CIPRIANO: UOMO DI PREGHIERA – IL PADRE NOSTRO

Ciò che prevale nella figura e nell’opera di Cipriano è la sua attività pastorale come vescovo, in un frangente altamente drammatico. È un momento particolarmente difficile per la persecuzione, che mira a colpire la gerarchia per avere i beni della Chiesa; e lo è ancora di più per la divisione nella Chiesa, a causa delle incomprensioni che si sono create circa l’atteggiamento da tenere nei confronti dei fedeli “scivolati” nell’apostasia durante le violenze usate per tentare di distoglierli dalla retta fede. Il vescovo si era dovuto rifugiare nel deserto per sottrarsi alla cattura, dando così una immagine di debolezza, che non gli apparteneva. Ma da qui, soprattutto con le sue numerose lettere, egli cercava di confortare e di stimolare in positivo, soprattutto per reagire alla tentazione di lasciarsi andare alla divisione e alla maldicenza. Il suo biografo, il diacono Ponzio, mette in risalto l’azione del vescovo dentro le situazioni dolorose e pericolose, in mezzo alle quali si deve riconoscere la sua fede indomita e soprattutto quel senso di pietà, che lo fa essere fedele a Dio e nel contempo misericordioso e benevolo nei confronti degli uomini, soprattutto se in condizioni di debolezza. Nelle linee biografiche in genere non si dà conto del lavoro di incoraggiamento e di assistenza in occasione di una pestilenza, in cui Ponzio lamenta la mancanza della pietà cristiana …

Tempo appresso scoppiò una crudele pestilenza che infuriò con paurosa violenza e di giorno in giorno invase una per una le case della gente in preda al terrore, strappando con violenza innumerevoli persone dalle loro abitazioni. Tutti inorridivano, piangevano, cercavano di evitare il contagio, empiamente abbandonavano i loro cari, quasi che uno potesse tener lontano, insieme con colui che stava per morire di peste, anche la stessa morte. Intanto giacevano a terra per tutta la città, quartiere per quartiere, non già corpi bensì tantissimi cadaveri e sembravano chiedere a se stessi la misericordia di coloro che passavano, con la visione della comune sorte. (…) Sarebbe pertanto delittuoso passare sotto silenzio come si sia comportato in tale contingenza il pontefice di Cristo e di Dio, che aveva superato i pontefici di questo mondo per pietà e tanto più per verità di religione. Innanzitutto, riuniti i fedeli, li istruisce sui beni della misericordia e con esempi tratti dalla sacra scrittura insegna quanto giovino le opere di pietà per guadagnar meriti presso Dio, (…) “Egli che fa sorgere sempre il suo sole e dopo invia le piogge per nutrire le sementi, tutti questi beni non li concede soltanto ai suoi: e chi dichiara di essere anche lui figlio di Dio, non imiterà l’esempio del padre? Bisogna che noi ci comportiamo come esige la nostra nascita: coloro che sono rinati per grazia di Dio non debbono essere degeneri ma piuttosto debbono dimostrare con l’emulazione della bontà che nei figli è passato il seme del buon padre”.

(IX,1-3.5-6.8-9)

Il biografo vuol fare capire che Cipriano non aveva solo l’incombenza di reagire alle tensioni del periodo e quindi di rintuzzare i colpi provenienti dalla persecuzione esterna e dalle divisioni interne alla Chiesa. Per lui, come pastore, era pure necessaria la formazione dei suoi fedeli, perché in essi fosse sempre più forte la coscienza di appartenere a Dio e di vivere nella consapevolezza di essere figli di Dio. E in effetti c’è anche una simile attenzione che traspare da quanto scrive, come pure da quanto vive: bisogna riconoscere che egli vive sino in fondo quanto si sforza di precisare con le sue riflessioni, che sono essenzialmente i contenuti dei suoi interventi a voce, sia nelle omelie, sia nelle spiegazioni che dà mediante la catechesi. In questo lavoro si deve riconoscere l’uomo che Cipriano è sempre stato, anche prima della conversione: non sappiamo nulla, ma c’è da supporre che molta parte del suo tempo fosse dedicato alla lettura e alla riflessione, risultando un uomo ammirevole in questo ambito, soprattutto per quanto egli si mette a scrivere svolgendo il suo compito di maestro. Evidentemente, prima della conversione egli godeva di molto tempo libero e dunque coltivava quell’“otium”, tipico degli uomini di cultura latini, che avevano a cuore lo studio e l’applicazione alle “lettere”. Da vescovo, Cipriano non sembrerebbe avere a disposizione molto tempo, ma di fatto il periodo, che il biografo definisce con la parola “esilio”, è stato da lui vissuto all’insegna del lavoro culturale, e più ancora, della formazione religiosa. Secondo Ponzio, Cipriano trasforma il momento del suo nascondimento come un periodo utile per la sua personale formazione e per conservare con la città e con la comunità cristiana un rapporto che servisse da stimolo continuo per la crescita culturale e spirituale.

Perciò, anche se sarà stato relegato in un luogo nascosto e fuori di mano, colui ch’è unito alle cose del suo Dio non può considerare questo un esilio. Aggiungi invece che, essendo integralmente al servizio di Dio, egli è forestiero anche nella sua città: poiché infatti si astiene castamente da desideri carnali per ispirazione dello Spirito santo e depone il modo di vita dell’uomo vecchio, egli è estraneo alla vita terrena anche quando si trova fra i suoi concittadini e, vorrei dire, addirittura fra gli stessi genitori. (XI,4)

