INTRODUZIONE
Ancora in Africa, ancora all’inizio del III secolo, ancora nel mondo cristiano
emerge una bella e forte personalità, che la fa essere figura di rilievo non solo per il territorio in cui vive ed opera. È più giovane del suo conterraneo Tertulliano, ma si presenta più equilibrato, e decisamente più stimato e seguito, rispetto all’apologista che fa parlare di sé per le prese di posizione che lo mandano sempre più alla deriva. Con Cipriano invece abbiamo un uomo a tutto tondo che, rivendicato orgogliosamente come una figura di spicco per i cristiani, non era da meno anche nell’ambito civile in cui si era segnalato per la sua cultura, ma soprattutto stimato come un uomo che avrebbe potuto occupare degnamente certe cariche, rifiutate quando venne chiamato nell’ambito della Chiesa a svolgere una funzione di rilievo. Se in poco tempo abbiamo le personalità più forti della cultura locale, già riconosciute e segnalate in Roma, vuol dire che l’Africa mediterranea acquisiva un rilievo notevole e diventava una fucina di intelletti, i quali contribuiscono alla sua crescita e al suo prestigio in tutto il Mediterraneo. La cultura latina prosegue grazie a questi personaggi; come pure lo stesso sistema politico si regge con il contributo di uomini nati in queste terre. Non si tratta affatto di figure provenienti dal mondo bar-barico, già in grande fermento e movimento alle porte dell’Impero, con la pressione di chi vuole entrare e occupare. L’Africa è parte integrante dell’Impero stesso, e la sua popolazione ne acquisisce la cittadinanza, mostrando così i benefici effetti di una cultura romana e latina che aveva preso piede anche fuori dell’Italia. Si deve aggiungere che il nascente Cristianesimo, proveniente dalla Giudea e attecchito un po’ ovunque, aveva trovato i suoi migliori sviluppi proprio in terra d’Africa. E se, per tradizione e convinzione, Roma era comunque la sede primaziale, per la successione petrina, per il sorgere e l’affermarsi di figure importanti, anche l’Africa dava il suo contributo, mostrando che il fenomeno religioso non riguardava più le fasce deboli ed emarginate della popolazione, ma sempre più figure di grande risalto che permettono al Cristianesimo di diventare una fucina di menti eccelse. Anche qui la Chiesa si sviluppa e si organizza e diventa un apparato di potere, sia perché affiorano figure di grande risalto culturale, sia perché emergono uomini di prestigio anche nel campo politico, grazie al fatto che a motivo dei possedimenti accumulati essi si impongono nel territorio.
La Chiesa africana era già in florido sviluppo e aveva sempre più rilevanza, perché i centri storici della regione attiravano l’attenzione e la presenza di uomini di cultura. Questa zona dell’impero appariva più sicura rispetto ad altre aree geografiche, perché qui non esistevano i fenomeni dirompenti delle invasioni barbariche e nel contempo cresceva il numero di proprietari terrieri e di ricchi signori, provenienti anche dall’Italia, sia perché qui si sviluppava una notevole produzione e commercializzazione di beni per l’Impero stesso, così come, nell’area egiziana, dove permane-vano i grandi ricordi del passato, andava sviluppandosi il fenomeno delle città dotate di biblioteca e di scuole di tutto rispetto. Qui si accumulavano ricchezze, che poi attiravano l’attenzione del potere politico, sempre bisognoso di appoggi finanziari per le migliorie all’esercito che doveva occuparsi delle tensioni sui confini. A metà del secolo III si scatena la persecuzione organizzata contro le autorità cristiane con particolare riferimento ai vescovi delle città, come pure all’apparato gerarchico inferiore fatto di quanti, in base all’esercizio del diaconato, si prestavano alla cura degli interessi economici, onde avere denaro da distribuire ai poveri. Se si eliminano figure prestigiose non sulla base della loro appartenenza all’apparato di potere, ma esclusivamente perché essi avevano in dotazione le finanze, vuol dire che al potere politico interessa avere denaro da usare per la paga dei soldati, in relazione alle continue guerre che venivano scatenate per difendere i confini. Così l’esercito romano appariva debole perché incapace di costruirsi un apparato militare in grado di difendersi dai nemici esterni. Questo succede soprattutto in Africa, dove si erano accumulate proprietà fondiarie e dotazioni finanziarie, che si potevano utilizzare immediatamente, nella misura in cui i loro possessori venivano eliminati per una qualsiasi ragione. E si trova quella di natura religiosa, in quanto i cristiani del posto, ben fermi nelle proprie convinzioni, risultano irriducibili. Così alla metà del III secolo, mentre sull’orizzonte esterno si affacciavano i barbari e premevano per entrarvi, gli Imperatori romani decidono di scatenare la persecuzione contro i cristiani, soprattutto laddove l’apparato gerarchico appariva potente. Il territorio africano fu particolarmente colpito: qui, soprattutto negli anni di Decio (249-251), che furono pochi, perché l’imperatore scomparve in una battaglia, ci fu il fenomeno di questi arresti e dell’esecuzione di alcuni, mentre la paura crescente e la ferocia della persecuzione spinse molti ad apostatare, creando il fenomeno dei lapsi, cioè di coloro che durante lo scatenarsi della violenza, si mostrarono deboli e “scivolavano o cadevano”, abbandonando la fede da poco abbracciata.
Ma c’era anche chi, senza arrivare ad abiurare, in un contesto di torture e di violenze fisiche e psicologiche, trovava nella fuga in zone desertiche la possibilità di sopravvivere. Fra costoro va annoverato Cipriano …
LA FIGURA DI CIPRIANO
Di lui abbiamo una buona documentazione, segno evidente della notevole personalità che aveva: rimangono le sue opere scritte a farlo conoscere direttamente, anche per il ruolo che ha rivestito già in vita e più ancora successivamente, quando queste medesime opere rimangono note e utilizzate a costituire il patrimonio di fede; c’è pure la risonanza che ha avuto nella Chiesa per le numerose citazioni, e c’è ancora una biografia stesa da un suo collaboratore diretto, che sancisce la posizione notevole che ha avuto anche fuori dei luoghi in cui è vissuto.
