Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.

Don Gesualdo … ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. … Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo.

(Mastro – don Gesualdo, parte III, cap. II, p. 198)

1

SEMPRE PIU’ NEL MONDO DEI VINTI

Verga si era prefisso di completare il ciclo dei “vinti”, analizzando una serie di personaggi che, pur nei diversi gradini della scala sociale, sono destinati ad essere trascinati via dalla storia, nella sua inesorabile corsa. Ma anche ad aver chiaro il piano redazionale, Verga non riuscì a portare a termine il suo intento. E questo non tanto perché gliene mancasse il tempo, quanto piuttosto perché, se si era esaurita la sua vena narrativa in questa direzione, non aveva neppure senso che si proseguisse in questa visione che voleva essere realistica, ed era divenuta pessimista ad oltranza. Per comprendere meglio il suo disegno incompiuto, dovremmo pensare al clima culturale nel quale lo scrittore si trova immerso durante gli anni ’80 del secolo, quando egli è ormai nel pieno della sua maturità u-mana e letteraria. All’inizio di quel decennio compare il suo capolavoro sulla famiglia di pescatori, animata, nei suoi protagonisti, dal desiderio di affrancarsi da una vita di stenti, non tanto per raggiungere posizioni im-probabili e impossibili, quanto piuttosto per procedere in un vivere più umano, sia nella direzione della salvaguardia dei valori della famiglia, come vorrebbe Padron ‘Ntoni, sia nel cercare altrove nel mondo quel ri-scatto che il paese di origine non garantisce affatto, come è nei sogni di ‘Ntoni, il nipote. È così tratteggiata una famiglia e insieme è delineato il percorso generazionale, che tuttavia non assicura affatto la redenzione, il riscatto sociale, quello auspicato e fatto balenare nel periodo epico e glorioso del Risorgimento, in cui uno dei componenti della famiglia, il giovane Luca, viene sacrificato nella battaglia di Lissa, che lo inghiotte. In base a quanto Verga dice sul ciclo dei vinti, qui dovremmo essere alla base della scala sociale, quella fatta di proletari, secondo lo schema di tipo marxista predicato in quei tempi, ma non condiviso dallo scrittore, che non proveniva da quelle fila. L’analisi offerta nel romanzo non segue i criteri che la filosofia e la dottrina politica, già dibattuta in quegli anni, metteva in circuito. E neppure si deve pensare che la chiave interpretativa del romanzo sia quella di natura sociologica e in particolare regionalista, quasi a volere una sorta di riscatto sociale e politico delle terre del Sud, rimaste deluse dopo l’epopea garibaldina. Da acuto lettore del suo mondo, era inevitabile che Verga parlasse della sua terra e offrisse nei suoi “eroi vinti” l’immagine del titanismo di riscatto, reso impossibile dalla mancanza di quella Provvidenza, che invece aveva arriso agli eroi del romanzo manzoniano, espressione vertice della letteratura romantica, ormai superata. Proprio la “Provvidenza”, la barca da cui ci si riprometteva il riscatto, finiva sugli scogli e con essa il sogno di rivincita, di risurrezione. La classe degli “umili”, come li considerava Manzoni, tutti fiduciosi nella divina Provvidenza che comunque “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”, non appariva ancora nella nuova Italia come la classe che potesse divenire protagonista della propria storia, capace di riscatto. E tuttavia essa costituiva indubbiamente, almeno sotto il profilo numerico, la forza su cui puntare per costruire una nuova “storia”; ma occorreva che ne venisse una coscienza più matura. Finora viene a mancare quella che poi emergerà come coscienza di classe. E non si poteva affatto pensare che Verga puntasse su questo nella sua analisi del mondo rurale o contadino, il mondo cioè di coloro che solo potevano immaginare, secondo schemi consolidati, di tentare un vivere diverso, che tuttavia non li avrebbe mai portati a cambiare la propria “natura”. Cercare la scalata sociale, quella che può far pensare di uscire da una atavica povertà per raggiungere una posi-zione impensabile e impossibile, risultava essa pure ardua e destinata al fallimento, a ricacciare il “nuovo” eroe tra i vinti. È quanto succede al “nuovo” eroe, che di fatto è anche l’ultimo. Lui pure, come già la famiglia Malavoglia, è destinato al fallimento, e il suo è per tanti versi davvero molto rovinoso. E tuttavia anche in questo suo lavoro Verga ha qualcosa da dire non solo sull’Italia della fine Ottocento, ma, proprio perché non si limita a registrare il suo tempo, a fare dell’analisi di carattere sociologico o ideologico, egli può offrire una lettura “umanistica” che travalica la contingenza e si spinge a considerare il personaggio “tipo”, come un per-sonaggio “metastorico”, per quanto sia di fatto inquadrato in un periodo ben preciso della storia siciliana e italiana. Leggi tutto “Verga: Mastro don Gesualdo, il ciclo dei vinti e il pessimismo.”

9 maggio: memoria del beato Serafino Morazzone

LA BIOGRAFIA

Prete Serafino Morazzone” diventa beato a quasi due secoli dalla morte. Un altro “Curato d’Ars”: lo definisce così il B. Card. Schuster. Ma lui precede negli anni il curato del villaggio francese, in quanto Giovanni Maria Vianney vive fra il 1786 e il 1859. Certamente poi il B. Serafino è meno noto e la sua santità è celebrata solo fra il Resegone e il lago, nella più periferica parrocchia di Lecco.

Tra i due comunque c’è una straordinaria sintonia spirituale e umana. A cominciare dalle umilissime origini, perché Serafino arriva da una famiglia povera e numerosa. Suo padre ha una minuscola rivendita di granaglie e vive in un modesto alloggio di Milano, dalle parti di Brera: qui nasce Serafino, il 1 febbraio 1747. Dato che vuole farsi prete e mancano i soldi per farlo studiare, i gesuiti lo accolgono a titolo gratuito nel collegio di Brera. E qui inizia la sua “carriera ecclesiastica”, che non prevede però cambiamenti di natura sociale: a 13 anni riceve la talare, a 14 la tonsura, a 16 i primi due ordini minori. A 18 anni, per potersi pagare gli studi, va a fare il chierichetto in Duomo: per dieci lire al mese, al mattino presta servizio all’altare e al pomeriggio studia teologia. Così per otto anni, fedelissimo e puntuale, cortese e sorridente. A 24 anni riceve gli altri ordini minori e due anni dopo, a sorpresa, gli fanno fare concorso per Chiuso, nel lecchese: una piccola parrocchia che all’epoca conta 185 abitanti ed alla quale nessun altro aspira. Vince il concorso, ma non è ancora prete; così, nel giro di un mese, riceve il suddiaconato, il diaconato e l’ordinazione sacerdotale e il giorno dopo è già insediato a Chiuso: vi resterà per 49 anni, cioè fino alla morte. Per scelta, perché anche quando gli offriranno parrocchie più importanti o incarichi più onorifici sceglierà di essere sempre e soltanto il “buon curato di Chiuso”, da cui non si allontanerà mai. Testimoni oculari hanno attestato le lunghe ore trascorse in ginocchio nella chiesa parrocchiale e quelle, interminabili, trascorse in confessionale ad accogliere i penitenti. Ovviamente non soltanto i suoi, ma pure quelli che arrivano da Lecco e dai paesi vicini. Perché a Chiuso, come ad Ars, si fa la fila per andarsi a confessare dal “beato Serafino”, come lo chiamano i contemporanei, mentre lui si considera solo un povero peccatore, infinitamente bisognoso della misericordia di Dio e delle preghiere del prossimo. Le sue ottengono miracoli, ma lui non se ne accorge, impegnato com’è a non trascurare neppure uno dei suoi parrocchiani: raccontano che i malati li va a trovare anche di sera o di notte, se non è riuscito a farlo di giorno, e così tutti i giorni, fino a quando si ristabiliscono o chiudono gli occhi per sempre. E non solo per portare loro i conforti della religione: dicono che i bocconi migliori e tutto quello che gli viene regalato siano per i suoi poveri, per i suoi malati. Ad uno, piuttosto male in arnese,  finisce per regalare anche il suo materasso, di cui per un bel po’ deve fare a meno, perché nessuno si è accorto del suo gesto di carità. Ai ragazzi, oltre al catechismo, insegna a leggere e a contare, in una specie di scuola che ha aperto in canonica, forse ricordando quanto anche lui ha faticato a studiare. Muore il 13 aprile 1822 e un piccolo giallo avvolge la sua sepoltura, quando ci si accorge che di lui non c’è traccia nella fossa che dovrebbe essere la sua. Il giallo si risolve grazie alla testimonianza di un anziano: i parrocchiani, che non si rassegnavano a saperlo nella nuda terra del cimitero, lo avevano esumato la notte stessa del funerale, adagiandolo sotto il pavimento della chiesa, in barba a tutte le disposizioni di legge. Leggi tutto “9 maggio: memoria del beato Serafino Morazzone”

I MALAVOGLIA TRA VERISMO E IMPERSONALITA’ NARRATIVA

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di Mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dire nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina,a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto barche in acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quella della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarata sul greto, sotto il lavatoio … (I Malavoglia, capitolo I, p. 39)

INTRODUZIONE

Verga e il Verismo

Nelle antologie scolastiche e nelle catalogazioni di carattere scolastico Giovanni Verga (1840-1922) è considerato lo scrittore per antonomasia del fenomeno letterario denominato “Verismo”. La particolare visione dell’uomo e della società che si è sviluppata con alcuni dei suoi scritti, e con autori che hanno seguito la sua scuola, ha portato a voler descrivere la realtà, soprattutto quella sociale, mettendo in evidenza gli aspetti che si volevano assolutamente realistici, obiettivi, e quindi senza l’apporto critico del narratore, che deve scomparire dal suo stesso lavoro, perché esso possa risultare “scientifico”. Ciò che già si era sviluppato in altri paesi europei, soprattutto in Inghilterra e in Francia, allettava ora la letteratura della nuova Italia, appena uscita dai fasti epici del suo Risorgimento. A noi oggi i testi significativi di Verga, che sono il manifesto del Verismo, la concreta attuazione dei nuovi canoni letterari, appaiono come opere dal forte sapore regionalistico, sia perché le storie sono ambientate nel profondo sud, nell’ancor più profonda provincia meridionalistica italiana, sia perché lo stesso linguaggio usato deriva da quell’ambiente molti vocaboli, sconosciuti al fiorentino popolare, ma soprattutto molte espressioni gergali e molte immagini che costruiscono un nuovo linguaggio. Eppure la sua produzione migliore emerge quando egli è lontano dalla terra d’origine, e sa far diventare quel contesto lontano non solo un angolo periferico, ma l’espressione di un mondo, che seppur stantio, conservatore, bloccato nei suoi schemi ancestrali, aspira ad un rinnovamento che è insito nel percorso storico. E questo non è solo l’aspirazione di alcuni, di gente isolata, ma corrisponde a quel processo storico, che va ben oltre la fase risorgimentale.

Questione meridionale, sociale … o un nuovo umanesimo? Leggi tutto “I MALAVOGLIA TRA VERISMO E IMPERSONALITA’ NARRATIVA”

GESU’ E’ RISORTO E LA PASSIONE CONTINUA

PASQUA 2022

IL RISORTO SI FA VEDERE AI SUOI

E FA VEDERE UN VIVERE MIGLIORE

Gesù è ancora vivo, più vivo che mai! Uscito dal sepolcro, non è an-dato a vendicarsi da quelli che lo avevano voluto morto, ma neppure a dire loro che gli sforzi, prodotti per eliminarlo per sempre, erano andati a buon fine. Lui si fa invece vedere ai suoi amici, che pure erano sconvolti per la piega presa dai fatti travolgenti: li raggiunge, senza fare nulla di clamoroso; anzi, sembra quasi che debbano esse-re loro a cercare e a scoprire che Lui continua a vivere la passione che lo ha segnato. Ed in effetti il Risorto mostra loro i segni della passione e dice di voler essere riconosciuto così, che a partire da quei segni i discepoli potranno avere luce e chiarezza, forza e corag-gio per iniziare la loro avventura. Anch’essi, se vogliono risorgere, o non più morire, devono portare i medesimi segni della passione, de-vono passare da quel patirci o da quell’appassionarsi che rende bel-la, autentica, straordinaria, la vita, meritevole di essere vissuta. Non ci dà l’esaltazione del dolore fisico, non ci chiede di cercare e di pro-vare i mali che assalgono il nostro corpo: questi vanno piuttosto combattuti con tutti i mezzi. Portando i suoi dentro la medesima si-tuazione in cui si è trovato e per la quale è stato tolto di mezzo, Lui vuol dire ai discepoli, di allora e di oggi, che proprio nelle circostan-ze in cui l’odio sembra avere il sopravvento e con esso un modo di vivere all’insegna dell’inganno, della brutalità, della menzogna, della sopraffazione, noi dobbiamo continuare la nostra passione, la sola in grado di garantire la risurrezione vera e duratura. Sì, dentro que-sto mondo e questo tempo, così segnato dalla morte per le tante brutalità che si commettono sui fronti delle guerre e dentro il vivere quotidiano, abbiamo bisogno di persone risorte, che anche a portare nel cuore e nel corpo i segni della propria passione, cercano di rag-giungere quanti sono delusi, quanti sono tentati di lasciarsi andare allo sconforto, quanti cercano evasioni inutili che non potranno mai vissuta qualificare l’esistenza, per farla divenire più umana, più meritevole di essere . Gesù ha fatto così con i discepoli; così fa pure con noi, mediante persone che, pur toccate dal male, sono sempre a disposizione per vivere meglio e far vivere meglio. Ci potrà capitare di incontrare qualcuno che porta in sé i segni di un male che fa la sua azione devastatrice, che ha nell’animo un cruccio o un tormento per esperienze amare e dolorose, che si porta nel cuore un’offesa e, più ancora, una grande inquietudine per un futuro incerto: se però di lì ci arriva una visione mai disperata, una lettura dei fatti che cerca vie d’uscita insperate, la carica a voler trovare sempre il lato migliore della vita, allora possiamo dire che la passione non si ferma. Lì ab-biamo incontrato il Risorto. Cerchiamolo vivo, cerchiamolo tra i vi-vi, cerchiamolo tra coloro che oggi fuggono dagli orrori delle guerre, dalle miserie di un vivere sempre più faticoso, da esperienze sba-gliate che appesantiscono l’esistenza: se abbiamo il coraggio di guar-dare nei loro occhi, che hanno visto il male, il desiderio di venirne fuori e nello stesso tempo di far venir fuori da sé quanto di meglio possono dare, allora c’è spazio per il rifiorire della vita. Una guerra, che si vorrebbe risolutrice di problemi aggrovigliati, non ha mai fat-to sortire il meglio né ai vinti né ai vincitori. E comunque non s’è mai visto che un potente, divenuto prepotente, abbia avuto un fu-turo vittorioso per sé, così come chi ha avuto la meglio sui campi di battaglia, abbia potuto godere dei meriti ottenuti con le prove di forza: è pura illusione che il vincitore in guerra abbia poi risolto i problemi perché la sua visione del mondo è sembrata trionfare su chi invece voleva imporre la forza bruta. E comunque non è con la rivalsa che il mondo si fa più sicuro. Gesù risorto non si è imposto sui suoi nemici, che pensavano di averla vinta avendolo fatto fuori in quel modo. E non ha neppure chiesto ai suoi di prevalere sugli av-versari, imponendo il proprio punto di vista con la pretesa che è quello giusto, il solo da ammettere. Mostrando le sue piaghe e ricor-dando gli eventi della passione come l’agire di Dio che non si lascia condizionare dal male, ha invitato i suoi a continuare la sua lezione di vita con la medesima passione: questa, e solo questa, cambiando noi, cambia il mondo e,ambiando il mondo, fa emergere un vivere più umano. A noi spetta il compito di fare Pasqua così, di viverla oggi in un mondo che sembra perdere la speranza in una esistenza più pacifica e più bella. Il Signore è ancora vivo. È ancora con noi!