Probabilmente un contesto simile deve aver favorito in Cipriano un lavoro di riflessione su argomenti e questioni che non sarebbero mai stati affrontati, se a dominare la scena sono sorti i problemi di natura politica, come quelli determinati dalla persecuzione e quelli di natura dogmatica sul contenzioso con scismatici ed eretici, che spesso contestavano anche a lui la sua posizione di vescovo. Egli si rende conto che le opinioni più disparate, e spesso anche più intransigenti e fanatiche, derivavano da una visione poco chiara degli argomenti religiosi, dovuta ad una formazione insufficiente. Lui stesso non aveva avuto una formazione adeguata al momento stesso in cui viene chiamato alle sue responsabilità nella Chiesa e per questo sente il bisogno di una formazione più precisa, che nel periodo dell’esilio può intraprendere per essere il Maestro della sua comunità. Tocca al vescovo istruire la gente, anche se in questi anni, costretto a nascondersi, non può svolgere questo compito educativo. Può tuttavia dedicarsi ad una studio più attento, che poi traduce in opere, mai ponderose, ma sempre ben curate e finalizzate al tema prefissato. Non ci troviamo, dunque, in presenza di volumi di alto livello, che vorrebbero rappresentare un’accurata esposizione delle fondamentali verità, ma libretti utili ad offrire spiegazioni semplici ed immediate per la traduzione operativa. Nasce così una nuova letteratura, che non ha il solo scopo “apologetico”, come era avvenuto spesso in relazione alle accuse infamanti con cui veniva trattata la Chiesa nel suo agire e nella composizione dei suoi fedeli, i quali venivano incolpati di nefandezze nei loro incontri segreti; ha pure lo scopo educativo in riferimento ad alcune componenti della vita quotidiana del fedele, come è di fatto la preghiera. L’educazione ad essa passa indubbiamente dall’esempio, ma anche da quel genere di spiegazione semplice, come appare nel testo di Cipriano che aiuta a comprendere ciò che viene comunemente detto nelle assemblee, come pure nella preghiera quotidiana dei singoli.

DE DOMINICA ORATIONE

Nasce così l’opera più nota del grande vescovo africano, che diventa il primo saggio sull’argomento, poi ripreso in continuazione, sia sotto il profilo esegetico, considerando questa preghiera come un testo proveniente direttamente dal vangelo, sia sotto il profilo spirituale, perché il “Pater” viene utilizzato spesso nella preghiera individuale e corale, e necessita di una particolare spiegazione per incrementare il profitto spirituale del credente.

La preghiera del “Padre nostro” appare nei vangeli in due versioni, che probabilmente sono quelle in uso nelle diverse comunità cristiane, accanto, ad altre formule simili, a noi non pervenute. Di fatto si è imposta quella che troviamo in Matteo 6,9-13. Essa è situata nel contesto del famoso discorso della Montagna, dove Gesù, volendo chiedere ai suoi una preghiera “del cuore”, cioè vissuta interiormente e non solo come espressione ripetuta, suggerisce il “Padre nostro”, più come metodo di approccio nei confronti di Dio, che non come formula da imparare a memoria e da ripetere sempre allo stesso modo. Si dovrebbe pensare che Cipriano abbia rettamente inteso questa indicazione evangelica, e perciò abbia voluto affrontare il testo che già era in uso, perché se ne comprendesse il vero significato e perciò venisse recitato nella maniera più consona. Qui si deve vedere l’intento pedagogico e il grande valore pastorale di questa sua proposta, in cui non c’è da difendere nulla contro modi sbagliati di pregare, contro forme ereticali di intendere il testo evangelico, o interpretazioni rigide che lo snaturano.

PREGHIERA NELLO SPIRITO

Fin dalle prime battute con cui l’autore elabora la sua spiegazione, si deve riconoscere che a Cipriano interessa richiamare l’atteggiamento che dobbiamo definire spirituale. L’approccio da tenere con il Padre, riconosciuto come tale, non è quello della distanza, come se Dio fosse nella stratosfera, quanto piuttosto quello di chi nella comunione o comunicazione dello Spirito, scopre Dio già dalla propria parte per potersi trovare a proprio agio, alla stessa maniera con cui il Figlio rimane legato con il Padre in un rapporto familiare, quello che è proprio dello Spirito, essendo lo Spirito ciò che appartiene di connaturato sia al Padre, sia al Figlio.

Egli fra gli altri salutari suoi ammonimenti e divini precetti, con i quali venne in aiuto al suo popolo per la salvezza, diede anche la norma della preghiera, ci suggerì e insegnò quel che dovevamo domandare. Colui che ha dato la vita, ha insegnato anche a pregare, con la stessa benevolenza con la quale s’è degnato di dare e fornire tutto il resto; e ciò perché parlando noi al Padre con la supplica e l’orazione che il Figlio insegnò, fossimo più facilmente ascoltati.

Aveva già predetto che sarebbe venuta l’ora in cui i veri adoratori avrebbero adorato il Padre in spirito e verità (Giovanni 4,23),  ed egli adempì la promessa perché noi, ricevendo dalla sua santificazione lo spirito e la verità, adorassimo veramente e spiritualmente in grazia del suo dono. Quale orazione infatti può essere più spirituale di quella che ci è stata data da Cristo, dal quale ci è stato mandato anche lo Spirito Santo? Quale preghiera al Padre può essere più vera di quella che è stata proferita dalla bocca del Figlio, che è verità? Pregare diversamente da quello che egli ci ha insegnato non sarebbe soltanto ignoranza ma anche colpa, avendo egli stesso affermato: Respingete il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione! (Marco 7, 8). (DDO 2)

Preghiamo, dunque, fratelli, come Dio, nostro Maestro, ci ha insegnato. È preghiera amica e familiare pregare Dio con le sue parole, far salire ai suoi orecchi la preghiera di Cristo. Riconosca il Padre le parole del Figlio suo quando preghiamo; egli che abita dentro il nostro cuore, sia anche nella nostra voce. E poiché è nostro avvocato presso il Padre (1Giovanni 2,1), usiamo le parole del nostro avvocato, quando, come peccatori, supplichiamo per i nostri peccati. Se egli ha detto che qualunque cosa chiederemo al Padre nel suo nome ci sarà data (Giovanni 16,23), impetreremo più efficacemente quel che domandiamo in nome di Cristo, se lo domanderemo con la sua preghiera. (DDO 3)

