La Rus’ di Kiev

INTRODUZIONE:

UNA VISIONE STORICA “IMPERIALE

Gli eventi in corso nello scontro fra Russia e Ucraina si presentano come un insieme di fatti che non possiamo ascrivere alla storia, essendo ancora sotto i nostri occhi e senza una prospettiva che si possa dare per sicura e chiara. Tuttavia, anche senza entrare nelle polemiche che li accompagnano e che spesso dipendono da una visuale ideologica e soprattutto partitica, noi possiamo dire che qui è in corso un assestamento geopolitico, ereditato dal tracollo dell’URSS. Quel mondo, ovviamente non c’è più. Noi abbiamo cullato l’idea che l’assetto successivo fosse ormai consolidato e che la tensione derivata dalla divisione in due blocchi contrapposti si era esaurita e che non sarebbe più ricomparsa. Di fatto, al mondo considerato monolitico, perché tutto costruito sulla ideologia comunista e sulla preminenza del PCUS nelle 15 repubbliche sovietiche tra loro federate, con la caduta del comunismo si è fatto strada un sistema di Stati, che sono diventati completamente autonomi e riconosciuti indipendenti dalla comunità internazionale, anche ad aver avuto secoli di cammino in comune con la Russia.

Ciò che era noto come Russia e che di fatto si estendeva dal Baltico agli Urali, aveva dato origine ad una nuova federazione di Stati, comprendendo tanti territori autonomi, ma comunque sempre integrati al potere centrale di Mosca, aggiungendo a questa realtà anche il vasto mondo della Siberia, che alcuni hanno considerato come una sorta di territorio coloniale alle dipendenze da Mosca. A ben considerare questa realtà così composita, dove non ci sono i soli russi ad abitare, per quanto essi siano prevalenti sulle altre popolazioni, c’era da aspettarsi che dopo il turbamento creato dalla caduta del mondo sovietico, ritornasse a galla la visione del mondo russo che si era formata con lo zarismo e che non era affatto tramontata con la Rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. La Russia, nella sua storia, è sempre stata di fatto una potenza imperiale, proprio per la presenza nello Stato zarista e bolscevico di popolazioni di-verse, aggregate a viva forza più che per consenso. La politica imperiale della Russia si è anche trasformata in una politica imperialista quando la medesima visione del mondo voleva essere portata fuori dei suoi confini, già imperiali, per arrivare a quegli sbocchi, soprattutto sul mare, che avrebbero consentito una visione ancora più ampia. Insomma, non è mai morta nei Russi la convinzione di essere chiamati nella storia ad avere un ruolo “mondiale”: la perdita degli Stati confinanti, che avevano da tempo condiviso la storia con la Russia appariva come una decurtazione territoriale, come la volontà degli altri Stati, soprattutto di quelli occidentali, di intervenire a limitare le aspirazioni di grande potenza della Russia. Anche a non voler ripristinare le forme istituzionali precedenti, e cioè la monarchia zarista e il bolscevismo dell’Internazionale, si è fatto strada un disegno di tipo imperiale che permettesse alla Russia di trovare il suo ruolo nel mondo. Soprattutto in presenza di un nuovo assetto, che sem-brava far nascere ai propri confini l’Unità europea, per quanto ancora filo-atlantica, e dall’altra una Cina sempre più “tigre aggressiva e rampante”, diventava e diventa necessario ribadire quel ruolo imperiale che fa parte della storia della Russia. Questo sembra essere il disegno oggi prevalente nella politica russa, che non si può pensare sia di un solo uomo, come Putin, ma di fatto espressione di una Russia profonda, la cui visione e lettura storica si muove un po’ da sempre in una simile direzione.

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IN MEMORIA DI BENEDETTI MAURIZIO

A due anni dalla  scomparsa del prof Maurizio Benedetti, Don Ivano scrive:

PER UNA ECONOMIA A DIMENSIONE UMANA

Il nostro tempo continua a passare. Chi è già approdato all’altra riva lascia il suo tempo a noi, perché in noi continui. Dobbiamo cercare di fissare alcune affermazioni che restano vive nella memoria e che danno quanto di meglio uno può lasciare di sé: lì continua a vivere lo spirito e diventa per noi una scintilla dello Spirito divino, che appare sempre più “Signore” e ancor di più come “colui che dà la vita”.

A noi restano i ricordi, vengono alla mente alcune parole e momenti belli trascorsi insieme, ma soprattutto riemerge quanto di più vivo una persona cara ci ha trasmesso e che ora sperimentiamo in tutta la sua carica di verità, in tutto il suo valore. Se molte cose rimangono nella mente e nel cuore, altre vanno richiamate, perché ora, più che allora, ci risultano di notevole importanza e sentiamo quanto mai arricchenti per il percorso di vita che ancora ci resta da fare e che vorremmo compiere accompagnati, come allora, da chi avvertiamo sempre più come un aiuto, un sostegno, un incoraggiamento continuo. Leggi tutto “IN MEMORIA DI BENEDETTI MAURIZIO”

Verga: Novelle rusticane.