PREGHIERA

PER UNA PASQUA DI AUTENTICA RISURREZIONE

Non c’è molta differenza tra noi e i tuoi di allora, Signore!

Allibiti di fronte allo scatenarsi dal male,

ci sentiamo confusi, disorientati, dispersi, incapaci di reagire.

Ci domandiamo inutilmente perché, per colpa di chi, se ha un senso,

quanto sta succedendo sotto i nostri occhi esterrefatti:

massacri orrendi, violenze inaccettabili, distruzioni inutili.

Chissà quali pensieri hanno attraversato la mente dei tuoi discepoli,

in quelle ore tenebrose, quando tutto stava crollando,

in quei momenti turbinosi in cui tu, il Maestro, venivi loro sottratto.

Ma di fatto essi non sono stati capaci di vegliare, di reagire, di seguire

e così si sono dispersi, si sono lasciati andare allo sconforto,

si sono rinchiusi in se stessi, senza più risorse, senza più futuro.

Il male, Signore, ci sorprende e ci abbatte facilmente, anche oggi,

lasciandoci sprovveduti, indifesi, indeboliti.

Tu, però, fedele alla tua promessa di aver vinto il mondo,

non ci lasci soli, e ci raggiungi, uno ad uno, laddove andiamo errando,

e ci fai sentire la tua parola, la tua presenza, la tua continua passione,

per ricaricarci e ricondurci sui nostri passi verso una strada migliore.

Non dai quelle spiegazioni che noi vorremmo avere rassicuranti,

perché qualcuno di ben noto abbia le colpe e debba avere i castighi,

perché giustizia sia fatta, vendicando il male e abbattendo i superbi;

ci ricordi invece il disegno del Padre dentro la tua passione,

che ora deve essere nostra, che noi dobbiamo continuare,

assumendo, nel male, il tuo Spirito di pace, di fraternità, di bene.

E poi, forti del tuo Spirito, che in noi ci ravviva il cuore debole,

ci mandi in questa realtà fatta di tanta miseria,

per essere testimoni di te, Risorto, che fa risorgere tutti,

e per portare la tua passione che continua nella nostra,

in modo tale che il male, sempre accovacciato, non l’abbia vinta,

e il bene, che tu sempre ci ispiri, sia l’obiettivo vero del nostro vivere.

Grazie, Signore, di questa tua e nostra Pasqua,

che anche oggi ci fa sperare e ci dà il desiderio di risorgere,

che anche questo nostro mondo sente annunciare, più forte che mai!

ECCO L’UOMO SEMPRE VIVO NELLA PASSIONE

PASQUA 2022

LA PASSIONE DELL’UOMO

E’ LA PASSIONE DI CRISTO

COME GESU’ VIVE LA PASSIONE

La Passione di Gesù non finisce mai, anche quando finisce il suo soffrire fisico. La passione che deve animare il vivere umano non finisce mai, anche quando il singolo muore, e, a quel punto, non soffre più. Si trasmette invece quella forma del patire che deve essere l’anima di ciascuno nella sua esistenza, non perché dobbiamo soffrire – bisogna sempre combattere con tutte le forze il dolore che attacca il nostro essere e lo consuma! – ma perché non devono venir meno l’impegno e la responsabilità. Col tempo abbiamo affievolito quel genere di “passione” che dovrebbe accompagnare sempre il nostro vivere, sapendo che in ogni circostanza siamo chiamati a dare “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”: dovunque, sempre, con tutti, dobbiamo metterci tutto di noi stessi, dobbiamo “giocare” le nostre risorse umane, dobbiamo impegnare quanto di meglio abbiamo e di meglio noi siamo. Se viene a mancare questa passione, e ogni cosa viene fatta senza più quel genere di entusiasmo che ci fa anche patire, non passa, a chi ci segue, un vivere che sia degno di essere vissuto. E così in quel “male di vivere” che diventa noia, stanchezza, adattamento al “particulare” si trascina l’esistenza che non si qualifica mai. Magari “non facciamo niente di male”, ma non c’è neppure la ricerca di qualcosa di meglio, che – se ci pensiamo – deriva dalla passione che abbiamo e che ci mettiamo. Guai se manca la passione, quella che si esercita come entusiasmo, impegno, generosità, anche se c’è di mezzo una malattia, se c’è da far fronte al male in ogni sua manifestazione. Senza l’esercizio della passione vera, in presenza di un momento doloroso e difficile, facciamo fatica a far fronte al male, non siamo in grado di tener testa ad un problema che si fa pesante e aggrovigliato. Se la passione viene vissuta sempre, nelle ore prospere come in quelle avverse, essa permetterà di far fronte al male, anche ad aver la sensazione di esserne talmente travolti da venirne schiacciati. La passione, che ha vissuto Gesù in ogni momento, ha permesso a lui di essere il vero protagonista della scena, anche nelle ore drammatiche in cui sembrava fosse travolto da una serie di avvenimenti che apparivano imprevisti e imprevedibili. Ma lui in quei frangenti ha continuato ad amare, a servire, a rendersi disponibile, a comunicare il meglio di sé e sempre vivendo la passione. Noi ci siamo soffermati a considerare il lato visibile delle sue sofferenze fisiche, pensando che fosse questo il suo patire, quello che lui voleva indicarci. Gesù voleva invece offrire l’esempio di chi, anche ad essere bersaglio di violenze inaudite, non viene meno alla sua passione, quella che lo fa amare sempre, “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”, proprio come ama Dio e come Dio vuol essere amato da parte nostra. Il risvolto delle sofferenze fisiche, delle violenze che si sono accanite su di lui, non è da sottacere; e tuttavia non deriva di qui la passione che il Signore vuole considerare per noi e vuole proporre a noi come insegnamento. Proprio perché si tratta di un “mistero”, dentro quel fatto drammatico, dobbiamo leggere più in profondità l’impegno con il quale Gesù affronta quella situazione, insegnando all’uomo a fare altrettanto, e quindi non propriamente a soffrire, ma a vivere, dentro anche tanto dolore, l’impegno per superare il patire con l’amore che si dona.

COME L’UOMO VIVE OGGI LA PASSIONE

Questa proposta va considerata proprio sullo sfondo delle situazioni di disagio e di sofferenza, che si sono accumulate in questi anni e che ora sembrano assommarsi in una valanga dirompente e travolgente. Anche solo a considerare questo scorcio di nuovo millennio, abbiamo conosciuto un susseguirsi di crisi che ha lasciato dietro di esse morti e devastazioni. Siamo divenuti bersaglio del terrorismo internazionale che ha fatto scatenare la guerra contro i “santuari” di gruppi armati: per i tanti morti nei diversi attentati compiuti nel nostro Occidente, l’Occidente ha risposto con altri morti fra la gente civile nei paesi considerati “canaglia”. Sono scoppiate guerre locali, che hanno fatto sorgere la “terza guerra mondiale a pezzi”: morti e profughi a migliaia senza mai riuscire ad arrivare ad una intesa che possa dare sicurezza per il futuro; anzi, nell’impotenza dell’ONU e di altre organizzazioni, abbiamo assistito a tentativi di pulizie etniche. Non sono mancate malattie epidemiche disseminate un po’ ovunque fino all’ultima, non ancora del tutto debellata. Non sono mancate le crisi economiche che hanno ulteriormente divaricato le distanze fra ricchi e arricchiti e la massa sempre più ampia di poveri e di impoveriti. Evidentemente tutto questo impone una visione diversa rispetto agli schemi elaborati e attuati negli scorsi decenni, ma più ancora che si costruisca, non una logica di contrapposizione, ma un percorso che veda i diversi raggruppamenti umani convergere in un disegno di integrazione e non di assimilazione. Non per nulla la crisi attuale ha rivelato l’impotenza di quella istituzione che avrebbe dovuto mantenere e costruire la pace: l’ONU va evidentemente rifondata, ma più ancora va chiarito che le varie crisi “umanitarie”, devono mettere al centro la persona, le singole persone, per la cui realizzazione tutte le istituzioni sono a servizio. Ogni sistema di aggregazione sociale deve considerare la persona umana come il bene principale, quello per cui, secondo la visione evangelica, Dio si è messo a disposizione e lo ha fatto con la sua passione, quella vissuta dal Figlio di Dio, non solo nel momento culminante del suo sacrificio. 

La passione per l’uomo deve dunque diventare l’obiettivo da perseguire, mentre dobbiamo constatare che ancora si fanno patire le persone, perché ci sono, prima e più di queste, altri obiettivi.

NELLA PASSIONE EVANGELICA VIENE MOSTRATO L’UOMO

Nella Pasqua cristiana viene sempre presentato l’Uomo: è colui che pende dalla croce, colui che è messo nel sepolcro, colui che, risorto, si aggira in cerca dei suoi amici perché lo vedano, lo tocchino, lo riconoscano. In quella sua umanità egli si rivela Figlio di Dio e ci rivela Dio. Succede così anche a Natale, quando non c’è altra indicazione data ai pastori circa il Salvatore, se non un bambino avvolto in fasce, quasi a ricordarci l’essenziale da riscoprire, che, forse, anche in certe considerazioni di natura religiosa, abbiamo perso di vista. Nella lettura dei testi evangelici della Passione i momenti culminanti sono quelli in cui si dichiara la vera natura di colui che è sottoposto al giudizio degli uomini e che non viene riconosciuto per quello che veramente è. Il Vangelo, con espressioni significative, cerca di andare oltre quanto succede nella cronaca di quelle ore drammatiche, e fa risaltare la persona, che, pur condannata, pur colpita con le percosse, pur torturata con i flagelli, pur devastata nello sfinimento, appare sempre nella grandezza della sua fisionomia umana. Anche se non ha più quelle sembianze, tanto è abbruttito dalle violenze, di lui si dà sempre questa immagine: “Ecco l’uomo!”. E questa immagine dobbiamo imparare a vedere nei tanti uomini e nelle tante donne che ancora si vorrebbero abbruttire e che invece, soprattutto se si fa loro tanto male, devono essere sempre riconosciute per ciò che sono e per ciò che hanno di essenziale.

Quando Gesù è sottoposto al giudizio del Sinedrio, dichiara pubblicamente chi egli è: il Figlio dell’Uomo. Proprio per questo viene condannato.

Matteo 26,63-64

Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l’hai detto – gli rispose Gesù -; anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».

Marco 14,61-62

Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».

Bastano queste due testimonianze per dire che se i capi volevano a tutti i costi la confessione, definendosi Figlio di Dio, Gesù risponde con la citazione di Daniele, il quale in realtà riconosce nel Messia venturo la fisionomia umana, quella che lo fa essere “Figlio dell’uomo”. Ovviamente questo figlio d’uomo, e dunque “uomo”, per il fatto che è seduto alla destra della Potenza, ha pure in sé la natura divina.

Non di meno succede davanti all’autorità politica romana, come se, oltre alla condanna di tipo religioso, si dovesse dare spazio alla condanna di natura politica, quella che lo porta al patibolo perché ha voluto farsi re. Pilato dovrà trovare in questo l’appiglio per giustificare la sua condanna, come appare nel testo di Giovanni, dove però Pilato fa pure una dichiarazione con la quale noi possiamo dire che qui viene sempre messo al centro un uomo, anzi colui che viene definito “l’uomo”, come se divenisse qui il prototipo, colui che rappresenta ogni uomo.

Giovanni 19,5

Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Proprio questa fisionomia, per quanto sfigurata nel contesto di una tortura che mortifica la persona fino a renderlo uno davanti al quale si rimane disgustati e non si può più considerarlo un uomo degno di stima, merita invece attenzione, rispetto e ammirazione. Eppure il profeta lo aveva già raffigurato così:

Isaia 53,3

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

La Pasqua di quest’anno è segnata dai rumori di guerra, ma soprattutto dalle notizie dell’ennesima violazione del rispetto della persona con i tanti atti di violenza. Fanno orrore le brutalità che affiorano negli scontri armati e che aumentano, quando la violenza viene esasperata fino al disprezzo dell’altro, soprattutto se inerme, soprattutto se non ha colpa alcuna, se non quella di passare o di trovarsi nel bel mezzo degli scontri e naturalmente di essere considerato il nemico su cui prevalere. Quando si arriva a queste nefandezze, in una guerra che è già nefanda per se stessa, allora veramente si calpesta l’uomo, togliendo, insieme con la vita, la sua dignità, il rispetto che gli è dovuto, sempre. Si vuole dunque, cancellare la persona, mortificarla, vanificarla. Ma essa si afferma sempre più, anche dentro questo orrore.

Se Gesù appare sempre più come l’uomo, nel momento in cui Pilato lo presenta alla folla, che lo vuole morto, e lo definisce così; se nel momento della morte, ma soprattutto nel modo stesso con cui muore, il centurione, secondo la testimonianza evangelica, lo riconosce pienamente, allora proprio in simili circostanze va cercato e va riconosciuto l’uomo, pur risultando umiliato e spento per sempre.

Marco 15,39

Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

Luca 23,47

Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto».

Chissà se davvero il centurione ha detto queste parole. Quello che conta è il fatto che l’evangelista vuol dare risalto a una simile lettura, perché chi legge, impari a vedere quell’uomo così, e lo faccia a partire proprio dal modo con cui quell’uomo muore.

Così dovremmo anche oggi “guardare” queste fisionomie umane che sono individui ben definiti, persone con una storia particolare: la loro “passione”, quella vissuta tutti i giorni nell’anonimato e quella ultima della loro morte che le vorrebbe cancellare per sempre, fa emergere un essere umano, che pur si è voluto umiliare e annichilire, come spesso si è fatto nel corso della storia.

Anche la tragedia della Shoah, come pure i tanti genocidi perpetrati in questi ultimi anni, ci avevano già messo in guardia a proposito dell’uomo ridotto ad una larva da schiacciare e da mandare in fumo, perché nessuno se ne ricordi mai. Ed in effetti quell’immagine spesso viene rimossa, da qualcuno addirittura negata, come se non ci fosse mai stata, per qualcuno non è tale da suscitare quel tipo di interesse e di attenzione che spinge a meditare, a considerare, a ritrovare proprio lì la figura dell’uomo che non deve mai scomparire dal nostro orizzonte.

PRIMO LEVI (1919-1987) ci ha lasciato nel suo testo più famoso l’impegno di ricercare anche dentro le fisionomie abbruttite di chi cercava la sopravvivenza nel lager di Auschwitz ciò che rimane di un uomo.

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

considerate se questo è un uomo,

che lavora nel fango

che non conosce pace 

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi:

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

Senza essere mai stato un credente e sentendosi piuttosto un ricercatore, anche per la sua natura di studioso di chimica, l’autore ci interpella, perché dal nostro vivere bene, sicuri e appagati, ci domandiamo, davanti al sopravvissuto del campo di concentramento “se questo è un uomo”, se, anche a vederlo nella sua magrezza, nella sua fragilità, nel suo smarrimento, si possa ancora definire un uomo. I toni espressi e le immagini usate hanno un forte sapore biblico, perché le potremmo ritrovare nella Scrittura, compresa la “chiusa” del testo dove si fa strada una sorta di maledizione, se l’appello alla meditazione viene disatteso.