È evidente che prima ancora del testo e dell’esame che si può fare delle parole e delle immagini usate, la preghiera in esame richiede una comunicazione che non può prescindere dallo Spirito, anche a risultare per noi difficile comprendere appieno tale significato, non essendo abituati a concepire lo Spirito. Del resto il Discorso della Montagna è proprio impostato su una concezione della legge, che non si limita alle formalità, ma neppure ad una lettura letterale e rigida del testo, come spesso si tende a fare. A leggere attentamente il vangelo, si scopre che l’evangelista vuole proprio mettere a confronto una interpretazione formale del dettato di legge e una visione più profonda della stessa: chi vive la legge in modo formale è “farisaico”, chi invece la conduce alle estreme conseguenze, la vive nello Spirito. Riprendendo i comandamenti scritti da Mosè sul Sinai, l’evangelista chiarisce che solitamente di essi si dà una lettura secondo i propri intendimenti; così rischiano di essere fraintesi. Fa dire a Gesù: “Avete inteso che fu detto …”; come a dire che spesso ci si ferma alla sola esteriorità, mentre ad una lettura più profonda, la legge impegna in maniera più seria. Si può pensare che basti non uccidere, perché il comandamento sia osservato. Eppure si può portare la morte dell’altro anche senza versare il sangue, quando la mortificazione è tale da annientare l’altro con parole offensive e dure. Occorre dunque una lettura del testo che colga il senso più profondo del comandamento. Ma questo vale anche nei confronti della preghiera. La formula è chiara e come tale va certamente usata; e tuttavia se viene compreso lo spirito profondo ci si rende conto che il testo dice molto di più di quanto al momento si riesce a comprendere.

La preghiera fatta nello Spirito dice la “modalità” e non semplicemente la formula; esprime un atteggiamento interiore e non solo pose esteriori; comunica un cuore e quindi una disposizione interiore e non solo parole. È già espressa una visione molto profonda della preghiera, che si dovrebbe intendere come “cosa del cuore” e non semplicemente richiesta a viva voce secondo ciò che sempre più si ritiene debba essere intesa e soprattutto praticata la preghiera. Essa non dovrebbe neppure proporsi come “pratica”, appunto perché non deriva da una “prassi”, un agire cioè secondo la tecnica; è piuttosto un “fare con il cuore”, secondo l’espressione che ricorre nel Vangelo di Matteo in greco, laddove si trova scritto: “Non chi dice: Signore, Signore …, entrerà nel Regno dei cieli, ma chi “fa” la volontà del Padre” (Matteo 7,21).

Da coloro che pregano, le parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in sé silenzio e timore. Pensiamo di trovarci al cospetto di Dio. Occorre essere graditi agli occhi divini sia con la posizione del corpo, sia con il tono della voce. Infatti come è da monelli fare fracasso con schiamazzi, così al contrario è confacente a chi è ben educato pregare con riserbo e raccoglimento. Del resto, il Signore ci ha comandato e insegnato a pregare in segreto, in luoghi appartati e lontani, nelle stesse abitazioni. È infatti proprio della fede sapere che Dio è presente ovunque, che ascolta e vede tutti, e che con la pienezza della sua maestà penetra anche nei luoghi nascosti e segreti, come sta scritto: Io sono il Dio che sta vicino, e non il Dio che è lontano. Se l’uomo si sarà nascosto in luoghi segreti, forse per questo io non lo vedrò? Forse che io non riempio il cielo e la terra? (Geremia 23, 23-24). E allorché ci raduniamo con i fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile e devoto contegno. Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore. Non è necessario gridare per richiamare l’attenzione di Dio, perché egli vede i nostri pensieri. 

(DDO 4)

L’immagine di Anna, la madre di Samuele, che nel tempio prega muovendo le labbra senza comunque far uscire la voce, viene evocata dall’autore, per dare peso a questa sua convinzione circa la preghiera vissuta interiormente e non ostentata. E ad ulteriore conferma Cipriano ricorre alla figura del pubblicano citato nella parabola evangelica, che, diversamente dal fariseo, prega “umilmente”, perché non osa neppure levare lo sguardo, oltre che la richiesta di perdono, per nulla accennata da colui che in modo superbo ringrazia Dio per il fatto di essere lui, uomo, assolutamente bravo e buono.

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Se Cipriano deve insistere su questi aspetti, vuol dire che non solo avverte il bisogno di essere coerente con i testi biblici che cita, ma che nella stessa comunità cristiana si era introdotta una “pratica” per nulla evangelica e che doveva essere assolutamente corretta, senza forme di durezza e di critica malevola.

PADRE “NOSTRO”

È indubbiamente interessante anche il fatto che Cipriano ci tenga a sottolineare che l’educazione data da Gesù ai suoi discepoli per la preghiera sia quella di non enunciarla in forma individuale e privata, come se dovesse ridursi ad una richiesta singolare. Lo spirito di preghiera esige il senso comunitario, la consapevolezza di una coralità espressiva, anche quando è uno solo ad aprire bocca. La stessa preghiera del “Padre nostro”, per ciò che Gesù stesso suggerisce, deve far sentire il Padre celeste non come un possesso nostro, ma come uno che vuol partecipare del vivere “di noi” e quindi, in ragione della sua paternità, vuole sentirci come figli che formano la sua famiglia.

Innanzitutto il dottore della pace e maestro dell’unità non volle che la preghiera fosse esclusivamente individuale e privata, cioè egoistica, come quando uno prega soltanto per sé. Non diciamo «Padre mio, che sei nei cieli», né: «Dammi oggi il mio pane», né ciascuno chiede che sia rimesso soltanto il suo debito, o implora per sé solo di non essere indotto in tentazione o di essere liberato dal male. Per noi la preghiera è pubblica e universale, e quando preghiamo, non imploriamo per uno solo, ma per tutto il popolo, poiché tutto il popolo forma una cosa sola. Il Dio della pace e maestro della concordia, che ha insegnato l’unità, volle che ciascuno pregasse per tutti, così come egli portò tutti nella persona di uno solo.

(DDO 8)

Questo genere di commento, indubbiamente molto originale per quei tempi, rivela una particolare attenzione dell’autore nella esegesi del testo, che anche oggi appare non così scontato come dovrebbe essere. La visione di un Dio che risulta Padre per ciascuno dei suoi figli, non deve comunque rinchiudere gli stessi figli in una visione individualistica, o, peggio ancora, egoistica del rapporto che si vorrebbe privilegiato con Dio. Del resto si dovrebbe pensare che l’aggettivo “nostro” con cui si designa il Padre, non vada inteso nel senso della “possessività”, come lascia intendere la grammatica: 

nel testo greco non si fa uso dell’aggettivo possessivo, quanto piuttosto del “partitivo”, che vuol considerare Dio, come “partecipe” o “appartenente” a noi e al nostro vivere, sempre comunque in modo plurale, in quanto il suo mettersi in relazione con noi dice che egli ci considera ciascuno nella nostra singolarità, ed anche come componenti di una sola famiglia, così come Dio è uno solo, e tuttavia in quella realtà si devono distinguere, ma non dividere, tre persone.

