LA SAPIENZA DEL VIVERE- Prolusione di inizio Anno Accademico

 

Il compito di chi nel passare degli anni ha maturato la sapienza e si è fatto un patrimonio di esperienze di vita è la consegna di sé e del proprio vissuto. Le parole sono lo strumento comunicativo per eccellenza e sono la modalità con la quale ciò che si è vissuto appare “spiegato” e quindi “ragionevole”, ma soprattutto “sapienziale”, diventando gustoso, interessante e più che mai appassionante. La consegna è indispensabile; è una sorta di “comandamento”, come l’amore, perché nel comandare “si dà la mano insieme”, come dovrebbe esserci fra le generazioni che si susseguono. Non si danno solo parole, libri, raccomandazioni, racconti o messaggi; ma si investe negli altri la propria persona con quanto uno ha vissuto, ben consapevoli che si trasmette con l’esempio, comunque tradotto in parole che lo spiegano, così come le parole che si dicono, richiedono fatti, azioni, esperienze di vita, altrimenti sono solo “flatus vocis”. Dobbiamo acquisire sempre più una capacità “narrativa” circa le e-sperienze della vita, perché chi ci segue possa apprendere la sapienza e quindi il gusto della vita, e lo possa ricevere in maniera credibile. Questo può aiutare a divenir “padroni di sé e del proprio vissuto”, che dà un maggior senso di sicurezza e quindi di fiducia. Il venir meno di una generazione al suo “dovere” (= ciò che uno ha da dare di sé) di consegna alla generazione che segue crea “dissociazioni” che si trasformano in squilibri personali e soprattutto sociali. È dunque necessario coltivare una riflessione, che non si limiti alla soddisfazione di passare un bel momento, ma che costruisca una coscienza vigile nella comunicazione significativa di sé. Un esempio di consegna,
che viene raccolta e assimilata, è quello riportato nel libro del Siracide, in cui si offre un preambolo al testo, nel quale lo scrivente dice di aver raccolto il messaggio, contenuto nel libro, dalla viva voce e dall’esperienza vissuta del nonno. Costui, poi, ha elaborato il testo in ebraico, che il nipote si premura di tradurre in greco, lingua più diffusa, perché anche altri possano attingervi la vita, per lui divenuta quanto mai significativa, proprio a partire dalla sapienza del nonno, frutto di un vissuto sostanziato dalla ricerca continua, perseguita con tenacia, e nel desiderio di compartecipare e di coinvolgere chi, seguendolo nella vita, ne avrebbe raccolto il testimone. Costui in effetti si premura di tradurre il libro e di far giungere ad altri l’insegnamento ricevuto.

LIBRO DEL SIRACIDE – PROLOGO

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IL PRIMO LIBRO LITURGICO.

Tra le prime opere redatte nell’ambito cristiano va annoverata anche questa
che risulta essere il primo documento della letteratura “liturgica”, adatto a far conoscere la Chiesa nella sua organizzazione cultuale. È una recente
scoperta, che ha contribuito a sviluppare gli studi nell’ambito della liturgia fin nei primi decenni del Novecento, quando, prima ancora della riforma attuata con il Vaticano II, si studiava e si promuoveva il ritorno alle fonti per un risveglio anche in questo ambito, dove la tradizione veniva concepita come il mantenimento delle posizioni e la conservazione rigida di ciò che si
considerava trasmissione di un passato da mantenere senza mai innovare.
Questo libro si presenta come la segnalazione di modi celebrativi che si
consideravano derivati dai tempi degli apostoli e che si riteneva utile
continuare. Leggi tutto “IL PRIMO LIBRO LITURGICO.”

