PAPATO E IMPERO IN LOTTA TRA LORO.

                                                     INTRODUZIONE

Si può dire che il Medioevo si caratterizza per la lotta titanica fra i due poteri emergenti in questo periodo, quelli cioè che ritengono di essere gli eredi del mondo romano. Crollato l’Impero, soprattutto con la rimozione dell’ultimo erede dell’autorità somma, e cioè l’esautorazione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre, nel 476, si doveva trovare chi ne ereditasse la funzione in una fase storica nella quale predominano le invasioni di popoli diversi, resi comuni con la definizione di “barbari”. Mentre nella porzione orientale dell’Impero, la figura dell’Imperatore viene garantita dalla dinastia bizantina, nella parte occidentale nessun re barbarico può fregiarsi del titolo di erede del mondo latino ormai decaduto. Del resto nessuno di essi si insedia a Roma, città che viene abbandonata al suo destino. Emerge in essa la figura del Papa, vescovo della città e proprio per questo ritenuto punto di riferimento della Chiesa. Non sempre chi è Papa può trovare il giusto riconoscimento della sua autorità, soprattutto se gli manca l’autorevolezza nella gestione del suo potere; ma, nello stesso tempo, non essendoci chi vi poteva svolgere i compiti necessari dell’autorità, il vescovo se ne assumeva le responsabilità, che lo facevano essere in città un esponente di rilievo e nella cristianità il garante dell’unità della fede e della Chiesa. Non tutti i Papi si rivelano all’altezza di un simile compito, ma nel tempo cresceva questa sua funzione e, con l’adesione al Cristianesimo delle popolazioni barbariche, anche i re sentivano il bisogno di riferirsi a lui e di averne pure l’approvazione e il sostegno. E tuttavia il Papa non diventa mai l’autorità di riferimento per il mondo occidentale: anche la sua elezione, combinata dalle famiglie e dal clero locale, necessita dell’approvazione dell’Imperatore d’Oriente. L’occasione per recuperare una propria fisionomia anche giuridica che recida i rapporti di dipendenza con Bisanzio, arriva con la rinascita dell’Impero realizzata dai Franchi e in particolare dalla dinastia carolingia. Carlo, re dei Franchi, e ormai divenuto nella sua persona unificatore dei regni del centro Europa, grazie ad una politica militare che si impone sulle altre popolazioni barbariche locali, trova nel Papa Leone III colui che di fatto gli riconosce il titolo di Imperatore dei Romani, nella cerimonia dell’incoronazione nel Natale 800. Egli aveva tentato l’unificazione anche con l’Oriente, sperando nel matrimonio con Irene, imperatrice di Bisanzio, che si era imposta sul figlio; ma di fatto non se ne fece nulla.

Per non destare reazioni negative, Eginardo (775-840), suo biografo, a proposito della cerimonia scrive che tutto era avvenuto a sua insaputa.

Fu allora che ricevette il titolo di imperatore e di augusto. In un primo tempo, però, si mostrò tanto malcontento di quel che era avvenuto, da affermare che quel giorno, quantunque ricorresse una grande festività, non sarebbe entrato in chiesa se solo avesse potuto prevedere il disegno del pontefice. Tuttavia, dopo aver accettato questa qualifica, sopportò con grande pazienza l’invidia degli altri imperatori romani, che sembravano molto indignati dell’accaduto. Non solo; ma seppe anche vincere tanta arroganza con la magnanimità che possedeva, fuor di dubbio, in misura molto maggiore della loro, mandando ad essi molte ambasciate e chiamandoli «fratelli» nelle proprie lettere.