Quella fatale tendenza verso l’ignoto che c’è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell’amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime – e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati – o assai più modesti, secondo il punto di vista – e non verrebbe che l’ultimo nella scala dei sentimenti?… La colpa più grave del fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia? (da “Primavera e altri racconti”, X, p. 54-55)

SCRITTORE DI NOVELLE

Si potrebbe dire che Verga nasce come narratore e soprattutto come romanziere e che il ricorso al racconto breve sia solo un esercizio in vista del racconto più complesso e più completo. In realtà il genere della novella, che nella nostra storia letteraria è quanto mai diffuso e ricorrente, non serve a lui solo per abbozzare, per costruire delle macchiette, per sperimentare un genere, quello verista, che poi utilizza in maniera più consapevole con i lavori che sono destinati a dargli fama e soprattutto una sorta di magistero nell’ambito del suo stile e della sua scuola di pensiero. Indubbiamente i brevi racconti sono per tanti versi come degli esercizi per apprendere il suo stile e soprattutto quella padronanza dei temi e dei personaggi che egli si apprestava a costruire con i suoi romanzi. Leggi tutto “Verga: Novelle rusticane.”

Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.

Don Gesualdo … ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. … Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo.

(Mastro – don Gesualdo, parte III, cap. II, p. 198)

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SEMPRE PIU’ NEL MONDO DEI VINTI

Verga si era prefisso di completare il ciclo dei “vinti”, analizzando una serie di personaggi che, pur nei diversi gradini della scala sociale, sono destinati ad essere trascinati via dalla storia, nella sua inesorabile corsa. Ma anche ad aver chiaro il piano redazionale, Verga non riuscì a portare a termine il suo intento. E questo non tanto perché gliene mancasse il tempo, quanto piuttosto perché, se si era esaurita la sua vena narrativa in questa direzione, non aveva neppure senso che si proseguisse in questa visione che voleva essere realistica, ed era divenuta pessimista ad oltranza. Per comprendere meglio il suo disegno incompiuto, dovremmo pensare al clima culturale nel quale lo scrittore si trova immerso durante gli anni ’80 del secolo, quando egli è ormai nel pieno della sua maturità u-mana e letteraria. All’inizio di quel decennio compare il suo capolavoro sulla famiglia di pescatori, animata, nei suoi protagonisti, dal desiderio di affrancarsi da una vita di stenti, non tanto per raggiungere posizioni im-probabili e impossibili, quanto piuttosto per procedere in un vivere più umano, sia nella direzione della salvaguardia dei valori della famiglia, come vorrebbe Padron ‘Ntoni, sia nel cercare altrove nel mondo quel ri-scatto che il paese di origine non garantisce affatto, come è nei sogni di ‘Ntoni, il nipote. È così tratteggiata una famiglia e insieme è delineato il percorso generazionale, che tuttavia non assicura affatto la redenzione, il riscatto sociale, quello auspicato e fatto balenare nel periodo epico e glorioso del Risorgimento, in cui uno dei componenti della famiglia, il giovane Luca, viene sacrificato nella battaglia di Lissa, che lo inghiotte. In base a quanto Verga dice sul ciclo dei vinti, qui dovremmo essere alla base della scala sociale, quella fatta di proletari, secondo lo schema di tipo marxista predicato in quei tempi, ma non condiviso dallo scrittore, che non proveniva da quelle fila. L’analisi offerta nel romanzo non segue i criteri che la filosofia e la dottrina politica, già dibattuta in quegli anni, metteva in circuito. E neppure si deve pensare che la chiave interpretativa del romanzo sia quella di natura sociologica e in particolare regionalista, quasi a volere una sorta di riscatto sociale e politico delle terre del Sud, rimaste deluse dopo l’epopea garibaldina. Da acuto lettore del suo mondo, era inevitabile che Verga parlasse della sua terra e offrisse nei suoi “eroi vinti” l’immagine del titanismo di riscatto, reso impossibile dalla mancanza di quella Provvidenza, che invece aveva arriso agli eroi del romanzo manzoniano, espressione vertice della letteratura romantica, ormai superata. Proprio la “Provvidenza”, la barca da cui ci si riprometteva il riscatto, finiva sugli scogli e con essa il sogno di rivincita, di risurrezione. La classe degli “umili”, come li considerava Manzoni, tutti fiduciosi nella divina Provvidenza che comunque “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”, non appariva ancora nella nuova Italia come la classe che potesse divenire protagonista della propria storia, capace di riscatto. E tuttavia essa costituiva indubbiamente, almeno sotto il profilo numerico, la forza su cui puntare per costruire una nuova “storia”; ma occorreva che ne venisse una coscienza più matura. Finora viene a mancare quella che poi emergerà come coscienza di classe. E non si poteva affatto pensare che Verga puntasse su questo nella sua analisi del mondo rurale o contadino, il mondo cioè di coloro che solo potevano immaginare, secondo schemi consolidati, di tentare un vivere diverso, che tuttavia non li avrebbe mai portati a cambiare la propria “natura”. Cercare la scalata sociale, quella che può far pensare di uscire da una atavica povertà per raggiungere una posi-zione impensabile e impossibile, risultava essa pure ardua e destinata al fallimento, a ricacciare il “nuovo” eroe tra i vinti. È quanto succede al “nuovo” eroe, che di fatto è anche l’ultimo. Lui pure, come già la famiglia Malavoglia, è destinato al fallimento, e il suo è per tanti versi davvero molto rovinoso. E tuttavia anche in questo suo lavoro Verga ha qualcosa da dire non solo sull’Italia della fine Ottocento, ma, proprio perché non si limita a registrare il suo tempo, a fare dell’analisi di carattere sociologico o ideologico, egli può offrire una lettura “umanistica” che travalica la contingenza e si spinge a considerare il personaggio “tipo”, come un per-sonaggio “metastorico”, per quanto sia di fatto inquadrato in un periodo ben preciso della storia siciliana e italiana. Leggi tutto “Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.”