Con una lettura che tiene conto di quanto il vangelo dice a proposito dell’uomo della croce, da riconoscere come l’uomo realizzato, come l’uomo che può risultare, in quella sua condanna, il solo giusto, in quella sua posizione colui che appartiene a Dio e che ci richiama Dio, anche qui dobbiamo imparare a vedere e a riconoscere che dall’inferno del lager nazista, come dai tanti altri campi di concentramento di molte parti del mondo e degli anni recenti, dobbiamo far riaffiorare l’uomo, ciò che di umano si voleva far sparire e che invece resiste più che mai. Anzi, proprio in quel genere di passione, la medesima vissuta dal Signore Gesù nei suoi giorni di dolore, deve emergere quel lato umano che si vorrebbe offuscato e da lasciare all’oblio: noi spesso siamo incapaci di vedere, di leggere, di considerare anche in quella “valle di lacrime” ciò che dell’essere umano, non solo è sopravvissuto, ma – si potrebbe dire – è quanto mai affiorato ed è quanto mai da conservare come l’acquisto più prezioso, perché il futuro sia ancora umano, sia e diventi sempre più umano. Nella passione di Gesù noi dobbiamo riconoscere il Figlio dell’Uomo e di conseguenza, dalla croce, per il modo con cui egli, morendo, dà il meglio di sé, noi dobbiamo vedere il Figlio di Dio. Altrettanto dobbiamo fare circa le persone che ancora vivono la passione, un dolore immenso e disumano, una violenza brutale e annientatrice; mai tale, comunque, da impedire che anche lì si possa ritrovare l’essere umano e ritrovare noi un po’ più umani.

LA CROCE, SCANDALO O STOLTEZZA?

Eppure l’immagine del Cristo morto non sempre ci conduce a cercare e a trovare l’uomo pienamente realizzato, quello che il vangelo definisce come la sua “glorificazione”. Anzi, la croce e, soprattutto, il crocifisso sono immagine dell’apice della violenza e nello stesso tempo della sconfitta più umiliante e della morte più vergognosa. Anche Paolo segnala la croce come scandalo per gli Ebrei e stoltezza per i pagani, perché così è sentita al di fuori del mondo cristiano, mentre al suo interno la si dovrebbe considerare sorgente di vita e di vittoria. C’è in effetti chi rimane scandalizzato dall’immagine del Cristo morto, soprattutto quando si pensa che, ormai chiuso nel sepolcro, sia lasciato al suo destino, che è il destino di tutti e cioè la sua decomposizione, il suo annientamento. Se già la morte in croce appare come l’annullamento di quell’uomo, la sua riduzione a larva d’uomo, a uno che non ha più un’immagine difendibile, la sua stessa collocazione nel sepolcro, per giunta affrettata, deve far pensare ad un inesorabile sfacelo. E così è nel dipinto di Holbein, citato nel romanzo, L’idiota, di FEDOR DOSTOEVSKIJ (1821-1881). Questa sua opera, segnata, come le altre, dall’azione negativa del male, che corrompe e distrugge l’uomo, vede come protagonista colui che è definito “l’idiota”, per la sua semplicità e bontà d’animo. Così lo scrittore presenta la sua opera e il suo protagonista:

L’idea fondamentale del romanzo è quella di raffigurare un uomo positivamente bello. Non c’è niente di più difficile al mondo, soprattutto ora. Tutti gli scrittori, non solo i nostri, ma anche quelli europei, che si sono cimentati nella raffigurazione di un uomo positivamente bello, hanno dovuto lasciare. Perché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale non è nostro e anche la civilizzata Europa è ben lontana dall’elaborarlo. Al mondo c’è soltanto una persona positivamente bella: Cristo, così che l’apparizione di questa persona smisuratamente, infinitamente bella è, naturalmente, un miracolo infinito (Tutto il Vangelo di Giovanni è in questo senso: egli trova il miracolo tutto nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello). Ma mi sono spinto troppo in là. Ricorderò soltanto che di tutte le persone belle della letteratura cristiana, la più compiuta è Don Chisciotte. Ma lui è bello esclusivamente perché allo stesso tempo è anche ridicolo … Entra in gioco la compassione per il bello deriso e che non conosce il proprio valore: e, dunque, anche nel lettore entra in gioco la simpatia. Questo risvegliare la compassione è il segreto dell’umorismo.

(Ghidini, p. 193)

Non è facile per noi entrare in questa logica, soprattutto per il fatto che qui lo scrittore persegue ciò che nella spiritualità ortodossa è l’apice della santità: il solo e vero santo è dominato dalla “stoltezza”, quella della croce; è il folle per Cristo, così come appare folle lo stesso Cristo, soprattutto nelle ore concitate della sua passione. Ma proprio lì emerge l’uomo vero, l’uomo giusto, l’uomo santo. Ecco perché il protagonista del romanzo non può che essere “l’idiota” per eccellenza: questo è per lui l’uomo da considerare; è da valorizzare per quella sua condizione, che, anche a farlo apparire “menomato”, ha comunque una sua intrinseca bellezza e questa bellezza, cioè l’uomo stesso per ciò che è, salverà il mondo. Perciò, proprio considerando il Cristo nella follia della croce, noi abbiamo l’uomo, così come lo riconosciamo in chi viene giudicato “idiota”, mentre possiede la sola vera sapienza del vivere. Anche ROMANO GUARDINI (1885-1968), teologo tedesco, coglieva questo messaggio di Dostoevskij:

Ora qui Dostoevskij sembra essersi accinto al compito immenso, e non potrei dire con certezza fino a che punto ne fosse consapevole, non di narrare la vita di Cristo direttamente e in se stessa, o raccontando come un uomo abbia cercato di riviverla nella fede e nell’imitazione, ma di far apparire l’immagine dell’Uomo-Dio nella trasparenza di una personalità umana. Può la vita dell’Uomo-Dio essere tradotta in una vita d’uomo ed esservi raccontata senza che quest’uomo cada nel ridicolo o il Figlio di Dio venga spogliato della sua divinità? Se la nostra interpretazione non è errata, a Dostoevskij è stato concesso di risolvere questo problema (Ghidini, p. 198)

La pagina più emblematica de “L’idiota”, per cercare di comprendere il pensiero di Dostoevskij circa la bellezza che traspare da Cristo, soprattutto a partire dalla sua umanità, è quella in cui si parla dell’immagine che lo stesso scrittore ha avuto la possibilità di vedere a Basilea e che lo ha fortemente impressionato. Quel corpo, già sfatto dalla violenza brutale che si è accanita su di esso, si sta avviando alla necrosi, e quindi ad un ulteriore disfacimento. Come è possibile continuare a credere in colui che oltre ad essere stato sconfitto nella vita, si avvia a sparire del tutto nella morte?

Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogožin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore (secondo il mio calcolo) prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo, fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: «Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Cristo in quello stato, come potevano credere all’imminente resurrezione? Se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle quando la loro prima vittima è stato proprio Colui che, da vivo, impartiva i suoi ordini alla stessa natura, Colui che disse: “Talitha cumi!”, e la bambina morta resuscitò; Colui che esclamò: “Alzati e cammina!”, e Lazzaro, che era già morto, uscì fuori dal suo sepolcro?». Guardando quel quadro, si è presi dall’idea che la natura non sia altro che un mostro enorme, muto, inesorabile, una macchina immensa ma sorda e insensibile, capace di afferrare, lacerare, schiacciare e assorbire nelle sue viscere un Essere che, da solo, valeva come la natura intera con tutte le sue leggi e tutta la terra che, forse, fu creata solo perché potesse nascere quell’uomo! Il quadro dà proprio l’impressione di questa forza cieca, crudele, stupida, alla quale tutto è fatalmente soggetto. Dentro di esso, non c’è nessuno fra quelli che erano soliti seguire Gesù. In quella sera, una sera che annientava tutte le loro speranze e forse anche tutta la loro fede, coloro che seguivano Gesù dovettero provare un’angoscia senza nome. Atterriti, si dileguarono, sostenuti soltanto da una grande idea, un’idea che nessuno avrebbe più potuto togliergli o cancellargli: se il Maestro, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì? Le parole di Ippolit non fanno altro che avvalorare la tesi inizialmente accennata dal principe Myškin, insinuando alla fine una spaventosa ipotesi: se Cristo, il giorno prima della sua morte, avesse visto il suo corpo ridotto in questo macabro stato, probabilmente, non avrebbe avuto la forza di salire su quella croce, gli sarebbe mancato il coraggio necessario. Lo stesso Gesù, nonostante i miracoli, avrebbe dubitato di se stesso, della sua natura divina, dell’esistenza di suo Padre. Attraverso questi due giudizi, Dostoevskij dimostra di avere colto tutta la grandiosità del dipinto del pittore tedesco. E non è certo un caso che a possederne una copia sia proprio Rogožin. Quello stesso Rogožin che, alla fine de L’idiota, uccide la meravigliosa Nastas’ja Filippovna trafiggendola con un coltello. (Simone Germini)

Ecco l’immagine del cadavere di Gesù come lo vede HANS HOLBEIN il Giovane (1497-1543). Indubbiamente sembra uno spettro, anche se la descrizione è quella realistica di un uomo morto, e quindi di un cadavere non ancora in decomposizione, ma già avviato ad essa, come si vede nelle estremità degli arti. Proprio questa fisionomia realistica porta a immaginare che qui non si possa affatto attendere la futura risurrezione, o che comunque questo corpo già scavato dalle vicende della passione, non possa dare alcuna speranza di vita ulteriore.

Gli stessi dettagli rendono sempre più evidenti i segni di un disfacimento avviato e, dunque, di un quadro umano, che non permette di avere qui il prototipo della bellezza, ma neppure di offrire quel tipo di umanità che la corrente culturale dell’Umanesimo quattrocentesco consegnava come il prodotto migliore. Non abbiamo qui le belle fisionomie di archetipi di uomo, come poteva essere l’Uomo di Vitruvio di Leonardo, con una fisionomia bella, ideale, costruita con l’equilibrio delle dimensioni; abbiamo invece l’uomo che si va decomponendo e che dunque non può restare. Eppure anche qui si dovrebbe imparare a leggere ciò che di essenziale l’uomo è, e comunica, anche a venir “maltrattato”. 

La stessa immagine del particolare della mano, resa sempre più livida dal sangue che si è fermato, e come disseccata dalla carne che già sfiorisce, serve ad accentuare il venir meno di quell’Umanesimo che ormai appartiene al passato e che non è più riproponibile in un tempo segnato da forti tensioni a causa dei conflitti religiosi. In effetti in quel periodo tante persone vengono travolte e tolte di mezzo senza più rispetto, senza onore, senza amore. Eppure proprio questo dramma richiede un soprassalto di attenzione e di cura per la fisionomia umana, che si continua a credere con la possibilità di redenzione, con la possibilità di una risurrezione, la quale è sempre da considerare, secondo la fede cristiana, come risurrezione della carne.

Tenendo sullo sfondo questa immagine, senza la quale non è neppure comprensibile il brano del romanzo, dovremmo pensare che anche per lo scrittore russo, si pone la questione di risvegliare quel senso di umanesimo, piuttosto disatteso un po’ ovunque, ma soprattutto in quel mondo europeo, da cui la Russia si lascia conquistare, seguendone le ideologie che Dostoevskij giudica diaboliche. Il recupero dell’umanesimo è quanto mai necessario se non si vuole la catastrofe, che è sull’orizzonte.

L’IDIOTA, Parte II, Capitolo IV

Ripassarono per le stanze che il principe aveva già attraversato: Rogòžin faceva da guida. Entrarono nel salone, ornato dai soliti quadri anneriti e poco decifrabili: paesaggi e alti dignitari ecclesiastici, per lo più. Sulla porta della stanza confinante si vedeva una tela molto particolare, lunga e sottile. 

Era una Deposizione dalla croce. Il principe, osservandola, parve ricordarsi di qualche cosa; ma aveva fretta di uscire da quella casa, dove si sentiva a disagio, e non volle fermarsi.

Tutte queste cose – disse – sono acquisti fatti da mio padre nelle aste pubbliche. Provava un gusto speciale nel fare simili acquisti, sempre a patto che un dipinto non gli dovesse costare più di due rubli. Un intenditore ha detto che si tratta di robaccia, tranne questa qui sulla porta, che pure non fu pagata più di due rubli. A mio padre, non so più chi, offrì trecento cinquanta rubli, e Ivan Dmitric Saval’ev, un mercante d’arte, arrivò fino a quattrocento.”.

E’ una copia di Hans Holbein – disse il principe – una copia eccellente, per quanto io non sia certo un intenditore. Ho visto l’originale all’estero e non me ne scorderò mai. Ma … che ti succede?”.

Senza più pensare al quadro, Rogòžin andò avanti. Distratto e irritabile com’era, il suo comportamento poteva pure essere preso per normale; ma il principe trovò strano che Rogòžin, appena iniziato un discorso, troncasse di botto la conversazione.

Da un pezzo volevo chiederti una cosa, Lev Nikolaevic. Tu credi in Dio, sì o no?” domandò Rogòžin che aveva già fatto alcuni passi avanti.

Che strana domanda! E in che modo, mi guardi, poi!”.

Mi piace restare davanti a quel quadro molto a lungo” mormorò Rogòžin dopo un po’, dimenticando la domanda fatta.

Quel quadro! – esclamò il principe, colpito da un’idea subitanea -. Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede”.

E infatti si perde” confermò Rogòžin.

Intanto, erano arrivati alla porta di uscita.

Come? Che hai detto? Io ho quasi scherzato, e tu la prendi in un modo così serio. E perché mi hai domandato se credo in Dio?”.

Così, per niente. Sono sempre stato curioso di saperlo. Al giorno d’oggi c’è un sacco di gente che non crede in Dio. Una volta, non mi ricordo più chi, un mezzo ubriaco, forse … mi disse che qui in Russia gli atei sono più numerosi che dalle altre parti. È vero? Tu che sei vissuto all’estero dovresti saperlo. Qui in Russia, diceva quell’ubriaco, siamo più progrediti in tutti i campi”.

Così dicendo, Rogòžin aprì la porta e, tenendo una mano appoggiata alla maniglia, aspettò che il principe uscisse. Poi lo seguì sul pianerottolo, si tirò dietro la porta, e si fermò davanti a lui, confuso.

Addio dunque” disse il principe, porgendogli la mano. 

Rogòžin, meccanicamente, gliela strinse forte.

Addio”.

Il principe scese il primo gradino e si voltò indietro. Non voleva separarsi da Rogòžin così bruscamente.

