, capaci di continuare ad amare, a servire il disegno del Padre, a rivelare da noi lo Spirito, a manifestare un vivere all’insegna del bene, del dono, della generosità, della vera passione. Ciò che contempliamo, ciò che meditiamo, ciò che riviviamo deve aiutarci a concepire la sua e la nostra passione come il modo migliore di vivere. Tutte le volte che facciamo la Via Crucis entriamo in questa sua Passione, che dobbiamo fare anche nostra, sapendo che essa è il vivere di Dio e deve diventare il vivere dell’uomo..

Qui ci lasciamo condurre da “Una vita di Cristo”, scritta dal romanziere milanese, Luigi Santucci (1918-1999), con cui egli ci offre una rilettura dei vangeli, in chiave moderna. Lo scrittore ripercorre la vita di Gesù, come se si trovasse anche lui in quelle situazioni e ci fa sentire presenti in quei momenti, anche perché il Signore è sempre con noi e vive ogni giorno il suo vangelo che trova carne nella nostra carne e diventa spirito e vita nel nostro spirito e nella nostra vita. Dovendo fare il percorso della Passione, andiamo a cercare alcune pagine che riguardano quei momenti. Non sono state scritte per un esercizio come quello della Via Crucis, ma noi ce ne possiamo avvalere per trovare nelle sue parole qualche suggestione che ci faccia desiderare sempre più l’incontro umano con colui che è Dio, essendo uomo, e che fa diventare sempre più figli di Dio, coloro che da soli resterebbero sempre poveri uomini, gravati dal male. Queste parole, molto umane, possono elevare lo spirito a farci desiderare sempre più lo Spirito del Signore. Di fatto in questo primo momento ci fermiamo dentro il Cenacolo, dove si consuma il mistero eucaristico, che è già introduzione al grande evento pasquale: Gesù ci prepara al trauma della violenza successiva, insegnandoci a leggere in quei momenti drammatici più che il tradimento di Giuda, la consegna che Gesù fa di sé; più che l’abbandono e il rinnegamento dei suoi, il desiderio che lui ha di vivere per noi; più che la cattiveria degli uomini, la bontà di Dio che sacrifica suo Figlio..

1 – GESU’ DESIDERA STARE CON I SUOI AMICI

Lo scrittore insiste sul desiderio che ha Gesù di stare a tavola con i suoi, senza nulla nascondere della passione imminente. E su questo non vuole essere contraddetto. Noi lo dobbiamo seguire su questa strada. Ma ce la faremo? Almeno fino a quando è possibile resistere … Leggi tutto “MEDITIAMO LA PASSIONE con: – UNA VITA DI CRISTO “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” – di LUIGI SANTUCCI”

I PATTI LATERANENSI

La questione romana: affare italiano o internazionale?

Se la questione romana si accompagna al Risorgimento italiano e ne diventa un elemento determinante, sia per il raggiungimento dell’unità nazionale, sia per avere la capitale del nuovo Stato, poi tuttavia essa rimane sul tavolo, anche quando scompare lo Stato Pontificio e sembra che lo Stato italiano ne venga fuori più consolidato e più che mai sicuro di aver affrontato al meglio il problema. Ma questo sussisteva, sia per le continue rimostranze da parte del Vaticano, in ragione del sopruso che era stato perpetrato nei confronti del Papa, sia per la tensione interna alla società italiana con il divieto ai cattolici da parte delle autorità religiose di partecipare alla vita nazionale, sia per i risvolti che se ne avevano a livello internazionale, dove il governo italiano non voleva nessun riconoscimento politico e nessuna partecipazione si rappresentanti del Papa, soprattutto per la paura che lì venisse sollevata la questione romana. Occorreva dunque mettere mano alla questione, che non era affatto risolta neppure con le Leggi delle Guarentigie, mai riconosciute dal Vaticano e tutte interne allo Stato italiano. Queste leggi sembravano riconoscere una certa sovranità diplomatica al papa stesso per l’esercizio della sua autorità religiosa, ma in esse si negava che questa autorità avesse anche risvolti di tipo politico. Così il Papa conservava la sua libertà dentro i palazzi, in cui si sentiva comunque prigioniero e defraudato del suo secolare potere temporale; e conservava pure un riconoscimento diplomatico che permetteva di mantenere ambasciatori dei Paesi che lo riconoscevano e nunzi apostolici con gli stessi Paesi. In questo lungo periodo (una sessantina d’anni) vissuto in una sorta di “limbo diplomatico”, non mancarono comunque i rapporti con altri Stati da parte della Santa Sede, la quale firmò con molti di essi dei Concordati, che erano indubbiamente accordi per le questioni religiose, ma di fatto risultavano patti internazionalmente riconosciuti.