Cipriano, santo vescovo e glorioso testimone di Dio, molto ha scritto per cui sopravviva la memoria di un degno nome; e la grande ricchezza della sua eloquenza e della grazia di Dio si è tanto dilatata per abbondanza di parola che forse non tacerà fino alla fine del mondo: d’altra parte, poiché anche questo privilegio è dovuto alle sue opere e ai suoi meriti, ho voluto mettere per scritto poche notizie in modo sommario, non perché qualcuno anche dei pagani ignora la sua vita ma al fine che ai nostri posteri sia proposta a memoria imperitura una testimonianza grande e incomparabile: in tal modo essi, grazie a questo scritto, saranno guidati sulla traccia del suo esempio. (I,1)
Con queste parole, Ponzio Cartaginese, il biografo, si introduce nel profilare la figura di Cipriano, che egli vuol far conoscere a partire dal battesimo, da quando cioè quest’uomo esce dall’anonimato per diventare una figura di primo piano nella sua città, e non solo. In effetti non abbiamo documentazione circa la sua nascita, che si fa risalire agli inizi del III secolo, ritenendo unanimemente che sia di origine cartaginese e che lì sia sempre vissuto. Esce appunto dall’anonimato, quando riceve il battesimo nel 246, ed è già adulto, dotato di mezzi notevoli, che lo fanno credere appartenente ad una famiglia facoltosa, soprattutto perché possiede terreni e case.
Si deve supporre che sia ben dotato di mezzi, perché assume un certo rilievo nella città, dove, forse prima della conversione, già svolgeva attività che suppongono una buona formazione scolastica, quella che allora si riteneva di prim’ordine, se faceva diventare oratori e quindi ottimi parlatori in città. Così lo riconosce sempre il suo biografo.
Anche se egli si è dedicato allo studio e si è applicato con passione alle arti liberali, tuttavia lascio da parte tutto questo: infatti non riguardava ancora se non ciò che è utile per il mondo. Ma dopo che apprese le sacre scritture e, dissipata la nube del mondo emerse alla luce della sapienza spirituale, se di alcune sue opere fui testimone e altre appresi da persone più anziane di me, queste io intraprendo a raccontare: chiedo tuttavia che, qualsiasi cosa io dica meno di quanto dovrei – ed è ineluttabile che io dica di meno – ciò sia riportato alla mia ignoranza piuttosto che detratto alla sua gloria. All’inizio dell’istruzione nella fede null’altro credette degno di Dio se non osservare la continenza: allora infatti l’intelletto e il sentimento sarebbero stati pienamente capaci di accogliere la verità, se egli fosse riuscito a comprimere la concupiscenza della carne grazie alla pratica strenua e costante della castità. (…) Distribuiti i suoi beni per sovvenire l’indigenza di molti, grazie a tale distribuzione egli ottenne insieme due effetti positivi: imparò a disprezzare l’ambizione del mondo, della quale nulla è più dannoso, e cominciò a praticare la misericordia, che Dio preferisce anche ai sacrifici che gli vengono offerti e che non era riuscito a realizzare neppure colui che aveva affermato di aver osservato tutti i precetti della legge. Così grazie allo zelo della sua pietà, con celerità quasi cominciò ad essere perfetto prima di averlo appreso a diventarlo. (II, 2-4.7)
La sua conversione al Cristianesimo è dovuta ad una persona che gli rimase vicino, stringendo un’amicizia durata fino alla morte di quest’ultimo. Si tratta di un prete, Ceciliano, che era sposato e con figli: costui l’aveva introdotto nella conoscenza delle Scritture, mediante le quali progressivamente il cuore e la mente si aprirono alla luce della fede. Se così è stato, bisogna riconoscere che già egli aveva predisposizione con i libri e soprattutto con testi che richiedono continua ricerca; ma già di suo aveva un animo particolarmente vivace, che contribuiva a tenere desto lo spirito per accostarsi alla verità. Il prete, morendo, gli affidò la famiglia, perché la sostenesse sotto il profilo educativo, anche se lui aveva fatto l’opzione per la castità.
Il battesimo avvenne nella pasqua del 246 e bastò poco per-ché nella comunità cristiana salisse il favore nei suoi confronti, avendo fama di uomo integerrimo, ma soprattutto ben dotato di fede e di sapienza. Di qui la decisione di eleggere lui vescovo della città di Cartagine, quando venne a mancare il predecessore.
