STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE
Le diverse pestilenze che si sono succedute nella storia sono indubbiamente eventi drammatici, soprattutto per chi si trova coinvolto. Ma non necessariamente le informazioni su di esse ci arrivano da scrittori di storia con il loro intendimento cronachistico, più o meno dichiarato, e soprattutto con la finalità di ricercarne le cause e le conseguenze, come dovrebbe essere per chi si dichiara uno storico. Per certi versi i racconti più drammatici e più suggestionanti sono quelli di autori che non hanno nella loro finalità quella di raccontare vicende a cui hanno assistito. Anzi, spesso ci troviamo in presenza di scrittori che, mettendo sullo sfondo il quadro della pestilenza, propongono un racconto di pura invenzione allo scopo di voler uscire da un clima pesante di terrore per rifugiarsi in un contesto che vorrebbe essere purificatore, per far raggiungere una sorta di beatitudine paradisiaca.
È ciò che noi possiamo trovare nel racconto di Boccaccio circa la pestilenza del 1348. Non è per lui l’evento chiave del racconto, perché l’obiettivo della sua opera non è quello di trattare quanto è successo in quel periodo. Il resoconto della devastazione di quell’anno è solo lo scenario sul quale lo scrittore vuole impostare la sua opera, che ha tutto il sapore di una narrazione fantastica e fantasiosa per creare evasione e fuga. Se si vuole cercare una descrizione più accurata, dal chiaro intento storico, bisogna andare ad altri testi, come possono essere le croniche medievali del tempo o le “Istorie” successive. Nelle “Istorie fiorentine” di Machiavelli quel gravoso evento è liquidato con poche righe: “ … nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono” (II, 42).
Ma, come al solito, non basta raccontare che cosa è successo; qui vi è in gioco ben altro, perché l’evento narrato viene avvertito come un segno particolarmente forte che deve far riflettere e deve soprattutto far reagire: anche in una tragedia simile, è possibile costruire una storia positiva, che può diventare una “via salutis”, un vero e proprio cammino salvifico. Così il Decamerone non è solo una silloge di racconti da godere, espressione di un mondo gaudente che vuol mettere da parte gli affanni ed evadere nella fantasia. Esso è piuttosto il percorso umano di “salvezza”, analogo a quello dan-tesco, che concepisce la salvezza come grazia dal cielo e non come opera dell’uomo.
LA PESTE DI FIRENZE (1348)
in BOCCACCIO:
IL MALE DESCRITTO E VISSUTO
NELLA SOCIETA’ DEL TEMPO
Quando scoppia a Firenze la pestilenza, ed ha il suo apice nel 1348, la situazione della città presentava già alcuni aspetti di criticità. Il crollo del sistema bancario con l’insolvenza del re inglese diede origine ad una crisi economico-finanziaria drammatica. Ci furono anche tumulti popolari fomentati dal “duca Di Atene”, che era stato chiamato dai mercanti facoltosi per gestire il potere politico. Ma il vero tracollo si ebbe con il sopraggiungere della peste. Boccaccio, che aveva trascorso la sua adolescenza a Napoli, dove il padre curava gli interessi finanziari della banca dei Bardi, era già stato costretto in quegli anni tumultuosi a rientrare per il fallimento della banca, perdendo così l’ambiente, in cui aveva maturato la sua vocazione letteraria. Proprio in occasione della peste concepisce il suo capolavoro, che avrebbe dovuto costituire una fonte di guadagno in un momento “nero”, non solo per la peste. Non scrive per documentare l’evento: questo è sola cornice in cui inserire il quadro delle lieta brigata che racconta le sue storie. E neppure si prefigge intenti didascalici, come se volesse educare una società che è allo sbando completo. Egli ha il solo scopo di allietare, proprio nel momento in cui non c’è motivo alcuno per godere, nella speranza che egli ne possa trarre vantaggi di natura economica e così tornare alla bella vita d’un tempo. E sembra quasi fuori posto il brano in cui descrive il propagarsi del morbo con tutti i suoi effetti devastatori. In realtà il quadro fortemente drammatico è la cornice da cui parte il percorso salvifico che l’uomo deve fare, per superare non solo i mali del momento, ma anche quelli ricorrenti nella storia umana. C’è chi vi riconosce quasi una prosecuzione della “Comoedìa” dantesca, perché anche qui l’uomo è come smarrito in una “selva oscura”, rappresentata dalla peste nera. E perciò ha bisogno di uscire dall’Inferno per salire, purificandosi sulla montagna del Purgatorio, fino ad elevarsi nel Paradiso di un vivere più spensierato, come quello sperimentato dalla bella brigata di giovani che si ritrovano nel contado, per sfuggire ai miasmi di un’aria morta, come quella pestilenziale. Leggi tutto “Boccaccio e la peste di Firenze”