LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

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Il fenomeno della pandemia in corso richiede un approccio che non si limiti solo ai numeri, ai rimedi sanitari, alle disposizioni governative, alla reazione della gente comune. Molto spesso si dimentica che oltre le necessarie analisi dei competenti nell’ambito scientifico e medico, oltre gli opportuni e doverosi provvedimenti delle autorità governative, oltre il lavoro ancor più faticoso di chi è in prima linea a combattere il male e ad aiutare chi ne è colpito, occorre anche una lettura a partire dalla psicologia umana, con le sue reazioni istintive e con le sue risposte più ponderate, che rivelano come anche in simili circostanze l’uomo sia in grado di far fronte al male. Ci vuole l’approccio di tipo antropologico, ma anche quel genere di lettura del fenomeno che noi consideriamo “umanistico”, perché in esso vediamo lo spirito umano reagire, ben oltre l’iniziale sconcerto. Queste forme di pandemia sono abbastanza frequenti e, in certi casi, non solo diffusi un po’ ovunque, ma anche presenti in modo molto drammatico per il coinvolgimento di tante persone, che ne rimangono segnate, sia perché muoiono, sia perché, anche a salvarsi, ne porteranno sempre le conseguenze. Di questi fenomeni ciclici abbiamo avuto spesso i cronisti, che si limitano a dare il loro resoconto della vicenda; talvolta abbiamo avuto gli storici che si sono prefissi di consegnare una sorta di insegnamento per i casi a venire; non di rado si sono cimentati anche scrittori di vaglia, che sono partiti da vicende in cui erano coinvolti, o da studi storici su cui si sono resi esperti, arrivando talvolta a dare anche racconti di pura fantasia, nei quali però le vicende narrate appaiono fortemente “verosimili”. In queste narrazioni abbiamo un tipo di lettura umanistica, in quanto al centro delle vicende sono le persone, ma soprattutto si coglie la preoccupazione di suscitare nei lettori una sensibilità che faccia prevalere il taglio umano, la considerazione di come l’uomo in simili circostanze possa riemergere più cosciente, più vigile, più saggio, più … umano! La breve analisi dei casi presi in considerazione valuta e valorizza soprattutto la componente “letteraria” e quindi non solo la ricostruzione degli eventi, ma la particolare modalità narrativa degli scrittori presi in considerazione, per capire quale sia l’intendimento, spesso anche esplicitato, nel voler offrire la propria indagine, la propria maniera di accostare questi fenomeni.

LA PESTE DI ATENE (430-429 a.C.)

in TUCIDIDE:

IL MALE DESCRITTO 

E VISSUTO NEL SINGOLO

Lo storico ateniese Tucidide (460 c. – 404c) non è il primo, né il solo a parlare di pestilenze: ne parla già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, laddove la peste è una delle piaghe d’Egitto, con cui Mosè cerca di far breccia nel cuore del Faraone. Il racconto può apparire anche “mitologico”, ma non è improbabile che si siano succedute in terra d’Egitto forme di pestilenza, soprattutto in certe aree di forte densità umana Leggi tutto “LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE”

