Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.

Don Gesualdo … ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. … Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo.

(Mastro – don Gesualdo, parte III, cap. II, p. 198)

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SEMPRE PIU’ NEL MONDO DEI VINTI

Verga si era prefisso di completare il ciclo dei “vinti”, analizzando una serie di personaggi che, pur nei diversi gradini della scala sociale, sono destinati ad essere trascinati via dalla storia, nella sua inesorabile corsa. Ma anche ad aver chiaro il piano redazionale, Verga non riuscì a portare a termine il suo intento. E questo non tanto perché gliene mancasse il tempo, quanto piuttosto perché, se si era esaurita la sua vena narrativa in questa direzione, non aveva neppure senso che si proseguisse in questa visione che voleva essere realistica, ed era divenuta pessimista ad oltranza. Per comprendere meglio il suo disegno incompiuto, dovremmo pensare al clima culturale nel quale lo scrittore si trova immerso durante gli anni ’80 del secolo, quando egli è ormai nel pieno della sua maturità u-mana e letteraria. All’inizio di quel decennio compare il suo capolavoro sulla famiglia di pescatori, animata, nei suoi protagonisti, dal desiderio di affrancarsi da una vita di stenti, non tanto per raggiungere posizioni im-probabili e impossibili, quanto piuttosto per procedere in un vivere più umano, sia nella direzione della salvaguardia dei valori della famiglia, come vorrebbe Padron ‘Ntoni, sia nel cercare altrove nel mondo quel ri-scatto che il paese di origine non garantisce affatto, come è nei sogni di ‘Ntoni, il nipote. È così tratteggiata una famiglia e insieme è delineato il percorso generazionale, che tuttavia non assicura affatto la redenzione, il riscatto sociale, quello auspicato e fatto balenare nel periodo epico e glorioso del Risorgimento, in cui uno dei componenti della famiglia, il giovane Luca, viene sacrificato nella battaglia di Lissa, che lo inghiotte. In base a quanto Verga dice sul ciclo dei vinti, qui dovremmo essere alla base della scala sociale, quella fatta di proletari, secondo lo schema di tipo marxista predicato in quei tempi, ma non condiviso dallo scrittore, che non proveniva da quelle fila. L’analisi offerta nel romanzo non segue i criteri che la filosofia e la dottrina politica, già dibattuta in quegli anni, metteva in circuito. E neppure si deve pensare che la chiave interpretativa del romanzo sia quella di natura sociologica e in particolare regionalista, quasi a volere una sorta di riscatto sociale e politico delle terre del Sud, rimaste deluse dopo l’epopea garibaldina. Da acuto lettore del suo mondo, era inevitabile che Verga parlasse della sua terra e offrisse nei suoi “eroi vinti” l’immagine del titanismo di riscatto, reso impossibile dalla mancanza di quella Provvidenza, che invece aveva arriso agli eroi del romanzo manzoniano, espressione vertice della letteratura romantica, ormai superata. Proprio la “Provvidenza”, la barca da cui ci si riprometteva il riscatto, finiva sugli scogli e con essa il sogno di rivincita, di risurrezione. La classe degli “umili”, come li considerava Manzoni, tutti fiduciosi nella divina Provvidenza che comunque “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”, non appariva ancora nella nuova Italia come la classe che potesse divenire protagonista della propria storia, capace di riscatto. E tuttavia essa costituiva indubbiamente, almeno sotto il profilo numerico, la forza su cui puntare per costruire una nuova “storia”; ma occorreva che ne venisse una coscienza più matura. Finora viene a mancare quella che poi emergerà come coscienza di classe. E non si poteva affatto pensare che Verga puntasse su questo nella sua analisi del mondo rurale o contadino, il mondo cioè di coloro che solo potevano immaginare, secondo schemi consolidati, di tentare un vivere diverso, che tuttavia non li avrebbe mai portati a cambiare la propria “natura”. Cercare la scalata sociale, quella che può far pensare di uscire da una atavica povertà per raggiungere una posi-zione impensabile e impossibile, risultava essa pure ardua e destinata al fallimento, a ricacciare il “nuovo” eroe tra i vinti. È quanto succede al “nuovo” eroe, che di fatto è anche l’ultimo. Lui pure, come già la famiglia Malavoglia, è destinato al fallimento, e il suo è per tanti versi davvero molto rovinoso. E tuttavia anche in questo suo lavoro Verga ha qualcosa da dire non solo sull’Italia della fine Ottocento, ma, proprio perché non si limita a registrare il suo tempo, a fare dell’analisi di carattere sociologico o ideologico, egli può offrire una lettura “umanistica” che travalica la contingenza e si spinge a considerare il personaggio “tipo”, come un per-sonaggio “metastorico”, per quanto sia di fatto inquadrato in un periodo ben preciso della storia siciliana e italiana.