(Eginardo V.K. n. 28)

Da una parte Papa Leone III con questa mossa si garantisce la sua stabilità, essendo compromesso con accuse infamanti sul suo conto. Carlo le respinge, difendendo il Papa, perché ha bisogno del suo intervento che lo eleva al di sopra di ogni altra autorità di origine barbarica. Lui diventa così l’erede dell’Impero romano che fa risorgere grazie all’investitura da parte del Papa. Inizia così questa sorta di “diarchia”, sulla quale è costruito il Medioevo. In questo periodo, infatti, l’eredità culturale romana passa attraverso l’Impero che ne risuscita l’immagine per quanto sia affidata ad un re e ad un popolo barbarico, mentre questa sua missione è garantita dal Papa che ne dà l’avvallo mediante la sua “benedizione” con l’incoronazione che allora gli eredi di questa monarchia ricevono dalle mani del Papa e in genere proprio a Roma. Quello che sembra un perfetto equilibrio fra i due, in realtà nel corso di tutto il Medioevo si rivela come una difficile coabitazione fra i due, con la pretesa di ciascuno dei due di avere un ruolo primario e non subordinato sull’altro. Il conflitto è, insomma, inevitabile, e si trascina nel corso del Medioevo: in questa diatriba i due sono destinati ad indebolirsi davanti al sorgere di forme particolaristiche che vogliono andare ben oltre l’impostazione universalistica rappresentata dai due. Di fatto Papato ed Impero sopravvivono oltre il Medioevo, ma diventeranno un’altra realtà rispetto all’identità che essi pretendono di assumere e di conservare durante un millennio circa in cui al di là delle forme istituzionali descritte con l’immagine dell’Impero e della Chiesa si dovrebbe parlare di “Res publica christiana” o di “Santa romana repubblica”.

A partire dalla Incoronazione di Carlo Magno il sostegno reciproco fra le due figure dominanti sullo scenario politico e religioso insieme, vivono una diarchia che funziona quando entrambe si riconoscono e si avvallano perché si rendono conto di aver bisogno l’una dell’altra. Ovviamente, nei momenti di incomprensione e di contesa, Papa e Imperatore ingaggiano una forte rivalità con la tendenza ad affermare la superiorità dell’uno sull’altro. Tutto questo, nel bene e nel male, avviene ricorrendo al supporto di chi offre nelle sue riflessioni motivi consistenti per dare ragione all’uno piuttosto che all’altro. Va detto che queste due autorità non devono essere interpretate secondo i principi o i canoni attuali, e cioè come figure giuridiche ed istituzionali che esercitano la loro autorità entro confini territoriali precisi. Entrambi si presentano con una autorità e quindi sostengono di avere compiti di governo sulla medesima realtà, che non è neppure riconducibile ad un territorio definito e delimitato. Entrambe le autorità appaiono come superiori ad ogni altro potere che invece controlla un territorio circoscritto. Esse dunque si riferiscono a quel tipo di universalismo che tende a racchiudere anche quei luoghi e quelle popolazioni che ancora non si ritrovano nell’Impero e nella Cristianità che si dovrebbe definire “Res publica christiana”. Sulla base del “De Civitate Dei” di S. Agostino, nel Medioevo si riteneva che la “Città di Dio” contrapposta alla “Città del diavolo” (o del mondo, secondo il linguaggio evangelico di Giovanni), venisse a coincidere con il “Sacro Roma-no Impero”, proprio per la sua sacralità, avvallata dal riconoscimento del Papa, che affidava all’Imperatore il compito di governarla nell’ambito “mondano”, mentre il Papa si riservava di governare la stessa realtà nell’ambito spirituale. Proprio perché si tratta della medesima realtà potevano insorgere tensioni in relazione agli ambiti di competenza, soprattutto se ciascuno voleva affermare il suo primato. La Chiesa tendeva a dire che anche l’autorità regale era sua perché colui che veniva riconosciuto Re o Imperatore, ricevendo l’investitura e soprattutto l’unzione regale, riceveva una sorta di “sacramento”, che solo il sacerdote poteva dare con la sua celebrazione. Si tenga conto che allora i sacramenti non erano solo i sette oggi riconosciuti. In una visione molto negativa della città terrena, che in S. Agostino coincide con la città del diavolo, solo la città di Dio può essere riconosciuta e se ne fa depositario il Papa, anche in un momento storico in cui viene a mancare l’autorità civile dell’Imperatore romano e le varie autorità locali, presenti nei regni barbarici, non risultano riconosciute, o perché ostili al mondo romano e cristiano, o perché appartenenti ad altre confessioni religiose non cattoliche.