E tuttavia, quando la Santa Sede cercava di presenziare a Conferenze in cui erano in gioco i rapporti fra gli Stati per cercare soluzioni diplomatiche ed evitare contenziosi armati, in assenza di una più stabile organizzazione (come sarà la Società delle Nazioni, prima, e l’ONU, poi), il governo italiano bloccò ogni forma di partecipazione ad esse del Vaticano.

Insomma, la situazione era bloccata e non sembrava che si potesse addivenire ad un accordo, pur sempre tentato, anche per certe forme di irrigidimento su entrambi i fronti. La stessa soluzione trovata nel 1929 risultava spesso precaria e sul punto persino di essere rimessa in discussione … Comunque la soluzione richiedeva un accordo che fosse trovato e sancito fra le due parti, e che godesse dell’avallo internazionale. La prova se ne ebbe in occasione della guerra (1940-45), quando la neutralità e la libertà del territorio vaticano vennero rispettate, pur con le tante incognite circa la tenuta nel tempo di questo rispetto.

Va altresì rilevato che i Patti lateranensi, siglati in un Palazzo riconosciuto come territorio vaticano e ancora oggi tale, erano di fatto due. Con il primo, il Trattato, si prendeva atto della nascita di un nuovo Stato con un suo territorio e una sua organizzazione; con il secondo, il Concordato, si disciplinavano le questioni di comune spettanza allo Stato e alla Chiesa sul territorio italiano e per i cittadini italiani. Se il primo rimase – e rimane – in vigore, anche dopo la trasformazione istituzionale dell’Italia, che da monarchia divenne Repubblica, il secondo fu sottoposto a revisione ed è passibile di questo anche per il futuro.

Il cammino per giungere alla Riconciliazione

Come si è arrivati a questo passo?

Il cammino di questa riconciliazione non è stato facile e ci sono state resistenze da ambo le parti, sia perché il Papa considerava l’occupazione del suo “Patrimonio” come una usurpazione, sia perché lo Stato italiano con le Leggi delle Guarentigie riteneva già sufficientemente garantito l’esercizio del magistero pontificio e della sua sovranità, anche senza un territorio su cui governare. Di fatto nessuno entrò nei Palazzi Vaticani e tuttavia essi erano comunque considerati territorio italiano.

Pio IX (1846-1878) così si esprimeva nella sua enciclica “Respicientes ea” del 1 novembre 1870

È noto inoltre che Noi, adempiendo al Nostro dovere, non solo Ci opponemmo sempre ai replicati consigli e alle domande fatteci, con cui si voleva che Noi, vergognosamente, tradissimo l’ufficio Nostro abbandonando e consegnando i diritti e i domini della Chiesa, o stipulando con gli usurpatori una nefanda conciliazione, ma, di più, Noi, a questi iniqui ardimenti e misfatti perpetrati contro ogni diritto umano e divino, opponemmo solenni proteste davanti a Dio e agli uomini, e dichiarammo incorsi nelle censure ecclesiastiche i loro autori e fautori, e, quando fu necessario, li fulminammo con le stesse censure.

Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica (ossia il temporale dominio di questa Santa Sede, posseduto non senza un evidente disegno della Divina Provvidenza in così lunga serie di secoli dai Nostri Predecessori) né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo cattolico per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni.