IL ROMANZO

NEL SUO CONTESTO STORICO

Nel capolavoro è protagonista una famiglia. Dentro di essa si snodano personaggi diversi, visti e analizzati nel loro divenire dentro un mondo che sembra chiuso, tanto è angusto. E tuttavia esso pure è toccato dalla grande storia, che si intravede sullo sfondo a partire dagli sguardi e soprattutto dalle parole di quella gente. Adesso è al centro un personaggio, che finisce sempre più isolato, anche se attorno alla sua figura compaiono diversi comprimari. C’è anche la storia di un paese, di una famiglia o di una serie di famiglie, tra loro legate; ma tutto questo mondo finisce per dipendere da colui che dà il titolo al romanzo e che dunque ne è il protagonista, quanto mai isolato e nello stesso tempo quanto mai necessario perché quel mondo, il suo mondo, ne riveli tutte le contraddizioni. Il lavoro ha richiesto parecchio tempo e diverse stesure. Quello che uscì a puntate in un semestre del 1888, poi trovò la sua redazione definitiva, con rifacimenti non indifferenti nel novembre 1889. È narrata la vicenda di un uomo che si dovrebbe definire una specie di “villan rifatto”, un uomo proveniente dal … nulla, sia per la sua appartenenza alla classe sociale infima, sia perché, se possiede “la roba”, questa è il frutto del suo lavoro e non certo della “eredità”. Propriamente non cerca la scalata sociale, come se desiderasse blasoni, emblemi araldici, titoli nobiliari; gli basta … la “roba”, quella per la quale egli vive, sente di essere fatto, avverte come lo scopo e la ragione della sua esistenza, prima e più delle persone, che poi, al momento della morte non avrà più con sé, neppure coloro che sono i suoi “pari” e che in quel contesto lo ignorano e lo abbandonano, come se non fosse affatto dei loro. La sua “parabola” è inquadrata in un ambito molto ristretto, nel tempo e nello spazio. Si tratta sempre della Sicilia, e anche questa in una parte periferica. E per quanto riguarda il tempo la vicenda viene circoscritta nel primo Ottocento, in quel periodo che i libri di storia definiscono della Restaurazione. Sullo sfondo si sente parlare dei moti del 1821 e poi, nella parte conclusiva, scoppiano quelli del 1848. Ma lui, il protagonista, non vi partecipa; anzi, è quanto mai preoccupato che i rivolgimenti possano intaccare il suo “patrimonio”, quando i moti non sono più “carbonari”, ma stanno diventando popolari, in quanto coinvolgono anche quei ceti che non sembravano in precedenza voler cambiare … padrone. Così l’epopea narrata da Verga nel romanzo, anche a vedere sullo sfondo le ben note vicende del primo Risorgimento, non ha affatto a tema quei rivolgimenti e quei cambiamenti sociali e politici, che pur avevano toccato lo stesso meridione. Quello che interessa all’autore è lui, il suo protagonista, il quale è sfiorato dalle vicende, ma senza che egli ne comprenda il valore, il significato, il senso.

IL PROTAGONISTA

Il nome e i titoli

Mastro-Don Gesualdo porta questo nome che ha in sé le due connotazioni che ne descrivono la vita, la vicenda, la natura, il suo carattere, il suo tipo. È di fatto riconosciuto come “Mastro”, perché egli appare alla gente come colui che ha sempre lavorato e proprio per questo ha le mani sporche di calcina, di gesso, come viene fatto notare anche quando lo si vede sul letto di morte. È sempre stato così e così torna ad essere: è colui che si identifica con quel tipo di lavoro che gli dà diritto alla “roba”, realtà che gli appartiene fino ad identificarsi.

Gesualdo Motta è un uomo-roba, secondo una tipologia collaudata, come Mazzarò, suo battistrada. Ma a differenza di Mazzarò, che è un personaggio ossessivo e astorico, Gesualdo entra nella storia, ne soffre l’urto, anela a far conciliare il suo istinto bruciante, che ne connota l’identità con la logica del mondo che è spaziale e sociale. (Campailla, p. 30)