9 maggio: memoria del beato Serafino Morazzone

LA BIOGRAFIA

Prete Serafino Morazzone” diventa beato a quasi due secoli dalla morte. Un altro “Curato d’Ars”: lo definisce così il B. Card. Schuster. Ma lui precede negli anni il curato del villaggio francese, in quanto Giovanni Maria Vianney vive fra il 1786 e il 1859. Certamente poi il B. Serafino è meno noto e la sua santità è celebrata solo fra il Resegone e il lago, nella più periferica parrocchia di Lecco.

Tra i due comunque c’è una straordinaria sintonia spirituale e umana. A cominciare dalle umilissime origini, perché Serafino arriva da una famiglia povera e numerosa. Suo padre ha una minuscola rivendita di granaglie e vive in un modesto alloggio di Milano, dalle parti di Brera: qui nasce Serafino, il 1 febbraio 1747. Dato che vuole farsi prete e mancano i soldi per farlo studiare, i gesuiti lo accolgono a titolo gratuito nel collegio di Brera. E qui inizia la sua “carriera ecclesiastica”, che non prevede però cambiamenti di natura sociale: a 13 anni riceve la talare, a 14 la tonsura, a 16 i primi due ordini minori. A 18 anni, per potersi pagare gli studi, va a fare il chierichetto in Duomo: per dieci lire al mese, al mattino presta servizio all’altare e al pomeriggio studia teologia. Così per otto anni, fedelissimo e puntuale, cortese e sorridente. A 24 anni riceve gli altri ordini minori e due anni dopo, a sorpresa, gli fanno fare concorso per Chiuso, nel lecchese: una piccola parrocchia che all’epoca conta 185 abitanti ed alla quale nessun altro aspira. Vince il concorso, ma non è ancora prete; così, nel giro di un mese, riceve il suddiaconato, il diaconato e l’ordinazione sacerdotale e il giorno dopo è già insediato a Chiuso: vi resterà per 49 anni, cioè fino alla morte. Per scelta, perché anche quando gli offriranno parrocchie più importanti o incarichi più onorifici sceglierà di essere sempre e soltanto il “buon curato di Chiuso”, da cui non si allontanerà mai. Testimoni oculari hanno attestato le lunghe ore trascorse in ginocchio nella chiesa parrocchiale e quelle, interminabili, trascorse in confessionale ad accogliere i penitenti. Ovviamente non soltanto i suoi, ma pure quelli che arrivano da Lecco e dai paesi vicini. Perché a Chiuso, come ad Ars, si fa la fila per andarsi a confessare dal “beato Serafino”, come lo chiamano i contemporanei, mentre lui si considera solo un povero peccatore, infinitamente bisognoso della misericordia di Dio e delle preghiere del prossimo. Le sue ottengono miracoli, ma lui non se ne accorge, impegnato com’è a non trascurare neppure uno dei suoi parrocchiani: raccontano che i malati li va a trovare anche di sera o di notte, se non è riuscito a farlo di giorno, e così tutti i giorni, fino a quando si ristabiliscono o chiudono gli occhi per sempre. E non solo per portare loro i conforti della religione: dicono che i bocconi migliori e tutto quello che gli viene regalato siano per i suoi poveri, per i suoi malati. Ad uno, piuttosto male in arnese,  finisce per regalare anche il suo materasso, di cui per un bel po’ deve fare a meno, perché nessuno si è accorto del suo gesto di carità. Ai ragazzi, oltre al catechismo, insegna a leggere e a contare, in una specie di scuola che ha aperto in canonica, forse ricordando quanto anche lui ha faticato a studiare. Muore il 13 aprile 1822 e un piccolo giallo avvolge la sua sepoltura, quando ci si accorge che di lui non c’è traccia nella fossa che dovrebbe essere la sua. Il giallo si risolve grazie alla testimonianza di un anziano: i parrocchiani, che non si rassegnavano a saperlo nella nuda terra del cimitero, lo avevano esumato la notte stessa del funerale, adagiandolo sotto il pavimento della chiesa, in barba a tutte le disposizioni di legge. Leggi tutto “9 maggio: memoria del beato Serafino Morazzone”