EPIFANIA 2022: IL SOGNO DI DIO

 EPIFANIA 2022

RIFLESSIONI DELL’ALTRO MONDO

ALL’APPARIRE DI DIO CHE SOGNA UN ALTRO MONDO

Il racconto natalizio di Matteo, quello che noi usiamo soprattutto in occasione dell’Epifania, ci parla di grandi sognatori: c’è Giuseppe, che, per capire bene ciò che sta succedendo attorno a sé, deve sognare e quindi avvertire il disegno che ha Dio, sempre costruttivo, anche quando gli uomini mettono in campo il male. Il “suo” bambino è minacciato, e lui non ha dubbi nel rifugiarsi in Egitto, anche a sentire tutto il disagio di quel trasferimento e della permanenza in terra straniera. Si fa migrante con suo figlio, perché cerca un vivere migliore, che non necessariamente deve essere più facile. Dal sogno che ha avuto e che ha seguito, deriva a lui una visione positiva che gli dà speranza, anche a trovarsi in mezzo a un mare di pericoli e a una montagna di problemi. Il suo sogno viene da Dio, che continua a sognare in questo modo anche oggi, anche se spesso nel mondo c’è gente che delude le sue aspettative e va in un’altra direzione rispetto al suo progetto di vita: Lui invece indica nel Bambino e nei bambini la vera e sola salvezza per noi. Nei tanti bambini, che vengono in luoghi dove i bambini sembrano sparire dal nostro orizzonte, Dio ci offre il suo sogno e ci chiede di condividerlo, suggerendo che proprio lì stanno le nuove risorse, quelle giuste, per far rinascere il mondo. Guardiamo negli occhi questi bambini perché lì si rispecchia l’umanità che ci fa trovare il meglio per noi e ci fa vedere Dio. Sono anche i bambini che non vivono più in terre lontane, come un tempo si pensava: il mondo si è fatto piccolo, è entrata in casa nostra, ci appartiene e noi dobbiamo appartenere a questo mondo, come fa Dio, venendo ancora oggi dentro le fattezze di questi bambini. Qui ci sono immagini di bambini della Tanzania, dove opera sr. Agnes Muthoni, suora del Cottolengo: mi ha inviato recentemente alcune immagini del centro dove lei opera, da africana per gli africani, per dare speranza, anche là dove essa sembrerebbe mancare. Ma questi volti, pur dentro tanta povertà, sono l’emblema della speranza che si alimenta ancora in questo mondo, segnato da tanto male. Anche ad essere sgomento per il male incombente sul Bambino, Giuseppe, sempre in sogno, non esita a intraprendere il cammino rischioso della migrazione, allo stesso modo con cui lo fanno in tanti ancora oggi. Lì troviamo i grandi sognatori di oggi.

Tra questi sognatori dobbiamo mettere anche i Magi, che consultano il cielo per cercare poi … un Bambino. Non inseguono miti, idee, astruserie, ma una stella luminosa, che poi riconoscono viva e chiara in quel bambino, povero e pure sempre autentica risorsa di bene per l’umanità, vero tesoro da riconoscere, da adorare, da tenere sempre in considerazione, da seguire. Lo trovano in un ambiente povero e squallido, come lo sono queste abitazioni africane; lo trovano senza addobbi e senza decorazioni fantasiose. Eppure essi sono la vera ricchezza non solo per chi li ha generati e li ha nutriti perché così li sentono; lo sono anche per noi che insistiamo nel voler pensare ai beni materiali come l’obiettivo per vivere, quando piuttosto sono le persone il tesoro inestimabile su cui puntare, sapendo che, proprio dove c’è povertà di mezzi, si fa strada l’ingegno per costruire sempre il meglio, quello che serve ancora oggi per tutti noi. questi occhi puntati su di noi, senza chiedere nulla, devono diventare così penetranti da farci sognare per loro un futuro diverso, un futuro che può essere migliore, se anche a loro è data la possibilità di esprimere al meglio le loro risorse. E allora mettiamoci a sognare anche noi con loro e per loro …

Quei bambini, che spesso noi consideriamo più una sorta di fastidio, di costo, di continuo motivo di preoccupazione, qui sono la sola risorsa che garantisca il futuro. È così anche nel “sogno di Dio”, quello che lui alimenta in Gesù, mandato fra noi a portarci il vivere di Dio. Perché allora non dovrebbe diventare pure il nostro sogno, riprovando a investire in loro le nostre risorse? Queste sono sempre spese bene, perché non costruiscono solo cose, mezzi, altri beni materiali, ma soprattutto persone con potenziale umano che può diventare qualcosa di nuovo, di geniale, di creativo. In essi ci appare la grazia di Dio, come ci viene detto nel giorno dell’Epifania, rivelatrice di Gesù come vero tesoro dato all’intera umanità, e in essi scopriamo che c’è davvero ancora futuro, in essi c’è il vero e migliore futuro. È proprio il caso di riconoscerlo: da un altro mondo, non più solo dal nostro, si aprono prospettive nuove e diverse per un mondo che ci auguriamo differente da quello attuale, nella misura in cui si fa più attento alle risorse umane e in esse trova il vero tesoro, ciò che dà speranza. Lo avevano intuito i Magi in quel Bambino che hanno colmato dei loro doni significativi per la sua missione; lo dobbiamo intuire anche noi, perché anche le nostre risorse per loro siano investite bene per la rinascita di tutti e per il rinnovamento di questo mondo.