Anche se poi non avrà mai titoli onorifici, di fatto egli viene indicato come un “don”, come se appartenesse alla casta nobiliare. Il matrimonio con Bianca, l’erede della famiglia dei Trao, che ormai non ha più niente, se non un palazzo, che all’inizio del racconto appare incendiato, destinato dunque a consumarsi e a tramontare, consente a Gesualdo la scalata sociale, anche se egli non si sentirà mai appartenente a quel mondo; e come quel mondo mal lo sopporta, ricambiato con il medesimo atteggiamento, così quanti ne sono esclusi finiscono per rigettarlo. Sembra la descrizione di un rivolgimento sociale. E in parte lo è. Ma proprio perché si tratta di un caso e non di una classe che si ribella, non c’è ancora da considerare questa storia come la lettura in anticipo di una rivoluzione destinata a cambiare radicalmente un mondo che appariva consolidato da secoli. Ma qui la rivoluzione è ancora da venire, e non è certo negli auspici e nelle azioni del protagonista, che pensa solo a sé, pensa solo alla sua roba. Anche quando questa diventa l’assoluto, il “deus ex machina”, non si può pensare che sia già l’economia a dettare legge secondo le dottrine e gli schemi poi divenuti dominanti. Questa economia non è ancora quella determinata dalla rivoluzione industriale, che pure andava affermandosi nel resto dell’Europa. Qui siamo in un mondo che è molto periferico e ancora molto radicato negli schemi che sbrigativamente vogliamo definire feudali o medievali, costituiti dalla ricchezza terriera, dovuta soprattutto al latifondo. La ricchezza non è ancora data dalla finanza, dal possedere e dal gestire capitali, mediante i quali è possibile rinnovare la società e modificare radicalmente il vivere. Qui si respira un forte conservatorismo, anche se appare intaccato quel mondo aristocratico-terriero che deve certamente cambiare pelle, se vuol conservare il suo potere. È quanto poi succede con “Il Gattopardo” che descrive magistralmente questo mondo decadente. Per il momento Verga si limita a descrivere “realisticamente” questo mondo proprio a partire dal personaggio che ne riveste i connotati e che diventa l’emblema di un mondo ormai morente e da rivoluzionare, proprio quando lui pensava di essere il vero e solo rivoluzionario con le sue ferree leggi.

Gesualdo è a suo modo rivoluzionario, ma ignaro del significato di ciò che sta succedendo. Segue il suo impulso di lottatore, e crede di poter insegnare la lezione agli altri, prima fra tutte la figlia, citando l’esempio probatorio di se stesso. La lezione prevede come punti salienti: l’amore supremo della roba, come un tabù inviolabile, inculcato a mo’ di ritornello, il conflitto universale degli interessi, il sospetto e la difesa contro il prossimo. (Campailla, p. 31)

È un eroe? Fu vera gloria?

Ecco come compare il “nostro eroe” in scena. Il suo parlare è già sufficiente a delinearlo, anche se lo scrittore non interviene a descriverne i tratti somatici e psicologici. Vengono fuori direttamente dalla situazione, sempre per il gioco della “impersonalità” dello scrittore e per quella forma di realismo che rende lo stesso linguaggio usato più che sufficiente a stagliare una macchietta secondo quel genere di teatralità che non manca mai al Verga.

Mentre i muratori si riparavano ancora dall’acquazzone dentro il frantoio di Giolio vasto quanto una chiesa facendo alle piastrelle, entrò il ragazzo che stava a guardia sull’uscio, addentando un pezzo di pane, colla bocca piena, vociando: — Il padrone!… ecco il padrone!…

Dietro di lui comparve mastro—don Gesualdo, bagnato fradicio, tirandosi dietro la mula che scuoteva le orecchie.

Bravi!… Mi piace!… Divertitevi! Tanto, la paga vi corre lo stesso!… Corpo di!… Sangue di!…

Agostino, il soprastante, annaspando, bofonchiando, affacciandosi all’uscio per guardare il cielo ancora nuvolo coll’occhio orbo, trovò infine la risposta: — Che s’aveva a fare? bagnarci tutti?… La burrasca è cessata or ora… Siamo cristiani o porci?… Se mi coglie qualche malanno mia madre non lo fa più un altro Agostino, no!