A proposito di fede – disse sorridendo – io, la settimana scorsa, in due soli giorni, ho fatto quattro incontri che mi hanno dato da pensare. La mattina, in treno, percorrendo un nuovo tratto di ferrovia, feci conoscenza con il signor S. e rimasi a parlare con lui per quattro ore di fila. Avevo sentito raccontare molte storie sul suo conto, aveva la fama di essere un ateo perfetto, uno scienziato autentico, e io ero lietissimo di poter discorrere con lui. Educatissimo, mi rivolgeva la parola come a un suo pari. In Dio non crede. Una cosa però mi colpì, cioè che, parlando di fede, pareva che parlasse di tutt’altro; e mi colpì, perché anche prima, discorrendo con atei e leggendo i loro libri, avevo sempre avuto la stessa impressione. In apparenza trattano l’argomento, ma in realtà, lo lasciano da parte. Glielo dissi sinceramente, ma forse non molto chiaramente, perché il signor S. non mi capì. La sera mi fermai a dormire in una cittadina di provincia, e capitai in una locanda dove, la notte precedente, era stato consumato un omicidio; e, naturalmente, se ne discorreva ancora quando io arrivai. Due contadini, attempati, non ubriachi, vecchi amici, avevano bevuto il tè e domandato una camera per passarvi la notte. Uno di loro si era accorto solo da tre giorni che il compagno possedeva un orologio d’argento, attaccato a un nastro giallo con gemme di vetro. Non ci aveva mai fatto caso prima. Quest’uomo non era un ladro, anzi, era molto onesto e, per essere un contadino, abbastanza agiato. Ma quell’orologio gli piacque tanto che alla fine non poté più resistere alla tentazione. Prese un coltello e, mentre l’amico era voltato di spalle, gli si accostò in punta di piedi, alzò gli occhi al cielo, si fece il segno della croce e recitando mentalmente un’ardente preghiera: “Signore, per-donami per amore di Cristo!”, con un colpo secco ammazzò l’amico come si ammazza un montone e gli tolse l’orologio”.

Rogòžin si teneva la pancia dal ridere: era in preda a delle vere e proprie convulsioni: una strana ilarità, la sua, dopo l’umore nero di poco prima.

Questa sì che è buona! Questa è impagabile! – gridava, quasi soffocando. – C’è chi non crede a Dio, e va bene, lasciamo stare: un altro invece ci crede fino al punto da scannare il prossimo recitando le preghiere. No, dite quel che volete, ma non si può inventare niente di più bello, di più originale, drammatico e comico allo stesso tempo. Ah, ah, ah!”.

La mattina dopo, ero uscito a fare due passi – proseguì il principe, non  appena Rogòžin riuscì a calmarsi un po’ (il riso gli faceva ancora tremare convulsamente le labbra), – vedo camminare barcollando sul marciapiede un soldato ubriaco. Mi si accosta. “Signore, comprami questa croce d’argento: te la do per pochi spiccioli”. Aveva in mano una crocetta appesa a un nastrino azzurro, che si era appena tolto dal collo: una croce bizantina … e si capiva subito che non era d’argento ma di stagno. Io gli diedi i soldi che chiedeva, presi la croce e me la misi al collo. Seguendolo con gli occhi, lo vidi allontanarsi, tutto soddisfatto per aver gabbato il signore, e di sicuro se n’andò immediatamente a bersi la sua croce d’argento all’osteria. Io, allora, ero sempre suggestionato dal nuovo; perché tutto, in Russia, mi sembrava una novità. Ero cresciuto come uno che non capisce niente della vita che gli si svolge intorno; e durante i cinque anni passati all’estero, mi ricordavo della patria come in un sogno fantastico. “Ebbene – dissi fra me – andiamo piano, non ci affrettiamo a condannare questo venditore di Cristo. Dio solo sa quello che si nasconde in queste deboli creature ubriache”. Dopo un’ora, tornando alla locanda, incontrai una donna con in braccio un bambino lattante. La donna era giovane, il bambino non aveva più di sei settimane. Il bimbo le sorrideva, forse per la prima volta da quando era venuto alla luce. E io la vidi commossa e compita che si faceva il segno della croce. Le dissi: “Perché fai questo, brava donna?”. A quei tempi non facevo che domandare. “Ah, signore! – mi rispose – non c’è gioia più grande per una madre del vedere per la prima volta un sorriso sulle labbra del suo bambino. La stessa gioia deve provare Dio ogni volta che vede dal cielo un peccatore che gli s’inginocchia davanti e con tutto il cuore gli rivolge una preghiera”. La giovane madre parlò proprio in questo modo, esprimendo un sentimento così profondo, così delicato e così autenticamente religioso da racchiudere dentro di sé la sostanza stessa del Cristianesimo, cioè il vero concetto di Dio. Un Dio che è padre, un padre che prova gioia nel contemplare il proprio figliolo, proprio come ha fatto Gesù Cristo. E una simile profondità veniva da una donna tanto semplice! Era anche madre, certo … e, forse, chi sa, era la moglie del soldato che mi aveva imbrogliato con il trucchetto della croce di stagno. Senti, Rogòžin, ecco la risposta alla domanda che mi hai rivolto poco fa: il sentimento religioso è completamente estraneo a tutti i sillogismi, a tutte le colpe, a tutti i delitti, a tutti gli ateismi. Nel sentimento religioso c’è qualcosa di indefinibile che gli atei sfiorano appena, discorrendo di tutt’altro e divagando. Ma il fatto più importante è questo, che il sentimento religioso è la caratteristica più importante del cuore russo: questa è la mia conclusione, una delle prime idee che mi sono fatto della Russia. C’è molto da fare nella nostra Russia, credimi Rogòžin … Ricordati di quello che ci siamo detti a Mosca … E io non volevo, proprio non volevo tornare qui adesso; né pensavo che ci saremmo incontrati in questo modo … Ma lasciamo perdere … Addio. E che Dio ti protegga!”. (L’idiota, p. 193-196)

Papa Francesco richiama il dipinto e il passo del romanzo di Dostoevskij nella sua prima enciclica “Lumen Fidei”: lo fa ricordando che in realtà proprio l’immagine del Cristo nella passione, l’immagine spesso così cruda e così dura da accettare e da sostenere, è invece quella da contemplare per riconoscervi l’amore vero e quindi il modo con il quale l’uomo può diventare più autentico, più vivo, più credibile.

LUMEN FIDEI (29 giugno 2013) n. 16

La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore, Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto: « Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate » (Giovanni 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno». Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo.

LA RISURREZIONE DI CRISTO

E’ LA RISURREZIONE DELL’UOMO

L’abbruttimento a cui è sottoposto l’uomo, soprattutto nelle tante tragedie che si compiono lungo il cammino storico, non è mai tale da impedire all’uomo stesso di risultare sempre grande e di valore. Chi pensa di mostrare la propria superiorità, facendo del male, e magari anche avendola vinta, in realtà mortifica se stesso e quanto potrebbe mostrare di sé autenticamente umano; e chi, brutalizzato, scompare nella totale desolazione della fisionomia umana, quando viene cancellato e, soprattutto, viene annientata la sua immagine, data dal volto, in realtà noi possiamo ritrovarlo nello spirito. Lì avvertiamo che una persona, anche se tolta di mezzo, e magari pure in modo brutale, continua a vivere, continua ad esserci; e quindi è con noi, davvero risorta, soprattutto se è in grado di far risorgere noi da quella mortalità che ci abbruttisce, quando ci lasciamo andare ad un vivere sopportato e non appassionato. Abbiamo bisogno di ritrovare chi non c’è più con quella vitalità che abbiamo conosciuto in vita o che troviamo negli scritti rimasti, dove lo Spirito appare “disseppellito” e il vero senso di umanità è ritrovato anche da quelle situazioni dentro le quali noi potremmo pensare che esso non esista più. Ma l’amore, che è sempre più forte della morte, fa riemergere la vita; e così la risurrezione è possibile. E lo è già fin da ora! Se nella passione di Cristo vediamo la passione dell’uomo e quindi troviamo ancora l’uomo per quanto brutalizzato, nella sua fisionomia di risorto sentiamo che chi non vediamo più continua a vivere, quando noi ne assorbiamo lo spirito, cercato nella passione, nelle piaghe, nel dolore, nella morte.

Lettera di Etty Hillesum al suo amato Julius Spier (luglio 1942)

Sulle cose ultime e gravi della vita e della sofferenza non si può parlare, la voce non ce la fa. Comprendo tutto di te e con te condivido ogni peso, e ho di nuovo ringraziato Dio che ci sia nella mia vita una persona come te. Devi aver cura della tua salute: se vuoi aiutare Dio, questo è il tuo primo, sacrosanto dovere. Una persona come te, una delle poche ancora in grado di dare autentico ricetto a un po’ di vita, di sofferenza e di Dio – i più hanno già da tempo rinunciato, e per loro “vita”, “sofferenza” e “Dio” sono solo parole vuote – ha il sacrosanto dovere di mantenere il più possibile in buona salute il proprio corpo, la propria “casa terrena”, per poter offrire ospitalità a Dio quanto più a lungo possibile. La fine è ancora lontana. Anch’io avrò buona cura di me. Ho tante energie. Puoi prenderle tutte, e in me ne sorgeranno di nuove. Ti voglio un bene immenso, la mia anima vuole un bene immenso alla tua anima. A poco a poco non ha più nulla a che fare con il desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei poter distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato, accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato – e in questo modo avrei solo la sensazione che la mia anima potrebbe distendersi accanto alla tua. Se in un’epoca come questa non si crolla per la tristezza o non ci si indurisce e si diviene cinici, o non si tende alla rassegnazione – e tutto ciò per proteggere se stessi –, allora si diventa sempre più teneri e dolci, e sciolti, comprensivi e affettuosi. So come questo accade dentro di te, e tu mi hai accolta nel tuo percorso e io vivo con te – in tutto, fino al tuo ultimo respiro. Sono sempre con te e vicino a te e, se mai qualcuno ci separerà, continuerò a seguire il tuo stesso cammino sino alla fine. La mia fermezza e il mio amore hanno mille anni, e di mille anni invecchiamo ogni giorno. Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, e di portarlo tutto sulle spalle senza crollare sotto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!! (p. 27-28)

Così, nonostante i tanti dolori, nonostante le numerose vittime della storia, la vita continua, sempre più forte della morte, se evidentemente continua ad esserci l’amore che è più potente dell’odio. La risurrezione è sempre possibile, come vediamo anche dopo ogni terremoto, ogni cataclisma, ogni disastro, ogni guerra. Il flusso della vita procede, appunto perché è sostenuto dallo Spirito, che dà la vita. I segni delle ferite prodotte dal male rimangono ed è giusto che vengano considerati, se vogliamo continuare questa esistenza, fatta anche di situazioni dolorose, sempre affrontate con il desiderio di superarle grazie ad un surplus di umanità, di passione autentica, di vero spirito nuovo. Il Cristo risorto compare in mezzo ai suoi e mostra loro le ferite, che ora non lo fanno più soffrire. Ma così facendo egli indica loro la via da seguire, perché la sua passione possa continuare nella loro passione, perché la sua vita risorta possa continuare in loro che pure risorgono, appassionandosi ad una vita più vera di quella che si lascia condizionare dal male. Noi vorremmo indagare come novelli Tommaso che non credono fino a quando non vedono le ferite, prodotte dal male; eppure siamo circondati da tante sofferenze, o, meglio, da tante persone sofferenti, dentro le quali continua la passione di Cristo, e dunque il suo vivere, e anche il suo amore. Se le consideriamo, se le curiamo, se le accompagniamo, possiamo scoprire, ben oltre le pur doverose diagnosi e le pur necessarie terapie, che in esse ci sono persone, la cui esistenza è di valore ed è tale da far crescere in umanità anche la nostra. Ecco il senso di questa immagine che è la XVI stazione della Via Crucis del III millennio, elaborata dall’artista polacco JERZY DUDA GRACZ (1941-2004) per Jasna Gora presso Częstochowa. Oltre le tradizionali egli ne ha elaborate altre quattro, che propongono alcuni episodi della Risurrezio-ne. Qui avendo sullo sfondo la torre di Babele, da cui è derivata la confusione delle genti e quindi la loro incomprensione, si descrive quella particolare lettura della Risurrezione, per la quale Cristo si fa presente in mezzo a tanti malati (piccoli e anziani, in prevalenza), perché con le cure mediche e l’assistenza religiosa, possano avere tutti i conforti umani che li aiutino a vivere, a trovare, soprattutto nella solidarietà dentro il dolore, la forza di continuare. Il medico in prima fila che mette il dito nella piaga, come Tommaso, e vuol credere così, è chiamato a dare la sua parte per far trionfare sempre la vita.

BIBLIOGRAFIA

Fedor Dostoevskij – L’IDIOTA – Newton Compton, 2021

Maria Candida Ghidini – DOSTOEVSKIJ – Salerno Editrice, 2017

Etty Hillesum – LETTERE – Adelphi, 2013

19

PREGHIERA

Signore Gesù, tu sei davvero glorioso sulla croce,

dove la tua umanità risplende nel dono supremo della vita.

Ridotto in condizioni pietose nel tuo corpo martoriato,

ti riveli grande e dignitoso, forte e nobile,

nel grido accorato verso il Padre che ti abbandona,

nella parola delicata e amorevole verso il ladro pentito,

nel consegnare a tutti noi tua madre.

Non hai nulla da dire a quanti ti hanno condannato ingiustamente:

li perdoni, perché non sanno quello che fanno!

Non hai nulla da lasciare, perché tutto ti è stato tolto:

comunichi a noi il tuo Spirito nell’ultima consegna!

Non hai nulla da operare in quell’ora,

se non aprire il cuore e dare davvero tutto di te!

Lì ti vediamo vero Dio, perché hai solo da dare.

Lì ti vediamo vero uomo, realizzato nel dono supremo della vita.

Adesso comprendiamo perché questo è il tuo insegnamento:

ci hai voluto segnare così,

perché anche noi ci dimostriamo veri uomini nel dono della vita,

per essere partecipi della vita di Dio, che ci fa più umani.

Considera, Signore, questo mondo che tu ami,

che tu vuoi rendere più umano con la tua presenza,

che tu vuoi salvare, ancora crocifisso e ancora risorto,

che tu vuoi elevare dalle miserie che lo rovinano.

Aiutaci a vedere il bene ancora possibile e ancora realizzato,

aiutaci a costruire una umanità migliore, e un mondo più libero,

aiutaci a coltivare con te la speranza per un futuro più pacifico,

aiutaci a risorgere dalla mortalità che ci attanaglia.

Come hai cercato uno ad uno i tuoi amici dopo la risurrezione,

cerca anche noi, che ci siamo allontanati da te,

e che inseguiamo vie distorte e verità insensate,

per farci riscoprire un vivere migliore,

nella verità che sei tu e nella libertà che dai tu!

La tua presenza di Risorto, con i segni del dolore sempre impressi,

ci incoraggi a dare il meglio di noi stessi,

per una pace vera e per una fraternità più grande e più forte.

PARADISO – CANTO XXI DANTE INCONTRA S. PIER DAMIAN

LA RIFORMA DELLA CHIESA ATTORNO AL 1000

Le miserie che la Chiesa presenta soprattutto ai suoi vertici compaiono spesso nella Divina Commedia, perché il suo compositore si lascia spesso andare ai suoi giudizi amari e duri, legati anche alle esperienze dolorose che ha dovuto soffrire, a partire dall’esilio fino alla morte. Nello stesso tempo però non si può pensare che tutte queste sue reprimende dipendano da qualcosa di personale; il quadro che aveva davanti agli occhi, soprattutto in quelle istituzioni che dovevano servire ad assicurare pace e giustizia, non era affatto incoraggiante. Nello stesso tempo va anche detto – e lui ne era consapevole – che non solo la Chiesa del suo tempo – come non solo la nostra – presentava lati oscuri e doveva rilevare la non corrispondenza al mandato del suo Fondatore. Ogni forte richiamo alla conversione, emergente in ogni secolo, in presenza di un degrado, spesso disgustoso, si faceva comunque strada e si imponeva come ritorno alle origini. Chi, ancora oggi, invoca una purificazione di forte impatto a tutti i livelli, lo fa, non solo denunciando il male, ma anche indicando come modello a cui riferirsi il periodo della Chiesa apostolica. E tuttavia a leggere le lettere del Nuovo Testamento, considerate ispirate e dunque appartenenti al canone della Parola di Dio, non mancavano neppure allora dei peccato gravi, dei personaggi meschini o, addirittura, arroganti, che avevano pure creato non pochi guai allo stesso Paolo, non sempre tenero nei suoi giudizi verso di loro. Le tensioni dunque non mancano neppure nella Chiesa apostolica, che si pensava di poter considerare paradigmatica: anche qui si rivelano episodi disdicevoli di personaggi arrivisti, che cercano spazio per fare denaro, per avere visibilità, per occupare posti di prestigio.