Un Salvatore da salvare

L’ANNUNCIO DEL VANGELO: È NATO IL SALVATORE! È UN BAMBINO!

La notizia che noi ricaviamo dal Vangelo non è propriamente la nascita di un bambino, ma la venuta al mondo del Salvatore: così viene presentato ai pastori dall’angelo che ne dà loro l’annuncio.

Non temete:

ecco, vi annuncio una grande gioia,

che sarà di tutto il popolo:

oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore,

che è Cristo Signore.

Questo per voi il segno:

troverete un bambino avvolto in fasce,

adagiato in una mangiatoia.

(Luca 2,10-12)

Sarebbe stato più logico riferire loro la nascita di un bambino, e dare per questa notizia una serie di elementi straordinari da giustificare il richiamo a gente che non era abituata ad avere segni clamorosi. Invece nelle parole dell’evangelista, che già era stato piuttosto essenziale nel dare relazione di quel parto, scopriamo che il segno di riconoscimento per cogliere il salvatore di tutta quella gente, povera e senza futuro, stava proprio in un bambino, deposto dentro una mangiatoia. Un tal segno avrebbe dovuto scoraggiare quella gente, che forse era già abituata ad avere bambini così, se quel loro vivere era all’insegna della continua precarietà, per la quale un bambino poteva arrivare al mondo in quella stessa maniera.

Che nascesse ancora un bambino non era affatto una novità. Che trovasse posto in una capanna di fortuna, o in una stalla, non era neppure questo un caso raro. E soprattutto non poteva essere portato come un segno di riconoscimento per qualificare quel bambino come un salvatore. Anzi, il “loro” salvatore! Semmai, nato in quella circostanza, lo si doveva ritenere un bambino … da salvare, e non viceversa. La sua debole condizione non era solo quella di essere nato da poco, ma di aver trovato un alloggio di fortuna per questa sua comparsa, che non poteva risultare di buon auspicio. Leggi tutto “Un Salvatore da salvare”

Una preghiera per Francesca.

Con dolore confortato dalla speranza cristiana, Don Ivano comunica che ieri, sabato 27 novembre, si è spenta serenamente la sua cara zia Francesca Corti, che fino all’ultimo momento ha continuato a impegnarsi nell’aiuto ai più bisognosi.

Preghiamo insieme per accompagnarla tra le braccia del Padre.

FEDOR DOSTOEVSKIJ: L’ANIMA RUSSA E L’EREDITA’ SPIRITUALE.

INTRODUZIONE

La celebrazione del bicentenario della nascita di Dostoevskij è l’occasione per cercare di conoscere meglio questa figura, indubbiamente grande nel mondo della narrativa ottocentesca, e non solo, e soprattutto appassionante, anche a risultare inquietante e difficile da seguire nei suoi libri. Capita spesso che alcuni estimatori e chi si avventura nelle sue storie si trovino in difficoltà a proseguire la lettura, quando ormai ci si è inoltrati. Non è immediatamente capace di attirare, se non per certe situazioni che possono suscitare a volte l’orrore e a volte l’interesse per le questioni che vi stanno sottese. E tuttavia, quando uno è in grado di superare una certa soglia, poi i suoi racconti avvincono, anche a doversi trovare in una specie di vortice. Ci si rende conto inoltre che ben al di là della lettura sociologica o psicanalitica che spesso si pensa di fare con i suoi romanzi, qui abbiamo la possibilità di cogliere, almeno in parte, quale possa essere l’anima del popolo russo, che egli tenta di scavare e di far venire allo scoperto. Si tratta di un mondo, quello della Russia, che ci affascina e nello stesso tempo ci lascia come disorientati, perché è un Paese, che, pur a considerarlo, per la geografia, appartenente all’Europa, non risulta omologabile a quello degli altri popoli del continente, come se la contaminazione con il grande mondo siberiano, facesse gravitare questa gente dentro una realtà, che è grande e infinita, come lo è lo spazio geografico di quell’immenso territorio. Alle prese con la costruzione dell’Europa, che già fatica a riconoscersi dentro realtà molto diverse, non possiamo escludere da essa la cosiddetta “Santa Russia”, che tanta parte ha avuto e continuerà a conservare con il mondo europeo, anche se oggi, a livello politico, sentiamo che essa vuole far parte “per se stessa”. Se vogliamo comprendere l’anima profonda della Russia non possiamo non passare da Dostoevskij, soprattutto considerando il suo discorso su Puškin (1799-1837), tenuto l’8 giugno 1880, nel quale egli riconosce colui che ha forgiato l’anima russa liberandola dalle contaminazioni del mondo occidentale, da cui provenivano quelle ideologie divenute “I Demoni”, dissacratori e distruttori.