Con una logica stringente Cipriano ha ben colto la natura di Dio, come relazione di persone nella Trinità e come comunicazione di sé alla famiglia umana, che tale si rivela proprio in rapporto all’unico Dio, che si riconosce “padre”. Sulla base di questa visione di Dio e insieme della pluralità delle persone che si riconoscono nell’unico Dio, il vescovo arriva ad una ulteriore considerazione dell’essere umano. Per il fatto che Dio è Padre e lo è “di noi”, cioè appartenente al nostro vivere umano, noi ci ritroviamo con la “natura” di figli di Dio: non siamo solo qualcosa di aggiuntivo, ma posti in stretta relazione con lui, quella che ci fa essere e sentire come “figli” suoi. La formula usata per definire gli uomini in tale rapporto è quella di “diventare figli”, non perché ci sia un momento in cui questo rapporto non esiste, ma perché noi dobbiamo prendere coscienza di esserlo, e soprattutto, a partire da questa coscienza, noi dobbiamo conseguentemente e coerentemente vivere da figli.

Come sono numerose e grandi le ricchezze della preghiera del Signore! Sono riunite in poche parole ma di una densità spirituale inesauribile, al punto che niente di tutto ciò che deve costituire la nostra preghiera manca in questo riassunto della dottrina celeste. È detto: Pregate così: Padre nostro che sei nei cieli. L’uomo nuovo, che è rinato e reso a Dio per la grazia, dica anzitutto: Padre, perché è diventato figlio. È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto. Ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto, egli ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Giovanni 1, 12). Colui che ha creduto nel suo nome ed è diventato figlio di Dio deve cominciare col rendere grazie e professare che è figlio di Dio. E quando chiama Padre il Dio dei cieli, con questo attesta che rinunzia al padre terreno e carnale della sua prima nascita per riconoscere un solo Padre che è nei cieli. È scritto infatti: Quelli che dicono al padre e alla madre «non ti conosco», e non riconoscono i loro figli, questi hanno osservato la tua parola e custodito la tua alleanza  (Deuteronomio 33, 9). (DDO 9)

L’espressione finale di questo passo può sembrare a noi difficile da intendere e soprattutto da accettare, se non altro perché porta a disconoscere il rapporto generazionale, che si crea nei rapporti familiari, per far prevalere quello che ci fa essere tutti, anche ad appartenere a generazioni diverse, derivati dall’unico “padre”, quello definito“ nei cieli”.

Questa relazione è destinata ad avere il primato, nella misura in cui la coscienza di essere divenuti figli, mette al primo posto quello che è destinato a conservare tale posizione. Cipriano si spinge così a far prevalere questa particolare relazione come quella essenziale ed esistenziale: nel commentare la preghiera egli non si limita a spiegarne le parole, ma a far intendere come la vita stessa possa cambiare nella prospettiva del riconoscimento di Dio secondo questa particolare presentazione che è stata fatta da Gesù Cristo nel Vangelo. Anche il Dio ebraico veniva partecipato nella sua considerazione paterna, perché così lo aveva concepito Abramo nella sua “scoperta” di Dio; e tuttavia l’immagine poi data da Mosè suggeriva una visione di Dio sulla montagna colpita dai fulmini, che neppure si poteva vedere: egli veniva più temuto che amato nella sua paternità misericordiosa. Come appare dal Vangelo, Gesù ne ha parlato, descrivendolo come suo Padre, e soprattutto mediante questa preghiera lo ha fatto diventare il padre di ciascuno, e che ciascuno deve avvertire come il padre comune.

È un po’ scontato che si arrivi a definire il nostro “diventare figli di Dio” con il conseguente richiamo ad assumere un comportamento da figli, che fa pensare ad azioni rivelatrici di un rapporto obbediente e sottomesso da parte degli uomini e un rapporto “paternalistico” da parte di Dio. Se consideriamo bene ciò che scrive Cipriano, non dobbiamo pensare solo a gesti, a volte anche artefatti, o comunque tradotti in essere più con la paura o il reverente timore che non mediante la consapevolezza e la disponibilità interiore. L’autore chiarisce che “la nostra condotta non deve tradire lo Spirito”, evidentemente dando la priorità a quello Spirito che, allora come oggi, si fatica ad intendere, non conoscendolo come meriterebbe.

Quanto è grande la misericordia del Signore, quanto è grande il suo favore e la sua bontà, per farci pregare così in presenza di Dio fino a chiamarlo Padre! E come il Cristo è Figlio di Dio, così anche noi siamo chiamati figli. Nessuno di noi avrebbe mai osato adoperare questa parola nella preghiera: bisognava che il Signore stesso ci incoraggiasse. Ma bisogna che ci ricordiamo, o fratelli carissimi, quando chiamiamo Dio nostro Padre, che dobbiamo comportarci da figli di Dio. Se ci compiacciamo in Dio, nostro Padre, anche lui deve potersi compiacere di noi. Dobbiamo essere come i templi di Dio in cui gli uomini possano incontrare la sua presenza. La nostra condotta non deve tradire lo Spirito; abbiamo cominciato a diventare celesti e spirituali, dobbiamo pensare ad operare tutto ciò che è celeste e spirituale. (DDO 11)

La figliolanza è per Cipriano un rapporto costruito mediante lo Spirito e quindi non si riduce alla sola morale, come viene spesso intesa da noi in un comportamento che deriva da una visione di norme da noi ritenute buone, improntate ai buoni sentimenti, sostenute da un consenso radicato e diffuso.