Qui il Papa si riferisce al testo di S. Ambrogio circa la vigna di Naboth e soprattutto alla sua resistenza al potere politico del tempo che voleva impadronirsi di alcune chiese milanesi per affidarle agli Ariani. Il vescovo milanese si oppose decisamente in nome di questa eredità e si rinchiuse in chiesa per evitare alla polizia di entrarvi …

Infine, obbedendo a quell’avvertimento di San Paolo “Quale comunanza della giustizia coll’iniquità? O quale società fra la luce e le tenebre? Quale patto tra Cristo e Belial?” (2Cor 6,14-15) apertamente e chiaramente manifestiamo e dichiariamo che Noi, memori del Nostro ufficio e del solenne giuramento che Ci lega, non prestiamo, né mai presteremo, l’assenso a qualunque conciliazione, che in qualunque modo distrugga o scemi i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede; parimenti proclamiamo che, pronti certamente con l’aiuto della Divina grazia nella Nostra grave età a bere sino alla feccia per la Chiesa di Cristo il calice che Egli per primo si degnò di bere per la medesima, mai sarà che Noi aderiamo e Ci pieghiamo alle inique domande che Ci faranno. Infatti, come il Nostro predecessore Pio VII diceva: “Far violenza a questo supremo dominio della Sede Apostolica, separare la sua temporale potestà dalla spirituale, disgiungere, svellere, scindere gli uffizi del Pastore e del Principe, null’altro è che voler distruggere e rovinare l’opera di Dio, nulla fuorché sforzarsi che la Religione abbia un danno grandissimo, nulla fuorché spogliarla d’un efficacissimo aiuto, affinché il suo sommo Rettore, Pastore e Vicario di Dio non possa conferire ai cattolici, sparsi in ogni angolo della terra e di là bisognosi di forza e di aiuto, quei soccorsi che si chiedono dalla spirituale potestà di lui, e che nessuno deve impedire” [Alloc. 16 marzo 1808]..

Anche con il suo successore, Leone XIII (1878-1903) le cose non cambiano: rimane il “Non expedit” per i cattolici in Italia, che impedisce loro la partecipazione alla politica attiva e quindi ai ruoli decisionali di governo nazionale, non invece a quello locale. Ma soprattutto in seguito alla Enciclica sociale più famosa, la Rerum Novarum del 1891, si aprono nuove prospettive di carattere sociale, che vengono quanto mai auspicate per una presenza più capillare e più incisiva nelle realtà locali, mentre rimane l’opposizione ad ogni forma di partito dei cattolici.

Leone XIII infatti, che pur ammirava l’entusiasmo dei giovani per i problemi sociali, ma non voleva sconfessare la trentennale operosità degli intransigenti, il 18 gennaio 1901 interveniva con l’enciclica Graves de communi, la quale proibiva ancora una volta ai cattolici di svolgere azione politica, concedendo loro di impegnarsi solo nel campo sociale. L’enciclica aveva lo scopo di chiarire il concetto di democrazia cristiana e di sedare così le discordie, divenute in proposito sempre più profonde, tra i cattolici italiani; si conservava quella espressione, ma si intendeva che essa indicasse essenzialmente una “azione benefica verso il popolo”. (Penco, p.477).

Gli anni tra i due secoli furono particolarmente vivaci soprattutto per il dibattito e per l’azione dei cattolici dentro la società e dentro il dibattito politico italiano, senza mai trovare comunque la possibilità concreta di giungere ad una conciliazione. Lo stesso Giolitti che raggiunse un’intesa con il cosiddetto “Patto Gentiloni”, per avere il sostegno dei cattolici in politica, non ne voleva sapere di scendere a patti con la Chiesa, anche per la sua formazione fortemente liberale che voleva la Chiesa relegata nelle sacrestie con la sola possibilità di animare opere benefiche nel campo sociale. Solo alla vigilia della guerra si faceva strada l’ipotesi di ottenere l’internazionalizzazione della Legge delle Guarentigie. Ma non si andò molto oltre ….

Anche il pontificato di Benedetto XV (1914-1922) non fu sottratto alle asprezze polemiche legate alla questione romana: la sua neutralità nella guerra appariva come una presa di posizione ostile all’Italia e favorevole alle Potenze degli Imperi centrali; e negli Accordi di Londra per l’entrata dell’Italia in guerra a fianco dell’Intesa, all’articolo 15 si faceva proprio riferimento alla Santa Sede per impedirle di partecipare alla Conferenza di pace, come avvenne …

Patto di Londra (26 aprile 1915)

L’articolo 15 affermava: “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione dell’Italia a tutte le proposte tendenti ad introdurre un rappresentante della Santa Sede in tutti i negoziati per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente guerra“.