Di fatto l’unica autorità che può consegnare tutto il deposito del passato e della sua civiltà, risanata con il Cristianesimo, è quella papale e da questa autorità l’Imperatore può ricevere il potere con un atto consacratorio.

Nel mondo antico c’era stata una grande e robustissima entità statale: l’impero romano, che era andato in briciole. Nell’alto medioevo quindi la Chiesa non ha più di fronte il grande stato romano, ma uno sbriciolamento dei poteri sovrani che cadono in mano in parte ai feudatari, in parte a signori di potenti signorie, in parte a castellani, cioè detentori di castelli che diventano centro di esercizio di potere. La Chiesa si trova allora ad occupare un posto vuoto, a supplire alla mancanza di una autorità politica efficiente. In questo modo … la Chiesa ha creato l’Europa, perché, con l’esercizio di un potere anche politico, ha plasmato e coordinato intorno a sé la vita dei giovani stati europei che andavano sorgendo. Ha svolto indubbiamente una funzione che non era sua di diritto, ma che, in quel momento era benefica e richiesta dalla carenza di un potere politico efficiente. (Zerbi I, p.58)

LA POTESTA’ IMPERIALE

Non sono mancate le occasioni perché Papa e Imperatore si trovassero su fronti opposti: il fragile equilibrio fra le due potestà cede il passo alle tensioni soprattutto in presenza di figure particolarmente forti nel proprio carattere, e, in più, quando esse sono sorrette da un apparato di idee e di studiosi che davano la spinta a marcare il proprio spazio di azione con la coscienza di svolgere un compito rivestito di sacralità. Se poi sul fronte opposto l’interlocutore appariva debole per tanti motivi, l’altro poteva avere spazio per far crescere il proprio ambito di potere. Nella visione sacrale del potere chi dovrebbe apparire più debole è l’Imperatore, che ha bisogno della incoronazione da parte del Papa, il quale si illude spesso di poter te-nere soggiogato colui che ha la potestà civile. Ma non è sempre così. A partire dal 1000 il quadro sembra favorire il re di Germania (che è pure d’Italia), che vede la rinnovazione dell’Impero con la dinastia degli Ottoni.

Con la morte di Gregorio nel ’99 e la assunzione di Gerberto al pontificato (Silvestro II), la fusione Imperatore-Papa è piena. Procedono come potestà una e duplice, nell’uno e duplice compito. Li troviamo insieme a Roma, a Benevento, a Farfa, altrove. Silvestro è a fianco di Ottone, insieme “con gli altri nostri ottimati”, nell’atto che questi si consiglia per le cose della Chiesa e dell’Impero. Quando il sovrano torna in Germania, il Papa lo accompagna fino a Ravenna. Poiché chi sovrasta in questo connubio e quasi dà la sua impronta, è l’imperatore. L’altro, quasi suo ministro nelle cose spirituali. L’unità del mondo cristiano è unità nell’Imperatore, braccio armato e spirito nel tempo stesso. La sicurezza e la libertà della Chiesa che esso per-segue sono anche e specialmente il mezzo perché “prosperi il nostro Impero e si propaghi la potenza del popolo romano. Pur senza che si possa pensare ad un Imperatore diventato anche capo della religione, certo egli si intitola “apostolorum servus”, “servus Jesu Christi”. E l’Impero è, per dichiarazione di Silvestro stesso, “eterno”. Insomma: il Re di Germania e d’Italia, diventato Imperatore, è riuscito a dominare il Papato e quasi assorbirlo. È il momento della più stretta compenetra-zione delle due podestà; della più monarchica e unitaria concezione del mondo. (Volpe, p. 147)