Sarebbe troppo lungo scendere nei particolari e faticoso ricordare tutte le sue azioni. A riprova delle sue buone opere sarà sufficiente ricordare soltanto che per giudizio di Dio e favore del popolo fu eletto all’ufficio di sacerdote e alla dignità di vescovo quando era ancora neofita e, come si pensava, cristiano novello. Infatti fin dai primi giorni della sua fede e già all’inizio della vita spirituale la sua generosa indole rifulgeva a tal punto da risplendere, anche se non era ancora del fulgore dell’ufficio, certo dal fulgore della speranza, e in tal modo presentava sicura garanzia per il sacerdozio imminente. E non passerò sotto silenzio neppure questo bel gesto: mentre il popolo, ispirato da Dio, in maniera pressante gli manifestava il suo affetto e lo designava alla dignità episcopale, egli umilmente si fece indietro, lasciando il posto ai più anziani. Si riteneva indegno dell’onore di dignità tanto importante, proprio per diventarne maggiormente degno: infatti diventa più degno colui che rifiuta ciò che merita. (V,1-2)
EXTRA ECCLESIA NULLA SALUS
Fuori della Chiesa nessuna salvezza
CIPRIANO SCRITTORE
La scelta di consacrare vescovo Cipriano aveva il consenso unanime e solo l’insistenza del popolo cristiano vinse il suo animo che lo spingeva a respingere una simile offerta. Il biografo segnala anche la resistenza di un piccolo gruppo, che gli si oppose e mantenne uno stato d’animo ostile nonostante la sua offerta di pace e di perdono. Questa situazione di tensione accompagnerà un po’ sempre l’esistenza di Cipriano che si trova spesso in contrasto con alcuni fedeli della Chiesa, a motivo non di verità di fede, quanto piuttosto sulle scelte nell’ambito morale in riferimento alle decisioni di vita che i cristiani assumevano in presenza di varie questioni, e più ancora di situazioni problematiche che richiedevano scelte radicali. Lui non era fatto per forme di fanatismo, con la pretesa che tutti fossero perfetti e intransigenti; non era affatto per comportamenti superficiali in cui tutto fosse consentito; ma aveva quel senso della misericordia, che considerava la debolezza umana come sempre possibile, e tale da far intervenire il perdono, per consentire a chi è debole di riprendersi. In ogni ambito Cipriano prevedeva la linea dell’accoglienza dei peccatori e dei deboli, i quali potevano aver apostatato per fragilità e paura, non senza passare da una fase di pentimento che richiede l’esercizio di una penitenza. Potremmo dire che anche in queste pratiche si riconoscono alcune linee operative che poi saranno assunte nel sacramento della riconciliazione. Già nella sua prima opera scritta, “Ad Donatum”, si riconosce lo stile e la finalità dei suoi scritti, protesi ad affrontare, in genere, questioni contingenti in relazione alla modalità con cui i cristiani si dovevano concretamente misurare con esse. In questa sua opera si può leggere un suo monologo rivolto ad un amico per una disanima della situazione, presente nella società romana del tempo, un po’ dovunque, a cui si doveva rispondere con un atteggiamento che sembra essere quello di isolarsi a praticare ciò che impedisce qualsiasi forma di collaborazione con il male. La soluzione non è quella di opporsi, ma è quella di praticare l’allontanamento con l’augurio che tutto passi, e senza che si possa arrivare a lasciarsi trascinare nella lotta e nella polemica. La sua conversione al cristianesimo appare così una denuncia del mondo del suo tempo, da cui era necessario uscire, cercando il totale isolamento che permettesse lo studio e la ricerca di un vivere superiore.
Il mondo, diviso dalle guerre, è abbandonato al male, con gli abominevoli combattimenti dei gladiatori, gli spettacoli immorali, gli sbandamenti nella vita pubblica e privata mostrano , con sufficiente chiarezza a chi non rifiuta di vedere, dove ce n’è. Il potere non conosce freni; la stessa giustizia è corrotta, l’ordine sociale, dall’alto in basso, manca di tenuta e di disciplina. La sola possibilità di pace è nell’aldilà ove si può accedere che per una sola via: quella che Dio ha rivelato, la pura e semplice virtù dei cristiani. In un sol colpo il battezzato sfugge agli orrori pagani. Egli sente calare su di sé la corrente della potente grazia divina e tenuto conto che egli vuole conservarla e accrescerla, si trova ben armato per affrontare l’ultimo giudizio. (HC p. 50)
In questo riassunto del testo di Cipriano si riconosce il notevole degrado che è in corso nella società romana, per il quale non è possibile alcun miglioramento, se non uscirne, con una indicazione che potrebbe sconcertare, perché, così dicendo, il mondo viene lasciato andare alla deriva e così non può essere salvato. Sulla base di questo modo di vedere la situazione si può comprendere perché allo scoppio della persecuzione Cipriano, invece di farvi fronte, si lascia convincere a ritirarsi, scampando alla bufera. E poiché chi fugge, o se ne sta appartato, viene considerato un debole, un transfuga, una sorta di disertore, allora anche Cipriano è soggetto a critiche feroci in occasione della persecuzione di Decio (249-251). Costui si accanisce nei confronti delle autorità religiose, non propriamente per motivi di natura religiosa, ma perché la pretesa di voler uniformare i cristiani alle leggi imperiali, poteva creare l’occasione per lui di inter-venire e perseguire i renitenti, augurandosi che fossero soprattutto quanti nella comunità avevano non solo un certo prestigio, ma anche il controllo degli averi della Chiesa. Messi alle corde certi cristiani non reggevano, e cercavano di avere in mano una sorta di salvacondotto, pagando un cifra notevole; ma si ritrovavano in mano una carta che li accusava di aver tradito. Così oltre ad essere turlupinati dal potere politico erano guardati con sospetto nella comunità cristiana. La discussione che si accende nella Chiesa riguarda proprio costoro e l’atteggiamento che bisognava avere con certa gente e con coloro che, passato il pericolo, desiderava rientrare nei ranghi. La discussione si fa vivace un po’ ovunque, ma soprattutto a Cartagine, dove il vescovo si era lasciato convincere a lasciare la città e a trovare un rifugio sicuro, e dove lo stesso Cipriano assumeva posizioni aperte e accondiscendenti con i cosiddetti “lapsi”.