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Vivere il rapporto di figliolanza con Dio secondo lo Spirito comporta che il legame con lui sia sempre vivo e appassionato, anche quando le circostanza non sembrano favorirlo o anche quando si ha la sensazione che Dio non ci sia o non si faccia sentire. Cipriano non intende la preghiera, e con essa il rapporto che si stabilisce con Dio, sulla base delle emozioni o degli stati d’animo, e neppure degli sforzi morali pur convenienti; il rapporto deve essere costruito dallo Spirito e deve conservarsi nello Spirito. Indicazioni del genere non dovevano essere di casa neppure allora, soprattutto in un contesto di tipo occidentale, come quello della Roma antica. Ormai la cultura e la civiltà romana avevano attecchito anche in Africa; e addirittura in quel periodo la stessa letteratura latina e la stessa arte romana venivano “salvate” dagli scrittori e dagli uomini di cultura di questa “provincia”, in cui la morale e il diritto coltivati a Roma diventavano dominanti e la religione sembrava al servizio di una pretesa moralità tradizionale. Il Cristianesimo non disdegnava queste cose, ma presentava una proposta che metteva al centro lo Spirito. Suggerire una preghiera secondo lo Spirito appariva lì molto innovativo e comunque segno di una visione che derivava direttamente dalla nuova cultura cristiana.

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

VENGA IL TUO REGNO

SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

Successivamente, nella preghiera suggerita da Gesù si dice che il Nome di Dio sia santificato, che il suo Regno possa essere avvertito presente, che la sua volontà paterna si possa produrre nei figli, i quali sono così definiti, se effettivamente vivono la volontà di Dio, divenuta la loro volontà. Sembrano richieste da avanzare a Dio, ed invece sono tre manifestazioni dell’agire di Dio, dentro le quali i cristiani si riconoscono, e di fatto appaiono come autentici figli di questo Padre. Cipriano si sofferma su ciascuna di queste espressioni cercando di offrire di esse il vero significato che hanno nel contesto della preghiera. In modo particolare il vescovo pone la sua attenzione sulla volontà divina, che non viene interpretata come sforzo morale da parte dell’uomo di eseguire tutto ciò che Dio dice. Ancora una volta egli mette l’accento sullo Spirito, perché il volere di Dio procede da Dio come lo Spirito, e non è pertanto una sorta di obbligo da assumere senza discutere, ma è l’impegno che Dio stesso mette con noi, per cui egli appare obbligato nei nostri confronti, anche quando i buoni sentimenti mancano, e non si avrebbe così una buona disposizione d’animo.

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L’amore di Dio non appartiene alla sola sfera del sentimento, ma proviene da un comandamento, e proprio per questo arriva persino ad esercitarsi nei confronti di coloro che sono avvertiti come nemici. Ecco perché Cipriano sembra identificare la volontà con i comandamenti …

Fratelli diletti, queste parole possono ancora significare altro: voi sapete che il Signore ci esorta ad amare i nostri nemici e a pregare per quelli che ci perseguitano. Dobbiamo dunque pregare perché quelli che sono ancora della terra e non del cielo compiano anch’essi questa volontà di Dio alla quale il Cristo si è sottomesso perfettamente per la salvezza dell’umanità. Il Cristo chiama i suoi discepoli non più terra, ma sale della terra (Cfr. Matteo 5,13); e l’Apostolo dice che il primo uomo è tratto dal fango della terra, il secondo dal cielo; dobbiamo somigliare al nostro Padre del cielo che fa levare il sole sui buoni e sui cattivi, che concede la pioggia ai giusti e agli ingiusti (Cfr. Matteo 5,45); per questo motivo il Cristo ci fa pregare per la salvezza di tutti gli uomini. In cielo, cioè in noi, con la fede, si fa la volontà di Dio e noi diventiamo celesti; così pure sulla terra, cioè nei non credenti, chiediamo che si compia la volontà di Dio; che coloro i quali per la loro prima nascita sono ancora terrestri, diventino celesti nascendo dall’acqua e dallo Spirito. (DDO 17)

Tenuto conto della formazione culturale del vescovo, attinta alle opere classiche della latinità, ci potremmo aspettare una visione dominata dalla componente morale, e in parte si può riconoscere questa linea. Prevale tuttavia l’impostazione data in quest’opera alla “visione spirituale”, se non altro perché l’autore citando il vangelo fa derivare tutto dall’insegnamento di Cristo. L’opera è stata scritta nei primi anni del ritiro di Cipriano nel deserto, quando il vescovo è costretto a “fuggire” – così lo accuseranno i suoi detrattori – in presenza di una persecuzione che si accaniva sui capi della Chiesa. Cipriano è divenuto cristiano nel 246 e vescovo nel 249, pur con una notevole cultura assimilata, senza le basi teologiche necessarie per la sua azione pastorale. Tuttavia non sembra mancargli quella cultura di tipo spirituale, che appartengono al territorio africano. Non si è ancora sviluppato il monachesimo degli stiliti, come S. Antonio, o dei cenobiti; e però l’Egitto negli anni successivi alla morte di Cipriano, sarà il cuore di questo fenomeno, mentre già erano comparsi scrittori di notevole fama come Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-254) destinati a lasciare traccia nella Patristica successiva, ma già protesi a far dialogare la nascente cultura cristiana con la filosofia antica.

DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO

Per quanto riguarda le richieste che compaiono nella seconda parte della preghiera suggerita da Gesù da avanzare al Padre, Cipriano si sofferma su quella che riguarda il “pane quotidiano”. A partire dal suo commento esso rappresenta soprattutto il pane eucaristico, senza escludere quello della tavola. Sulla base del fatto che nella versione greca questo pane è definito “sostanziale”, si tende a immaginarlo come quello che contiene la sostanza divina a partire dalla consacrazione. Ma, se pensiamo a questa preghiera nel contesto evangelico, nulla fa supporre che così lo abbia inteso Matteo. Si dovrebbe piuttosto considerare il pane come cibo nutriente ed essenziale, secondo la diffusa maniera di intendere questo particolare prodotto alimentare che appare comunemente sulla tavola. Ciò che più conta per Cipriano è che un tale cibo deve essere considerato “quotidiano”, come se la porzione fosse quella da consumarsi giorno per giorno, forse con l’allusione alla manna del deserto offerta in cibo ogni giorno. Il particolare serve poi a segnalare che l’uomo deve costruire la sua vita con il forte senso della Provvidenza per cui non deve “pre-occuparsi”, occuparsi all’eccesso, perdendo così di vista la fiducia nel Padre che provvede ogni giorno ai suoi figli.