Questo articolo provocò un profondo risentimento nel mondo cattolico. Secondo il filosofo Georges Sorel forse gli americani non si sarebbero così facilmente lasciati trascinare ad abbracciare la causa jugoslava, se i numerosi cattolici degli Stati Uniti non fossero stati ostili all’Italia per colpa di questo articolo. La ragione di fondo dietro l’azione del governo italiano e soprattutto del Ministro degli Esteri Sonnino di voler impedire che la Santa Sede superasse l’isolamento politico partecipando a negoziati di pace, era il timore che la diplomazia vaticana potesse risollevare la Questione Romana ponendola come problema internazionale.

Quella a Versailles fu un’assenza senza precedenti, vista la costante presenza della Santa Sede ad incontri di tal genere, incaricati cioè di porre fine a periodi di conflittualità e a definire nuovi assetti delle relazioni internazionali …

È noto che la stretta connessione tra una partecipazione della Santa Sede alla SdN e la Questione romana era emersa già durante i lavori della Conferenza di Versailles, nei famosi colloqui che si tennero a Parigi fra il maggio e il giugno 1919, tra il capo del Governo italiano Vittorio Emanuele Orlando e l’allora segretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari Bonaventura Cerretti, allo scopo di formulare proposte concrete per la soluzione della controversia tra la Santa Sede e l’Italia. In proposito, la posizione vaticana chiedeva, quasi come condizione pregiudiziale, la costituzione di un’entità statuale sotto la sovranità della Santa Sede garantita da una presenza di questa nella SdN, una membership che proprio la sovranità territoriale effettivamente esercitata avrebbe reso possibile. (Buonomo, p. 49.50)

Di fatto la Santa Sede, che pur era tenuta lontana dalle assise internazionali di quell’epoca, vedeva comunque accrescere la sua posizione, sia perché aumentavano le relazioni diplomatiche sia perché venivano stipulati nuovi Concordati, in un periodo del resto piuttosto burrascoso. In effetti erano nati in Europa nuovi Stati, e questi assumevano particolari caratterizzazioni con più o meno manifeste tendenze di tipo autoritario, che richiedevano, se non privilegi, comunque più ampi spazi di libertà di movimento per la Chiesa e per i cattolici.

E va pure riconosciuto che nel periodo postbellico la Santa Sede interviene ed è pure richiesta negli interventi per segnalare o per sentirsi coinvolta in alcune questioni e in alcune situazioni, che vanno anche ben oltre gli interessi di parte o dei suoi fedeli.

Il testo citato ricorda alcuni problemi che vedono l’attività diplomatica della Santa Sede e la vedono impegnata a sostenere anche situazioni dove non erano in gioco solo interessi legati al mondo cattolico …

La fame in Russia durante il periodo della guerra civile: la richiesta di Benedetto XV è di intervenire per lenire le sofferenze della popolazione russa.

La situazione delle minoranze e dei rifugiati: il caso dell’Ungheria che si vedeva privata dei suoi territori e di popolazione ungherese che veniva inglobata nella Romania e nella Jugoslavia, rivela una Santa Sede attenta alle questioni che poi esploderanno in seguito.

Le popolazioni dell’Asia Minore: l’azione messa in campo per i numerosi profughi che la guerra greco-turca aveva creato da ambo le parti, fa della Santa Sede un partner privilegiato.

Un’azione che mostra non solo la capacità della Santa Sede di operare sul piano internazionale, bilaterale e multilaterale, prima del 1929, ma come pure in quel momento storico essa fosse attenta alle questioni di rifugiati e profughi, operando in loro favore indipendentemente dall’appartenenza religiosa. (Buonomo, p. 61)

La questione dei Luoghi Santi in Palestina rivelava un interesse della Santa Sede, che faceva presente alla Società delle Nazioni alcune questioni, non solo e non tanto di difesa dei propri privilegi acquisiti, quanto piuttosto come si dovesse agire a livello internazionale, tenuto conto che molti luoghi santi in Terra Santa avevano un carattere particolare, che non si poteva definire sulla base della nazionalità.