Dostoevskij considera i Russi come il “popolo portatore di Dio”, l’“unico popolo portatore di Dio”. Ma una simile coscienza messianica non può essere ritenuta un segno di umiltà. In essa insorge l’antico orgoglio e l’alta coscienza di sé del popolo ebraico. (Berdjaev, p. 123)

L’ANIMA RUSSA

Missione salvifica della Russia

Tenuto conto che siamo nell’Ottocento, a noi potrebbe sembrare che una simile rivendicazione suoni come patriottismo o come indice di nazionalismo. Eppure in Russia non risulta che si dovesse rivendicare qualcosa del genere, anche perché l’impero appariva piuttosto un insieme di nazionalità e, comunque, quella russa avvertiva un suo ruolo “salvifico” nei confronti degli altri popoli, i quali sembravano riconoscere questa sorta di missione. Si potrebbe pure aggiungere che qualcuno si immaginava anche di vedere la Russia in questa stessa missione proposta fuori dei suoi confini e rivolta alla stessa Europa, che stava smarrendo la sua “anima”, inseguendo la rivoluzione tecnologica e con essa il miraggio di un arricchimento senza limiti. Proprio da questo mondo “senz’anima” provenivano, secondo lui, quei demoni che stavano corrompendo la Russia e stavano rovinando la sua gioventù, attratta da queste ideologie corrotte e corruttrici. Così il suo lavoro di scrittore, con i suoi racconti “accattivanti”, doveva servire a suscitare attenzione e riflessione, ben oltre i letterati, gli studiosi, i filosofi e i cultori di ideologie. E si riprometteva di raggiungere anche il mondo occidentale, dove i romanzi ottocenteschi, un po’ ovunque, avevano una particolare presa. Questo succedeva quando i romanzi partivano dalle figure che non erano più gli eroi mitici, ma risultavano appartenenti alla gente comune, e nello stesso tempo andavano a descrivere realisticamente il mondo che era socialmente ai margini, e che nei romanzi di Dostoevskij apparirà come il mondo del “sottosuolo”. Voleva così scuotere anche il mondo europeo? Certamente ne sapeva qualcosa, anche per i suoi viaggi, durevoli nel tempo, e vissuti con la curiosità propria di un narratore tutto dedito alla realtà desunta dalla cronaca. Naturalmente si era fatta una sua idea dell’Europa nel suo insieme. Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ: L’ANIMA RUSSA E L’EREDITA’ SPIRITUALE.”

FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE”

INTRODUZIONE

Religione come spiritualità

Entrare nell’ambito religioso, sia della vita sia delle opere di Dostoevskij, è addentrarsi in un mondo che per l’autore è essenziale ed esistenziale. Non è una religiosità chiara, sicura, adamantina: trattandosi di una ricerca, mai conclusa, essa appare con tutti i dubbi e con tutte i chiaro-oscuri di una materia, che avverte decisiva e nello stesso tempo mai sicuramente decisa. Per il fatto che il suo orizzonte storico e geografico è quello della Russia, è predominante una religiosità che trova le sue forme espressive nell’ortodossia. Ma il suo orizzonte non si limita lì, perché la sua religiosità viene da una profonda esigenza spirituale. E il tema religioso dipende dalle domande fondamentali a proposito della vita: sono le domande che attengono alla cosiddette “cose ultime”. E così le questioni di fondo sono quelle del destino dell’uomo e del suo vivere, il destino che ha il mondo, non solo come realtà naturale, e, più in là, addirittura, il destino di Dio. Poi, di fatto, la riflessione circa quei mali che si identificano con i demoni, legati alle idee provenienti dall’Europa, porta a considerare la necessità di una autentica rivoluzione, quella, naturalmente, dello spirito!