GESU’ E’ RISORTO E LA PASSIONE CONTINUA

PASQUA 2022

IL RISORTO SI FA VEDERE AI SUOI

E FA VEDERE UN VIVERE MIGLIORE

Gesù è ancora vivo, più vivo che mai! Uscito dal sepolcro, non è an-dato a vendicarsi da quelli che lo avevano voluto morto, ma neppure a dire loro che gli sforzi, prodotti per eliminarlo per sempre, erano andati a buon fine. Lui si fa invece vedere ai suoi amici, che pure erano sconvolti per la piega presa dai fatti travolgenti: li raggiunge, senza fare nulla di clamoroso; anzi, sembra quasi che debbano esse-re loro a cercare e a scoprire che Lui continua a vivere la passione che lo ha segnato. Ed in effetti il Risorto mostra loro i segni della passione e dice di voler essere riconosciuto così, che a partire da quei segni i discepoli potranno avere luce e chiarezza, forza e corag-gio per iniziare la loro avventura. Anch’essi, se vogliono risorgere, o non più morire, devono portare i medesimi segni della passione, de-vono passare da quel patirci o da quell’appassionarsi che rende bel-la, autentica, straordinaria, la vita, meritevole di essere vissuta. Non ci dà l’esaltazione del dolore fisico, non ci chiede di cercare e di pro-vare i mali che assalgono il nostro corpo: questi vanno piuttosto combattuti con tutti i mezzi. Portando i suoi dentro la medesima si-tuazione in cui si è trovato e per la quale è stato tolto di mezzo, Lui vuol dire ai discepoli, di allora e di oggi, che proprio nelle circostan-ze in cui l’odio sembra avere il sopravvento e con esso un modo di vivere all’insegna dell’inganno, della brutalità, della menzogna, della sopraffazione, noi dobbiamo continuare la nostra passione, la sola in grado di garantire la risurrezione vera e duratura. Sì, dentro que-sto mondo e questo tempo, così segnato dalla morte per le tante brutalità che si commettono sui fronti delle guerre e dentro il vivere quotidiano, abbiamo bisogno di persone risorte, che anche a portare nel cuore e nel corpo i segni della propria passione, cercano di rag-giungere quanti sono delusi, quanti sono tentati di lasciarsi andare allo sconforto, quanti cercano evasioni inutili che non potranno mai vissuta qualificare l’esistenza, per farla divenire più umana, più meritevole di essere . Gesù ha fatto così con i discepoli; così fa pure con noi, mediante persone che, pur toccate dal male, sono sempre a disposizione per vivere meglio e far vivere meglio. Ci potrà capitare di incontrare qualcuno che porta in sé i segni di un male che fa la sua azione devastatrice, che ha nell’animo un cruccio o un tormento per esperienze amare e dolorose, che si porta nel cuore un’offesa e, più ancora, una grande inquietudine per un futuro incerto: se però di lì ci arriva una visione mai disperata, una lettura dei fatti che cerca vie d’uscita insperate, la carica a voler trovare sempre il lato migliore della vita, allora possiamo dire che la passione non si ferma. Lì ab-biamo incontrato il Risorto. Cerchiamolo vivo, cerchiamolo tra i vi-vi, cerchiamolo tra coloro che oggi fuggono dagli orrori delle guerre, dalle miserie di un vivere sempre più faticoso, da esperienze sba-gliate che appesantiscono l’esistenza: se abbiamo il coraggio di guar-dare nei loro occhi, che hanno visto il male, il desiderio di venirne fuori e nello stesso tempo di far venir fuori da sé quanto di meglio possono dare, allora c’è spazio per il rifiorire della vita. Una guerra, che si vorrebbe risolutrice di problemi aggrovigliati, non ha mai fat-to sortire il meglio né ai vinti né ai vincitori. E comunque non s’è mai visto che un potente, divenuto prepotente, abbia avuto un fu-turo vittorioso per sé, così come chi ha avuto la meglio sui campi di battaglia, abbia potuto godere dei meriti ottenuti con le prove di forza: è pura illusione che il vincitore in guerra abbia poi risolto i problemi perché la sua visione del mondo è sembrata trionfare su chi invece voleva imporre la forza bruta. E comunque non è con la rivalsa che il mondo si fa più sicuro. Gesù risorto non si è imposto sui suoi nemici, che pensavano di averla vinta avendolo fatto fuori in quel modo. E non ha neppure chiesto ai suoi di prevalere sugli av-versari, imponendo il proprio punto di vista con la pretesa che è quello giusto, il solo da ammettere. Mostrando le sue piaghe e ricor-dando gli eventi della passione come l’agire di Dio che non si lascia condizionare dal male, ha invitato i suoi a continuare la sua lezione di vita con la medesima passione: questa, e solo questa, cambiando noi, cambia il mondo e,ambiando il mondo, fa emergere un vivere più umano. A noi spetta il compito di fare Pasqua così, di viverla oggi in un mondo che sembra perdere la speranza in una esistenza più pacifica e più bella. Il Signore è ancora vivo. È ancora con noi!

PREGHIERA

PER UNA PASQUA DI AUTENTICA RISURREZIONE

Non c’è molta differenza tra noi e i tuoi di allora, Signore!

Allibiti di fronte allo scatenarsi dal male,

ci sentiamo confusi, disorientati, dispersi, incapaci di reagire.

Ci domandiamo inutilmente perché, per colpa di chi, se ha un senso,

quanto sta succedendo sotto i nostri occhi esterrefatti:

massacri orrendi, violenze inaccettabili, distruzioni inutili.

Chissà quali pensieri hanno attraversato la mente dei tuoi discepoli,

in quelle ore tenebrose, quando tutto stava crollando,

in quei momenti turbinosi in cui tu, il Maestro, venivi loro sottratto.

Ma di fatto essi non sono stati capaci di vegliare, di reagire, di seguire

e così si sono dispersi, si sono lasciati andare allo sconforto,

si sono rinchiusi in se stessi, senza più risorse, senza più futuro.

Il male, Signore, ci sorprende e ci abbatte facilmente, anche oggi,

lasciandoci sprovveduti, indifesi, indeboliti.