Il discepolo chiede dunque con ragione il cibo del giorno, poiché gli si proibisce di occuparsi del domani. Non è giusto che coloro che chiedono che venga presto il regno di Dio, cerchino di prolungare il loro soggiorno in questo secolo. L’Apostolo ce ne avverte per formare, fortificare e rafforzare la nostra fede e la nostra speranza. Non abbiamo portato nulla — egli dice — in questo mondo, così come non possiamo portar via nulla. Perciò quando abbiamo il cibo e il vestito, dobbiamo essere soddisfatti. Quanto a coloro che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nella trappola, in molte concupiscenze funeste che sommergono gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’amore del denaro è la radice di tutti i mali; quelli che vi si sono abbandonati hanno fatto naufragio nella loro fede e hanno inflitto a se stessi numerosi tormenti (1 Timoteo 6, 7-10).

(DDO 19)

Il Cristo c’insegna che le ricchezze sono più che disprezzabili: sono pericolose, racchiudono la radice di tutti i mali perché le loro apparenze seducenti e ingannatrici inducono in errore la mente umana. Alla stoltezza del ricco che si compiaceva delle ricchezze di questo secolo e si inorgogliva per i raccolti sovrabbondanti, Dio replicava: Insensato, questa notte ti si chiederà l’anima.

13

E chi avrà quel che tu hai ammassato? (Luca 12, 20). L’insensato si gloriava dei raccolti, mentre doveva morire quella notte stessa. Pensava all’abbondanza dei viveri ed era stato abbandonato dalla vita. Il Signore afferma, invece, che è perfetto chi vende tutto quanto possiede, lo distribuisce ai poveri e si costituisce un tesoro in cielo. Aggiunge inoltre, che possiamo seguire le sue orme e imitare la sua Passione gloriosa se ci renderemo liberi e se ci disimpegneremo da tutte le preoccupazioni degli affari domestici; se, rinunziando ai nostri beni, li offriamo a Dio come segno della nostra oblazione (Cfr. Matteo 19,21). Per disporci a ciò, il Signore c’insegna le leggi della preghiera.

(DDO 20)

Il pane quotidiano non può mancare al giusto, poiché è scritto: Il Signore non permette che il giusto soffra di fame (Proverbi 10, 3). E altrove: Ero giovane e ora sono vecchio: non ho visto il giusto abbandonato né la sua discendenza cercare il pane (Salmo 36, 25). Per questo il Signore promette: Non state a preoccuparvi e a dire: Che mangeremo, che berremo, o con che cosa ci vestiremo? Di tutto ciò si preoccupano i pagani. Il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e avrete tutto ciò in più (Matteo 6, 31-33). A coloro che cercano il regno e la giustizia di Dio, egli promette di dare tutto in aggiunta. Tutto, infatti, appartiene a Dio; a colui che possiede Dio non manca nulla, se egli stesso non viene meno a Dio. Così Daniele, rinchiuso per ordine del re nella fossa dei leoni, ricevette il pasto da Dio, e l’uomo di Dio si nutrì in mezzo alle bestie feroci affamate che lo risparmiavano (Cfr. Daniele 14,30). Nello stesso modo Elia è sostentato durante il viaggio e durante la persecuzione, quando, nella solitudine, corvi e uccelli lo servono e gli portano il cibo (Cfr. 1 Re 17,6). O crudeltà detestabile della malizia umana: gli animali feroci hanno riguardo, gli uccelli portano il cibo, ma gli uomini preparano insidie ed esercitano la loro crudeltà!

(DDO 21)

Qui si deve riconoscere che l’autore è andato oltre le parole del testo evangelico, che propriamente non possono e non devono far pensare al superfluo, a cui si punterebbe nell’eccesso della cura per le cose. Se si lascia andare a queste affermazioni e vi insiste, evidentemente Cipriano mette in luce un problema che sembrava dominare la scena della sua Cartagine, dove una certa forma di ricchezza, compresa quella che lui aveva, poteva radicarsi nel cuore e nella coscienza come preoccupazione che diventa poi ingombrante. Da ciò che sappiamo di lui, grazie alla biografia di Ponzio, bisogna riconoscere che egli aveva numerose rendite catastali e finanziarie senza comunque che esse costituissero per lui il pericolo di un arricchimento indebito: non gli fu mai addossata una colpa in questa direzione, proprio perché era conosciuto per una specchiata virtù morale.

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E tuttavia il fenomeno di ricchezza esibita e soprattutto la presenza di arricchiti nella città e nel territorio, che venivano ammirati e seguiti, ponevano qualche problema anche nella comunità cristiana, alla quale il vescovo si rivolge perché si sviluppi un distacco che dia spazio alla Provvidenza e che induca a costruire un più forte senso della comunità a partire dalla comunione. È interessante poi che Cipriano colleghi strettamente questo suo insegnamento al bene comune e alla comunione con lo spirito di preghiera, che perciò non è solo un rapporto che riguarda il singolo con Dio.

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI

La seconda richiesta riguarda il perdono dei peccati, che Cipriano connette strettamente con il nutrimento ricevuto. Se si vive di Dio, si vive per la vita eterna, ed essa si caratterizza per la misericordia e l’amore che perdona …

Colui che è nutrito da Dio deve vivere in Dio e preoccuparsi non solo della vita presente e temporale, ma anche di quella eterna. Egli può accedervi se i peccati gli sono rimessi. Il Signore li chiama debiti, secondo la parola del Vangelo: Io ti ho rimesso tutto il tuo debito, perché tu mi hai supplicato (Matteo 17, 32).

(DDO 22)

Quando si parla di remissione di debiti vien da pensare a quanti si trovano in una particolare forma di schiavitù per aver perso ogni loro patrimonio e di conseguenza ci si trova pure in presenza di chi su tali situazioni ci ha guadagnato in maniera spudorata sulla pelle altrui. Certamente ci sono anche questi fenomeni, che non solamente investono gli arricchiti in maniera spropositata, ma a volte colpiscono anche quelli che pur indebitati non sanno capire la situazione di chi sta peggio, come si legge nella parabola evangelica del servo accanito con il compagno che gli doveva il denaro, dopo che gli era stato sanato il più grosso debito dal padrone. Lo registra anche Cipriano; ma il vescovo è quanto mai rattristato dalla visione di cristiani che non sanno perdonare gli errori dei più deboli e che per affermare la loro pretesa onestà e correttezza lanciano accuse infamanti e seminano divisione e discordia nella Chiesa. È evidente il riferimento alla situazione della Chiesa africana negli anni delle discordie interne a motivo dei “lapsi”: non solo quanti si proclamavano corretti e fedeli, pur non coltivando misericordia, arrivavano a respingere chi aveva apostata, ma addirittura si spingevano a contestare l’autorità della Chiesa che voleva invece mostrare senso di misericordia dopo che i caduti dimostravano pentimento e facevano la debita penitenza.