Sì, sì, hai ragione!… la bestia sono io!… Io ho la pelle dura!… Ho fatto bene a mandare qui mio fratello per badare ai miei interessi!… Si vede!… Sta a passare il tempo anche lui giuocando, sia lodato Iddio!…

Santo, ch’era rimasto a bocca aperta, coccoloni dinanzi al pioletto coi quattrini, si rizzò in piedi tutto confuso, grattandosi il capo. Gesualdo, intanto che gli altri si davano da fare, mogi mogi, misurava il muro nuovo colla canna; si arrampicava sulla scala a piuoli; pesava i sacchi di gesso, sollevandoli da terra: — Sangue di Giuda!… Come se li rubassi i miei denari!… Tutti quanti d’intesa per rovinarmi!… Due giorni per tre canne di muro? Ci ho un bel guadagno in questo appalto!… I sacchi del gesso mezzi vuoti! Neli? Neli? Dov’è quel figlio di mala femmina che ha portato il gesso?… E quella calce che se ne va in polvere, eh?… quella calce?… Che non ne avete coscienza di cristiani? Dio di paradiso!… Anche la pioggia a danno mio!… Ci ho ancora i covoni sull’aia!… Non si poteva metter su la macina intanto che pioveva?… Su! animo! la macina! Vi do una mano mentre son qua io… (MDG, parte I, cap. IV, p. 73-74)

Il linguaggio non è più quello “veristico” del precedente romanzo, dove la parlata, non solo dei personaggi, ma dello scrittore stesso, rifletteva il mondo siciliano.

Il metodo dell’impersonalità si traduce qui in uno stile asciutto ed essenziale, in una sintassi fatta di periodi brevi ed incisivi, che trascina con sé ogni elemento lessicale, senza dare rilievo alle singole parole, mettendo in piena evidenza i gesti e le azioni: sparisce la vece del “narratore popolare” e la narrazione sembra fondarsi su un’ottica totalmente oggettiva, porsi come secca registrazione della violenza della realtà. I punti di vista dei personaggi, e soprattutto quello del protagonista, sono illuminati dall’interno, attraverso l’uso del discorso indiretto libero; e i loro rapporti emergono dall’incalzare dei dialoghi (il dialogo qui si rivela come strumento micidiale, con cui i personaggi si maltrattano e si corrodono reciprocamente). Se manca la voce “corale” dei Malavoglia, sono però numerose le scene collettive, cariche di animazione, nelle quali si sovrappongono gesti guizzanti e scomposti (a cominciare dalla scena iniziale che descrive l’incendio del vecchio palazzo dei Trao). (Ferroni, p. 429)

Comunque, il protagonista è davvero l’eroe del romanzo ed ha un rilievo davvero grande …Tutta la rappresentazione converge comunque sul protagonista, sulla dimensione economica della sua esistenza, che ha qualcosa di assoluto e anche di eroico: Gesualdo è un vero eroe della “Roba”, è l’immagine suprema della forza umana che accumula, che domina la realtà fisica. Ma la sua forza viene contaminata e piegata alla sottile vanità che lo induce a cambiar classe, ad abbandonare le sue origini contadine per entrare nel ceto più elevato, tra coloro che sempre hanno detenuto il potere: il suo è un dramma che incarna anche un fenomeno più vasto, quella dell’ascesa di una nuova borghesia imprenditoriale, che nella Sicilia, dominata ancora da forme feudali, trovava ostacoli particolarmente gravi; ma collocando il tempo del romanzo all’incirca tra il 1820 e il 1848, Verga arretra questo dramma a una fase storica precedente, quando la società siciliana è attraversata da tensioni e turbamenti, ma non è ancora a contatto con la modernità e resta chiusa in se stessa, autosufficiente. (Ferroni p. 429)

Così quella che poteva sembrare una scalata verso il potere per uscire da un sistema chiuso, appare in Gesualdo come un calcolo meschino, come una sorta di sacro furore per la roba, che non ha con sé valori che si possono definire umani. E così lui pure è destinato allo sfacelo, allo stesso modo con cui vede destinata alla scomparsa quella nobiltà terriera che non ha il senso sacrale della roba e proprio per questo è sulla strada del suo esaurirsi. Difensore di se stesso, tenace assertore di questo culto, non ha la possibilità né di godere, né di sentirsi pienamente realizzato. Non è e non potrà mai essere “glorioso” proprio per questo suo destino da … vinto!

Il volto “umano” del protagonista accanto alle donne

Tutto dedito alla roba, dunque? Tutto e solo costruito sul possedere, sull’avere e trafficare? Gesualdo ha pure un’anima! Anche ad essere domi-nato dall’istintività, quello che lo fa essere una … bestia nelle sue reazioni, egli è comunque dotato pure di una sua sensibilità. È dunque un uomo, la cui sensibilità viene recuperata sotto l’ammasso della roba che domina, attraverso le figure femminili, che ruotano attorno a lui. Sono di fatto figure dominate, soggiogate dalla sua forte personalità; e tuttavia è proprio dalla loro presenza che egli ritrova un’anima. C’è innanzitutto Diodata, la sola donna veramente amata, anche a trattarla come serva: anche qui i pochi sentimenti che traspaiono sono quelli vissuti senza particolare trasporto, da un uomo, che non è propriamente gretto, ma non è neppure capace di comunicare ciò che appartiene al cuore. Eppure qualcosa di umano affiora …

Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: — il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch’essa avidamente nella bica dell’orzo, povera bestia — un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava. Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto: — Tu non mangi?… Cos’hai?

Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato.

Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!

Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: — Benedicite a vossignoria!

Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche — gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!…

Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!…

Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: — Te’, bevi! non aver suggezione!

Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s’attaccò al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere. — Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!…

Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta rossa. — Tanta salute a vossignoria! 

Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accan-to all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in pie-di. Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio.

Eh? Diodata? Dormi, marmotta?…

Nossignore, no!…

Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal son-no, col mento rilassato, le gambe fiacche.

Dormivi!… Se te l’ho detto che dormivi!…

E le assestò uno scapaccione come carezza. Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto… gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma… Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! — Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!… — Più colpi di funicella che pane! — Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna… Il padre non voleva, perchè aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. — Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo… la fabbrica del Molinazzo… Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio… e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa… — E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!… — Mastro Nunzio non voleva saperne… Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. “Fa l’arte che sai!” — Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore…. E ordinava “bisogna far questo e quest’altro„ per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. — La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto, e Speranza carica di famiglia com’era stata lei… — un figliuolo ogni anno…. — Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. — Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! — Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!… La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!… — Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!… — Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. — Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! — trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi — le liti fra tutti loro, quando gli affari non andavano bene. — Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. — Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. — Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto„; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce — la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore… Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!… Hai le spalle grosse anche tu… povera Diodata!…

Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta, e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano, e si spandevano lontane, nell’aria sonora. La luna, ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi.

(MDG, parte I, cap. IV, p. 81-84)

Proprio l’appartenenza di quella donna alla … roba la fa essere, a modo suo, amata. E quel poco di sentimentale che Gesualdo lascia passare dalle sue parole, è sufficiente perché lei si rannicchi accanto a lui. E in quel suo posarsi, serena e rasserenante anche la natura circostante diventa un paesaggio … poetico! Le altre due donne della sua vita, che sono pur sempre determinanti perché la sua esistenza non si riduca alla sola questione della roba, sono rispettivamente Bianca, la moglie, e Isabella, la figlia. La prima appartiene alla famiglia Trao, nobile e tuttavia spiantata; solo con il matrimonio, a Gesualdo è possibile entrare a far parte del mondo inaccessibile diversamente, e, sempre per questo matrimonio, è possibile alla famiglia decaduta nei suoi mezzi di sussistenza di avere un futuro. Allo stesso modo anche la figlia Isabella, per la quale la famiglia Trao afferma di avere ancora la discendenza assicurata, anche se nel suo sangue scorre quello del “villan rifatto”, è chiamata, se non addirittura costretta, a dare continuità alla famiglia con la medesima aspirazione che ha coltivato e perseguito don Gesualdo nel suo arrampicarsi sulla scala sociale: ella sarà sposa di un giovane di famiglia d’alto lignaggio. Insomma anche laddove l’amore dovrebbe avere il suo spazio vitale si insinua la dura legge della gretta visione economica, che fa pensare di salvare la … roba grazie a queste parentele che assicurano la continuità di ciò che conta: non lo scorrere di sangue antico nelle nuove vene, ma lo scorrere di beni in mani sicure, nelle mani di chi può garantirne la conservazione e la crescita.

In Mastro – don Gesualdo, invece, i vari aspetti economici servono al Verga per darci in scorcio un ben preciso ritratto della realtà siciliana e per meglio raffigurare, inquadrandola in essa, l’umanità dei suoi personaggi: in particolare di don Ninì e di donna Giuseppina, rappresentata con un’oggettività di sguardo che non esclude però un’implicita interpretazione critica. Ella mostrava “in tutta la persona l’incuria e la trascuraggine della signora ricca che non ha bisogno di parere, della moglie che ha cessato di far figliuoli e non deve neppure piacere al marito. E sulla bocca sdentata teneva fisso un sorriso di povera, il sorriso umile di chi viene a sollecitare un favore …”. La presenza dei due aggettivi da noi sottolineati non è certo casuale, ma serve a farci vedere quanto sia gretta ed umiliante la commedia della roba che anche lei recita; mentre realisticamente rileva la sordida decadenza della nobiltà (opposta chiaramente alla nuova borghesia, al lusso della casa di Gesualdo) e ne sottolineava il drammatico e un po’ patetico tormento teso a mantenere un’ormai misera ricchezza, l’accostamento dei due aggettivi ha infatti il risultato, anche, di evidenziare l’implicito giudizio dello scrittore su tutto un costume e una logica disumana di vita, in cui l’amore per la roba non è neppure più spinta al successo individuale, tensione a suo modo eroica (come per Gesualdo e la Rubiera, anche lei di famiglia contadina), ma meschina e ipocrita politica di conservazione.