La riforma del calendario gregoriano veniva avanzata per motivi di ordine commerciale, in riferimento alla questione della data della Pasqua da rendere fissa e non mobile, come succedeva e succede tuttora. Non se ne venne a capo di nulla. Ma è interessante sapere che la Società delle Nazioni sentiva la necessità di avere il parere della Santa Sede …

Ciò significa che, anche ad aver perso i territori e la sua immagine di Stato fra gli Stati, anche a trovarsi in difficoltà per l’opposizione italiana a dare spazio nel contesto internazionale, con la paura che si potesse sollevare la “ questione romana”, non solo a livello di alcuni Stati, ma anche di organizzazioni al di sopra delle nazioni stesse, la Santa Sede veniva presa in seria considerazione, segno inequivocabile che si conservava per essa una immagine che la metteva sullo stesso piano degli Stati. La cosa poi divenne scontata con il riconoscimento giuridico che emerse dai Trattati lateranensi.

I prodromi dell’evento

Non sono mai mancate le trattative per arrivare alla conciliazione, pur in presenza di discorsi pubblici che alimentavano invece la polemica.

Da parte delle autorità ecclesiastiche si continuava a sottolineare il sopruso commesso dalle autorità italiane e continuava ad essere in vigore la condanna ferma di Pio IX. Veniva pure raccomandato ai vescovi di non avere a che fare con le autorità in certi momenti, come potevano essere le visite del Re o di altri capi di Stato alle autorità italiane.

Da parte dei governi che si sono succeduti, non solo mancava l’autorità per addivenire ad una forma di soluzione; altre volte si manifestavano veri e propri ostacoli ad ogni forma di riconoscimento della Santa Sede come interlocutrice a livello internazionale.

Era evidente che con i governi di stampo liberale non era possibile alcun forma di conciliazione, per quanto se ne parlasse, anche perché, oltre alle componenti massoniche decisamente anticlericali, occorreva superare l’ostacolo delle diverse anime dei partiti di governo.

Anche quando compare Benedetto XV, già nella sua prima enciclica “Ad beatissimi Apostolorum” del 1 novembre 1922 diceva chiaramente

Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna spontaneo colà, donde volemmo prendere le mosse. È la parola di pace che Ci ritorna sul labbro; per questo con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell’attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società, affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non trattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il suo capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli a tutela della sua libertà.

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La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d’altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d’essere assicurati che il loro Padre comune nell’esercizio dell’apostolico ministero sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.

Al voto pertanto d’una pronta pace fra le Nazioni, Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti aspetti, alla stessa tranquillità dei popoli. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, alzarono più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.

Qui non si parla più di usurpazione e, di conseguenza, della condanna verso i governanti italiani. Qui è accorata invece la richiesta di poter contare ancora su una libertà di movimento, che consenta al Papa di essere al di sopra delle parti. Si tenga presente che siamo in un momento particolarmente grave, come quello della guerra in atto, durante la quale la Santa Sede poteva e doveva svolgere la sua missione senza dover risultare assolutamente di parte, come poi verrà accusato lo stesso Papa nei suoi interventi, compreso quello dell’agosto 1917, quando definì la guerra “un’inutile strage”.

Benedetto XV chiede chiaramente che si ponga fine a questo “stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa”: è evidente che si tende la mano affinché la anormalità venga sistemata … Non risulta che ci siano richieste di tornare allo stato precedente con il ripristino del potere temporale e con la restituzione dei territori usurpati. Si esprime invece il desiderio che il Papa possa essere davvero indipendente per svolgere la sua missione soprattutto a favore della pace.

Non sembrava possibile neppure con Mussolini, che era stato in gioventù un acceso anticlericale e che tale era rimasto anche dopo la sua espulsione dal partito socialista. Ciò che lui rappresentava dopo la guerra era l’anima nazionalista, che si faceva strada anche attraverso le forme violente e non faceva mistero del suo modo di concepire e di esercitare il potere. Ma non sono mancate affermazioni sulla questione romana che potevano far sperare in un esito come quello poi raggiunto nel 1929.

In un discorso al parlamento del 21 giugno 1921 si espresse in tal modo: “Affermo che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. Se, come diceva Mommsen … non si resta a Roma senza un’idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale, che oggi esiste a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano. Penso … che se il Vaticano rinuncia definitivamente ai suoi segni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l’Italia profana e laica dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per le scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza sovrana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del Cattolicesimo, nel mondo … è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani”. (Nacci, p. 86-7)

Ovviamente ci vollero gli anni del consolidamento al potere da parte di Mussolini, il cui regime si può dire inizia con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, dopo la crisi dovuta all’assassinio di Matteotti. Con l’assetto dittatoriale entrano in vigore anche leggi che vogliono estirpare la pluralità dei partiti, ma anche le società segrete di stampo massonico. Così le due parti appaiono più libere nell’intavolare trattative.