Propose che i “libellatici” (quelli in possesso di un “libellum” che fungeva da salvacondotto perché aveva pagato la loro esclusione dalla persecuzione) potessero essere riammessi, se in pericolo di morte, da un presbitero e da un diacono, ma gli altri avrebbero dovuto attendere la fine della persecuzione, quando si sarebbero potuti convocare dei concili a Roma e a Cartagine per prendere una decisione comune. Un certo riguardo doveva essere mostrato per i privilegi dei confessori (i martiri che, pur avendo ricevuto violenze, ne erano usciti vivi), tuttavia i lapsi non si sarebbero dovuti trovare in una posizione migliore rispetto a coloro che avevano resistito ed erano stati torturati, spogliati dei loro beni, o esiliati. I colpevoli, in seguito, furono terrorizzati dai prodigi che si verificarono …
(da Wikipedia)
DE UNITATE ECCLESIAE
In presenza di questi fenomeni di incomprensione all’interno delle comunità, la divisione tra i cristiani serpeggiava e la Chiesa non poteva dare una buona testimonianza. Di qui la necessità di un richiamo a costruire il senso di comunione: il bene dell’unità è essenziale, e bisogna garantirlo, anche perché è fortemente voluto dal Signore nella sua preghiera sacerdotale ed è pure tutelato nell’età apostolica. Così Cipriano si dedica alla causa dell’unità, proponendo un testo che ne tratta in maniera organica e, nel contempo sviluppandola con un preciso riferimento a testi e ad immagini bibliche ed evangeliche che rivelano nell’autore una notevole padronanza della Bibbia e nel contempo una capacità altrettanto rilevante nel ricorrere ad immagini, che permettono di comprendere meglio il valore della posta in gioco. L’autore sente attorno a sé non solo l’aria gelida della persecuzione, ma in maniera più grave una certa inclinazione a marcare le proprio convinzioni in contrapposizione ad altre, con il rischio di non dar valore al bene fondamentale dell’unità della Chiesa, soprattutto quando essa non trova a livello locale tutta l’attenzione perché tra vescovi, presbiteri e tutti i laici si operi per salvaguardare quell’unità che appariva compromessa, quando ognuno difendeva la propria posizione, soprattutto in contrasto con altri componenti della società locale.
Questo mistero dell’unità, questo indivisibile vincolo di pace ha una sua fi-gura nella tunica di nostro Signore Gesù Cristo, la quale non fu divisa né stracciata, ma tirata a sorte e data intera a uno solo. Ascolta la sacra Scrittura che dice: “Ora la tunica era senza cuciture, tessuta tutta di un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: Non la stracciamo, ma tiriamola a sorte a chi tocca”. (Giovanni 19,23-24). Cristo portava a noi l’unità che viene dall’alto, cioè dal Padre; unità che non poteva assolutamente essere scissa, perché aveva in sé una ferma e inscindibile compattezza. Ora se qualcuno scinde e divide la Chiesa di Cristo non può possedere la veste di Cristo … la tunica di Cristo, senza cuciture, non fu stracciata dai soldati perché il popolo di Cristo non può essere diviso. Indivisibile, contessuta, connessa, la tunica di Cristo sta a dimostrare la perfetta concordia del popolo nostro. Col mistero, con l’immagine della veste, Gesù volle luminosamente insegnarci l’unità della Chiesa.(dUE, 7)
Bisogna riconoscere che l’autore, come ormai sta diventando una abitudine per tanti scrivere in questo modo, ricorre all’uso di immagini che diventano progressivamente delle allegorie. Si potrebbe dire che Cipriano introduce questo sistema che fa delle immagini bibliche un mezzo con cui si arriva più facilmente al senso pieno di ciò che si sta spiegando. Cipriano ha a cuore il tema dell’unità, perché vede gli effetti devastanti quando si crea la divisione; ma non sa trovare argomenti particolarmente forti per raggiungere il vero obiettivo del suo intervento, quello di favorire l’unità. L’immagine della veste di Cristo, che non viene tagliata dai soldati, che pure ne volevano il possesso, risulta particolarmente efficace, perché possa passare nella coscienza dei suoi lettori che il corpo di Cristo, che è la Chiesa nella storia, rimane nudo e svergognato con una veste inutilizzabile, e questa, “cucita tutta d’un pezzo”, deve rimanere tale per rivestirla di gloria. Non contento di una simile immagine, Cipriano ricorre ad altre figure sempre tratte dal vangelo, perché il suo obiettivo rimanga stagliato nella mente dei suoi lettori: il bene dell’unità è troppo importante e non può essere assolutamente disatteso.
Chi dunque è tanto empio e maligno, ossessionato dal demone della discor-dia, che osi scindere l’unità di Dio, la tunica del Signore, la Chiesa di Cristo? Gesù ci ricorda che “vi sarà un solo gregge e un solo pastore” (Giovanni 10,16). Chi è tanto pazzo da credere che vi possano essere in un medesimo luogo più pastori e più greggi? Anche Paolo inculcando questa medesima cosa ci scongiura così: “Vi scongiuro, o fratelli, per il nome di nostro Signore Gesù Cristo, che diciate tutti la stessa cosa, né vi siano scismi tra di voi, ma siate perfetti nello stesso pensiero e nello stesso sentimento” (1Corinzi 1,10). Tu credi che chi si taglia fuori dalla Chiesa e va in cerca di altre sedi e di altri domicili possa reggersi in piedi e vivere? (…)
La carne di Cristo, l’eucaristia, non può essere gettata ai cani, e non v’è per i credenti altra abitazione al di fuori dell’unica Chiesa. Anche nei Salmi lo Spirito santo proclama questa casa, ospizio dell’unità: “Dio che fa abitare nella sua casa uomini concordi” (Salmo 67,7). Nella casa di Dio, nella Chiesa di Cristo, abitano i cuori che hanno uno stesso ideale, che sono perseveranti nella semplicità e nella concordia. (dUE, 8)
Sullo sfondo dell’opera di Cipriano dobbiamo considerare anche la divi-sione presente nella Chiesa, a motivo della non riconosciuta elezione di Cornelio a Papa e quindi a Vescovo di Roma. La polemica riguardava sempre il comportamento da avere nei confronti di coloro che erano stati riconosciuti deboli nella loro testimonianza di fede o addirittura della loro apostasia. I polemici con il Papa, ma anche con Cipriano, si presentavano rigoristi e inflessibili, mentre la linea comune era quella dell’assoluzione con l’opportuna penitenza. Nel frattempo continuava la persecuzione di Decio, raccolta più avanti dal suo successore Valeriano, sempre a motivo delle necessità finanziarie in relazione alla paga dell’esercito che combatteva sul fronte dei barbari, e la divisione nella Chiesa rendeva i suoi componenti ancor più deboli di fronte al mondo pagano. La questione andava affrontata con estrema chiarezza e rigore, in particolare nei confronti dei rigoristi verso i “lapsi”. Cornelio viene scelto in un contesto fortemente polemico: ci volle più di un anno per arrivare alla elezione …
I sedici vescovi convenuti a Roma elessero Cornelio, un alto esponente dell’aristocrazia romana, contro la sua volontà, ma in base “… al giudizio di Dio e di Cristo, alla testimonianza di pressoché tutto il clero, al voto delle persone ivi convenute, al beneplacito dei presbiteri anziani e degli uomini di buona volontà, in un tempo in cui nessuno lo aveva preceduto, quando la sede di Fabiano che è la sede di Pietro, ed il soglio erano vacanti” (Cipriano, Epistole IV,24). Il lungo periodo di vacanza della sede pontificia fu caratterizzata da varie polemiche, tra cui quella che investì seriamente il vescovo di Cartagine, S. Cipriano, che alcuni (guidati dal presbitero Novato) consideravano un traditore, perché era fuggito da Cartagine durante la persecuzione dell’imperatore Decio. Novato trovò un alleato nel presbitero Novaziano, un prete di dubbia moralità, che approfittò del momentaneo sbandamento della comunità romana per guadagnare alla sua causa i cristiani più incerti e, soprattutto, per porre la sua candidatura al pontificato. L’elezione, a grandissima maggioranza, di Cornelio fu un colpo per Novaziano che spedì due del suo partito a chiamare tre vescovi (conosciuti come personaggi piuttosto sprovveduti) da altrettanti angoli remoti d’Italia.