Sulla questione si era acceso un forte dibattito, ma soprattutto si era giunti ad un contrasto che sembrava insanabile e che contraddiceva questa esortazione del “Padre nostro” a saper chiedere la remissione delle proprie colpe sulla base del fatto che poi ci si assumeva l’obbligo di usare il medesimo atteggiamento misericordioso con i propri fratelli di fede. L’autore ha un linguaggio molto forte e molto chiaro sull’argomento, che gli sta particolarmente a cuore, anche perché lui stesso soffriva per le accuse che gli erano mosse. Si deve notare come tutto il discorso tenuto circa la preghiera che ci rende figli e ci unisce allo Spirito, deve portare a costruire la pace e l’unità nella Chiesa, bene da lui considerato fondamentale.

Non avrai dunque nessuna scusa nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo il tuo comportamento: subirai quel che hai fatto subire. Dio ci prescrive di conservare la pace e la concordia nella sua casa, e di vivere secondo le leggi della nuova nascita; divenuti figli di Dio dobbiamo salvaguardare la pace di Dio. All’unità dello Spirito deve corrispondere l’unità delle anime e dei cuori. Dio non accetta il sacrificio dei fautori di discordia, li respinge dall’altare affinché si riconcilino prima con i loro fratelli (Cfr. Matteo 5,24): Dio vuole essere propiziato con preghiere di pace. La più bella oblazione per Dio è la nostra pace, la nostra concordia, l’unità, nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, di tutto il popolo fedele.

(DDO 23)

Nei primi sacrifici, offerti da Abele e da Caino, Dio non considerava le offerte, ma i cuori: i doni erano graditi se lo erano i cuori (Cfr. Genesi 9,5). Il pacifico e giusto Abele, che offre il suo sacrificio con animo puro insegna agli altri che bisogna presentarsi, quando si offre il proprio dono, col timore di Dio, col cuore semplice, col senso della giustizia, con la concordia e la pace. Offrendo con tali disposizioni il sacrificio a Dio, ha meritato di divenire egli stesso un’offerta preziosa e di dare la prima testimonianza del martirio. Ha annunziato con la gloria del suo sangue la passione del Signore, perché possedeva in sé la giustizia e la pace del Signore. Tali esseri ottengono la corona, tali esseri giudicheranno col Cristo, nel giorno del giudizio. I dissidenti, invece, che non vivono in pace con i loro fratelli, sono condannati dall’Apostolo e dal Vangelo; anche se si facessero uccidere per il nome di Cristo resterebbero lo stesso colpevoli della discordia seminata tra i fratelli; perché è scritto: Chi odia il proprio fratello è omicida; ora l’omicida non ha accesso nel regno dei cieli e non vive con Dio (1 Giovanni 3, 1). Chi preferisce imitare Giuda piuttosto che il Cristo, non può essere col Cristo. Quanto è grande questo misfatto, che neanche il battesimo del sangue può cancellare! Quanto grave dev’essere questo capo di accusa che il martirio non può espiare!

(DDO 24)

Anche da queste battute si deve arguire che l’unità della Chiesa e nella Chiesa è il bene supremo e che la preghiera insegnata da Gesù deve essere vissuta nell’intento di costruire l’unità nella Chiesa. La citazione degli apostoli deve servire a ricordare che le divisioni ci sono sempre state e che questo vanno risolte non solo a partire dal dialogo fra le parti, ma anche e soprattutto con la preghiera. È un chiodo fisso di quest’uomo che avverte in modo accorato la presenza di un male disgregatore derivato anche da chi non sa pregare e non sa vivere in pienezza questa forma di preghiera, che rimane spesso come formula, senza mai riuscire ad essere espressione dello Spirito.

NON SOPPORTARE

CHE SIAMO INDOTTI IN TENTAZIONE

MA LIBERACI DAL MALE

La terza richiesta riguarda la tentazione, sulla quale ancora oggi ci sono controverse questioni circa la sua esatta interpretazione. Propriamente non si può pensare che Dio conduca “dentro la tentazione”, inducendo a fare il male. La tentazione appartiene piuttosto all’opera diabolica; e il demonio deve presentare il male in maniera accattivante, perché l’uomo possa essere abbindolato e fatto prigioniero. Dio, piuttosto, mette alla prova, dando l’impressione di chiedere qualcosa di assurdo, di tremendo, di insopportabile, come è nel caso del sacrificio di Isacco da parte di Abramo, come è nel caso di Cristo per la sua Passione. Costui nell’agonia, che è la sua lotta contro il male e a favore della volontà di Dio, che appariva pesante, viene presentato in questa scena come avvicinato dal diavolo, che nella versione di Luca al momento delle tentazioni nel deserto si era ritirato per tornare all’attacco in un’altra occasione. Lì Gesù invita i suoi a non cadere nella tentazione, quella che da parte del diavolo è concretamente la suggestione di scendere dalla croce e di abbandonare il campo, magari con un clamoroso effetto spettacolare sulla gente. E quella che per il diavolo è certamente una tentazione, da parte del Padre è invece la prova proposta per stare in campo con il sacrificio personale, che appare duro, ma è veramente risolutivo. Cipriano coglie questa duplice realtà, ritenendo comunque Dio l’autore di quella prova, che nei modi con cui è proposta dal demonio appare seducente, nei modi con cui è proposta da Dio è un richiamo al coraggio e alla forza interiore per dare prova di sé. Non esiste una dualità di bene e di male, anche se questa risulta essere la nostra sensazione: noi dipendiamo da un Dio che è il bene e che mette alla prova.

Il Signore insiste su un’altra intenzione: Non sopportare che noi siamo indotti in tentazione. Da queste parole risulta che l’avversario non può nulla contro di noi senza il permesso preventivo di Dio.

(DDO 25)

Dio può dare il potere al demonio in due modi: per nostro castigo, se abbiamo peccato; per nostra glorificazione, se accettiamo la prova. Vediamo che questo fu il caso di Giobbe. Ecco, tutto quanto gli appartiene io te lo consegno; solo non portare la mano su di lui (Giobbe 12, 1).