Dostoevskij ha indagato sino in fondo lo spirito rivoluzionario. Il destino storico della Russia ha giustificato le intuizioni di Dostoevskij per il quale la rivoluzione si è compiuta in considerevole misura. E per quanto essa sembri distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia deve essere riconosciuta per russa e tradizionale. L’auto distruzione è un tratto endemico. Tale costituzione della nostra anima nazionale ha aiutato Dostoevskij ad approfondire le cose dell’anima sino alla spiritualità, a uscire dai limiti della mediocrità dell’anima e a scoprire lontananze e profondità spirituali. (Berdajaev, p. 11)

Per una religiosità di popolo

Questo genere di analisi, fatta da Berdjaev a ridosso della rivoluzione ormai in atto, fa capire che la componente spirituale in Russia è stata di fatto sospesa, per una visione “religiosa” – quella messa in atto dai rivoluzionari – che non ha niente a che fare con la tradizione, perché la religione tradizionale viene combattuta come espressione della reazione e della controrivoluzione: essa si oppone non solo al cambiamento delle strutture e delle sovrastrutture, ma all’avvento del “sol dell’avvenire” identificato con il potere al popolo, che è di fatto “potere ai soviet del popolo”. L’indicazione data da Dostoevskij per il recupero della vera anima della Russia è stata disattesa, anche perché non è facile capire che cosa voglia di fatto suggerire lo scrittore con i suoi racconti. La religione di cui egli parla non si identifica di fatto con le forme tradizionali, e nello stesso tempo la religiosità “popolare” non appare sufficientemente elaborata e chiarita, se quanto noi scopriamo messo in bocca ai suoi personaggi risulta più un apparato di idee, che sono ben lungi da essere quelle sulla bocca e nella mente della gente comune, a cui egli fa appello.

Indubbiamente Dostoevskij ha come obiettivo il recupero della componente spirituale, che certamente è nel suo profondo coerente con l’eredità cristiana. Non si potrebbe comprendere pienamente il pensiero dello scrittore senza far riferimento al Cristianesimo e a ciò che di spirituale esso comunica, ben oltre le forme istituzionali e devozionali, ben oltre le forme dottrinarie e morali. Andare oltre qui significa che il suo è un cristianesimo visionario, costruito sulle immagini che egli ha e che egli dà mediante i racconti, spesso scaturenti dai personaggi dello stesso romanzo. Costoro si mettono a raccontare la loro “visione” di Dio, di Cristo, del tipo di mondo che essi vorrebbero vedere sempre ben oltre ciò che la storia o la realtà ci offre. Questo suo Cristianesimo visionario, fatto di immagini e di racconti, è indubbiamente molto suggestivo e nello stesso tempo molto sfuggente: attrae e seduce per la forza espressiva che esso ha, quasi un teatro dentro il teatro della vita, e nello stesso tempo crea forme di disorientamento, perché si fatica a trovare nel racconto qualcosa di ben definito circa la proposta di vita che andrebbe assunta fuori del racconto, quando poi si entra nella vita vissuta. Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ . IL VOLTO SPIRITUALE DELLO SCRITTORE E IL “GRANDE INQUISITORE””

FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.

FEDOR DOSTOEVSKIJ nel 1876

INTRODUZIONE

La questione del male continua

Sempre e solo il male. Ciò che domina nella vita e nelle opere di Dostoevskij è il male. E tuttavia non è qualcosa di disperato e di disperante. Si potrebbe dire però che esso diventa ossessivo, anche perché tra l’epilessia che lo assale frequentemente, il demone del gioco che lo prende e lo seduce senza scampo, e la necessità di sfuggire ai creditori e agli editori, egli si sente attanagliato e sempre più avvinto. Se rifugge dall’idea che il male debba essere cercato e trovato in un sistema che corrompe, che annienta, che tritura, volendo addossare le colpe e le responsabilità del proprio male a chi attorno appare irretito in ideologie perverse e pervertitrici, non può comunque negare che siano in corso in Europa e in Russia delle trasformazioni che hanno in sé il germe della rovina.