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Fece dire loro di venire a Roma velocemente poiché, insieme ad altri vescovi, avrebbero dovuto mediare su una divisione interna. Questi uomini semplici furono costretti a conferire l’ordine episcopale su di lui alla decima ora del giorno. Uno di questi, però, ritornò alla Chiesa confessando il suo peccato, “… e noi inviammo – dice Cornelio – i sostituti per gli altri due vescovi nei luoghi da cui provenivano”. Per assicurarsi la lealtà dei suoi sostenitori Novaziano li costrinse, all’atto di ricevere la santa Comunione, a giurare sul Sangue e sul Corpo di Cristo che non sarebbero tornati da Cornelio. Costui era un fautore dell’indulgenza nei confronti dei lapsi, ma Novaziano, che era un rigorista e la pensava in modo opposto, contestò l’elezione del nuovo Papa. Era infatti convinto che Cornelio fosse un debole e sosteneva che nemmeno i vescovi potevano garantire la remissione di peccati gravi come omicidio, adulterio e apostasia, ma questi potevano essere rimessi soltanto nel Giudizio finale. Alcune settimane più tardi Novaziano si autoproclamò Papa e l’intero mondo cristiano fu agitato da questo scisma che sarebbe durato fino al V secolo. Tuttavia l’appoggio di san Cipriano assicurò a Cornelio i cento vescovi d’Africa, e l’influenza di Dionisio, vescovo di Alessandria d’Egitto, portò anche i vescovi orientali dalla sua parte; in Italia il papa riuscì a mettere insieme un sinodo di 60 vescovi, mentre Fabio, vescovo di Antiochia di Siria, rimase indeciso. Cornelio gli scrisse tre lettere … in cui il Papa elencava i difetti nell’elezione di Novaziano e ne parlava con estrema amarezza … Il sinodo condannò Novaziano e il suo scisma … Dopo la sua elezione, Cornelio sanzionò le miti misure suggerite da san Cipriano ed accettò la proposta del Concilio di Cartagine del 251 di riabbracciare nella comunione, dopo la giusta penitenza, coloro che si erano persi durante la persecuzione di Decio.
(da Wikipedia)
Il quadro della Chiesa di allora appariva indubbiamente molto segnato da queste divisioni interne, che si aggiungevano al clima già tremendo delle persecuzioni in corso: il potere politico attaccava coloro che avevano posti di rilievo e costoro erano il bersaglio di attacchi ancora più feroci da chi all’interno voleva assumere posizioni di prestigio in nome di una reazione forte al paganesimo che li rendesse ancora più irremovibili e fanatici. Di qui si comprende la necessità di un intervento, che senza toni aspri e condanne inappellabili, favorissero una fede più luminosa e gioiosa. Cornelio fa la sua parte, ma si trova in mezzo a tensioni rovinose che gli impediscono forme di mediazione, e più ancora un’analisi del problema tale da favorire il dialogo e la ricerca di un denominatore comune. Ci prova Cipriano con la sua opera di pacificazione interna.
SS. CORNELIO E CIPRIANO
Anche lo Spirito santo venne tra noi sotto forma di colomba, un animale lieto e senza malizia, senza fiele, senza rostro e senza artigli; un animale amante delle cose degli uomini legato a una sola famiglia quando procrea, in buona compagnia con gli altri, alleva i nati, quando vola non va solo, passa la sua vita nella familiarità intima del proprio colombaio, dimostra agli altri la mutua concordia con carezze in viso, osserva in ogni cosa la legge della fratellanza. Anche nella Chiesa bisogna mantenere una tale semplicità; il nostro amore sia come quello della colomba, la nostra mansuetudine e la nostra dolcezza come quella degli agnelli e delle pecore. Come è possibile che in un animo cristiano alberghi la ferocia lupesca, la rabbia canina, il veleno dei serpenti, la sanguinaria crudeltà delle belve?
Se esistono dei cristiani così e si allontanano dalla Chiesa, bisogna allora rallegrarsi perché le altre colombe e gli altri agnelli non saranno assaliti da bestie feroci e velenose. L’amarezza non può stare con la dolcezza, la tenebra con la luce, la pioggia col sereno, la guerra con la pace, la sterilità con la fecondità, la siccità con l’acqua, l’uragano con la bonaccia. Nessuno crederà mai che proprio i buoni si allontanino dalla Chiesa. Il vento non porta via il grano; la tempesta non strappa gli alberi ben radicati; sono invece le pule, vuote e leggere, che vengono rapite dal vento e gli alberi poco fermi che sono sradicati dall’uragano. Sono proprio costoro i maledetti dall’apostolo Giovanni: “Si separarono dalla nostra famiglia, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero restati tra noi” (1Giovanni 2,19).