ENRICO II (1002-1024)

La figura dominante in questa visione diarchica del potere è quella di Enrico II, che ancora oggi compare nel calendario dei santi della liturgia. Questa aura gli deriva dal fatto che viene presentato come colui che ha avuto a cuore la vita della Chiesa, edificando luoghi di culto, creando nuove diocesi, riconoscendo il primato di Roma, mettendosi così a servizio della religione per farla diventare l’elemento coesivo del suo regno, che di fatto coincide con l’Impero da poco rinato. Simili occupazioni gli danno rilievo come uomo di fede, degno della canonizzazione che avviene nel secolo successivo, quando Papa e Imperatore superano le divisioni. Ma il quadro che si deve dare del suo tempo è quello di una ingerenza di fatto nelle questioni interne della Chiesa, come se tale compito spettasse a lui, perché egli riconosceva la necessità di una riforma strutturale della Chiesa stessa.

Come nessun altro predecessore egli avocò a sé l’occupazione delle sedi episcopali, imponendo agli elettori il candidato da lui designato, per lo più membro della cappella di corte; cosicché rimase ben poco della libertà elettiva., che pure deve essere l’elemento essenziale della electio canonica.

Più di una volta egli convocò sinodi o intervenne nelle questioni ecclesiastiche. Le chiese episcopali furono inoltre gravate dell’obbligo dell’ospitalità, che, molto più dei suoi predecessori, Enrico pretese per sé e per il suo seguito durante i suoi continui viaggi. Interventi ancor più gravosi dovettero accettare i monasteri, nei confronti dei quali il re si comportò da padrone ecclesiastico. Senza riguardo per i diritti elettivi dei monasteri egli destituì e nominò gli abati, disponendo delle proprietà conventuali come di qualsiasi altro bene del regno. Intere abbazie o porzioni delle loro proprietà furono date ad altre chiese, per lo più vescovili; molti monasteri dovettero prestare il servitium regale e versare delle imposte fisse, anzi alcune proprietà ecclesiastiche furono date in feudo a vassalli laici. In tutti questi provvedimenti il re, che era personalmente devoto, si lasciava guidare non solo dall’interesse materiale del regno, ma anche da una sincera volontà di riforma.

(Storia della Chiesa IV, p.322-323)

ENRICO III (1039-1056)

Una simile descrizione fa pendere l’ago della bilancia dalla parte del potere civile e questo continua con Enrico III, figlio del successore di Enrico II. Costui ha buon gioco, sia perché la riforma della Chiesa è voluta dal re ed è pure tra gli obiettivi degli uomini di Chiesa e in particolare dei Papi, sia perché questi ultimi risultano di fatto deboli, almeno sotto il profilo fisico, rimanendo per pochi anni sul soglio pontificio, e senza la possibilità di costruire riforme che abbiano consistenza e durata. Tuttavia, di fronte alla debolezza del Papato, si dà spazio ad un lavoro di natura spirituale, che ha come suo centro l’abbazia di Cluny, con tutta la sua rete di monasteri sparsi in Europa, a cui si affianca un sistema di riforma, che in alcuni centri, come Milano, coinvolge i laici, raccolti in associazioni capaci di contrapporsi ai poteri religiosi locali, proni all’Imperatore e nient’affatto concordi con il Papa.