Leggi tutto “PARADISO – CANTO XXI DANTE INCONTRA S. PIER DAMIAN”

LA CORRUZIONE NELLA CHIESA – LA CUPIDIGIA DEL DENARO

PARADISO – CANTO XI:

 S. TOMMASO D’AQUINO 

PARLA DI S. FRANCESCO D’ASSISI

1

IL FENOMENO DELLA CORRUZIONE NELLA CHIESA

Cogliamo l’occasione del centenario dantesco per affrontare una questione molto attuale e che appassionava anche il grande poeta al suo tempo. E’ il tema della corruzione nella Chiesa, che in vari periodi della storia è esplosa e ha rovinato l’immagine della Chiesa stessa nella sua missione. Per quanto sia stata molto devastante e anche ben radicata, una simile “sporcizia” (come fu definita dal Card. Ratzinger nella Via Crucis del 2005, qualche settimana prima che venisse eletto papa) non ha mai impedito una rinascita, un forte richiamo alla conversione, sempre necessaria alla Chiesa, passando in modo particolare da coloro che più di ogni altro la rappresentano, per essersi dedicati alla vita religiosa. Si potrebbe dire che il male, genericamente definito “corruzione”, ricorre a più riprese nella storia della Chiesa (come è da rilevare anche in altre forme istituzionali) e si caratterizza soprattutto per quel genere di immoralità che deriva dall’attaccamento al denaro. Esso spinge all’arricchimento spropositato, in una forma di avarizia insaziabile, sinonimo, nei profeti biblici e in S. Paolo, di idolatria. A questa “malattia” si affianca, e per certi versi ne deriva, quella che poi si scatena nella libidine possessiva applicata alla sfera sessuale, sia sul versante etero, sia su quello omosessuale. I fenomeni da rilevare variano comunque nei secoli e, per certi versi, si aggravano con l’aumento delle cospicue rendite, e nello stesso tempo con la crescita del potere esercitato un po’ a tutti i livelli. Se indubbiamente disgusta il fenomeno, oggi divenuto palese e registrato un po’ ovunque, della pedofilia, trattandosi di una grave offesa a chi è più debole, non di meno rovinoso appare quello dell’accumulo del denaro e della conseguente brama di potere che conduce a costruire una immagine deformata di quel servizio, con cui si devono presentare e che devono assumere quanti esercitano un compito all’interno della Chiesa stessa.

Qui, più che ripercorrere la storia della Chiesa, avendo attenzione al problema della corruzione sempre presente e assillante, è utile considerare quanto dice Dante sul tema, tenendo conto che egli ha davanti agli occhi questa immagine negativa. Essa lo spinge ad esprimere un giudizio molto forte, non solo perché si trova a soffrirne personalmente, ma anche perché vede in tutto questo la rovina della Chiesa stessa o, comunque, la perdita di credibilità circa la sua missione. Le parole infuocate, che sono nello stile del poeta, nel suo carattere fiorentino, sono espressione, certo, della passionalità, con cui egli entra nell’argomento, lo tratta e più ancora lo usa, nel tentativo di contribuire ad una seria opera di rinnovamento, che comunque esiste anche all’interno della Chiesa, perché non tutto è perso, non tutto è destinato a rovinarsi inesorabilmente. Non per nulla le sue parole sono messe in bocca a figure di santi, riconosciuti tali da poco, rispetto al momento in cui il poeta ne parla, e che in effetti hanno contribuito a dare splendore al loro ordine e nel contempo alla Chiesa. E queste figure appartengono al Paradiso, dove nel contesto della gloria e della serena “olimpicità” di quel mondo, del tutto lontano dalle passioni che sono proprie del nostro mondo terreno, non dovrebbe esserci spazio per reprimende così dure. E tuttavia anche da quel mondo arrivano parole forti che hanno come obiettivo la condanna del peccato, per il recupero del peccatore, la condanna della Chiesa corrotta, per la salvezza della Chiesa e della sua missione. Anche a trovarsi in Paradiso, dove tutto è armonia nel canto, luminosità e chiarore, bellezza e piacevolezza, non manca il pensiero di ciò che l’uomo vive sulla terra in attesa della sua salvezza finale, quella che, secondo Dante, ci deriva da Dio attraverso la Chiesa, voluta come strumento salvifico. Ecco perché è sempre necessario che essa si converta, si rinnovi, corrisponda sempre di più al suo Maestro e Fondatore, che l’ha voluta “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesini 5,27). E allora è necessario che il suo male venga denunciato, passando soprattutto attraverso figure che costituiscono l’esempio sempre vivo di quel rinnovamento comunque possibile, se già qualcuno l’ha vissuto e proposto.

TEMA AFFIDATO

A S. TOMMASO E A S. BONAVENTURA

Nei canti XI e XII del Paradiso Dante non ci dà il racconto del suo incontro con i due santi riformatori della Chiesa del secolo che lo ha preceduto, figure già riconosciute dalla Chiesa meritevoli di culto e di venerazione, ma soprattutto esemplari e dunque indicati come modelli di riferimento. Dante parla di S. Francesco e di S. Domenico mediante la voce di coloro che, seguendone il messaggio e il percorso di vita, anche per la loro riconosciuta santità, possono testimoniare come quel modello di vita, alto e sublime, possa essere alla portata di tutti, come era successo nei primi anni con l’adesione della migliore gioventù del tempo. L’allargarsi dei due movimenti, subito tormentati da visioni diverse dello spirito originario, ha fatto perdere lo smalto iniziale ed ha prodotto anche un allentamento del rigore della “regola di vita”, quella che si voleva sempre più confacente con il vangelo. Così egli affida a due santi dei due ordini mendicanti, entrambi morti nel medesimo anno (1274), mentre era in corso il Concilio di Lione, che aveva a tema anche la riforma della Chiesa, come avviene e avverrà per tanti concili, sviluppatisi nel corso della storia. Si tratta di S. Tommaso d’Aquino (1225-1274), domenicano e qui biografo di S. Francesco, e S. Bonaventura (1221-1274), francescano e qui biografo di S. Domenico. Essi propongono le figure dei due fondatori, tratteggiati in riferimento a ciò che Dante vuole mettere in chiaro a proposito della de-generazione degli stessi ordini e della Chiesa, in vista del loro rinnova-mento e della rinascita della Chiesa stessa.

Tommaso, dei conti di Aquino, nacque a Roccasecca, presso Montecassino, probabilmente nel 1225. Ricevette la prima formazione nell’abbazia di Montecassino. Approfondì poi gli studi a Napoli, dove conobbe l’Ordine dei Predicatori, al quale, superata la fiera opposizione dei familiari, decise di aggregarsi. A Parigi e a Colonia si perfezionò nelle discipline filosofiche e teologiche; fu discepolo di S. Alberto Magno. Ancora giovanissimo fu maestro ammirato e sapiente dell’università parigina. Uomo di grande vita interiore, nutrì viva e intensa pietà verso il sacramento dell’eucaristia, diventando l’autore dei testi ancora in uso per la festa del Corpus Domini. Animava con la preghiera tutta la sua attività di pensatore e insegnante. I suoi numerosi scritti restano per il pensiero cristiano una sorgente limpida e feconda di ispirazione e di luce. In essi si ammira tanto l’acutezza della dottrina quanto la chiarezza e la sobrietà dell’esposizione, sicché a giusto titolo Tommaso ha meritato l’appellativo di “Dottore angelico”. Invitato da Papa Gregorio X al secondo concilio di Lione, si ammalò nel viaggio e fu ospitato nell’abbazia cistercense di Fossanova, dove serenamente spirò il 7 marzo 1274. Venne canonizzato nel 1323.

Giovanni Fidanza nacque attorno al 1218 a Civita di Bagnoregio (VT). Studiò filosofia e teologia a Parigi, dove entrò tra i Frati Minori, assumendo il nome di Bonaventura. Maestro dei suoi confratelli, acquistò ben presto la fama di grande e illuminato dottore. Eletto ministro generale, seppe reggere il suo Ordine con grande saggezza, fu poi eletto vescovo di Albano, cardinale della Chiesa romana e gli fu affidata la preparazione del concilio lionese II. Gli intensi lavori conciliari fiaccarono la sua resistenza e a Lione morì il 15 luglio 1274. Fu autore di numerose opere filosofiche, teologiche e mistiche, splendide per pietà e per dottrina, tra cui è da segnalare l’“Itinerarium mentis in Deum”. Fu anche autore di una celebre biografia di san Francesco d’Assisi.

LE POLEMICHE

SULLO SPIRITO DI POVERTA’

Il tema principale trattato è quello della “povertà”. Evidentemente Dante ritiene che sotto questo profilo la Chiesa è di gran lunga degenerata, perché ha perso di vista ciò che veramente conta nel vangelo, e cioè lo spirito di povertà o la povertà in spirito, che sta all’inizio delle beatitudini evangeliche. Perciò la degenerazione più clamorosa è quella che rivela una Chiesa non tanto ricca di beni, quanto piuttosto guidata da gente che cerca prevalentemente l’interesse economico, nella convinzione che il potere si raggiunge con esso, che il potere è finalizzato all’acquisto di beni, che il potere si mantiene con i possedimenti … La visione che Dante vuol dare sull’argomento non è propriamente una dottrina, affermata e ribadita con particolare vigore e rigore. In effetti c’era sempre uno spirito acceso che caratterizzava le polemiche presenti nella Chiesa in quello stesso periodo, soprattutto a partire dal movimento francescano, dove qualcuno voleva il ritorno alla regola primigenia; si rifiutavano piuttosto tutte quelle interpretazioni successive che l’avevano annacquata nel corso degli anni, anche a motivo della presenza di un numero sempre crescente di adepti. Se gli intransigenti volevano addirittura che lo spirito di povertà divenisse una sorta di dottrina incontestabile da obbligare gli uomini di Chiesa a viverla e a farla vivere, altri, ovviamente, compreso Dante, non si spingevano fino a questo punto. E tuttavia il poeta dava l’impressione di parteggiare per gli spiritualisti, soprattutto perché in essi trovava oppositori accaniti nei confronti di Bonifacio VIII, il suo acerrimo nemico, anche ad essere rispettato come vicario di Cristo. Le correnti definite “spiritualiste” si erano già fatte sentire a partire dalla morte del Fondatore: esse volevano seguire una regola sempre rigida e rigidamente intesa; per que-sto avevano preso posizioni, divenute, nel movimento e nella Chiesa, piuttosto oltranziste. Di qui l’intervento delle autorità interne del movimento francescano, soprattutto al tempo in cui esso veniva guidato da S. Bonaventura; ma anche la presa di posizione del Papa, che aveva rico-nosciuto la funzione positiva dell’Ordine e che lo voleva sotto controllo per evitare scelte e orientamenti di tipo ereticale, come era già avvenuto all’epoca di S. Francesco, e come continuava a succedere anche nel pe-riodo successivo. La polemica rimane viva anche negli anni di Dante; e lui ce ne dà il segnale proprio nel suo modo di “leggere” la fisionomia di Francesco e le diatribe che accompagnavano il suo movimento, soprattutto nella tensione scoppiata, sia negli anni del pontificato di Bonifacio VIII, sia negli anni successivi.

LA VISIONE DANTESCA

Nel canto XI del Paradiso, mediante il racconto messo in bocca a S. Tommaso d’Aquino, Dante ci dà la biografia di S. Francesco: gli elementi messi in risalto sono quelli appartenenti alla tradizione dei primi compagni del santo. Noi possiamo trovare i particolari, che danno risalto al tema della povertà già nella prima biografia, nota come “Legenda Trium Sociorum”. L’accento è posto soprattutto sulla scelta della povertà come stile di vita. E qui si arriva fino a considerare questa scelta come una sorta di “Sposalizio” secondo le immagini medievali allora in voga, per le quali la povertà, concetto astratto, diventa una figura allegorica, e come tale assume le fattezze di una donna, la donna amata. Come nel mondo della poesia si dava importanza alla donna “angelicata”, che portava a vivere l’amore stesso di Dio – e Dante ne è un testimone privilegiato – così nel mondo religioso si dava spazio a questa figura perché la vita religiosa divenisse un’esperienza sponsale con colei che viene segnalata con i tratti di “Madonna Povertà”. Evidentemente la questione stava molto a cuore al poeta: negli stessi anni in cui stava ultimando il suo capolavoro, mentre stavano naufragando sempre più i disegni politici con i quali egli pensava di poter tornare a Firenze, grazie all’appoggio di Arrigo VII, da lui indicato come il salvatore dell’Impero, Dante si interessa anche dell’altro polo di potere in quello scorcio di Medioevo, e cioè il Papato, sempre più indebolito dalla corruzione. Per il poeta questo male dipendeva in massima parte da un uso smodato del denaro: si imponeva così il ritorno al pauperismo delle origini, secondo l’esempio dato da S. Francesco e dal suo ordine, che proprio in quegli anni si dilaniava in lotte interne per l’interpretazione e per l’attuazione della Regola. Si potrebbe dire che nel suo lavoro Dante tornava a più riprese sull’argomento, che evidentemente gli stava a cuore. La morte di Papa Clemente V ad Avignone (1314) e il conclave che ne segue gli danno occasione per intervenire con una lettera ai Cardinali italiani sulla necessità di una riforma seria e non più eludibile della Chiesa stessa, mediante il supremo pastore che deve metter fine alla cattività avignonese e alle mene politiche.

È una lettera accorata con la quale il poeta manifesta il suo auspicio di un serio risanamento della Chiesa, andando proprio a toccare il tasto della povertà, che va affrontato con chiarezza e decisione. Raffaello Morghen così riassume il testo della lettera, assumendo lo spirito dantesco:

Noi … siamo costretti a piangere Roma abbandonata e quasi vedova del suo sposo (Si noti la figura dello sposalizio, che viene ripresa dal testo biblico delle Lamentazioni e che poi si trova pure nella fisionomia di Francesco, sposo della Povertà, da tutti abbandonata e considerata vedova del suo Maestro, morto sulla croce). Gli empi e i nemici della gente cristiana ci deridono per questo e molti cattivi profeti considerano come necessario quello che voi sacerdoti, avendo fatto malo uso della libertà dell’arbitrio, avete preferito scegliere: voi, condottieri della Chiesa militante, che avete negletto di mantenere il corso del carro della Chiesa nella via segnata dal Crocifisso e per avidità di beni materiali avete condotto il gregge di Cristo verso il precipizio. Forse mi redarguirete perché oso, benché sprovvisto di qualsiasi autorità, rivolgermi in tale maniera a voi. Ma io parlo per lo zelo che mi anima della causa di Dio, e voi stessi dovreste aver rossore che, nella totale rovina della Chiesa, una sola voce si levi e questa sia la voce di chi non è insignito di alcuna carica. La cupidigia dei beni materiali ha invaso completamente la Chiesa e i principi stessi della Chiesa trascurano gli antichi Padri per darsi tutti allo studio delle Decretali. E non crediate che io sia solo a dire ciò, perché quello che io dico, tutti lo mormorano e lo sussurrano. (Morghen, p. 114-5)

Sono parole riportate, che tuttavia riflettono il pensiero e anche lo spirito che anima il poeta: il male è ben individuato ed è un problema diffuso, così come è diffuso il disgusto per tanta corruzione radicata.