(Luperini, p. 160-1)

Nonostante l’amore cercato e vissuto come corollario della sua ricerca spasmodica di accrescere la roba, Gesualdo non ha la possibilità di rinascere autenticamente, di venir fuori da una condizione di vita che lo rinchiude e lo disumanizza. Anche quando deve pensare alla moglie indebolita dal parto e alla figlia da mettere in collegio per assicurarle una buona educazione, Gesualdo è sempre dominato dal suo tarlo, quello che lo rinchiude nella sua amara solitudine.

L’Isabellina, prima ancora di compire i cinque anni, fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell’uffizio anche, e ogni cosa come la figlia di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dote non le sarebbe mancata, perché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s’era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giorno, rosa dal baco che s’era mangiati tutti i Trao, e figliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta ai nemici. – Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio maschio, né l’aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago un’ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover’uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! – Una moglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in peccato mortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tanto di croce, prima, quand’ella aveva detto di sì… Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si in-nestano sull’olivo. Ella, poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo… Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L’orgoglio di quello che a-veva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao… Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E se Domeneddio l’aveva gastigato giusto nei figliuoli che voleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogli una bambina invece dell’erede legittimo che aspettava, Isabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancava a lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi indovinasse d’aver poco da vivere, non avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era lui, don Gesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo; non le faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale come se gli avesse portato una grossa dote. – Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando paragonava la casa in cui il Signore l’aveva fatta entrare con quella in cui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le coperte… Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l’avessero aiutato con bella maniera, senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar nulla, col cuore largo quanto un mare, quell’uomo! Gli stessi parenti di lei glielo dicevano: – Tu non hai parole per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch’è il padrone, e cerca il meglio della tua figliuola. Poi considerava ch’era il Signore che la puniva, che non voleva quella povera innocente nella casa di suo marito, e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forza, e si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. Don Gesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tanti interessi grossi sulle spalle, ed era abituato a vederla sempre così, con quel viso, non ci badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più disfatta del solito, le diceva per farle animo: — Vedrai che quando avrai messo in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. È come strapparsi un dente. Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla poca salute che hai. E bisogna che quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da pic-coli, ciascuno secondo il suo stato… Lo so io!… E non ho avuto chi mi aiu-tasse, io! Quella piccina è nata vestita. Nondimeno, all’ultimo momento vi furono lagrime e piagnistei, quando accompagnarono l’Isabellina al parlatorio del monastero. Bianca s’era confessata e comunicata. Ascoltò la messa ginocchioni, sentendosi mancare, sentendosi strappare un’altra volta dalle viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla. Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro, un presepio del Bongiovanni che pigliava un’intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l’aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d’occhi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Mèndola di seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch’era fratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore colle penne, i cugini del babbo che possedevano cinque feudi l’uno attaccato all’altro, nello stato di Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d’anno, come la piccola Isabella riceveva altri regali più costosi, un crocifisso d’argento, un rosario coi gloriapatri d’oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, nascevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un’immagine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d’alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell’orecchio delle mamme, in parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare il denaro in frascherie, e una confusione generale fra chi era stato sempre in prima fila, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio, o si seccavano a spendere l’osso del collo pel buon piacere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. (…) Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine, guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. — Così il pesco non s’innesta all’ulivo. — Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch’era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lì, nell’amore della sua creatura. Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev’essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l’allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao — bel guadagno che ci aveva fatto! — La piccina diceva sempre: — Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao.

(MDG. Parte III, cap. I, p. 185-188)

Si potrebbe dire che proprio da queste pagine traspare quel tipo di umanesimo, mai del tutto tradito da parte del Verga: il suo verismo non abbruttisce del tutto le figure umane, e a partire dalla vicinanza delle figure femminili, anche il protagonista si ritrova con un cuore umano, pur vedendosi sempre mal considerato, ben poco stimato.

IL PESSIMISMO VERGHIANO

Non esce più rinsavito da queste relazioni che avrebbero dovuto “umanizzarlo”. Ma neppure il quadro storico – sociale che va delineando un mondo nuovo, per quanto ancora tutto da costruire, riesce a farlo rinsavire. I rumori delle rivolte popolari che arrivano come richiami alla necessità di pensare un mondo diverso, un mondo completamente rinnovato, non vedono don Gesualdo capace di reagire nel miglior modo, magari con la speranza che finalmente sia arrivata la sua ora per dominare. Tutt’altro. Egli pensa piuttosto che dai rivolgimenti politici in corso gli debbano derivare solo danni, con la sua roba che egli sente venir meno, non solo perché ci sono questi rivolgimenti, ma perché lui stesso è destinato a sparire mentre si tiene in corpo un tumore che lo consuma.