Tu, però, fedele alla tua promessa di aver vinto il mondo,

non ci lasci soli, e ci raggiungi, uno ad uno, laddove andiamo errando,

e ci fai sentire la tua parola, la tua presenza, la tua continua passione,

per ricaricarci e ricondurci sui nostri passi verso una strada migliore.

Non dai quelle spiegazioni che noi vorremmo avere rassicuranti,

perché qualcuno di ben noto abbia le colpe e debba avere i castighi,

perché giustizia sia fatta, vendicando il male e abbattendo i superbi;

ci ricordi invece il disegno del Padre dentro la tua passione,

che ora deve essere nostra, che noi dobbiamo continuare,

assumendo, nel male, il tuo Spirito di pace, di fraternità, di bene.

E poi, forti del tuo Spirito, che in noi ci ravviva il cuore debole,

ci mandi in questa realtà fatta di tanta miseria,

per essere testimoni di te, Risorto, che fa risorgere tutti,

e per portare la tua passione che continua nella nostra,

in modo tale che il male, sempre accovacciato, non l’abbia vinta,

e il bene, che tu sempre ci ispiri, sia l’obiettivo vero del nostro vivere.

Grazie, Signore, di questa tua e nostra Pasqua,

che anche oggi ci fa sperare e ci dà il desiderio di risorgere,

che anche questo nostro mondo sente annunciare, più forte che mai!

La peste nella storia e nella letteratura: CAMUS

 NARRATORI DI PESTILENZE

Le pestilenze che si sono succedute nel corso della storia, sempre documentate, soprattutto quando i fenomeni si allargavano e incrudelivano con morie disastrose, sono entrate a far parte della letteratura, perché molti scrittori hanno costruito su queste iatture una loro visione del mondo, dell’uomo, della storia umana. Possiamo in effetti riconoscere che i testi più famosi sull’argomento sono soprattutto quelli di scrittori che sono andati ben oltre la registrazione cronachistica del fenomeno, per costruire un loro disegno, non solo funzionale al racconto o al romanzo in cui si inserisce anche l’evento della peste, ma teso a suggerire una riflessione che spesso è stata considerata di natura filosofica. Perciò, anche se quanto viene descritto ha indubbiamente uno sfondo storico, perché viene raccontato quanto succede in un territorio particolare e in un’epoca ben precisa, la finalità perseguita risponde all’impostazione che lo scrittore intende dare alla sua opera. Poi l’evento diventa pretesto per proporre considerazioni di natura filosofica: in questo caso l’evento, anche ad essere collocato in un contesto geografico e in un momento della storia, non è più racconto di ciò che è veramente successo, di ciò che lo scrittore ha visto e documentato, ma diventa luogo e momento simbolico per collocare la propria riflessione circa i temi fondamentali del vivere, come il male, il dolore, la morte. Allora non interessa più che cosa è veramente successo, appunto perché il racconto è di pure invenzione; ma non per questo il dramma perde la sua connotazione di tragedia e il discorso va ben oltre i fatti narrati, i personaggi collocati su una scena del tutto probabile, senza essere mai provata: così la peste non è più una precisa malattia che contagia il corpo, non è più una epidemia da considerare per le sue cause, scientificamente accertate, ma rappresenta quel male, sempre presente nel vivere, a cui bisogna saper far fronte, se l’uomo vuole cercare, avere e dare un senso all’esistenza, da non lasciare al puro caso o all’assurdo. Così la narrazione di una pestilenza esce dall’ambito storico, non necessariamente da quello letterario, per diventare l’occasione per una riflessione sul vivere e sul morire, come è per tutti coloro che si sono cimentati con simile argomento. In questo modo non interessa più il fenomeno come tale, ma ciò che esso rappresenta simbolicamente nel vivere, per invogliare una riflessione più approfondita sul male e sull’assurdo.

LA PESTE DI … ORANO 

IN ALBERT CAMUS:

SCIENZA E FEDE

DI FRONTE AL MALE

La storia narrata nel romanzo di Albert Camus è di pura invenzione, anche a trovare come sua scena la città algerina di Orano e un anno imprecisato, ma comunque appartenente alla quinta decina del secolo scorso. “I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano.”: così inizia a scrivere l’autore, che mette subito in chiaro di non voler fare riferimento ad alcun caso particolare, perché gli avvenimenti narrati sono assolutamente dovuti alla sua fantasia. Perciò chi legge deve già sapere che non si fa riferimento ad alcun caso di cronaca, ma che la situazione descritta rimanda ad un senso di smarrimento provato per ben altro tipo di male. Tenuto conto che il romanzo vede la luce nel 1947, si deve pensare che esso sia una specie di riflessione dell’autore su ciò che è successo nel mondo con la guerra da poco conclusa. Sì, le armi tacciono e i contendenti hanno trovato i termini di un armistizio; ma ciò che ha contaminato gli animi permane con gli strascichi rovinosi, sui quali è bene riflettere. La peste, di cui si parla qui, non è affatto una malattia a livello fisico, ma è una contaminazione che ha corroso anche gli animi, e che di fatto permane nel dopoguerra, in cui la vittoria delle democrazie sulle dittature non vede del tutto debellato quel male oscuro che continua a fare danni. Il vero antidoto al male è la solidarietà: contro gli egoismi esasperati che si sono prodotti, soprattutto in Europa, nel Novecento, è necessario costruire quel senso di solidarietà umana, che si poteva immaginare di riscontrare nell’ideologia comunista, dalla quale però lo scrittore si allontana decisamente, quando anche lì vede allignare un sistema dittatoriale, che considera inaccettabile. La peste corrosiva dei sistemi totalitari che sembrava sconfitta con la guerra, insiste e dilaga quando si presentano altri “ratti”, che diffondono il morbo devastatore, soprattutto con una concezione del vivere che rinchiude sempre più in quella forma di difesa che si trasforma presto in offesa, come succede a chi per difendere i propri interessi comprime la libertà altrui, mentre in precedenza per la propria e l’altrui libertà aveva combattuto. L’autore non è affatto diretto nel tracciare queste linee di pensiero, ma lascia intendere che la vicenda da lui narrata è di fatto una metafora di quanto è già in corso d’opera, non appena è stata conclusa una guerra devastatrice, e si pensa di comprimere la barbarie disumanizzante con metodi e mezzi che sono altrettanto violenti e brutali. È ben nota la reazione molto forte che lo scrittore ebbe all’indomani delle bombe atomiche sganciate sul Giappone ormai sconfitto da parte degli Stati Uniti d’America: così la pestilenza, invece di essere bloccata, divampa e rovina sempre più. Lo potremmo allora definire uno scritto profetico in relazione a quanto stava avviandosi in Europa e nel mondo anche solo pochi anni dopo il conflitto mondiale. Come possono sempre insorgere le epidemie che scoppiano qua e là e a cui si pensa di far opera di contenimento, chiudendo chi ne è colpito in un campo di concentramento a cielo aperto, senza contatti con l’esterno, così c’è sempre il rischio che “ratti di fogna” si moltiplichino, senza che alcuno se ne avveda, con il loro carico di morte. È una denuncia molto forte, ma trattata con la maestria di chi vuol far riflettere senza ideologismi di parte, senza schemi precostituiti. Il fatto poi che si tratti di un racconto può favorire la diffusione anche oltre una certa cerchia di lettori, per suscitare un po’ in tutti domande, riflessioni, prese di posizione che interpellino le coscienze circa la reazione più corretta da avere nei confronti di un male subdolo, e comunque sempre operante. La società, stanca del conflitto, sicura di sé dopo il pericolo passato, si immagina di non dover reagire nella maniera giusta in presenza di un male oscuro e strisciante. Per lo scrittore è sempre necessario riflettere da parte di tutti, e, più ancora, di agire e di reagire, perché la responsabilità di far fronte al male non è solo competenza di alcuni addetti ai lavori, ma è obbligo morale di tutti e di ciascuno.

LA TRAMA DEL ROMANZO

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Boccaccio e la peste di Firenze

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Le diverse pestilenze che si sono succedute nella storia sono indubbiamente eventi drammatici, soprattutto per chi si trova coinvolto. Ma non necessariamente le informazioni su di esse ci arrivano da scrittori di storia con il loro intendimento cronachistico, più o meno dichiarato, e soprattutto con la finalità di ricercarne le cause e le conseguenze, come dovrebbe essere per chi si dichiara uno storico. Per certi versi i racconti più drammatici e più suggestionanti sono quelli di autori che non hanno nella loro finalità quella di raccontare vicende a cui hanno assistito. Anzi, spesso ci troviamo in presenza di scrittori che, mettendo sullo sfondo il quadro della pestilenza, propongono un racconto di pura invenzione allo scopo di voler uscire da un clima pesante di terrore per rifugiarsi in un contesto che vorrebbe essere purificatore, per far raggiungere una sorta di beatitudine paradisiaca.

È ciò che noi possiamo trovare nel racconto di Boccaccio circa la pestilenza del 1348. Non è per lui l’evento chiave del racconto, perché l’obiettivo della sua opera non è quello di trattare quanto è successo in quel periodo. Il resoconto della devastazione di quell’anno è solo lo scenario sul quale lo scrittore vuole impostare la sua opera, che ha tutto il sapore di una narrazione fantastica e fantasiosa per creare evasione e fuga. Se si vuole cercare una descrizione più accurata, dal chiaro intento storico, bisogna andare ad altri testi, come possono essere le croniche medievali del tempo o le “Istorie” successive. Nelle “Istorie fiorentine” di Machiavelli quel gravoso evento è liquidato con poche righe: “ … nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono” (II, 42).

Ma, come al solito, non basta raccontare che cosa è successo; qui vi è in gioco ben altro, perché l’evento narrato viene avvertito come un segno particolarmente forte che deve far riflettere e deve soprattutto far reagire: anche in una tragedia simile, è possibile costruire una storia positiva, che può diventare una “via salutis”, un vero e proprio cammino salvifico. Così il Decamerone non è solo una silloge di racconti da godere, espressione di un mondo gaudente che vuol mettere da parte gli affanni ed evadere nella fantasia. Esso è piuttosto il percorso umano di “salvezza”, analogo a quello dan-tesco, che concepisce la salvezza come grazia dal cielo e non come opera dell’uomo.