(DDO 26)

Vi è in queste parole una visione positiva di Dio, che anche dentro il male si fa presente assistendo i suoi figli: non c’è affatto la concezione di un male permesso, ma di un male che porta precise responsabilità e che “induce” Dio a farsi presente con i suoi figli, per combatterlo con loro e non senza di loro. Se dentro il male che si è abbattuto su di lui, Gesù reagisce sempre con l’amore, allora così Dio comunica la sua presenza a chi sembra sommerso dal male e deve confidare nell’aiuto di Dio.

Per questo poi si invoca, in opposizione alla situazione di male, che ci sia l’intervento da parte del Padre a liberare dal male. Esso è personificato nel diavolo, colui che si getta di traverso, perché è l’avversario antico, indicato con il nome di Satana.

Dopo tutto ciò, la preghiera finisce con una conclusione che raccoglie brevemente tutte le domande. Alla fine diciamo: ma liberaci dal male. Comprendiamo in ciò quel che il nemico può macchinare in questo mondo contro di noi, ma siamo sicuri di avere un potente appoggio, se Dio ci libera, se concede il suo aiuto a coloro che l’implorano. Quando dunque diciamo: Liberaci dal male, non ci resta più nulla da chiedere: abbiamo domandato la protezione di Dio contro il male. Fatta questa preghiera, siamo fortificati contro tutte le macchinazioni del demonio e del mondo. Chi può temere il mondo, se Dio è, in questo mondo, il suo protettore? (DDO 27)

Sulla base di questa visione che Cipriano dà del male, non c’è affatto da temere perché colui che governa è il mondo è il Dio provvidente, è il Dio che qui si rivela Padre e come tale ha sempre a cuore il bene dei suoi figli. Da notare che egli intende la liberazione dal male come protezione: se i mali continuano ad esserci e in effetti continuano a produrre la loro nefasta azione, non per questo, anche ad essere assediati, noi dobbiamo pensare ad una vittoria ineluttabile del male stesso. Con la protezione di Dio, noi risultiamo liberi, anche a trovarci in un mare di guai, che non potranno mai travolgere né la Chiesa né i singoli, quando si avverte la protezione divina che non manca mai.

IL VALORE DELLA PREGHIERA

L’opera si conclude con il richiamo del grande valore della preghiera, che l’autore ritiene non debba essere fatta solo con le parole, quelle che noi definiamo le formule, magari anche imparate a memoria – e tale può diventare anche la preghiera del “Padre nostro” –, ma soprattutto con i fatti, analogamente a ciò che si vede fare da Gesù, soprattutto nel vangelo di Luca, dove più volte si dice che lui è in preghiera. Lo è solitamente quando deve prendere le decisioni più importanti, quelle in cui è implicato il senso vero della sua esistenza, dato in modo particolare dalla sua passione. E in effetti lui appare in preghiera nei passaggi decisivi.

Dio ci ha insegnato a pregare non soltanto a parole, ma anche con i fatti, pregando e supplicando egli stesso frequentemente e dimostrando con la testimonianza del suo esempio che cosa dobbiamo fare anche noi, come sta scritto: Egli poi si ritirò in luoghi deserti e pregò (cfr. Luca 5, 16); e ancora: Salì sul monte a pregare, e passò la notte nella preghiera a Dio (cfr. Luca 6, 12). Se pregava Lui, che era senza peccato, quanto è più necessario che noi peccatori preghiamo, e se Lui vegliando ininterrottamente per tutta la notte pregava con orazioni continue, quanto più frequentemente noi dobbiamo vegliare e pregare tutta la notte!

(DDO 29)

CONCLUSIONE

L’analisi del testo di Cipriano circa la preghiera del Signore ha messo in risalto una bella figura di orante, che, volendo non solo spiegare, ma far avvertire la presenza in essa dello Spirito, ha comunicato se stesso come colui che dà l’esempio, avendo ben inteso l’esempio dato da Gesù ai discepoli nel momento stesso in cui li istruiva sull’argomento e offriva loro parole da esprimere nella comunione dello Spirito. Trattandosi della prima volta, nell’ambito latino, c’è da supporre che, mancando un esempio di riferimento, egli avesse particolarmente recepito lo Spirito. E sapendo dei problemi piuttosto delicati presenti nella Chiesa ma anche nella società, Cipriano, che pur lascia trasparire qualcosa del quadro nient’affatto esaltante, si premura di introdurre i suoi cristiani alla preghiera che per lui non è evidentemente una pratica cultuale e neppure un elemento aggiuntivo ai tanti aspetti della vita cristiana. Da pastore preoccupato dei suoi cristiani, il vescovo sceglie la preghiera e questa in particolare per superare il momento doloroso della persecuzione e quello ancora più pesante della divisione interna della Chiesa, immaginando che la preghiera vissuta nella sua essenzialità e profondità possa costituire un baluardo di difesa contro il male, come un’azione che garantisce una vera liberazione dal male. Ma la preghiera non si deve ridurre alle sole parole che vengono dette; essa deve diventare la partecipazione piena al vivere di Dio, analogamente alla condivisione che Dio ha con il vivere umano, presentandosi come il Padre che vuole essere partecipe del nostro vivere. Per Cipriano la preghiera è concretamente la persona di Dio messa in gioco per l’essere umano e deve essere assunta dall’uomo allo stesso modo. Cipriano non fa mistero di essere così, prima ancora di poter fare così o di dire parole. La sua offerta sacrificale nel momento del martirio, per il modo con cui viene narrato quanto succede, ci rivela che Cipriano vive il suo martirio come celebrazione liturgica, come atto di culto, come offerta di sé davanti a Dio e agli uomini.

Quello ormai non si curava più del mondo, avendo la mente fissa al cielo, e non acconsentiva a quei consigli allettanti. Forse anche allora avrebbe finito per fare ciò che gli veniva consigliato pure da moltissimi fedeli; se ne avesse ricevuto anche il comando di Dio … Certo era grande il suo desiderio di predicare ed egli avrebbe desiderato che il martirio tanto atteso si compisse in modo tale che egli fosse ucciso proprio mentre parlava di Dio.

(XIV,4.6)

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