Tutta la lettera è una requisitoria serrata contro la gerarchia ecclesiastica, immemore dei suoi doveri e responsabile della grave crisi religiosa, di cui l’abbandono di Roma, da parte del Papato, era, per lui, l’episodio più significativo. Le alte gerarchie ecclesiastiche, dominate esclusivamente secondo il dettato della lettera, dall’avidità dei beni materiali (cupiditas), dimentiche degli insegnamenti dei Padri, quali Ambrogio, Agostino, Gregorio, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Damasceno e il venerabile Beda, solo sollecite di istruirsi nella scienza delle Decretali, erano da paragonarsi addirittura ai principi dei Farisei … Essi vendevano nel tempio colombe e le cose sacre, che non possono essere venali, e disprezzavano il fuoco mandato dal cielo (ignem de celo missum) mentre sugli altari ardevano fuochi profani. L’elezione di Clemente V aveva causato addirittura l’eclissi del Papato e il volto della Chiesa era stato bruttato d’una macchia di infamia, che non avrebbe potuto essere cancellata fino al giudizio universale. Per tutto ciò la Chiesa era giunta quasi alla sua estrema catastrofe (funus Ecclesiae), e i gentili, gli Ebrei e gli eretici ridevano del popolo cristiano. Né sono risparmiati, nei riguardi della gerarchia ecclesiastica, gli epiteti più ingiuriosi: nomine solo archimandrite, boves calcitrantes, pastoris officium usurpantes. La Chiesa aveva purtroppo generato nell’acqua e nello Spirito tali figli per sua vergogna, e poiché essi avevano sposato la cupiditas, che è madre di impietas e di iniquitas, queste, che sono le vere figlie del demonio (filiae sanguisuce), erano divenute le nuore della Sposa di Cristo. (Morghen, p. 116)

Una requisitoria appassionata, forte nei toni e nei termini e tuttavia dettata non da dottrine peregrine e soprattutto ereticali, ma da un amore sincero per la Chiesa, la quale era in effetti dominata da un simile male, causa prima e principale di ogni altra forma di degenerazione. Il rimedio diventa possibile, non a partire da riforme legislative, non da epurazioni nel personale, ma dalla testimonianza viva di alcuni spiriti profetici che alla Chiesa non mancano mai. Di qui la necessità di ricorrere a questi personaggi che sono una realtà consolante per la Chiesa stessa, purché essi siano proposti nella loro integrità e in quella immagine che fa da vero antidoto al veleno inoculato nel corpo della Chiesa stessa. Proprio nel “quarto cielo”, quello del Sole, dove stanno gli spirito sapienti, Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno S. Tommaso, che si presenta come discepolo di S. Domenico …

Io fui de li agni de la santa greggia

che Domenico mena per cammino

u’ ben s’impingua se non si vaneggia. (Paradiso, X,94-96)

Colui che fu definito il “bue muto”, probabilmente anche per le sue dimensioni fisiche e per la sua ritrosia a parlare, quando era studente, qui viene presentato come un agnello che segue il gregge dei domenicani, dove, si fa notare, ci si ingrassa bene – ma è detto in termini positivi, fors’anche per questo epiteto che Tommaso aveva – se però non si va fuori strada, vaneggiando nella mente e nello spirito. Questa frase che qui è solo introdotta, verrà spiegata poi. Ed è l’aggancio per mettere in evidenza che invece il traviamento esiste, che questo dà origine ad un vero e proprio “ingrasso” a motivo dei tanti soldi, dietro ai quali si corre, segno evidente del vaneggiare che caratterizza lo stesso movimento domenicano.

Eppure esso era nato per mantenere la Chiesa sulla retta via della dottrina, ma anche su quella della morale, disattesa al punto da determinare il deragliamento della Chiesa stessa con il pullulare delle eresie. Fa specie che in quel cielo Tommaso indichi proprio i medesimi santi e padri della Chiesa, che sono pure ripresi nella lettera citata, scritta ai Cardinali ita-liani in occasione del conclave del 1315. Questa eletta schiera di santi rappresenta il meglio di una Chiesa, che pur si può gloriare di coloro che l’hanno fatta grande e tale la conservano, anche se in essa si fa strada l’“insensata cura de’ mortali”. Proprio con questo termine inizia il canto XI nel quale abbiamo l’esaltazione della figura di S. Francesco, fatta da S. Tommaso, immagine eccelsa di santità proprio a partire dalla sua caratteristica più grande e più bella, quella della povertà. Ed è la sua immagine a incarnare quell’ideale di santità che alla Chiesa non manca mai, anche nei tempi della degenerazione. Così Tommaso, dopo aver narrato di Francesco puntando sul suo sposalizio con madonna Povertà, introduce una dura reprimenda nei confronti della Chiesa, coeva a Dante, che inve-ce degenera proprio sull’uso smodato delle ricchezze.

IL CANTO XI

Tutto il canto XI è comunque segnato da questo atteggiamento di Dante nei confronti di un male, che il poeta ritiene sia il vertice e la somma, in-sieme, di ogni altra espressione diabolica, perché questo male, che è l’a-varizia, va sempre abbinato all’idolatria, quel modo che l’uomo ha di pensare ad un dio fatto dalle sue mani, diversamente dal Dio che ha creato con le sue mani e a sua somiglianza l’uomo. Il male non è dato, di per sé, dal denaro, ma dall’uso smodato che se ne fa; il male non è nelle cose, ma nel cuore umano, che si lascia conquistare da ciò che non ha consistenza e valore per sé, ma per quello che noi vogliamo dare. Così il peccato diventa quella “cura”, definita insensata, che va … curata! Nelle prime battute del canto, quando già Tommaso si era introdotto e presen-tato al poeta con i suoi compagni di beatitudine, Dante esce in uno sfogo, che poco si addice al contesto del Paradiso, trattandosi di una denuncia di insensatezza da parte degli uomini, quando essi si lasciano ingolfare dai beni materiali. E il male – come dice lui – si annida davvero ovunque, mentre lui si sente sciolto da questi affanni e soprattutto di essere sottratto ad essi, grazie all’intervento di Beatrice che lo accoglie in Paradiso.

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura e chi ad amforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare e chi civil negozio,

chi nel diletto de la carne involto

s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,

con Bëatrice m’era suso in cielo

cotanto glorïosamente accolto. (Paradiso XI,1-12)

A questo punto interviene ancora Tommaso, che dice di essere al corrente di quanto va pensando il poeta, grazie all’ispirazione che gli proviene direttamente da Dio. E Tommaso sa che Dante è rimasto colpito dalle parole con le quale il gran domenicano ha sottolineato che l’Ordine suo può crescere e svilupparsi nella misura in cui non “vaneggia”, cioè non si lascia incantare dalle vanità terrene. Ovviamente questo non succede e così si deve assistere alla sua degenerazione. Proprio per contrastare questo male la provvidenza ha disposto la nascita degli Ordini Mendicanti per la rigenerazione della Chiesa: i due principi che sono suscitati contemporaneamente hanno proprio svolto questo compito riformatore. A Tommaso viene affidato il compito di parlare di Francesco, mentre Bonaventura, che nella storia è stato il biografo ufficiale del santo di Assisi, sarà chiamato a tessere l’elogio di S. Domenico.

La biografia qui data di S. Francesco è naturalmente costruita secondo le finalità che Dante si prefigge di offrire in essa. Le notizie che riguardano il santo sono ben conosciute, e proprio per questo non è neppur necessario dare tutti quei dettagli che sono riscontrabili nella tradizione agiografica. Dante però vuol marcare la battaglia portata avanti circa il tema della povertà, perché va riconosciuto in S. Francesco il ruolo riformatore, la sua missione di rinnovamento soprattutto a partire dalla sua immagine di povertà e dal suo insegnamento che mette al centro il distacco dei beni.

La biografia esposta da Tommaso contiene ben poco di tutti quei particolari incantevoli e così estremamente concreti che la leggenda francescana ci ha conservato. È vero che i punti principalissimi, la nascita, la costruzione dell’opera e la morte, sono narrati secondo la tradizione, ma non c’è alcun tratto particolare che possa servire alla vivacità aneddotica … in Dante la biografia, oltre alla cornice esterna del commentario di cui essa è parte, ha anche un motivo conduttore interno che è un motivo allegorico. La vita di Francesco è rappresentata come matrimonio con una figura femminile allegorica, la Povertà. Noi sappiamo che questo era un motivo della leggenda francescana; ma era necessario farne il motivo dominante? Come specialisti dell’arte o della letteratura medievale noi abbiamo imparato a poco a poco e con qualche fatica che per determinati gruppi della cultura medievale l’allegoria significava qualche cosa di diverso che per noi, di più reale; e che nell’allegoria si vedeva una forma concreta del pensiero, un arricchimento delle sue possibilità d’espressione. (Auerbach, p. 229)

Insomma, per Dante la lettura di Francesco, addirittura “sposato” con Madonna Povertà, lo fa essere la traduzione più concreta e immediata della soluzione al problema dilagante della corruzione nella Chiesa e nella società, corruzione che va addebitata all’accumulo del denaro. E proprio uno che era passato dall’esperienza della mercatura, perché nato e cresciuto in quel contesto, poteva capire “sulla pelle” che cosa potesse produrre quel male e come si dovesse fare per disfarsene. Così la scelta della povertà non è una moda, non è semplicemente una tecnica, non è una forma spettacolare e comunque transitoria, non è l’assunzione di un personaggio da teatro; è piuttosto il vivere stesso, mettendo in gioco la propria persona e la propria esistenza.

Qui Dante presenta una sola persona allegorica, appunto la Povertà, e la collega con una personalità storica, ossia concretamente reale. È una cosa del tutto diversa: egli attira l’allegoria nell’attualità, la connette strettamente alla storia. Indubbiamente questa non è un’invenzione di Dante: tutto il motivo gli era stato fornito dalla tradizione francescana che fin dal principio conteneva le nozze con la Povertà come figura dell’attività del santo. Subito dopo la sua morte fu scritto un trattato dal titolo Sacrum Commercium Beati Francisci cum Domina Paupertate e del motivo si ritrovano continui riecheggiamenti, per esempio anche nelle poesie di Jacopone da Todi. Ma esso non è svolto a fondo con coerenza e si dissolve in molti particolari didattici e aneddotici …

La raffigurazione della chiesa inferiore di Assisi, che un tempo era per lo più attribuita a Giotto, presenta anch’essa le nozze al di là di ogni biografismo concreto: Cristo unisce il santo con la Povertà, lacera e macilenta, mentre ai due lati cori angelici su vari ordini partecipano alla cerimonia. Ciò non ha niente a che fare con la vita pratica del santo, che è esposta in un altro ciclo iconografico. Dante invece fa tutt’uno: alla celebrazione delle nozze unisce quella scena efficace, quasi stridente, in cui Francesco sul mercato di Assisi rinuncia in pubblico all’eredità paterna e re-stituisce al padre persino i vestiti. La rinuncia all’eredità e lo svestimento, che altrove costituiscono sempre l’oggetto vero e proprio della descrizione, in Dante non sono esplicitamente menzionati e vengono inclusi nelle nozze allegoriche; qui Francesco si allontana dal padre per amore di una donna; di una donna che nessuno vuole, che tutti evitano come la morte. Egli si unisce a lei sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi del vescovo e del padre … egli rifiuta i beni paterni e si allontana dal padre non perché non vuole possedere qualche cosa, ma perché desidera e vuole possedere un’altra cosa … (Auerbach, p. 230-1)

Così il Sacrum Commercium, dimostrandosi una unione sponsale, un vero e proprio matrimonio, appare come una scelta deliberata che pone Francesco non tanto come un religioso legato alla Chiesa mediante i voti religiosi, ma come un laico che, così facendo, rinnova sia la Chiesa sia la società. Poi il suo Movimento, la cui regola era per lui il Vangelo stesso, diventerà per la pretesa del papa un nuovo Ordine religioso, soprattutto quando il Papa si rende conto che esso può costituire un ottimo strumento per la rinascita della Chiesa stessa. Dante, insistendo su questo dettaglio della vita di Francesco, vuole mettere in primo piano questo suo compito, che lo fa essere qualcosa di inedito e di completamente diverso rispetto ad ogni altra forma di vita religiosa, proprio perché la rinascita, a cui tiene Francesco, riguarda non solo l’istituzione ecclesiastica, ma anche la società civile in cui egli vuole che siano inseriti i suoi “frati”. Costoro non vivono in monasteri o comunque nell’ambito delle istituzioni eccle-siastiche, ma dispersi nel mondo, secondo il dettato evangelico, perché siano fermento di una vita nuova. E questa novità si deve riconoscere soprattutto nella libertà acquisita, conservata e alimentata rispetto ai beni materiali, che costituiscono il mondo di “Mammona” contrapposto al mondo di Dio. Così, insistendo su questo particolare della vicenda umana e spirituale di Francesco, Dante mette ancor più in risalto il male estremo in cui era caduto il mondo, in cui era sprofondata la Chiesa in quel tempo. La salvezza non poteva venire solo da qualche cambiamento nelle strutture, ma proprio da una immagine viva e concreta di persona che rivestisse la povertà per farla sua come dimensione esistenziale, che poteva risultare in quel modo vivibile, praticabile, a portata di tutti: in effetti molti erano rimasti conquistati, non tanto dall’ideale francescano, quanto dal concreto esempio di quest’uomo, che non veniva segnalato solo all’ammirazione universale, ma poteva entrare nella imitazione di tutti, anche se molte persone di fatto continuavano a vivere nel mondo. È quello che succede, ad esempio, per il cosiddetto Terzo Ordine, dove troviamo francescani che continuano a restare nel mondo, senza necessariamente emettere voti religiosi: nascerà di qui una schiera di santi provenienti dalle diverse attività, che non necessariamente devono passare dalla vita religiosa per essere riconosciuti come meritevoli di imitazione. La prima santa di questo Ordine è S. Elisabetta di Ungheria (1207-1231), moglie del Langravio di Turingia, che, nella sua breve esistenza accanto al marito e da vedova, vive nel distacco continuo dalle cose, e in una povertà che si trasforma in carità e solidarietà con i più poveri: è dunque possibile esprimere nel mondo, compreso quello dove si gestisce il potere, una santità che permette di vivere fino in fondo il vangelo. L’esempio di Francesco affascina e induce altri a fare altrettanto. Ovviamente si tratta di casi che appaiono rari; e tuttavia essi risultano anche significativi e convincenti, e rivelano che un altro vivere è possibile. Così si può offrire una alternativa al sistema di corruzione, che non offre un vivere davvero più umano. A distanza ormai di un secolo da questa figura, che è tutt’altro che un masso erratico, Dante sostiene la linea degli “spirituali” nella famiglia francescana, parlando di S. Francesco non solo per quegli aneddoti che poi diventeranno i “fioretti”, ma soprattutto per quella fisionomia di “Poverello di Assisi”, che qui risulta di primaria importanza.