LA PESTE DI FIRENZE (1348)

in BOCCACCIO:

IL MALE DESCRITTO E VISSUTO

NELLA SOCIETA’ DEL TEMPO

Quando scoppia a Firenze la pestilenza, ed ha il suo apice nel 1348, la situazione della città presentava già alcuni aspetti di criticità. Il crollo del sistema bancario con l’insolvenza del re inglese diede origine ad una crisi economico-finanziaria drammatica. Ci furono anche tumulti popolari fomentati dal “duca Di Atene”, che era stato chiamato dai mercanti facoltosi per gestire il potere politico. Ma il vero tracollo si ebbe con il sopraggiungere della peste. Boccaccio, che aveva trascorso la sua adolescenza a Napoli, dove il padre curava gli interessi finanziari della banca dei Bardi, era già stato costretto in quegli anni tumultuosi a rientrare per il fallimento della banca, perdendo così l’ambiente, in cui aveva maturato la sua vocazione letteraria. Proprio in occasione della peste concepisce il suo capolavoro, che avrebbe dovuto costituire una fonte di guadagno in un momento “nero”, non solo per la peste. Non scrive per documentare l’evento: questo è sola cornice in cui inserire il quadro delle lieta brigata che racconta le sue storie. E neppure si prefigge intenti didascalici, come se volesse educare una società che è allo sbando completo. Egli ha il solo scopo di allietare, proprio nel momento in cui non c’è motivo alcuno per godere, nella speranza che egli ne possa trarre vantaggi di natura economica e così tornare alla bella vita d’un tempo. E sembra quasi fuori posto il brano in cui descrive il propagarsi del morbo con tutti i suoi effetti devastatori. In realtà il quadro fortemente drammatico è la cornice da cui parte il percorso salvifico che l’uomo deve fare, per superare non solo i mali del momento, ma anche quelli ricorrenti nella storia umana. C’è chi vi riconosce quasi una prosecuzione della “Comoedìa” dantesca, perché anche qui l’uomo è come smarrito in una “selva oscura”, rappresentata dalla peste nera. E perciò ha bisogno di uscire dall’Inferno per salire, purificandosi sulla montagna del Purgatorio, fino ad elevarsi nel Paradiso di un vivere più spensierato, come quello sperimentato dalla bella brigata di giovani che si ritrovano nel contado, per sfuggire ai miasmi di un’aria morta, come quella pestilenziale. Leggi tutto “Boccaccio e la peste di Firenze”

LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

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Il fenomeno della pandemia in corso richiede un approccio che non si limiti solo ai numeri, ai rimedi sanitari, alle disposizioni governative, alla reazione della gente comune. Molto spesso si dimentica che oltre le necessarie analisi dei competenti nell’ambito scientifico e medico, oltre gli opportuni e doverosi provvedimenti delle autorità governative, oltre il lavoro ancor più faticoso di chi è in prima linea a combattere il male e ad aiutare chi ne è colpito, occorre anche una lettura a partire dalla psicologia umana, con le sue reazioni istintive e con le sue risposte più ponderate, che rivelano come anche in simili circostanze l’uomo sia in grado di far fronte al male. Ci vuole l’approccio di tipo antropologico, ma anche quel genere di lettura del fenomeno che noi consideriamo “umanistico”, perché in esso vediamo lo spirito umano reagire, ben oltre l’iniziale sconcerto. Queste forme di pandemia sono abbastanza frequenti e, in certi casi, non solo diffusi un po’ ovunque, ma anche presenti in modo molto drammatico per il coinvolgimento di tante persone, che ne rimangono segnate, sia perché muoiono, sia perché, anche a salvarsi, ne porteranno sempre le conseguenze. Di questi fenomeni ciclici abbiamo avuto spesso i cronisti, che si limitano a dare il loro resoconto della vicenda; talvolta abbiamo avuto gli storici che si sono prefissi di consegnare una sorta di insegnamento per i casi a venire; non di rado si sono cimentati anche scrittori di vaglia, che sono partiti da vicende in cui erano coinvolti, o da studi storici su cui si sono resi esperti, arrivando talvolta a dare anche racconti di pura fantasia, nei quali però le vicende narrate appaiono fortemente “verosimili”. In queste narrazioni abbiamo un tipo di lettura umanistica, in quanto al centro delle vicende sono le persone, ma soprattutto si coglie la preoccupazione di suscitare nei lettori una sensibilità che faccia prevalere il taglio umano, la considerazione di come l’uomo in simili circostanze possa riemergere più cosciente, più vigile, più saggio, più … umano! La breve analisi dei casi presi in considerazione valuta e valorizza soprattutto la componente “letteraria” e quindi non solo la ricostruzione degli eventi, ma la particolare modalità narrativa degli scrittori presi in considerazione, per capire quale sia l’intendimento, spesso anche esplicitato, nel voler offrire la propria indagine, la propria maniera di accostare questi fenomeni.