Queste “basi” furono poste il 6 agosto del 1926 quando il Papa autorizzò l’avvocato fiduciario del Vaticano Francesco Pacelli, fratello del futuro Pio XII, a conferire con il consigliere di Stato, Domenico Barone, circa la soluzione della Questione romana; colloqui che iniziarono due giorni dopo nella casa di Barone (Nacci, p. 89)

La discussione richiese tempo anche perché nel frattempo sorgevano problemi che rischiavano di far naufragare l’intesa: la dittatura non poteva permettere che la Chiesa avesse campo libero per iniziative di carattere formativo nei confronti della gioventù; non si metteva in discussione il catechismo, ma non si potevano accettare forme di attività diverse, come i gruppi Scout o l’Azione Cattolica, e naturalmente la Chiesa riaffermava in continuazione la sua imprescindibile azione educativa. C’era poi la questione del Concordato, che già la Chiesa andava realizzando con i vari Stati europei e del mondo in quel periodo, e che si voleva abbinare alla soluzione della questione romana.

Due relazioni del consigliere di Stato Domenico Barone del 12 aprile e dell’agosto 1928 fanno luce non solo sulla buona volontà di quell’esemplare funzionario, ma anche sugli argomenti verso cui le due parti erano più sensibili. Le difficoltà non mancavano. In Vaticano, infatti, si era urtati per la presenza di spie fasciste; a Mussolini d’altra parte, continuavano a giungere proteste – anche da parte di D’Annunzio – per i progetti di conciliazione ormai nell’aria. Il consigliere Barone svolse quindi, a questo proposito, un’attività intensissima fino a compromettere la propria salute, mentre Pio XI già nel marzo sembrava disposto a non irrigidirsi per questioni di territorio, pur protestando, il 25 marzo, contro il tentativo di monopolizzare l’educazione della gioventù e contro le persistenti vessazioni ai danni dell’Azione Cattolica. (Penco, p. 527)

La firma e la ratifica dei Trattati

Alla firma si arriva l’11 febbraio 1929, anche se poi la ratifica avviene il 7 giugno dello stesso anno. Nel momento stesso in cui la firma avveniva nel Palazzo Apostolico Lateranense, il Papa teneva un discorso in cui affiorano anche i problemi che accompagnano questa decisione …

Dall’allocuzione di Pio XI ai parroci romani e ai predicatori della Quaresima

(11 febbraio 1929)

Ed ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare. Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.

Un Trattato inteso a riconoscere e, per quanto « hominibus licet », ad assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) e che evidentemente è necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond’è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena.

Un Concordato poi, che volemmo fin dal principio inscindibilmente congiunto al Trattato, per regolare debitamente le condizioni religiose in Italia, per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano.

Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne «Urbi et orbi » dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.

Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri. Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.

Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.

Come si avverte da queste parole c’è la coscienza che l’atto è grande e solenne e comunque foriero di critiche e di prese di distanza che si muovono contro la sua persona e le sue scelte. Ne è consapevole (e un po’ amareggiato), ma nel contempo appare quanto mai deciso ad andare fino in fondo per cogliere questa opportunità e mettere fine al contenzioso che non si poteva trascinare oltre con grave pregiudizio per la Chiesa stessa. Le critiche che gli venivano mosse non riguardavano solo il riconoscimento dell’Italia fascista, visto che il Trattato veniva fatto con Mussolini, ma anche per la rinuncia ai possedimenti territoriali che da secoli appartenevano alla Chiesa.

Se con Mussolini fu più facile ottenere la Conciliazione, non per questo il Trattato aveva le garanzie di quel governo, perché il Trattato, di natura internazionale, avveniva con lo Stato Italiano e quindi, propriamente con la persona del Re, di cui Mussolini era solamente il plenipotenziario, come lo era alla firma per il Vaticano il Card. Gasparri e non il Papa stesso. Se poi esso rimane vincolato alla Costituzione repubblicana, ciò significa che davvero questo Trattato è con lo Stato e non con un regime che è pur sempre transeunte. Per quanto riguarda la rinuncia al territorio “usurpato”, ora si riconosceva che era sufficiente al Papa una vera indipendenza, garantita con un minimo di possedimenti che permettessero l’assoluta estraneità allo Stato italiano. Col tempo la cosa si rivelò una autentica liberazione da una zavorra pesante: il Papa era libero, senza avere le incombenze di un governo temporale, che richiede particolari organismi e leggi …

Maggior entusiasmo Pio XI esprime al Corpo diplomatico qualche giorno dopo, riconoscendo che è nato un nuovo soggetto politico destinato a salvaguardare la missione della Chiesa e del magistero petrino, più ancora di quanto non lo si poteva pensare con la forma precedente del Patrimonio di S. Pietro, ereditato dalla storia.