ACTA MARTYRUM: PRIME TESTIMONIANZE STORICHE: LA PASSIONE DEI MARTIRI SCILLITAN-LA PASSIONE DI PERPETUA E FELICITA

INTRODUZIONE

ACTA, PASSIONES, LEGENDAE

Nella prima letteratura cristiana hanno un certo rilievo i testi che
documentano le persecuzioni nei confronti dei cristiani stessi. Esse si sono
scatenate a più riprese in modo organizzato anche per il furore del popolo o
del principe tempo. Se nel I secolo sono dovute in gran parte alle follie di
imperatori, che governavano ricorrendo alla violenza e alla mattanza di
oppositori, come succede al tempo di Nerone (54-68) e di Domiziano (81-96), poi, in presenza di una sorta di resistenza passiva, che li rendeva, come gli Ebrei, irriducibili al potere costituito, i cristiani sono stati ricercati e
condannati. Anche nel II secolo, sotto gli Antonini, o imperatori adottivi,
venivano accusati e puniti perché refrattari alla cultura dominante. Quando il fenomeno persecutorio diventa un sistema che dilaga nell’impero, se ne parla non solo nei testi degli storici, ma anche nei documenti del tribunale che affronta la questione. E di qui passano anche tra le mani dei cristiani.
Nascono così le prime redazioni di resoconti del martirio, soprattutto in
presenza di personaggi che avevano un certo rilievo nella prima Chiesa o nel
territorio dove scoppiavano le persecuzioni. I testi, raccolti e fatti conoscere, sono gli stessi resoconti dei tribunali, sia nel caso che provengano direttamente di lì, magari con la complicità di qualcuno che lavora in tribunale, sia perché il redattore finale lo ricava di lì, essendo presente alla scena. Così i verbali, ridotti all’essenziale, poiché riproducevano le domande degli inquirenti e dei giudici e le risposte dei condannati, diventavano non solo la documentazione storica per il sistema giudiziario romano, ma anche un testo autorevole con cui la comunità cristiana riconosceva e glorificava i suoi eroi.
Quando i cristiani si trovavano a celebrare la memoria dei martiri sulle loro
tombe, leggevano queste composizioni, che in tal modo si aggiungono ai testi biblici; essi poi vengono conclusi con la dossologia, mediante la quale la glorificazione dei caduti per la fede diventa una glorificazione di Dio. In
assenza dei verbali, fioriscono i racconti dei testimoni oculari, o anche di
coloro che sono coinvolti nel martirio e che lasciano come una specie di
testamento, per richiamare, a chi resta, la coraggiosa testimonianza dei
caduti. Simili testi fioriscono in occasione delle persecuzioni che un po’
ovunque si verificano, soprattutto nell’intento di sradicare la “mala pianta”, considerata rovinosa perché mina alla base il sistema di potere.
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San Giustino: le due apologie e il dialogo con Trifone.

PREMESSA:

IL CRISTIANESIMO E IL PREGIUDIZIO

La religione cristiana si è presentata come una derivazione dal mondo ebraico: fin dalle sue origini, i promotori della sua diffusione, i discepoli mandati “fino agli estremi confini della terra” da Cristo dipendono strettamente dalla sinagoga, che frequentano tutti i sabati per le letture, mentre, passato il sabato, la sera stessa di quel giorno, si trovano nelle case per “la cena”, che diventerà progressivamente la loro riunione caratteristica. Fino al 70, anno della distruzione di Gerusalemme, i cristiani, pur nella diffidenza e nell’ostilità dei farisei e dei sacerdoti del tempio, cercano sempre il contatto con la sinagoga, come vediamo fare da Paolo nei suoi viaggi. E nei primi discorsi che troviamo riassunti da Luca negli Atti degli Apostoli, appare con chiarezza che il Dio di Cristo è sempre quello dei Padri d’Israele, e che dunque deve essere rivendicato questo legame con la storia ebraica. Anche tra la gente comune si riflette questa impostazione: quando a Roma, nel 49, avvengono tumulti a causa delle contestazioni ebraiche nei confronti dei cristiani, dovute a motivo di un certo Cristo, che, per quanto scrive Svetonio (“impulsore Chresto”), sembrava essere il fomentatore delle risse, Claudio volendo la pace e la tranquillità, decide di mandar via tutti, Ebrei e Cristiani. E così accontenta la popolazione che voleva la quiete pubblica. Ma di fatto il decreto di espulsione non va a buon fine, se molti rimangono ed altri confluiscono a Roma, dove, secondo Tacito, arriva di tutto, comprese le superstizioni più vergognose. Lo storico dice questo, mentre sta raccontando che Nerone si defila dalla responsabilità dell’incendio, che lui ha appiccato ad alcuni quartieri della città, accusando i cristiani di questo. Nell’esposizione si deve notare che lo storico ha raccolto alcune informazioni sul Cristo, pur riconoscendo questa fede come una pericolosa superstizione. Leggi tutto “San Giustino: le due apologie e il dialogo con Trifone.”