Con questa sua maniera di leggere Francesco d’Assisi, e soprattutto ciò che maggiormente conta nella sua esistenza terrena, e cioè il “Sacrum Commercium” con Madonna Povertà, Dante raggiunge l’obiettivo di offrire una proposta di vita diversa da quella che si andava conducendo. Una concezione del vivere, segnata da appetiti smodati, come quelli che si riscontravano nella Firenze comunale dell’età di Dante, aveva prodotto tanto male, soprattutto nello scatenare gli appetiti e nel suscitare, con le tensioni politiche, le rivalità, le contese, le guerre, di cui Dante stesso si sentiva vittima innocente. Inoltre indicava con quel personaggio concreto un vivere praticabile, che poteva servire sia per quelli che si dedicavano alla vita religiosa sia per quelli che rimanevano nella vita mondana. E tuttavia il quadro che aveva davanti agli occhi era sempre più doloroso, irrimediabilmente rovinato, soprattutto perché questo male, già dilagato nel vivere civile, ora aveva pure rotto i margini dentro l’alveo della Chiesa, dentro, in particolare, coloro che si erano costituiti per riformarla mediante il ritorno alla povertà evangelica. Così Dante non solo denuncia il male diffuso nella Chiesa ai vertici di quella istituzione, ma ora lo vede anche presente tra quelli che ne avrebbero dovuto indicare con l’esempio la modalità concreta di una riforma tanto necessaria e non più procrastinabile. Ai suoi frati Francesco, morendo, lasciava questa eredità; però Madonna Povertà, che lui affidava ai suoi, sarà di fatto abbandonata.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso a la mercede

ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’a giusta rede,

raccomandò la donna sua più cara,

e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara

mover si volse, tornando al suo regno,

e al suo corpo non volse altra bara. (Paradiso XI, 109-117)

A questo punto Tommaso introduce il “degno collega”, che è il fondatore del suo Ordine, Domenico di Guzman (1170-1221), ben noto per aver voluto lui pure un movimento, poi riconosciuto come Ordine, con il compito di reagire alle eresie del tempo mediante la predicazione. Ma anche in questo caso, accanto alla predicazione itinerante, secondo il mandato evangelico, lui voleva la testimonianza di distacco dai beni, tenuto conto che l’eresia dominante, sviluppatasi in modo particolare nella Provenza, ricca regione e luogo di grandi traffici commerciali, voleva attaccare la Chiesa su questo tema, sul suo attaccamento ai beni materiali, che erano, per questi manichei, il principio del male. Più che la predicazione, e comunque insieme ad essa, era necessario dare la testimonianza di povertà, di distacco dai beni, dal possesso, dall’abuso. 

Anche tra i Domenicani però si è fatta strada la corruzione, come fa dire Dante a Tommaso al termine del canto in cui si è esaltato Francesco.

Pensa oramai qual fu colui che degno

collega fu a mantener la barca

di Pietro in alto mar per dritto segno;

e questo fu il nostro patrïarca;

per che qual segue lui, com’ el comanda,

discerner puoi che buone merce carca.

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda

è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote

che per diversi salti non si spanda;

e quanto le sue pecore remote

e vagabunde più da esso vanno,

più tornano a l’ovil di latte vòte.

Ben son di quelle che temono ’l danno

e stringonsi al pastor; ma son sì poche,

che le cappe fornisce poco panno.


Or, se le mie parole non son fioche,

se la tua audïenza è stata attenta,

se ciò ch’è detto a la mente revoche,


in parte fia la tua voglia contenta,

perché vedrai la pianta onde si scheggia,

e vedra’ il corrègger che argomenta


“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”». (Paradiso XI, 118-139)

Qui si fa strada la desolante constatazione che proprio nel suo Ordine si è fatta strada quella forma di corruzione per la quale il carisma iniziale si è sbiadito. Ciò che Tommaso dice – ma è il poeta che mette in bocca a lui queste parole – è l’amara realtà di un gregge che si è allontanato dal suo pastore, per andare alla ricerca di un altro ovile. In realtà, secondo l’immagine usata, esse si ritrovano nell’ovile “di latte vote”, cioè senza quel frutto che dovrebbe poi sfamare quanti a questi frati ricorrono. È vero che non tutto è perso, se non altro perché ci sono pecore “che temono ‘l danno” e quindi si rendono conto del male montante nell’Ordine stesso; ma di questi il numero è sempre più assottigliato, per cui “le cappe fornisce poco panno”, cioè sono pochi coloro che vestono la cappa domenicana. A ben considerare, qui non dovremmo pensare che il male presente fra i domenicani sia quello della corruzione dovuta al denaro, alla cura per esso, alla procura che si fa di esso per trovarvi benessere e compimento della propria vita. Ma da tutto il contesto del canto, e proprio dal fatto che nella biografia di S. Francesco si mette l’accento su questa realtà, noi dobbiamo pensare che anche qui si faccia ricorso a questo tema che sta, del resto, a cuore del poeta. Lui stesso insiste nel richiamare ciò che Tommaso aveva detto nel suo primo apparire, riconoscendo che la prosperità dell’Ordine si può riscontrare quando “non si vaneggia”, cioè non si va fuori strada, evidentemente inseguendo ciò che è vano. La medesima frase, che sta a conclusione del canto XI , può far pensare che proprio nel vaneggiare ci si ritrova “impinguati”, con un fastello di beni che diven-tano ingombranti e che fanno indubbiamente deviare.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La maggior parte dei commentatori riconosce la bellezza e l’altezza di poesia in questo canto, ben più noto e ben più letto del canto successivo dove si parla di S. Domenico, presentato da S. Bonaventura. Indubbiamente Dante ci ha lasciato un fisionomia di S. Francesco particolarmente efficace, che può stare alla pari con quanto ha descritto il suo contemporaneo Giotto (1267-1337) nei capolavori della Basilica di Assisi. E tuttavia non si può negare che, anche in questi suoi particolari, egli arriva molto vicino alle posizioni polemiche degli spirituali, i quali negli stessi anni animavano la discussione nella Chiesa. Solo dopo la morte di Dante (1321) ci fu l’intervento imperioso di Giovanni XXII con la sua condanna degli spirituali e soprattutto di quelle posizioni oltranziste che mettono in risalto la povertà radicale del Cristo evangelico come qualcosa di assolutamente intrinseco alla dottrina e al vivere cristiano. Ciò che Francesco non aveva spinto fino alla radicalità, qui invece appare richiamato con forza come se il vivere povero, con la rinuncia radicale ai beni e alla proprietà fosse la sola modalità per essere cristiani e per vivere da cristiani. 

Tra gli spirituali queste tesi venivano marcate e pretese come assolutamente necessarie al vivere da francescani e, per qualcuno, al vivere da cristiani. Dante ne è indubbiamente affascinato. Eppure lui stesso riconosce che non ci si può spingere fino alle forme estreme di dover in esse ricavare una dottrina da imporre nella Chiesa non solo ai chierici ma anche ai laici. Per quanto Francesco viva con estremo rigore tutto questo, non necessariamente egli arriva a pretendere che da parte di tutti si giunga fino a questo punto: egli non è mai stato un radicale e comunque ha sempre riconosciuto l’autorità del Magistero, anche quando chi ne svolgeva la missione non appariva del tutto coerente con lo spirito del vangelo. Dante, a distanza di anni dalla proposta di vita francescana, sembra lasciarsi trascinare nel gorgo delle polemiche che si fanno strada durante la sua esistenza e certamente, soprattutto nel periodo dell’esilio, sta dalla parte della linea spirituale, pur rendendosi conto che non si può spingere fino alle forme più estreme. Ma non dobbiamo neppure pensare che, trattando in questo modo la figura di S. Francesco, egli voglia mescolarsi alle polemiche in atto nel medesimo periodo dentro il movimento francescano. Qui il poeta vuole piuttosto insistere su un argomento che gli stava particolarmente a cuore, e cioè il tema del rapporto con il denaro e so-prattutto con l’accumulo di esso, che per lui, accusato ingiustamente di appropriazione indebita, era il male per eccellenza della società e della Chiesa. Qui gli preme soprattutto considerare questo male all’interno della Chiesa, per lui componente essenziale del vivere umano. La sua degenerazione non fa che acuire i mali già devastanti. La sua salvezza dipende da esempi vivi e concreti che propongono un ritorno alle origini, alle fonti evangeliche per una radicale conversione che faccia della Chiesa lo strumento di salvezza.

L’opinione che Dante aveva, che la cupidigia umana e della Chiesa in particolare fosse la cagione di ogni male, influisce ovviamente sulla concezione del canto …; ma non si può non riconnetterla, più specificamente, anche alla grande polemica sulla povertà di Cristo e degli Apostoli che, quando Dante scriveva, già da molti decenni dilaniava l’ordine francescano e tutta la cristianità, e che proprio nell’età piena di Dante (1313, 1317, 1318) e in Toscana aveva assunto aspetti particolarmente aspri e drammatici con le condanne e persecuzioni degli spirituali; finché, all’indomani della morte di lui, nel 1323, si giunse ad una soluzione d’imperio con la definitiva condanna, pronunciata da Giovanni XXII, della tesi principale degli spirituali, circa l’assoluta povertà di Cristo e degli apostoli.

Non è qui possibile, né è necessario, rifar la storia di quella polemica. La posizione di Dante in essa è nota. Da una parte, la sua concezione dei mali della cupidigia e del potere temporale doveva portarlo verso gli spirituali, il che significava anche prendere ancora una volta posizione contro Bonifacio VIII, degli spirituali, a suo tempo, acerrimo nemico; dall’altra doveva renderlo perplesso un rigorismo che arrivava a negare il diritto di proprietà, e aveva altre gravi implicazioni d’ordine morale. Sicché egli giunse a quella posizione intermedia secondo la quale, e contro i rigoristi francescani, egli ammette la possibilità che la Chiesa riceva come in deposito, beni di proprietà dell’Impero (che restano sempre tali) ma solo per distribuirne i frutti ai poveri di Cristo. Orbene: nei canti XI e XII … Dante aveva preso nel poema la medesima posizione. Nel canto XII, in particolare, rigetta le posizioni sia dei rigoristi, di Ubertino da Casale, sia dei lassisti, di Matteo d’Acquasparta; e, quel che più interessa, insiste sulla teoria circa la povertà della Chiesa, quando, tra l’altro, afferma che le decime sono “pauperum Dei”.

Ma quale che fosse la posizione teologica e politica di Dante, le sue simpatie sul piano umano e morale non potevano andare che verso un’interpretazione sostanzialmente rigorosa, anche se serena, non estremista, della Regola di S. Francesco. Di ciò abbiamo più di un indizio. …

Il Manselli, autorevole studioso di storia religiosa due-trecentesca, è deciso nel pensare che Dante fosse assai vicino agli spirituali; tuttavia non sembra possibile andar oltre a quella simpatia sul piano umano … Troppo chiara, infatti, è la posizione mediana da lui presa … tra rigoristi e lassisti dell’ordine francescano, cioè tra “spirituali” e “conventuali”. Tale posizione media era poi quella di larghe correnti della Chiesa, a cominciare da papa Clemente V (1312). Il rigetto degli estremisti dell’una e dell’altra direzione era stata del resto di Bonaventura, nella sua qualità di ministro generale dei francescani; non senza motivo, dunque, Dante lo fa pronunciare da lui. Secondo il Manselli, tale posizione non era lontana da quella di Giovanni di Pietro Olivi, uno dei maggiori esperti della cultura religiosa del secondo Duecento … (Bosco e Reggio, Paradiso, p. 177-8)

UNA CONSIDERAZIONE PER OGGI

La denuncia che Dante fa circa la corruzione, per denaro, dentro la Chiesa, riguarda ovviamente quel periodo storico. E tuttavia quel genere di male insidia da sempre e insisterà ad insidiare la Chiesa nel suo operare e nel suo presentarsi al mondo, creando scandalo e impedendole di essere sinceramente e fedelmente a servizio del Vangelo.

Ovviamente se ne parlava allora, e se ne parla ancora oggi, in riferimento soprattutto agli “uomini di Chiesa”, a coloro cioè che ne sono i vertici istituzionali o i suoi rappresentanti anche a livello locale. Non sono in discussione quegli aspetti dottrinali o quei messaggi ed insegnamenti di vita che sono alla base o addirittura ne sono i fondamenti; il giudizio su questo tema riguarda sempre le persone per il loro modo di vivere, per la loro gestione dei beni materiali. La corruzione, in questo particolare fenomeno che si rivela con la proprietà e l’uso dei beni, è un male di uomini, soprattutto di coloro che gestiscono un potere o hanno un compito di responsabilità. Proprio per questo il giudizio va fatto sulle persone implicate e concretamente sulla loro gestione di quanto entrano in possesso, tenendo conto che non si tratta di una loro proprietà. Il criterio di valutazione va comunque espresso a partire dal Vangelo, da ciò che neppure è prescritto, come se si trattasse di una legge a cui sottostare, ma di una indicazione suggerita, che del resto proviene soprattutto da un esempio di vita, come quello che dà il Signore, il quale “non aveva neppure dove posare il capo”, e che chiede con estrema chiarezza di servire Dio e di preferirlo a Mammona. Del resto le indicazioni che ha dato ai suoi discepoli per la loro missione sono proprio nella linea del distacco dalle cose, del non preoccuparsi per i beni, del mantenere il cuore libero. Sono indicazioni ben note e tuttavia mai sufficientemente richiamate con tutta la loro forza persuasiva, soprattutto quando si ha a che fare con questi beni materiali, pur necessari per vivere, per ben operare in questo mondo. La logica evangelica va sempre richiamata in tutti i periodi della storia, soprattutto quando la tentazione si fa più forte, quando la stessa gestione dei beni coinvolge e chiede decisioni non sempre facili. Al di là dei richiami e della continua formazione di coloro che soprattutto sono chiamati più da vicino alla gestione dei beni, che nel corso della storia si accumulano e diventano “patrimonio della Chiesa”, qui, nell’analisi di ciò che dice Dante nel suo poema, abbiamo un’indicazione precisa nel considerare coloro che nel corso della storia appaiono dentro la Chiesa come richiami ed esempi di autentico spirito evangelico soprattutto nel suggerire il distacco dalle cose. Possiamo certo, istituire commissioni di inchiesta; possiamo sottoporre ad un processo, che sia soprattutto chiarificatore, chi è indagato e accusato; possiamo punire chi ha commesso reati in questo campo con sanzioni severe, ma anche medicinali; e tuttavia non debelleremo la corruzione in maniera radicale.

Certamente è necessaria una formazione molto attenta, per preparare chi si sente chiamato e vuol rispondere alla sua vocazione, perché anche su questo terreno è necessaria una educazione che richiede, insieme con i principi fondamentali, anche degli esempi luminosi e significativi con cui confrontarsi. Esistono esempi e con essi dei messaggi di particolare efficacia, con cui è possibile trattare anche questo aspetto della vita, in modo particolare per chi aspira all’ordine sacerdotale o alla vita religiosa. S. Ambrogio si è premurato di scrivere un’opera, “De officiis” (= I Doveri), con cui egli si curava di formare i suoi preti. Non manca nella sua opera la considerazione che riguarda il patrimonio, il denaro, i beni della Chiesa, per i quali egli dice che sono da considerarsi offerte raccolte, e quindi denaro o patrimoni in dotazione, da utilizzare per il bene comune e non per l’interesse personale. Ecco alcune sue battute sull’argomento: “Il Signore dice ai discepoli: Non vogliate possedere né oro né argento né denaro, e con tale precetto, quasi fosse una falce, taglia l’avarizia che germoglia nei cuori umani … Ma tale disposizione a disprezzare le ricchezze si riscontra a fatica anche nei santi del Signore (II,128). I costumi degli uomini sono caduti tanto in basso per l’ammirazione della ricchezza che nessuno viene considerato degno di onore se non il ricco. Questa non è una consuetudine recente, ma già da un pez-zo purtroppo questo vizio s’è sviluppato nei cuori umani (II,129). L’avarizia è funesta ed è allettante il denaro che contamina chi lo possiede e non giova a chi non lo possiede … Noi possediamo ciò di cui ci serviamo; ogni bene che esorbita dall’uso che possiamo farne, non ci dà, in ogni caso, il vantaggio di possederlo, ma la preoccupazione di custodirlo (II,132). Il disprezzo del denaro è un aspetto della giustizia; perciò dobbiamo evitare l’avarizia e sforzarci con ogni impegno di non fare nulla contro la giustizia, che anzi è da osservare in ogni nostro atto. (II,133).