Pochi sovrani del primo medioevo furono come Enrico III (1039-56) convinti della dignità del re-sacerdote e dei gravi impegni ad essa connessi. Già gli sforzi dei suoi primi anni di governo per ottenere una pace generale in tutto l’impero lo dimostrano chiaramente. (…) Enrico III faceva proprie le esigenze della pace religiosa con tutte le sue conseguenze. Guidato dalla giusta convinzione che la giustizia deve unirsi alla misericordia e alla grazia, se vuole fare trionfare l’autentica pace cristiana … dal pulpito o dall’altare del duomo annunciò a tutti i suoi nemici l’assicurazione del suo perdono e invitò i presenti a fare altrettanto. (…) I principi laici scoprirono ben presto in lui la volontà di un sovrano costantemente preoccupato di aumentare il proprio potere regio. (…) Una via tutta sua Enrico seguì nella politica verso i monasteri. Mentre Enrico II sottomise volentieri le abbazie ai vescovi, egli andò incontro al loro desiderio di libertà sottraendo una serie di monasteri all’autorità dei vescovi o dei signori laici e ponendoli direttamente sotto la sua protezione. Naturalmente questa protezione significava anche sovranità; ma era la sovranità del massimo potere politico-religioso, che garantiva la libertà. Infatti per l’uomo medioevale libertà significava contemporaneamente sottomissione, servizio (in ultima analisi a Dio), tanto che Enrico definì libertà la sottomissione delle abbazie alla sua autorità.

(Storia della Chiesa IV, p.328-329)

Così, tanto Enrico II quanto il suo non immediato successore, Enrico III, appaiono con una visione teocratica del potere, dove la difesa religiosa è in mano al potere politico che evidentemente se ne serve per poter gestire una struttura, come quella imperiale, che non era facile conservare in questo modo, se non ingerendo anche negli spazi che non erano di loro competenza. Di fatto essi si sostituivano al Papa che non risultava in grado di poter esercitare una influenza notevole, essendo dominato dalle famiglie romane al momento della elezione e non riuscendo a durare a lungo nell’esercizio del ministero. Nel contempo si deve dare atto che le interferenze dell’imperatore non erano considerate come limitatrici del potere papale, quanto piuttosto come un ausilio alla sua debolezza.

L’iniziativa riformatrice di Enrico III è stata talvolta duramente criticata. Gli storici della Chiesa hanno parlato di un tirannico attentato alla libertà ecclesiastica; gli storici profani rimproveravano all’imperatore l’imperdonabile errore di avere avviato una riforma , che avrebbe ben presto causato al potere statale gravi danni. Quanto queste valutazioni siano fondate su presupposti non storici, può dircelo un testimonio oculare di quell’epoca. Da umile chierico romano, preso in ben poca considerazione, egli seguì gli avvenimenti di Sutri e di Roma, accompagnando poi a Colonia il deposto papa Gregorio VI, che Enrico III mandò in esilio. Si chiamava Ilde-brando e più tardi avrebbe salito il soglio pontificio con il nome di Gregorio VII, sostenendo con energia la lotta fra regnum e sacerdotium.

Da un così convinto avversario del potere teocratico dei re, che condivise con Gregorio VI perfino le sofferenze dell’esilio, ci si dovrebbe a-spettare un’appassionata condanna di Enrico III. In realtà invece egli ha conservato per tutta la vita un buon ricordo dell’imperatore, condividendo in questo l’atteggiamento di quasi tutti i più eminenti riformatori della sua generazione. Da questi ambienti dunque l’azione riformatrice di Enrico deve essere stata considerata come un atto in favore della chiesa e nonostante qualche critica sollevata qua e là il suo governo teocratico deve essere stato tanto conforme alle concezioni della sua epoca, da non lasciare prevedere lo sviluppo radicale degli anni successivi, favorito dalla sua morte precoce e da altre circostanze sfavorevoli. In Normandia e in Inghilterra ancora durante le lotte per le investiture Guglielmo il Conquistatore poté, come un tempo Enrico III, governare in modo teocratico, senza entrare in conflitto con Gregorio VII, il che dimostra quanto lentamente sia avvenuto il cambiamento spirituale nella seconda metà di questo secolo.