(dUE, 9)
Ricco di immagini, un simile testo si presta davvero a considerare gli eretici come persone vuote e come l’antitesi della colomba nella quale noi troviamo l’immagine dello Spirito. Perciò gli eretici non posseggono lo Spirito e di conseguenza non possono trasmetterlo. È evidente che non si possa e non si debba aver niente a che fare con loro. E di qui vengono i suggerimenti concreti, anche a risultare offerti in allegorie, quelli cioè di prendere le distanze fra loro, proprio nel bailamme che la Chiesa attraversa quando qualcuno pretende di avere ragione e vuole accampare le migliori ragioni, in nome di una verità, che appare unicamente dottrinaria, per nulla attenta alle persone e soprattutto costruttiva di una società armoniosa e fraterna. Fa specie che una simile tensione si sia prodotta in un momento nel quale la Chiesa è già sufficientemente squassata dalle persecuzioni che la vorrebbero annientare, colpendo in modo particolare le autorità; ma la divisione, in genere, si produce proprio nei periodi di maggior tensione e con l’obiettivo di creare malanimo e disistima di coloro che hanno responsabilità di governo e possono dare pure l’impressione di essere deboli, perché non appaiono intransigenti con le persone, più che induriti nell’affermare i principi dottrinali. La riflessione qui riprodotta del vescovo di Cartagine non arriva ad attaccare direttamente gli eretici di allora, ma proprio con le immagini usate cerca di elevare la visuale a comprendere questi fenomeni, allora emergenti e sempre possibili nel cammino storico della Chiesa. In questa direzione essa è importante e utile un po’ sempre per tentare di contrapporsi senza risentimenti verso gli eretici e senza il sarcasmo di chi vuol annientare le tesi altrui, sulle quali si può riflettere, se la Chiesa è semper reformanda .
Le eresie sono nate, e sorgono così frequentemente quando un’anima perversa non trova pace, quando un perfido ribelle non conserva l’unità. Sono permesse da Dio, senza che si intacchi per nulla il libero arbitrio; anzi l’integrità della fede di quelli che furono messi alla prova rifulge di più chiara luce, dopo che i loro cuori e le loro intelligenze furono saggiate dalla lotta contro la verità. Perciò l’Apostolo scrive: “E’ necessario che vi siano le eresie, affinché si conoscano tra noi quelli che sanno resistere” (1Corinzi 11,19). Con l’eresia si saggiano i fedeli e si scoprono gli empi e così, prima ancora del giudizio finale, anche quaggiù i giusti vengono separati dai peccatori come la pula viene divisa dal grano. Di questa razza di peccatori – eretici – sono quelli che senza divino mandato, arbitrariamente si mettono alla testa di seguaci temerari e usurpano il nome di vescovo senza che alcuno abbia loro conferito l’episcopato; ad essi lo Spirito santo dà il nome di titolari della “cattedra di pestilenza” (2Timoteo 2,17), peste e lue della fede, bugiardi portavoce del serpente, artefici della corruzione della verità, strisciano come scorpioni, le cui conversazioni inoculano veleno nei cuori.
(dUE, 10)
Sulla base di questi criteri che Cipriano espone, non ci si deve scandalizzare per la presenza e per il proliferare delle eresie; sarebbe meglio che non sorgessero, ma se esse si presentano è opportuno avere i criteri giusti per giudicare che cosa emerga da lì e come deve reagire il cristiano che vuole conservarsi nella verità. Cipriano insiste sul legame con colui che viene legittimamente eletto come responsabile dell’unità. Non sono mai mancati, e neppure oggi mancano, coloro che per affermare la propria personale verità accusano i responsabili di aver deragliato dalla verità, come già era successo nel primo periodo del Cristianesimo, visto che Paolo, l’apostolo più contestato per non essere stato dalla parte di Gesù durante gli anni della sua vita terrena, deve amaramente constatare questa presenza fuorviante. Cipriano deve constatare amaramente che la situazione dolorosa riemerge a voler accusare i responsabili della Chiesa, già sottoposti ad una persecuzione dura a partire dai pagani. Lui stesso è esplicito in questa disanima del suo tempo, dove la violenza è brutale da parte di coloro che attaccano i responsabili della Chiesa, ma è ancora più amara l’accusa infamante che proviene dalle fila stesse della Chiesa. E lo dice già nell’avvio della sua opera.
… non è temibile soltanto la persecuzione e tutti gli altri mezzi di lotta aperta contro il cristianesimo – la difesa infatti è più facile allorquando il pericolo è più evidente, e l’animo si ferra meglio alla lotta se l’avversario si rivela apertamente – ma bisogna temere di più il nemico quando, con proposte di una pace amichevole, si avvicina silenziosamente, strisciando nel buio, come fa il serpente di cui porta il nome.