S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.

S. Clemente nella chiesa di Santa Sofia a Kiev

PREMESSA:

NELL’EPOCA POSTAPOSTOLICA

E LA SITUAZIONE A CORINTO

Fra gli scritti dei primi anni dopo la redazione dei testi neotestamentari (vangeli e lettere apostoliche), spiccano alcuni, che al loro primo apparire vengono catalogati come testi ispirati, e quindi parte integrante del “canone biblico”. Poi però, anche ad essere sempre ben valutati, e a farvi ricorso nelle circostanze che presentano i medesimi problemi, non dovunque sono inscritti nell’insieme dei libri biblici, e di fatto in poco tempo si troverà estromesso da essi. Uno fra i documenti meglio apprezzati e circondati da stima e onore, è la lettera scritta da Clemente, che è il quarto vescovo di Roma, e che assume un rilievo non indifferente nella Chiesa di allora, grazie a questo scritto. Si tratta di una missiva per i cristiani di Corinto, dove continuavano le divisioni già documentate nella prima lettera di S. Paolo ai cristiani di quella città. Siamo comunque a 40 anni circa dal testo paolino; e quindi le persone a cui Clemente si rivolge sono altre; ma il problema persiste, segno di una comunità segnata da questo male, ben radicato. L’apostolo, fin dalle prime battute della sua lettera tocca l’argomento, rilevando la presenza di “partiti”, cioè di gruppi che facevano riferimento all’appartenenza a qualche figura carismatica. Non sembra che ci siano forme di eresie, e quindi di dottrine varie e contrapposte; prevale invece quel tipo di personalismo che non favorisce affatto la familiarità e la fraternità.

1Corinzi, 1,10-12

Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo.

Se anni dopo – siamo alla fine del I secolo – il medesimo clima affiora, vuol dire che un simile malessere è radicato: non basta più la lettera di Paolo, che pur si dovrebbe ritenere un intervento autorevole e da considerarsi indiscutibile; occorre che la figura di spicco in quel periodo prenda posizione, aggiornando la lettura della questione. Leggi tutto “S. Clemente: l’autorità di Roma e la fraternità tra le chiese.”

AL SEPOLCRO DI GESÙ.

E FU SEPOLTO

Ancora oggi nella formula di fede, con cui pubblicamente i cristiani esprimono la loro adesione al Signore Gesù, essi dicono di credere a tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo percorso terreno, compresa la conclusione della sua sepoltura, mediante la quale “si mette una pietra sopra”, per dire così che tutto è finito. Ma quel fatto, pur così importante, se ancora viene segnalato nella professione di fede, non è affatto l’ultima parola con cui viene chiusa l’esistenza terrena di Gesù. La sepoltura risulta sola-mente un passaggio che introduce ad un mondo diverso: se Gesù è vis-suto dentro uno spazio preciso, come quello della Palestina, e dentro un periodo storico, come quello dell’Impero di Augusto e di Tiberio, con la morte noi dovremmo considerare chiusa definitivamente la sua esistenza, e così lo spazio è solo quello di una tomba che lo racchiude e il tempo, che continua a procedere, per lui si è fermato. Eppure questa sepoltura non è affatto la parola definitiva per Gesù: la nostra fede ci dice che lui ha superato le barriere della morte, per entrare in un’altra condizione di vita. Fa in modo di essere visto, e alcuni possono raccontare di averlo incontrato, perché lui si è mosso a cercarli. Ma egli vive in una dimensione nuova, se non altro perché lo vedono contemporaneamente in luoghi diversi, perché la sua presenza fisica non risulta spiegabile secondo criteri scientifici, anche se c’è gente che dice di averlo visto vivo, quando in precedenza avevano dovuto costatare che era morto e che era stato sepolto, per quanto la sua tumulazione risulterà essere stata provvisoria. Non lo è stata, perché chi ha fatto questa operazione aveva già in mente l’ipotesi della risurrezione, come un dato sicuro ed incontestabile sulla base di ciò che Gesù aveva anticipato. La ragione della fretta di depositarlo nella tomba derivava dal fatto che non avevano lassi di tempo per una operazione del genere, essendo imminente la festa di Pasqua e il comando rituale del riposo più rigoroso. Comunque nella tomba viene collocato ed era destinato a rimanere, così come erano assolutamente certe le donne di ritrovarlo disteso e pronto per le azioni necessarie a ripulirlo e a comporlo secondo le usanze, ma più ancora secondo le esigenze dell’affetto che le legava a quell’uomo. E se esse conservavano il desiderio di intervenire per lui, questa loro attesa spingeva ad affrettarsi, perché di buon mattino fossero sul posto a continuare la loro opera di devozione. Leggi tutto “AL SEPOLCRO DI GESÙ.”