LA PESTE DI ATENE (430-429 a.C.)

in TUCIDIDE:

IL MALE DESCRITTO 

E VISSUTO NEL SINGOLO

Lo storico ateniese Tucidide (460 c. – 404c) non è il primo, né il solo a parlare di pestilenze: ne parla già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, laddove la peste è una delle piaghe d’Egitto, con cui Mosè cerca di far breccia nel cuore del Faraone. Il racconto può apparire anche “mitologico”, ma non è improbabile che si siano succedute in terra d’Egitto forme di pestilenza, soprattutto in certe aree di forte densità umana Leggi tutto “LA PESTE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (1) – TUCIDIDE”

EPIFANIA 2022: IL SOGNO DI DIO

 EPIFANIA 2022

RIFLESSIONI DELL’ALTRO MONDO

ALL’APPARIRE DI DIO CHE SOGNA UN ALTRO MONDO

Il racconto natalizio di Matteo, quello che noi usiamo soprattutto in occasione dell’Epifania, ci parla di grandi sognatori: c’è Giuseppe, che, per capire bene ciò che sta succedendo attorno a sé, deve sognare e quindi avvertire il disegno che ha Dio, sempre costruttivo, anche quando gli uomini mettono in campo il male. Il “suo” bambino è minacciato, e lui non ha dubbi nel rifugiarsi in Egitto, anche a sentire tutto il disagio di quel trasferimento e della permanenza in terra straniera. Si fa migrante con suo figlio, perché cerca un vivere migliore, che non necessariamente deve essere più facile. Dal sogno che ha avuto e che ha seguito, deriva a lui una visione positiva che gli dà speranza, anche a trovarsi in mezzo a un mare di pericoli e a una montagna di problemi. Il suo sogno viene da Dio, che continua a sognare in questo modo anche oggi, anche se spesso nel mondo c’è gente che delude le sue aspettative e va in un’altra direzione rispetto al suo progetto di vita: Lui invece indica nel Bambino e nei bambini la vera e sola salvezza per noi. Nei tanti bambini, che vengono in luoghi dove i bambini sembrano sparire dal nostro orizzonte, Dio ci offre il suo sogno e ci chiede di condividerlo, suggerendo che proprio lì stanno le nuove risorse, quelle giuste, per far rinascere il mondo. Guardiamo negli occhi questi bambini perché lì si rispecchia l’umanità che ci fa trovare il meglio per noi e ci fa vedere Dio. Sono anche i bambini che non vivono più in terre lontane, come un tempo si pensava: il mondo si è fatto piccolo, è entrata in casa nostra, ci appartiene e noi dobbiamo appartenere a questo mondo, come fa Dio, venendo ancora oggi dentro le fattezze di questi bambini. Qui ci sono immagini di bambini della Tanzania, dove opera sr. Agnes Muthoni, suora del Cottolengo: mi ha inviato recentemente alcune immagini del centro dove lei opera, da africana per gli africani, per dare speranza, anche là dove essa sembrerebbe mancare. Ma questi volti, pur dentro tanta povertà, sono l’emblema della speranza che si alimenta ancora in questo mondo, segnato da tanto male. Anche ad essere sgomento per il male incombente sul Bambino, Giuseppe, sempre in sogno, non esita a intraprendere il cammino rischioso della migrazione, allo stesso modo con cui lo fanno in tanti ancora oggi. Lì troviamo i grandi sognatori di oggi.

Tra questi sognatori dobbiamo mettere anche i Magi, che consultano il cielo per cercare poi … un Bambino. Non inseguono miti, idee, astruserie, ma una stella luminosa, che poi riconoscono viva e chiara in quel bambino, povero e pure sempre autentica risorsa di bene per l’umanità, vero tesoro da riconoscere, da adorare, da tenere sempre in considerazione, da seguire. Lo trovano in un ambiente povero e squallido, come lo sono queste abitazioni africane; lo trovano senza addobbi e senza decorazioni fantasiose. Eppure essi sono la vera ricchezza non solo per chi li ha generati e li ha nutriti perché così li sentono; lo sono anche per noi che insistiamo nel voler pensare ai beni materiali come l’obiettivo per vivere, quando piuttosto sono le persone il tesoro inestimabile su cui puntare, sapendo che, proprio dove c’è povertà di mezzi, si fa strada l’ingegno per costruire sempre il meglio, quello che serve ancora oggi per tutti noi. questi occhi puntati su di noi, senza chiedere nulla, devono diventare così penetranti da farci sognare per loro un futuro diverso, un futuro che può essere migliore, se anche a loro è data la possibilità di esprimere al meglio le loro risorse. E allora mettiamoci a sognare anche noi con loro e per loro …

Quei bambini, che spesso noi consideriamo più una sorta di fastidio, di costo, di continuo motivo di preoccupazione, qui sono la sola risorsa che garantisca il futuro. È così anche nel “sogno di Dio”, quello che lui alimenta in Gesù, mandato fra noi a portarci il vivere di Dio. Perché allora non dovrebbe diventare pure il nostro sogno, riprovando a investire in loro le nostre risorse? Queste sono sempre spese bene, perché non costruiscono solo cose, mezzi, altri beni materiali, ma soprattutto persone con potenziale umano che può diventare qualcosa di nuovo, di geniale, di creativo. In essi ci appare la grazia di Dio, come ci viene detto nel giorno dell’Epifania, rivelatrice di Gesù come vero tesoro dato all’intera umanità, e in essi scopriamo che c’è davvero ancora futuro, in essi c’è il vero e migliore futuro. È proprio il caso di riconoscerlo: da un altro mondo, non più solo dal nostro, si aprono prospettive nuove e diverse per un mondo che ci auguriamo differente da quello attuale, nella misura in cui si fa più attento alle risorse umane e in esse trova il vero tesoro, ciò che dà speranza. Lo avevano intuito i Magi in quel Bambino che hanno colmato dei loro doni significativi per la sua missione; lo dobbiamo intuire anche noi, perché anche le nostre risorse per loro siano investite bene per la rinascita di tutti e per il rinnovamento di questo mondo.