Sta qui tutta la sua astuzia, tenebrosa e ingannevole tattica di accerchiamento dell’uomo: tattica che fin dal principio del mondo trasse in inganno, con lusinghiere parole, le anime ingenue e credulone dei nostri progenitori e con nuova astuzia ardì abbordare anche il Signore per tentarlo; ma fu da lui riconosciuto, smascherato, messo in fuga. (dUE, 1)
Quale astuzia è maggiore e quale sottigliezza più grande, di quella che Satana escogitò quando fu smascherato e sconfitto dalla venuta di Cristo, quando la luce divina apparve sulle nazioni e l’eterno splendore della redenzione rifulse sugli uomini per dare ai sordi la comprensione della grazia spirituale, ai ciechi la visione di Dio, ai malati l’eterna salute, agli zoppi il potere di correre verso la Chiesa, ai muti la voce chiara della preghiera? Vedendo allora Satana gli idoli abbandonati e i templi deserti per la troppa moltitudine dei nuovi credenti, inventò un nuovo inganno per accalappiare gli incauti e coprì l’inganno col nome di cristiano. Inventò infatti le eresie gli scismi per corrompere la fede, annebbiare la verità, spezzare l’unità. Gabbò con l’insidia di un nuovo cammino quanti non poté arrestare nelle cecità della vecchia vita. Strappò anime alla Chiesa, e quando a costoro sembrò che s’accostassero alla luce venendo fuori dalla notte del secolo, egli sparse altre tenebre tra gli ignoranti, in modo che pur restando nella luce del vangelo, nell’osservanza delle sue leggi, costoro si chiamassero cristiani, e pur camminando nelle tenebre, credessero di essere nella luce; mentre erano schiavi dell’inganno dell’angelo delle tenebre il quale, secondo l’Apostolo, si trasfigura in angelo di luce e acconcia i suoi ministri come ministri della verità. Questi allora predicando l’errore come verità, la morte come vita, la disperazione sotto le ap-parenze della speranza, la perfidia sotto il pretesto della fede, l’anticristo sot-to il nome di Cristo, mentre fingono cose verosimili, rendono vana la verità con i loro sofismi. E tutto questo, o dilettissimi fratelli, accade perché ci si allontana dalle sorgenti della verità, perché non si ricerca il Capo, non si osserva la dottrina del celeste Maestro.
(dUE, 3)
Il testo del “De unitate Ecclesiae” ebbe una vasta risonanza e fu diffuso in occidente e in oriente, divenendo molto utile per contrastare il fenomeno delle eresie, mai del tutto scongiurate. Tenuto conto che qui la disanima del problema viene fatta in termini molto chiari, senza per questo apparire caustici e intransigenti, si può dire che se ne fece uso per trattare la questione nella Chiesa, ma anche per dare spunti di riflessione a tutti coloro che erano tenuti a sorvegliare il gregge, come i vescovi, o a intervenire per chiarire le posizioni, come i presbiteri verso i fedeli.
In questo modo Cipriano diventa un autore di grande prestigio, sia per la chiarezza della dottrina sia per la garanzia di fedeltà alla Chiesa. Il suo intendimento era quello di risultare utile in modo particolare ai vescovi, perché costoro difendessero con la dottrina sana anche e soprattutto l’unità con la Chiesa, mostrandosi fortemente solidali con i confratelli nell’episcopato. A lui poi premeva l’unità con la Chiesa romana e con il Papa.
… Il Signore costruisce la sua Chiesa su Pietro e a lui solo affida il gregge da pascolare. Dopo la sua resurrezione dà una uguale potestà a tutti gli altri apostoli con le parole: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi; ricevete lo Spirito santo; i peccati che rimetterete saranno rimessi e quelli che riterrete saranno ritenuti” (Giovanni 20,21-23); tuttavia per rendere più evidente l’unità costituisce una sola cattedra di dottrina, autorevolmente stabilisce che l’origine di quell’unità derivi da uno solo. Anche gli altri apostoli certamente erano investiti dello stesso onore, della stessa potestà di cui era rivestito Pietro; ma all’origine è posto uno solo, per dimostrare che una sola è la Chiesa di Cristo. Di questa unità della Chiesa lo Spirito Santo parla così nel Cantico dei Cantici: “Unica è la mia colomba, la mia perfetta; unica alla madre sua, senza pari per la sua genitrice” (Cantico 6,8). Chi non è vincolato a questa unità non si illuda di possedere la fede. Chi oppone resistenza alla Chiesa, non creda di appartenere alla Chiesa. Ce lo insegna anche l’apostolo Paolo, il quale esprime il mistero dell’unità in questi termini: “Un solo corpo, un solo spirito, in un’unica speranza siete stati chiamati; uno è il Signore, una la fede, uno il Battesimo, uno solo Dio padre di tutti” (Efesini 4,4-6).
(dUE, 4)
Tale unità deve essere affermata e difesa soprattutto da noi vescovi, posti al governo della Chiesa, se vogliamo provare come anche l’episcopato è uno e indiviso. Nessuno di noi tradisca i nostri fratelli con parole di menzogna; nessuno incrini la verità della fede con perfide macchinazioni. Uno è l’episcopato, di cui ogni vescovo partecipa pienamente.
(dUE, 5)
Fin qui le belle affermazioni, che, proprio perché sono esposte in uno scritto, rimangono nel tempo. Poi però ci sono stati screzi e incomprensioni sia con altri vescovi e più ancora con Papa Stefano (254-257). Il problema si sposta ora sulla questione della validità del sacramento del battesimo conferito dagli eretici. Stefano difende ciò che diventerà uso corrente in seguito, soprattutto con i chiarimenti di S. Agostino. La gran parte delle Chiese erano sulla posizione di chi pretende che il battesimo possa essere valido solo all’interno della Chiesa cattolica amministrato da chi è in comunione con la Chiesa di Cristo.
Per il Papa invece l’efficacia del sacramento non deriva dallo stato di grazia del ministro, ma dal fatto che sia celebrato “in nome della Trinità”. Per gli eretici battezzati poteva bastare quello che si riteneva di fare con i lapsi, e cioè di richiedere una penitenza e l’imposizione delle mani con l’invocazione allo Spirito. La distanza fra Roma e Cartagine permane, ma in questo caso la linea vincente è quella di Roma. Questa particolare controversia, che non viene risolta, non è comunque condotta in termini di contrapposizione ostile, perché i contendenti si stimano e riconoscono l’assoluta priorità da dare all’unità della Chiesa. Al servizio di questa causa si pone Cipriano, il quale corrisponde mediante lettere con numerosi vescovi e quando può li riunisce in concili locali …
Che tutto sia riposto sull’unità dell’episcopato, questo non è per Cipriano una pura teoria o una concezione religiosa. Nella situazione turbolenta che regna dappertutto dopo la persecuzione e le forme di apostasia, la ricomposizione si raggiunge oggettivamente in dipendenza del fatto che almeno i vescovi serreranno le fila, staranno strettamente uniti fra loro e, nella pratica, osserveranno i medesimi principi. Cipriano riunisce i suoi confratelli nell’episcopato per diversi concili, invia a loro i suoi messaggeri, le sue lettere, le sue circolari. Provoca cambiamenti di prospettiva, prese di posizione comuni, e stimola la vicendevole considerazione di stima.