Discorso di Pio XI al Corpo diplomatico (9 marzo 1929)

Ce n’è un’altra che continua dall’11 febbraio a riempire i paesi e il mondo intero. È questo grande, incomparabile (e forse finora mai verificato) plebiscito, non solo d’Italia, ma di tutte le parti del mondo. Non c’è, in questa parola, esagerazione alcuna. Noi stiamo ricevendo lettere e telegrammi non solo da tutte le città e villaggi d’Italia, non solo da tutte le città e da molti villaggi di tutti i paesi di Europa, ma anche dalle due Americhe, dalle Indie, dalla Cina, dal Giappone, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, dal Nord, dal Centro, dal Sud dell’Africa, dall’Alaska, dal Mackenzie, dall’Hudson, come se si trattasse di un avvenimento del luogo.

Fatto veramente impressionante e che Ci autorizza a dire che non solo il popolo, tutto il popolo d’Italia, ma che i popoli del mondo intero sono con Noi: un vero plebiscito non solamente nazionale, ma mondiale. Ecco la garanzia, la più imponente che si possa pensare ed immaginare. In questo vasto e immenso plebiscito non possiamo non cogliere e rilevare alcune voci che Ci hanno profondamente commossi. È anzitutto la voce del piccolo numero dei sopravvissuti, nei vostri vari paesi, tra i valorosi che, nel corso degli anni, in spirito di fede cattolica hanno messo la loro vita a disposizione e a difesa della Santa Sede. Voi direte a questi valorosi che il Santo Padre ha pregato e applica delle Messe per tutti i loro morti, che sono anche i Nostri morti, indimenticabili.

Appare chiaro, a proposito dei Trattati, che si tratta di due documenti molto diversi, a cui poi si deve aggiungere anche la Convenzione finanziaria, con la quale si fissa l’indennizzo alla Santa Sede da parte dell’Italia, che pur aveva garantito con le Guarentigie un compenso annuale, sempre rifiutato da parte del Papa.

Il Trattato fa nascere di fatto un nuovo Stato del tutto sovrano, la cui indipendenza viene garantita a livello internazionale.

Il Concordato ovviamente riguarda i due Stati in riferimento all’esercizio religioso sul territorio italiano. Questo è stato sottoposto a verifica e ad una nuova intesa nel 1984.

L’impressione suscitata da un accordo così importante e così lungamente atteso fu senza dubbio di grande risonanza, in Italia e all’estero, come dimostrò la vasta eco nella stampa nazionale e internazionale. Altrettanto grande fu ovviamente, secondo i diversi punti di vista, la disparità di giudizi, per quanto prevalessero decisamente quelli positivi. A distanza di un sessantennio dall’occupazione italiana di Roma e della definitiva cessazione del potere temporale, i rapporti tra Stato e Chiesa ricevevano una regolamentazione che poteva dirsi soddisfacente. Vi fu, naturalmente, chi volle andare anche oltre l’intenzione della parti contraenti e dello stesso Pio XI: così, si parlò di un avallo senza riserve dato dalla Chiesa al regime fascista. (Penco, p. 529)

La Conciliazione venne disapprovata da quegli antifascisti – in Patria e all’estero – che deprecarono le trattative intercorse tra la Chiesa e un regime totalitario … Ma di fatto, cessata la dittatura, i Patti Lateranensi vennero accolti tali e quali, come trascendenti nettamente le circostanze e le persone che vi avevano avuto parte, nella costituzione stessa del nuovo Stato democratico e repubblicano e ciò con l’appoggio degli stessi partiti di sinistra (Penco, p. 530).