BIBLIOGRAFIA

1.

Erich Auerbach, STUDI SU DANTE Feltrinelli, 1986

2.

Raffaello Morghen, DANTE PROFETA Jaca Book, 1983

3.

Dante Alighieri, LA DIVINA COMMEDIA – PARADISO

(a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio) Le Monnier, 1979

4.

Sant’Ambrogio, I DOVERI Città Nuova, 1991

20

La peste nella storia e nella letteratura: CAMUS

 NARRATORI DI PESTILENZE

Le pestilenze che si sono succedute nel corso della storia, sempre documentate, soprattutto quando i fenomeni si allargavano e incrudelivano con morie disastrose, sono entrate a far parte della letteratura, perché molti scrittori hanno costruito su queste iatture una loro visione del mondo, dell’uomo, della storia umana. Possiamo in effetti riconoscere che i testi più famosi sull’argomento sono soprattutto quelli di scrittori che sono andati ben oltre la registrazione cronachistica del fenomeno, per costruire un loro disegno, non solo funzionale al racconto o al romanzo in cui si inserisce anche l’evento della peste, ma teso a suggerire una riflessione che spesso è stata considerata di natura filosofica. Perciò, anche se quanto viene descritto ha indubbiamente uno sfondo storico, perché viene raccontato quanto succede in un territorio particolare e in un’epoca ben precisa, la finalità perseguita risponde all’impostazione che lo scrittore intende dare alla sua opera. Poi l’evento diventa pretesto per proporre considerazioni di natura filosofica: in questo caso l’evento, anche ad essere collocato in un contesto geografico e in un momento della storia, non è più racconto di ciò che è veramente successo, di ciò che lo scrittore ha visto e documentato, ma diventa luogo e momento simbolico per collocare la propria riflessione circa i temi fondamentali del vivere, come il male, il dolore, la morte. Allora non interessa più che cosa è veramente successo, appunto perché il racconto è di pure invenzione; ma non per questo il dramma perde la sua connotazione di tragedia e il discorso va ben oltre i fatti narrati, i personaggi collocati su una scena del tutto probabile, senza essere mai provata: così la peste non è più una precisa malattia che contagia il corpo, non è più una epidemia da considerare per le sue cause, scientificamente accertate, ma rappresenta quel male, sempre presente nel vivere, a cui bisogna saper far fronte, se l’uomo vuole cercare, avere e dare un senso all’esistenza, da non lasciare al puro caso o all’assurdo. Così la narrazione di una pestilenza esce dall’ambito storico, non necessariamente da quello letterario, per diventare l’occasione per una riflessione sul vivere e sul morire, come è per tutti coloro che si sono cimentati con simile argomento. In questo modo non interessa più il fenomeno come tale, ma ciò che esso rappresenta simbolicamente nel vivere, per invogliare una riflessione più approfondita sul male e sull’assurdo.

LA PESTE DI … ORANO 

IN ALBERT CAMUS:

SCIENZA E FEDE

DI FRONTE AL MALE

La storia narrata nel romanzo di Albert Camus è di pura invenzione, anche a trovare come sua scena la città algerina di Orano e un anno imprecisato, ma comunque appartenente alla quinta decina del secolo scorso. “I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano.”: così inizia a scrivere l’autore, che mette subito in chiaro di non voler fare riferimento ad alcun caso particolare, perché gli avvenimenti narrati sono assolutamente dovuti alla sua fantasia. Perciò chi legge deve già sapere che non si fa riferimento ad alcun caso di cronaca, ma che la situazione descritta rimanda ad un senso di smarrimento provato per ben altro tipo di male. Tenuto conto che il romanzo vede la luce nel 1947, si deve pensare che esso sia una specie di riflessione dell’autore su ciò che è successo nel mondo con la guerra da poco conclusa. Sì, le armi tacciono e i contendenti hanno trovato i termini di un armistizio; ma ciò che ha contaminato gli animi permane con gli strascichi rovinosi, sui quali è bene riflettere. La peste, di cui si parla qui, non è affatto una malattia a livello fisico, ma è una contaminazione che ha corroso anche gli animi, e che di fatto permane nel dopoguerra, in cui la vittoria delle democrazie sulle dittature non vede del tutto debellato quel male oscuro che continua a fare danni. Il vero antidoto al male è la solidarietà: contro gli egoismi esasperati che si sono prodotti, soprattutto in Europa, nel Novecento, è necessario costruire quel senso di solidarietà umana, che si poteva immaginare di riscontrare nell’ideologia comunista, dalla quale però lo scrittore si allontana decisamente, quando anche lì vede allignare un sistema dittatoriale, che considera inaccettabile. La peste corrosiva dei sistemi totalitari che sembrava sconfitta con la guerra, insiste e dilaga quando si presentano altri “ratti”, che diffondono il morbo devastatore, soprattutto con una concezione del vivere che rinchiude sempre più in quella forma di difesa che si trasforma presto in offesa, come succede a chi per difendere i propri interessi comprime la libertà altrui, mentre in precedenza per la propria e l’altrui libertà aveva combattuto. L’autore non è affatto diretto nel tracciare queste linee di pensiero, ma lascia intendere che la vicenda da lui narrata è di fatto una metafora di quanto è già in corso d’opera, non appena è stata conclusa una guerra devastatrice, e si pensa di comprimere la barbarie disumanizzante con metodi e mezzi che sono altrettanto violenti e brutali. È ben nota la reazione molto forte che lo scrittore ebbe all’indomani delle bombe atomiche sganciate sul Giappone ormai sconfitto da parte degli Stati Uniti d’America: così la pestilenza, invece di essere bloccata, divampa e rovina sempre più. Lo potremmo allora definire uno scritto profetico in relazione a quanto stava avviandosi in Europa e nel mondo anche solo pochi anni dopo il conflitto mondiale. Come possono sempre insorgere le epidemie che scoppiano qua e là e a cui si pensa di far opera di contenimento, chiudendo chi ne è colpito in un campo di concentramento a cielo aperto, senza contatti con l’esterno, così c’è sempre il rischio che “ratti di fogna” si moltiplichino, senza che alcuno se ne avveda, con il loro carico di morte. È una denuncia molto forte, ma trattata con la maestria di chi vuol far riflettere senza ideologismi di parte, senza schemi precostituiti. Il fatto poi che si tratti di un racconto può favorire la diffusione anche oltre una certa cerchia di lettori, per suscitare un po’ in tutti domande, riflessioni, prese di posizione che interpellino le coscienze circa la reazione più corretta da avere nei confronti di un male subdolo, e comunque sempre operante. La società, stanca del conflitto, sicura di sé dopo il pericolo passato, si immagina di non dover reagire nella maniera giusta in presenza di un male oscuro e strisciante. Per lo scrittore è sempre necessario riflettere da parte di tutti, e, più ancora, di agire e di reagire, perché la responsabilità di far fronte al male non è solo competenza di alcuni addetti ai lavori, ma è obbligo morale di tutti e di ciascuno.

LA TRAMA DEL ROMANZO

Leggi tutto “La peste nella storia e nella letteratura: CAMUS”

La peste di Milano -1630 – in Manzoni.


            MANZONI

1

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Non c’è dubbio che la pestilenza è sempre un tragico evento: ogni volta che scoppia si genera una tale paura da far scatenare sempre il peggio anche nelle reazioni di chi vi è implicato, e soprattutto da lasciare impressionato anche chi ne racconta le vicende. È un “evento”; e come tale “viene fuori”, spesso in modo inaspettato, con tutta una serie di conseguenze che fanno cambiare radicalmente il modo stesso di vivere. Gli storici, che ne raccontano la trafila, sono abituati a cercarne le cause; e tuttavia non sempre è possibile risalire ad esse, anche perché ne manca la documentazione. Non rimane che parlare di quanto avviene, registrando non solo i dati sanitari, ma anche quella trasformazione psicologica e sociale che avviene negli individui e nelle relazioni umane che essi esprimono. Ancora una volta si deve dunque segnalare che l’aspetto umano appare rilevante e che pertanto gli scrittori non si limitano alla cronaca, ma colgono l’occasione per far emergere quello spirito umano, che in parte risulta venir meno e divenir scadente, senza per questo escludere che si debbano anche registrare virtù eccelse e grandi forme di eroismo. Va poi riconosciuto che il fatto dell’epidemia è sempre più associato ad un “racconto”, il quale va ben oltre la registrazione dei fatti storici e che la stessa vicenda pestilenziale diventa parte integrante della narrazione, non solo una cornice, come succede nell’opera di Boccaccio. Anzi, potrebbe addirittura risultare come lo snodo dei fatti e quindi un elemento qualificante della vicenda che pone al centro figure marginali della grande storia, inserite in un affresco corale, dove la “storia” prevede fatti legati al “verosimile”. Così la narrazione, fatta da Manzoni, della peste a Milano del 1630, non è più, non è solo, una sorta di resoconto degli eventi che la accompagnano, ma diventa elemento essenziale della vicenda dei due sposi, che proprio lì, in quel grande momento tragico, possono vedere il compimento del loro sogno. Se tutto sembrava andare storto, se tutto addirittura lì sembrava naufragare, proprio in quell’evento i due protagonisti si incontrano e scoprono che i loro mali, nel crogiuolo di quella dolorosa esperienza di male universale, trovano uno sbocco inaspettato e sorprendente, perché, come sempre, “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. E Dio anche qui si rivela provvidente e benigno, sempre presente, anche quando si rimane disorientati per la sua assenza.

LA PESTE DI MILANO (1630)

IN MANZONI:

AUTORITA’ E CITTADINANZA

DI FRONTE AL MALE

Nel caso di Manzoni, rispetto agli autori precedenti, non ci troviamo in presenza di un uomo che è passato da questa drammatica esperienza, per quanto siano ricorrenti anche nel corso della sua vita delle epidemie. Raccontando nel suo romanzo della peste avvenuta nel 1630, egli studia il fenomeno a partire dalle carte consultate e dagli autori coevi alla pestilenza, che ne hanno trattato nelle loro cronache. Non siamo dunque in presenza di una scena che lo scrittore ha sotto gli occhi, o ha sperimentato di persona, come è stato per Tucidide e Boccaccio. Leggi tutto “La peste di Milano -1630 – in Manzoni.”

Boccaccio e la peste di Firenze

STORICI E NARRATORI DI PESTILENZE

Le diverse pestilenze che si sono succedute nella storia sono indubbiamente eventi drammatici, soprattutto per chi si trova coinvolto. Ma non necessariamente le informazioni su di esse ci arrivano da scrittori di storia con il loro intendimento cronachistico, più o meno dichiarato, e soprattutto con la finalità di ricercarne le cause e le conseguenze, come dovrebbe essere per chi si dichiara uno storico. Per certi versi i racconti più drammatici e più suggestionanti sono quelli di autori che non hanno nella loro finalità quella di raccontare vicende a cui hanno assistito. Anzi, spesso ci troviamo in presenza di scrittori che, mettendo sullo sfondo il quadro della pestilenza, propongono un racconto di pura invenzione allo scopo di voler uscire da un clima pesante di terrore per rifugiarsi in un contesto che vorrebbe essere purificatore, per far raggiungere una sorta di beatitudine paradisiaca.

È ciò che noi possiamo trovare nel racconto di Boccaccio circa la pestilenza del 1348. Non è per lui l’evento chiave del racconto, perché l’obiettivo della sua opera non è quello di trattare quanto è successo in quel periodo. Il resoconto della devastazione di quell’anno è solo lo scenario sul quale lo scrittore vuole impostare la sua opera, che ha tutto il sapore di una narrazione fantastica e fantasiosa per creare evasione e fuga. Se si vuole cercare una descrizione più accurata, dal chiaro intento storico, bisogna andare ad altri testi, come possono essere le croniche medievali del tempo o le “Istorie” successive. Nelle “Istorie fiorentine” di Machiavelli quel gravoso evento è liquidato con poche righe: “ … nel corso del qual tempo seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata, per la quale in Firenze più che novantaseimila anime mancarono” (II, 42).

Ma, come al solito, non basta raccontare che cosa è successo; qui vi è in gioco ben altro, perché l’evento narrato viene avvertito come un segno particolarmente forte che deve far riflettere e deve soprattutto far reagire: anche in una tragedia simile, è possibile costruire una storia positiva, che può diventare una “via salutis”, un vero e proprio cammino salvifico. Così il Decamerone non è solo una silloge di racconti da godere, espressione di un mondo gaudente che vuol mettere da parte gli affanni ed evadere nella fantasia. Esso è piuttosto il percorso umano di “salvezza”, analogo a quello dan-tesco, che concepisce la salvezza come grazia dal cielo e non come opera dell’uomo.

LA PESTE DI FIRENZE (1348)

in BOCCACCIO:

IL MALE DESCRITTO E VISSUTO

NELLA SOCIETA’ DEL TEMPO

Quando scoppia a Firenze la pestilenza, ed ha il suo apice nel 1348, la situazione della città presentava già alcuni aspetti di criticità. Il crollo del sistema bancario con l’insolvenza del re inglese diede origine ad una crisi economico-finanziaria drammatica. Ci furono anche tumulti popolari fomentati dal “duca Di Atene”, che era stato chiamato dai mercanti facoltosi per gestire il potere politico. Ma il vero tracollo si ebbe con il sopraggiungere della peste. Boccaccio, che aveva trascorso la sua adolescenza a Napoli, dove il padre curava gli interessi finanziari della banca dei Bardi, era già stato costretto in quegli anni tumultuosi a rientrare per il fallimento della banca, perdendo così l’ambiente, in cui aveva maturato la sua vocazione letteraria. Proprio in occasione della peste concepisce il suo capolavoro, che avrebbe dovuto costituire una fonte di guadagno in un momento “nero”, non solo per la peste. Non scrive per documentare l’evento: questo è sola cornice in cui inserire il quadro delle lieta brigata che racconta le sue storie. E neppure si prefigge intenti didascalici, come se volesse educare una società che è allo sbando completo. Egli ha il solo scopo di allietare, proprio nel momento in cui non c’è motivo alcuno per godere, nella speranza che egli ne possa trarre vantaggi di natura economica e così tornare alla bella vita d’un tempo. E sembra quasi fuori posto il brano in cui descrive il propagarsi del morbo con tutti i suoi effetti devastatori. In realtà il quadro fortemente drammatico è la cornice da cui parte il percorso salvifico che l’uomo deve fare, per superare non solo i mali del momento, ma anche quelli ricorrenti nella storia umana. C’è chi vi riconosce quasi una prosecuzione della “Comoedìa” dantesca, perché anche qui l’uomo è come smarrito in una “selva oscura”, rappresentata dalla peste nera. E perciò ha bisogno di uscire dall’Inferno per salire, purificandosi sulla montagna del Purgatorio, fino ad elevarsi nel Paradiso di un vivere più spensierato, come quello sperimentato dalla bella brigata di giovani che si ritrovano nel contado, per sfuggire ai miasmi di un’aria morta, come quella pestilenziale. Leggi tutto “Boccaccio e la peste di Firenze”