(HC p. 63)
CONCLUSIONE
Il ruolo avuto da Cipriano nella Chiesa non è di poco peso: i suoi scritti stanno a testimoniare che si è ritagliato uno spazio per contribuire al consolidamento della Chiesa, in un periodo quanto mai problematico. Solitamente si dà rilievo a quel genere di persecuzione che sembrava voler scardinare la Chiesa con la eliminazione fisica dei suoi membri migliori, sulla base di un piano preordinato che si prefiggeva la distruzione di un apparato gerarchico considerato irriducibile, non omologabile al sistema. Gli imperatori non riescono con l’impresa perché sono presto risucchiati con le guerre contro i barbari ed essi stessi ne sono vittime. Così la Chiesa sopravvive. Il vero suo pericolo è quello determinato da eresie e scismi. Qui si rivela preziosa la testimonianza di Cipriano e la sua solidarietà con la sede di Roma, soprattutto con Papa Cornelio, che veniva contestato e che invece Cipriano voleva sostenere.
Al di là dei risultati raggiunti con la sua azione di scrittore e di guida autorevole, da considerare scarsi per il fatto che eresie e scismi sono continuati nel corso della storia del suo tempo e anche oltre, dobbiamo qui riconoscere il grande amore di quest’uomo per la Chiesa, che non considera affatto una organizzazione o un sistema gerarchico da affermare e da sostenere. Per lui la Chiesa è davvero sposa e madre: così la riconosce e così la vive, arrivando a sostenere che “extra ecclesiam nulla salus”: non ci può essere salvezza al di fuori della Chiesa. L’interpretazione che si dà a queste parole lascia intendere che occorre entrare nella Chiesa; e di fatto l’unica Chiesa ad offrire la salvezza è quella cattolica. Eppure la salvezza è una grazia offerta da Dio all’uomo; ed egli la offre a partire dalla Chiesa, voluta come “sacramento di salvezza”. Essa è strumento, mediante il quale vengono assicurati i sacramenti, cioè i segni sensibili della grazia divina, perché noi abbiamo bisogno di questi mezzi, adatti per la loro sensibilità, perché possiamo avere in dono la grazia di Dio, il vero obiettivo da raggiungere mediante i sacramenti. La stessa Chiesa è considerata “sacramento”, in quanto segno, perché costituita da uomini, che rimanda però alla realtà ultima di Dio, il quale a noi si comunica mediante lo Spirito. Così la Chiesa costituisce lo strumento primario da cui ci viene l’opera di Dio, ed è per noi sacramento fondamentale per poter accedere alla comunione con Dio, per poter ricevere la sua grazia. Cipriano crede fortemente nella missione che ha la Chiesa in ordine alla salvezza e lo ribadisce con estrema chiarezza in questa sua affermazione che esprime la sua profonda considerazione circa la natura e l’azione di grazia che la Chiesa svolge introducendo i suoi membri nel Regno di Dio.
Non si può considerare un’adultera la sposa di Cristo: è incorrotta e pudica. Conosce una sola dimora, custodisce con casto pudore la santità di un solo talamo nuziale. Essa ci conserva per Dio; essa ci consegna al regno come figli che ha partorito. Chiunque, separato dalla Chiesa, si congiunge ad una adultera, si separa dalle promesse della Chiesa. E non arriverà ai premi di Cristo chi lascia la Chiesa di Cristo. È un estraneo, è un profano, è un nemico! Non può avere Dio come padre chi non ha la Chiesa come madre.
(dUE, 6)
In quest’ultima lapidaria affermazione, ben nota e spesso usata, si può riconoscere la notevole considerazione che Cipriano ha della Chiesa, vera sposa di Cristo, e come tale incorrotta e incorruttibile, anche se i suoi componenti, compresi quanti fanno parte della gerarchia, possano essere macchiati da ombre, da peccati, da forme di corruttela.
Cipriano è ben consapevole che la Chiesa, nei suoi membri, ha tutte le manifestazioni di fragilità e di male che ben si notano. Esse affiorano con tutto il disdoro e addirittura la vergogna che ne conseguono e che fanno pensare ad una realtà terribilmente inquinata e rovinata. Per questo motivo essa viene definita “casta meretrix”, come la considerava S. Ambrogio. Mediante un ossimoro, stringato e comunque efficace, ci viene ricordata la presenza delle brutture che la inquinano, ma nel contempo anche la sua purezza che le deriva dalla promessa del Signore e dall’impegno dello Sposo a volerla “senza macchia né ruga, o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesini 5,27). Per questo, soprattutto in presenza delle divisioni che possono adulterare la sua vera immagine, è necessario operare con tutte le forze, perché si conservi unita e strettamente legata al Signore che la vuole tutta sua.
E ci può essere qualcuno che ritiene si possa scindere nella Chiesa questa unità proveniente dalla volontà ferma di Dio, pienamente coerente con i misteri celesti, e ci si possa separare con in un divorzio da parte di volontà che tra loro sono collidenti? Chi non mantiene questa unità, non osserva la legge di Dio, non conserva la fede del Padre e del Figlio, non ottiene vita e salvezza.
(dUE, 6)
È un invito fermo a conservarsi sempre uniti nella Chiesa, perché essa unitariamente è a servizio della comunicazione della grazia divina.
BIBLIOGRAFIA
I testi citati del “De Unitate Ecclesiae” sono presenti nella “Liturgia ambrosiana delle Ore”, vol. IV, nei giorni feriali della XVII settimana del Tempo Ordinario.
VITE DI SANTI (Cipriano)
A cura di Manlio Simonetti
SanPaolo 2005
Hans Von Campenhausen
LES PERES LATINS
Editions de l’Orante, 1967
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