LA DIDACHE’: IL PASTORE DI ERMA

PREMESSA:

SCRITTI DIDASCALICI

Fin dalle origini del Cristianesimo si è avvertita la necessità di comporre scritti da accompagnare alla fase orale delle predicazione itinerante, che vedeva gli Apostoli e i loro collaboratori impegnati nel bacino del Mediterraneo e anche altrove in Oriente per comunicare il Vangelo non ancora fissato in libri. Nel periodo in cui sono ancora vivi gli Apostoli, si fa, certo, memoria di ciò che Gesù ha detto e ha fatto, ma la composizione scrit-ta delle sue vicende e della sua predicazione si ha dopo la distruzione di Gerusalemme e la diaspora ebraica che ne segue. Ne deriva anche una più marcata separazione fra mondo ebraico e mondo cristiano, che comporta la definizione di una morale e di una liturgia nuova che devono caratterizzare i cristiani. Negli stessi vangeli si avverte l’esistenza di una polemica sempre viva ed accesa fra Gesù e i farisei: essa probabilmente apparteneva di fatto al periodo successivo, quando i cristiani devono più che mai distinguersi rispetto agli Ebrei, i quali del resto nel mondo romano costituiscono un problema politico non irrilevante per la loro resistenza ad accettare il dominio di Roma. Probabilmente in presenza di tensioni esistenti con gli Ebrei che resistono e spesso anche fanno ricorso ad attentati, chi derivava da loro, come i cristiani, fino ad allora legati alla celebrazione tenuta in sinagoga, sentiva l’esigenza di marcare la diversità, sia sotto il profilo dottrinario, sia sotto quello liturgico. Forse, questa necessità portava a segnalare presso i cristiani i tratti distintivi della propria dottrina e delle proprie adunanze celebrative: è una esigenza diffusa che dà origine a testi redatti con questi intenti e offerti alle diverse comunità sparse per tutto l’impero. I testi scritti devono servire alla comunità di riferimento perché possa regolarsi anche in presenza di interventi dell’autorità locale chiamata a vigilare circa le attività che si immaginavano sovversive da parte degli Ebrei e di coloro che apparivano ad essi affiliati. Ci si spiega così la presenza di alcuni libri che vogliono offrire un po’ di chiarezza sia nell’ambito della morale e soprattutto testi eucologici, cioè preghiere e formulari per le assemblee celebrative, al fine di garantire documenti sicuri che permettano di giustificare i riti e i comportamenti dei cristiani, non solo per l’organizzazione interna, ma anche per favorire attorno una migliore conoscenza del nuovo fenomeno religioso che già appariva diffuso. Leggi tutto “LA DIDACHE’: IL PASTORE DI ERMA”

S. Ignazio di Antiochia e le sette lettere

PREMESSA:

SCRITTI APOSTOLICI E POST-APOSTOLICI

C’è una copiosa letteratura cristiana antica, ai più poco nota, che rivela una produzione di notevole valore e meritevole di essere conosciuta anche oltre gli addetti ai lavori, anche oltre i credenti, che comunque ben raramente vi si accostano. La produzione scritta si sviluppa già ai primi tempi: si conoscono diverse lettere spedite dagli apostoli alle loro comunità, di cui si conservano quelle che oggi appartengono al “canone” e sono quindi ritenute “ispirate”. Nelle stesso periodo i detti di Gesù venivano diffusi per via orale, attraverso la predicazione dei discepoli, che raccontavano le proprie esperienze e mettevano in luce gli episodi necessari per illustrare meglio la dottrina, cioè gli elementi qualificanti del vivere e dell’operare di chi voleva essere cristiano e voleva testimoniare la propria fede. Poi, forse anche per la congerie di documenti e soprattutto di versioni che potevano anche allargarsi a comprendere pure ciò che non si poteva ritenere uscito dalla bocca del Maestro, si arrivò alla decisione di scrivere quei libri che sono noti come “Vangeli”, in quanto contengono la “bella notizia” che ha come protagonista Gesù di Nazareth. Tra questi libri, scritti probabilmente dopo la catastrofe di Gerusalemme distrutta dai Romani nel 70, e proprio perché di qui si ebbe il distacco dei cristiani dal mondo ebraico, così duramente provato con la rivolta finita male, emergono i quattro considerati “canonici”, perché tutte le Chiese li ritengono tali, mentre altri, poi definiti “apocrifi”, non sono ritenuti ispirati e quindi essenziali per la fede da parte di tutte le Chiese sparse nel mondo occidentale e orientale dell’Impero. La medesima considerazione accompagna i testi attributi a Paolo, e cioè le sue lettere scritte a diverse comunità, che sempre più, già in questo periodo si utilizzano negli incontri di preghiera. Questa fase di valorizzazione di testi scritti, accanto alle comuni-cazioni orali che continuano, non si esaurisce con l’età “apostolica”, cioè quando sono ancora vivi e operanti coloro che sono stati protagonisti con Gesù del vangelo, essendo stati designati da lui. Quando, verso la fine del secolo I, si esaurisce questa età, perché scompaiono gli apostoli e si passa all’età successiva, il posto di guida viene affidato ai collaboratori, che li hanno seguiti e sono diventati i loro successori, con la designazione di “ispettori” (in greco = episcopoi). Anche costoro ricorrono a lettere e ad altro genere di scritti per comunicare la fede e soprattutto dare istruzioni e incoraggiamenti alle comunità non facilmente raggiungibili. Leggi tutto “S. Ignazio di Antiochia e le sette lettere”

Storia della Cina: Francesco Saverio e i primi gesuiti in Cina

INTRODUZIONE

L’opera storica che Matteo Ricci scrive ha come titolo: “Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina”. Per la lingua che usa e, più ancora, per il genere di contenuti che vi trovano ampio spazio, si deve pensare che essa non si preoccupi di dialogare con il mondo cinese, come avviene invece in altre opere da lui lasciate. Questo è evidentemente un lavoro che deve spiegare in Occidente e, in modo particolare, nel mondo cattolico, come sia stata condotta l’attività missionaria che il gesuita marchigiano si prefiggeva di compiere e che costituiva l’assillo fondamentale del nuovo Ordine religioso, da poco fondato e già schierato sui diversi fronti dei luoghi geografici che erano stati contattati nei viaggi avventurosi del secolo. Se in altri settori Ricci si rivela un uomo ben avviato negli studi scientifici e soprattutto preoccupato di comunicare in maniera rispettosa con il mondo cinese, qui, in un ambito più propriamente storico, tenuto conto che deve riferire alla Compagnia, secondo le richieste del fondatore, fatte ai suoi missionari in giro per il mondo, vediamo emergere una cura più attenta, da parte dello scrittore, per giustificarsi nel suo modo di operare. Egli si deve mettere sul solco dei suoi immediati predecessori, che hanno aperto la strada per la presenza, non solo degli occidentali, ma soprattutto dei missionari del vangelo in Cina. Se Ricci appare spesso dominato da un tipo di “curiosità” scientifica, che lo fa essere attento alla cultura cinese e dialogante con essa, qui si fa strada, più che lo storico, il cronista della missione, e quindi colui che deve spiegare ai superiori le linee guida della sua azione, in cui predomina l’obiettivo di proporre il vangelo e di farlo conoscere con lo spirito dei pionieri. Costoro, anni prima della sua venuta in Cina, hanno comunicato il vangelo secondo l’impostazione allora perseguita di ottenere conversioni e adesioni alla Chiesa, già squassata da scismi ed eresie, che in Europa avevano lacerato la sua unità e compattezza. Soprattutto a partire dalla intraprendenza dei Portoghesi, i Gesuiti cercavano di accompagnarsi a loro, anche perché i Lusitani avevano una buona flotta e notevoli interessi un po’ dovunque, nell’intento di creare punti di approdo, a partire dai quali potevano creare sbocchi di mercato per raccogliere materiale e smerciare. Da quando erano iniziati i viaggi sull’Atlantico con l’intenzione di raggiungere più facilmente quello che nella geografia di allora risultava l’Oriente, senza la cognizione che ci fosse un continente in mezzo, l’obiettivo rimaneva comunque Cipango (Giappone) e Catai (Cina), ma più ancora l’India sempre considerata “favolosa” per le ricchezze che si ipotizzava di trovarvi. Leggi tutto “Storia della Cina: Francesco Saverio e i primi gesuiti in Cina”

LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.

INTRODUZIONE – Occorre ribadire che lo scopo fondamentale del viaggio di Matteo Ricci in Cina e più ancora della sua relazione scritta che ci fa conoscere la Cina con i suoi occhi, secondo il metodo dell’autopsia, è quello di seminare la parola evangelica, anche se nel modo stesso che Ricci ha di operare e poi di redigere la sua relazione, egli lascia questo obiettivo sullo sfondo. Preferisce cercare un approccio rispettoso con il mondo cinese, che egli deve riconosce costruito su una profonda e seria ricerca della saggezza, che fa ritenere i costumi cinesi degni di rispetto. Non si verifica uno scontro, ma si assiste ad un vero e serio confronto, che poi a Roma darà adito a qualche sospetto, come se Ricci volesse perseguire un certo sincretismo. La Controriforma, che si respirava in Europa, vedeva una rigida contrapposizione contro ogni altro credo religioso che non fosse il Cattolicesimo: esso si riteneva accerchiato, e reagiva in modo dogmatico e senza un vero spirito dialogico. Anzi, non lasciava molto campo di libertà per questo modo che aveva Ricci, e con lui, l’avanguardia missionaria gesuita, nel suo contatto con un mondo ritenuto lontano dal Cristianesimo e come tale considerato terra di “conquista”. Ricci, da missionario, non si poteva sottrarre al suo mandato; ma nel contempo non poteva neppure presentarsi con tutto il suo apparato dogmatico da imporre in un mondo già sospettoso e poco incline a “lasciarsi inglobare”, mentre era piuttosto teso ad “inglobare” il resto del mondo. Se in altre aree del mondo, dove sembrava fin troppo evidente la condizione di uno “status” ancora primitivo con usi e costumanze ritenute inadeguate, secondo una certa visione umanistica, acquisita e data per scontata in Europa, qui invece si respirava un mondo di natura filosofica e morale, con cui si poteva dialogare, come del resto era stato fatto già agli albori del Cristianesimo tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano. Così la componente religiosa, che si sarebbe dovuta ritenere prioritaria, affiorava non soltanto perché Ricci era un prete con questo specifico incarico, ma perché la scoperta in Cina di una religiosità radicata doveva più che altrove richiedere particolare attenzione. Proprio questo spirito religioso va riconosciuto come essenziale nella storia cinese; si potrebbe dire che anche negli anni del furore persecutorio contro ogni forma religiosa e nel vano tentativo di mortificare ogni credo religioso, comunque questo spirito è radicato e come tale è da associare alla conoscenza storica della Cina.

LA RELIGIOSITA’ CINESE

E CONFUCIO Leggi tutto “LA CINA AL TEMPO DI MATTEO RICCI: Problemi di natura morale e religiosa.”