I mali nell’ambito familiare

Ma le sue ossessioni non vengono solo dal sottosuolo di un mondo in ebollizione, perché la società, sempre inquieta, è alla ricerca di un equilibrio, mai totalmente raggiunto. C’è pure un sottosuolo che gli appartiene, che è il suo stesso vivere contrassegnato da una serie di vicende con le quali è messo a dura prova chiunque, in modo particolare lui, già toccato da esperienze al di là di ogni limite immaginabile.

Al principio del 1865, Dostoevskij scorgeva attorno a sé soltanto morte, deserto e fantasmi. Il 15 aprile del 1864 era morta la prima moglie, di tisi, dopo una lenta agonia. Negli ultimi mesi di vita, mentre nella stanza accanto il marito modulava la voce grottesca e furibonda dell’“uomo del sottosuolo”, Mar’ja Dmitrievna sputava sangue. La morte tornò presto a visitare Dostoevskij. Nel luglio dello stesso 1864, scomparve suo fratello Michail, il più amato, in-sieme al quale aveva pubblicato due riviste, “Il tempo” ed “Epoca”. Dostoevskij rimase sconvolto della nuova perdita. “Letteralmente non m’era rimasto nulla per cui vivere” scrisse più tardi. “Stringere nuovi legami, creare una nuova vita! Mi ripugnava anche il solo pensarci. E per la prima volta sentii che non c’era nulla con cui sostituirli, che al mondo amavo soltanto loro, e che un nuovo amore non si può avere e neppure si deve averlo. Tutto, intorno a me, fu freddo e deserto”. Morendo, Michail aveva lasciato quindicimila rubli di debiti. Dostoevskij si impegnò a pagarli, e a mantenere la vedova del fratello con quattro figli, l’amante del fratello con un figlio, un altro fratello alcolizzato, e il figlio della prima moglie, Pasa, insolente e presuntuoso, che divideva il suo appartamento di Pietroburgo. (Citati, p. 281) Leggi tutto “FEDOR DOSTOEVSKIJ: Il male di vivere nell’individuo e nella società russa.”

Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte

INTRODUZIONE

Le diverse letture dello scrittore

Il II centenario della nascita di Dostoevskij è un’occasione per cercare di comprendere meglio lo scrittore difficilmente catalogabile con gli schemi di certa storia della letteratura. È anche l’occasione per rileggere testi, indubbiamente non facili, che, data la complessità delle vicende e soprattutto dei personaggi che vi si trovano, con tutti i loro tormenti interiori, possono disorientare chi vi si accosta senza una appropriata introduzione. C’è chi vi trova la vena autobiografica, che, senza alcun dubbio, permea molte pagine di quest’uomo, tanto inquieto e tanto toccato dal dolore, dal male, dallo stesso azzardo che lui ha conosciuto a partire dalla frenesia del gioco. C’è chi vi legge il tormentato ottenebramento, a cui va incontro un’Europa avviata ad un progresso industriale con l’illusione, coltivata, di poter godere del benessere, mentre invece essa scivola inevitabilmente verso una catastrofe, poi dilagata nelle tragedie del Novecento. C’è chi vi legge la ricerca spasmodica di una salvezza, tanto desiderata e nel contempo così difficilmente perseguita, mentre, con i contorcimenti psicologici che muovono verso la follia, imperversa una specie di “cupio dissolvi”, derivata dalla perdita della spiritualità, quella cristiana, a cui egli punta decisamente come la sola fonte di autentico rinnovamento.