Appena spuntò il giorno aprì il balcone per chiamare Nardo il manovale, e mandarlo da tutti i parenti, ché Bianca, poveretta, stava assai male, se volevano vederla. Per la strada c’era un via vai straordinario, e laggiù in piazza udivasi un gran sussurro. Mastro Nardo, al ritorno, portò la notizia.

Hanno fatto la rivoluzione. C’è la bandiera sul campanile.

Don Gesualdo lo mandò al diavolo. Gliene importava assai della rivoluzione adesso! L’aveva in casa la rivoluzione adesso! Ma Zacco procurava di calmarlo.

Prudenza, prudenza! Questi son tempi che ci vuol prudenza, caro amico.

Di lì a un po’ si udì bussare di nuovo al portone. Don Gesualdo corse in persona ad aprire, credendo che fosse il medico o qualchedun altro di tutti coloro che aveva mandato a chiamare. Invece si trovò di faccia il canonico Lupi, vestito di corto, con un cappellaccio a cencio, e il baronello Rubiera che se ne stava in disparte.

Scusate, don Gesualdo… Non vogliamo disturbarvi… Ma è un affare serio… Sentite qua…

Lo tirò nella stalla onde dirgli sottovoce il motivo per cui erano venuti. Don Ninì da lontano, ancora imbroncito, approvava col capo.

S’ha da fare la dimostrazione, capite? Gridare che vogliamo Pio Nono e la libertà anche noi… Se no ci pigliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi. Non diamo cattivo esempio, santo Dio!

Ah? La stessa canzone della Carboneria? — saltò su don Gesualdo infuriato. — Vi ringrazio tanto, canonico! Non ne fo più di rivoluzioni! 

Bel guadagno che ci abbiamo fatto a cominciare! Adesso ci hanno preso gusto, e ogni po’ ve ne piantano un’altra per togliervi i denari di tasca. Oramai ho capito cos’è: Levati di lì, e dammi il fatto tuo!

Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro.

Io difendo la mia roba, caro voi! Ho lavorato… col mio sudore… Allora… va bene… Ma adesso non ho più motivo di fare il comodo di coloro che non hanno e non posseggono…

E allora ve la fanno a voi, capite! Vi saccheggiano la casa e tutto!

Il canonico aggiunse che veniva nell’interesse di coloro che avevano da perdere e dovevano darsi la mano, in quel frangente, pel bene di tutti… Se no, non ci avrebbe messo i piedi in casa sua… dopo il tiro che gli aveva giocato per l’appalto dello stradone…

Scusate! Giacché volete fare il sordo… Sapete che avete tanti nemici! Invidiosi… quel che volete… Intanto non vi guardano di buon occhio… Dicono che siete peggio degli altri, ora che avete dei denari. Questo è il tempo di spenderli, i denari, se volete salvar la pelle!

A quel punto prese la parola anche don Ninì: — Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere  Nanni l’Orbo…. per chiudergli la bocca…. Voi pel primo!…. Mi dispiace che m’hanno visto venire con mia moglie, l’altra sera….

Già, — osservò il canonico, — siamo giusti. Chi poteva avere interesse che compare Nanni non chiacchierasse tanto?… Una bocca d’inferno, signori miei! La storia di Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano contro anche i figliuoli…. vedrete, don Gesualdo!

Va bene, — rispose don Gesualdo. — Vi saluto. Non posso lasciar mia moglie in quello stato per ascoltar le vostre chiacchiere. — E volse loro le spalle.

(MDG. Parte IV, cap. II p. 245-6)

Arriva la rivoluzione, quella che vorrebbe spazzar via il mondo aristocratico della Restaurazione, ma don Gesualdo, che intende far parte per se stesso e difendere la sua roba, non vuole saltare sul carro della rivoluzione e neppure mettersi a capo di quel mondo che aveva tentato di scalare e di sostituire con la sua … roba. L’uomo considera chiacchiere tutte quel gran vociare, parole senza costrutto e si tira fuori accampando come scusa il problema della moglie morente. Ma di fatto è lui stesso che va inesorabilmente verso lo sfacelo, mentre c’è un mondo che sta crollando. Nel dialogo concitato tra appartenenti allo stesso mondo se non altro per i rapporti di parentela, improntati comunque all’ipocrisia, vien fuori un don Gesualdo che sta sulla difesa della sua roba e non ha a cuore l’interesse generale. Di lì a poco si dovrà convincere che neppure la sua per-sona e la sua roba potrà portare con sé, quando la malattia mortale lo prende. Di lì un cupo e tragico pessimismo nei confronti della vita.

Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un batter d’occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dello zio, quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio, confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercava erbe e medicine, consultava Zanni e persone che avevano segreti per tutti i mali. Ciascuno portava un rimedio nuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la reliquia e l’immagine benedetta del santo, che don Luca volle provare colle sue mani. Non giovava nulla. L’infermo badava a ripetere: — Non è niente… un po’ di colica. Ho avuto dei dispiaceri. Domani mi alzerò…

Ma non ci credeva più neppur lui, e non si alzava mai. Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l’agguantava e l’affogava nelle ricchezze. Il signor genero scrisse da Palermo onde avere notizie precise. Parlava anche d’affari da regolare, e di scadenze urgenti. Nella poscritta c’erano due righe sconsolate d’Isabella, la quale non si era ancora riavuta dal gran colpo che aveva ricevuto poco prima. Speranza, che era presente mentre il fratello s’inteneriva sulla lettera, sputò fuori il veleno: — Ecco! Ora vi guastate il sangue, per giunta! Potreste andarvene all’altro mondo… solo e abbandonato, come uno che non ha né possiede!… Chi vi siete trovato accanto nel bisogno, ditelo? Vostra figlia vi manda soltanto belle parole… Suo marito però va al sodo!

Don Gesualdo non rispose. Ma di nascosto, rivolto verso il muro, si mise a piangere cheto cheto. Sembrava diventato un bambino. Non si riconosceva più. Allorché Diodata, sentendo ch’era tanto malato, volle andare a visitarlo e a chiedergli perdono per la mancanza che gli avevano fatto i suoi ragazzi, la notte della sommossa, rimase di stucco al vederlo così disfatto, che puzzava di sepoltura, e gli occhi che a ogni faccia nuova diventavano lustri lustri. 

Signor don Gesualdo… son venuta a vedervi perché mi hanno detto che siete in questo stato… Dovete perdonare… a quegli screanzati che vi hanno offeso… Ragazzi senza giudizio… Si son lasciati prendere in mezzo, senza sapere quello che facessero… Dovete perdonare per amor mio, signor don Gesualdo!… (MDG. Parte IV, cap. IV, p. 265-6)

Non è ancora la fine. Ma è come se lo fosse. C’è una corrosione esterna, dove tutto gli è portato via. E vi è una corrosione interna, che lo vede smagrito con un ventre ingrossato, dove c’è il male a consumarlo lentamente e progressivamente. L’unica che gli sta accanto è la donna veramente amante e perciò anche veramente amata. Le ultime parole con la richiesta di perdono sono quelle richiamate nel vangelo. Ma don Gesualdo non è affatto un Cristo crocifisso che possa arrivare al perdono. Non c’è spazio che per la solitudine estrema e una disperazione senza conforto

L’impassibile realismo di Verga delinea qui un’immagine assolutamente negativa della realtà sociale, mostra con tragica potenza come nessun valore autentico (nemmeno quello così crudamente economico della lotta per la “roba” e per l’ascesa sociale) sia praticabile in un mondo pieno di maschere perverse e di rivoltanti volgarità, nel quale domina il sordo rancore di ogni uomo verso ogni altro uomo (e per questo Mastro – don Gesualdo è stato definito il primo romanzo italiano dell’alienazione. A questo mondo tutto negativo, d’altra parte, Verga non contrappone alternative: l’orizzonte del suo grande romanzo (e del paesaggio siciliano che vi fa da sfondo) risulta quindi ancora più carico di tensione, come rappreso in un mondo intricato che non prevede alcuna esplosione liberatoria. (Ferroni, p. 430).

È una visione decisamente molto pessimista, che non consente di proseguire in visioni del mondo aperte ad una vera rinascita. Non restano che piccoli abbozzi, quelli delle Novelle, dove i singoli protagonisti, seppur risultano macchiette, hanno una loro anima, con la quale cercare e ritrovare una umanità diversa, sempre possibile.

BIBLIOGRAFIA

1. Giovanni Verga, MASTRO-DON GESUALDO

(a cura di Sergio Campailla), Newton Compton, 2021

2. Romano Luperini, PESSIMISMO E VERISMO IN GIOVANNI VERGA,

UTET, 2009

3. Giulio Ferroni, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, Vol. III,

Elemond, 1991