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Conclusioni

Di fatto noi abbiamo nella lettura storica di questi Patti lo stretto legame fra il Trattato, costitutivo dello Stato Vaticano, e il Concordato che regola invece i rapporti fra Chiesa e Stato in Italia. “Simul stabunt, simul cadent” – si diceva allora. E c’è pure chi supporne che il giorno della morte di Pio XI (10 febbraio 1939), che era vigilia del decimo anniversario dei Patti, ci fosse già un documento pontificio scritto, con cui, prendendo le distanze dal regime fascista, anche per le sue leggi razziali, si volesse far cadere il Trattato. Ovviamente il documento con c’è ed è da verificare che possa essere stato scritto, anche se non entrò mai in vigore con la morte del suo estensore. Penso che l’impugnazione del Concordato non volesse dire che si dichiarava nullo anche il Trattato con il quale nasceva lo Stato della Città del Vaticano. Questo Trattato ha dimostrato la sua forza anche a livello internazionale in occasione della guerra, quando anche nei mesi di occupazione nazista, i territori dello Stato pontificio, per quanto ristretti, non sono stati invasi e sono diventate isole di libertà per quanti trovarono rifugio e scamparono al pericolo di cadere sotto la polizia politica o sotto le SS naziste. Sta di fatto che nella discussione all’Assemblea Costituzionale, i Patti, nel loro insieme, entrarono a far parte della Costituzione stessa, a dimostrazione che essi non venivano considerati come l’espressione di un regime, ma come un vero e proprio trattato fra due Stati, ben oltre la contingenza storica di un governo oggi sottoposto alla damnatio memoriae.

Ma se il Trattato non è mai caduto, il Concordato è stato sottoposto a revisione. Non poteva essere diversamente per lo Stato italiano che si trovava in presenza di accordi costruiti, qui sì, secondo un sistema totalitario. La revisione era ritenuta necessaria per conformarsi alla legge fondamentale dello Stato, che si presenta democratico. Nel momento più delicato della sua storia non si volevano aprire ulteriori ferite e anche il Partito comunista si adeguò ad accettare entrambi i documenti dei Patti. Se poi si addivenne alla revisione, questa fu pure voluta dalla Chiesa che voleva anch’essa rileggere il Concordato sulla base delle suo nuove Costituzioni redatte con il Concilio Vaticano II.

In genere nelle considerazioni di carattere storico che si fanno sui Patti lateranensi si tende a sottolineare che essi mettono la parola fine al contenzioso tra Italia e Vaticano in seguito alla questione romana, come se si trattasse di un problema bilaterale. Certamente è così per il Concordato. Ma per il Trattato esso ha di fatto l’avallo internazionale, perché da allora viene riconosciuto nel concerto delle nazioni, che c’è pure spazio per una realtà politica e giuridica come lo Stato del Vaticano. Ora esso, anche con un porzione minima di territorio, ha in realtà un grande peso nel sistema internazionale e ce l’ha in forza della sua assoluta indipendenza e sovranità. Se questa era di fatto sospesa nel periodo fra il 1870 e il 1929, nonostante le leggi delle Guarentigie che volevano in maniera unilaterale garantire una sovranità di fatto limitata, ora invece essa viene universalmente riconosciuta. Ciò che oggi esiste è ben diverso da ciò che la storia aveva consegnato al Papa nel corso dei secoli, certamente per l’assetto territoriale, ma anche per il tipo di esercizio di potere che poneva il Papa accanto ad altri Stati, con i loro medesimi problemi di natura sociale e strutturale. Oggi il Papa possiede ancora un territorio su cui governa in maniera totalmente autonoma, ma questo tipo di Stato non ha bisogno di quel genere di infrastrutture che sono invece necessarie altrove. Perciò il Vaticano è ben diverso da quello che era prima del 1870; ma la sua autorità e il suo peso è di gran lunga superiore al precedente e la storia recente ha dimostrato che questa indipendenza ha giovato certamente all’esercizio della sua missione, soprattutto senza l’onere di dover svolgere compiti non propriamente suoi e non propriamente necessari a questa sua missione.

BIBLIOGRAFIA

Pontificio Comitato di scienze storiche- I PATTI LATERANENSI in occasione del XC anniversario (1929-2019)- Libreria Editrice Vaticana – 2019 – 

Gregorio Penco – STORIA DELLA CHIESA IN ITALIA (volume II) Jaca Book – 1977