Il pensiero dello scrittore: il senso della vita in mezzo al male

Non è facile seguire il suo pensiero, anche perché egli propriamente non è un filosofo, per quanto appaia sottesa, nei suoi testi, una certa filosofia della vita. E non è neppure un pedagogista o uno psicologo che si premura di scandagliare l’animo umano, soprattutto quando è in formazione, perché possa crescere secondo criteri ragionevoli, se non sono di fatto razionali. Egli è principalmente uno scrittore di romanzi, avendo trovato questa vena espressiva non solo come fonte di guadagno per vivere, ma come la sola modalità per lui di comprendere e spiegare il suo vissuto, estremamente tormentato, anche da una serie di circostanze drammatiche che hanno segnato la sua esistenza. Ciò che racconta sono indubbiamente vicende umane che lo sfiorano, se non altro perché molti dei suoi personaggi vivono qualcosa che appartiene alla sua stessa esistenza e riflettono mali e tormenti che lo toccano: chi ben conosce quanto egli ha vissuto, non fatica a trovare molti elementi autobiografici. E tuttavia, come succede a tanti scrittori, le sue storie sono pur sempre vicende umane, scandagliate soprattutto nel tormento interiore. Esse riflettono il parto travagliato di un umanesimo, soprattutto russo, che era in corso, in un mondo da troppo tempo in letargo e vorticosamente avviato a trasformazioni se-gnate poi dalla tragedia. Per quanto egli rifletta il mondo russo, di cui è figlio, e di cui, soprattutto, è espressione, tutto quello che scrive a proposito dell’uomo travalica comunque quel particolare mondo, e, per tanti versi, anche la sua epoca, così travagliata e sottoposta a cambiamenti, come sempre succede, non facilmente gestiti e soprattutto gestibili. Leggi tutto “Dostoevskij: una vita segnata dalla malattia, dal dolore, dal male, dalla morte”

Nel VII centenario della morte di Dante: nella sua morte, nella verità della sua vita.

DANTE

TRA IL MONTE DEL PURGATORIO

E LA “SUA” FIRENZE

(DOMENICO DI MICHELINO – 1465)

1

L’evento della morte di Dante

Come e quando morì Dante è ancora oggi avvolto nel mistero, perché le notizie che si hanno non sono univoche. Sembra assodato che già nel 1320 si sia trasferito a Ravenna, ospite del signore locale, Guido Novello da Polenta (1275-1333), che se ne servì per l’ambasceria presso il doge di Venezia, con cui Ravenna era in conflitto per le saline.

Ravenna era da sempre in rapporti piuttosto tesi con la metropoli lagunare, per inevitabili ragioni geopolitiche: i veneziani pretendevano il monopolio di tutte le merci che uscivano dal porto di Ravenna, in particolare una merce strategica come il sale di Comacchio, e i conflitti fra i due comuni, le accuse di contrabbando, gli accordi poi rinnegati o non mantenuti erano frequentissimi. Quell’estate Cecco Oderlaffi, subentrato da qualche anno al fratello Scarpetta nella signoria di Forlì, minacciava di far guerra a Ravenna e Venezia era disposta a finanziarlo; non sappiamo quale fosse il mandato di Dante, ma probabilmente il suo viaggio a Venezia doveva servire a prendere tempo e avvisare la Signoria dell’arrivo, più tardi, di una proposta concreta di accordo, che in effetti venne presentata da una nuova delegazione ravennate il 20 ottobre 1321.

Ma Dante era già morto da più di un mese, e di solito si conclude, tirando a indovinare, che ad ucciderlo sia stata una malaria fulminante contratta pro-prio durante quel viaggio tra le paludi. Rientra nella casistica dell’odio fiorentino per Venezia l’invenzione di Filippo Villani, secondo cui i veneziani, scarsamente preparati a confrontarsi con Dante sul terreno dell’eloquenza e spaventati dalla sua fama, rifiutarono di lasciarlo parlare, e quando il poeta, sofferente di febbri, chiede di poter rientrare a Ravenna via mare, egualmente rifiutarono, per paura che convertisse l’ammiraglio, costringendolo a uno scomodo rientro per via di terra che gli sarebbe costato così caro.

Come per tutto quel poco che sappiamo della sua vita, anche la data di morte di Dante è riferita da fonti contraddittorie. Secondo il Boccaccio morì il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, che corrisponde al 14 settembre, ma gli epitaffi che i letterati fecero a gara a scrivere per l’occasione data la morte del poeta alle idi di settembre, cioè il 13. Siccome uno di questi epitaffi, composto da Giovanni del Virgilio, è trascritto dal Boccaccio stesso, parrebbe che il biografo non ci vedesse nessuna contraddizione; e in effetti basta ricordare che le feste cristiane, in continuità con la tradizione ebraica, cominciano al tramonto della vigilia per concludere che Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero.

(Barbero p. 270-1) Leggi tutto “Nel VII centenario della morte di Dante: nella sua morte, nella verità della sua vita.”