(Storia della Chiesa IV, p.337)

LA LOTTA PER LE INVESTITURE

Il momento culminante della lotta fra i due detentori del potere, che si sarebbe dovuto esercitare insieme, è rappresentato dallo scontro fra Gregorio VII ed Enrico IV: nei libri di storia il contenzioso viene descritto con il nome di “Lotta per le investiture”. Indubbiamente il cuore della questione è de-terminato dalla scelta di chi deve nominare i vescovi nelle diocesi. Esse erano certamente suddivisioni territoriali della Chiesa, in cui il titolare, nei primi tempi, veniva scelto dal clero e dal popolo locale (come possiamo arguire da ciò che è successo a Milano per Ambrogio). Poi però questa scelta doveva essere confermata dal Papa, ritenuto nella sua primazia a Roma come il depositario dell’unità della Chiesa. Se poi le diocesi diventano di fatto territori con cui veniva suddiviso l’Impero, era inevitabile che anche l’Imperatore cercasse per le diocesi dei vescovi a lui favorevoli. Dal tempo di Carlo Magno le suddivisioni territoriali venivano affidati a coloro che ap-partenevano alla corte e che il re considerava suo compagni (= comites), i quali erano definiti “conti” e il loro territorio “contea”; nelle zone di confine, dove era necessaria la presenza di uomini armati o comunque forti e sicuri nella guerra, venivano costituite le “marche” (luoghi di confine), e l’autorità locale era definita “marchese”. Costoro, in presenza di re caro-lingi deboli, si assicuravano per la prole la continuità del proprio feudo. Di qui la scelta di andare a cercare delle autorità religiose, come i vescovi, dai quali era esclusa la possibilità di perpetuare nella famiglia il possesso e il governo locale. Di qui la preferenza per i cosiddetti “vescovi-conti”.

Sulla base di una simile situazione la scelta dei vescovi era in mano all’Imperatore che aveva anche trovato la motivazione per un simile esercizio del potere nel fatto che la sua consacrazione, letta come un “sacramento”, lo autorizzava ad intervenire anche nel campo religioso avendo a cuore il bene dell’Impero che poteva essere considerato “sacro” nella misura in cui vi era questa visione del potere. Di fatto i due imperatori che dopo il 1000 coltivano una simile concezione si pongono senza alcun limite a svolgere un tale compito: essi scelgono i loro rappresentanti, i quali utilizzano anche la “simonia” per raggiungere il loro obiettivo. La lotta contro questo sistema e contro il male che vi si associava, quello della corruzione anche nella sfera sessuale, viene assunta dai Papi del tempo, per quanto appaiano deboli, anche se il loro obiettivo è di natura morale e spesso è anche dato in mano al potere civile, che deve fare la sua parte, secondo la visione sacrale dello stesso potere. Nel momento in cui il potere imperiale risulta debole, perché il successore di Enrico III è ancora troppo giovane per esercitarlo, nell’ambito religioso si cerca di sopperire a questa mancanza con una serie di interventi che sono destinati a creare il contenzioso, nella misura in cui l’e-rede vuole continuare nella linea dei predecessori. Da Papa Nicolò II (1059-1061) si stabilì che l’elezione del Papa fosse sottratta ai laici e affidata ai preti cardinali, cioè a coloro che sono nominati dal papa come cardinali, cioè vescovi incardinati a Roma perché titolari ciascuno di una chiesa di Roma. Tale formula, con gli opportuni aggiornamenti, è ancora in vigore. Non era così necessario il riconoscimento di nessuno. Con questo sistema venne eletto Anselmo da Baggio, milanese, divenuto vescovo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II (1061-1073). Con la mancata approvazione della sua elezione da parte della madre dell’Imperatore ancora piccolo, scoppiò lo scisma a cui il Papa si oppose con tutte le forze, rivelando così in corso la riforma della Chiesa, ormai diffusa e riconosciuta, e che continuava ad occuparsi dei peccati di nicolaismo e di simonia. Lo scontro si ebbe in occasione della nomina del vescovo di Milano, dopo la scomparsa di Guido da Velate, a cui si opponeva la Pataria locale, un’associazione di laici sempre più accesi nelle loro richieste che divenivano pretese. In questi anni, nei quali era scomparso Enrico III e non ancora emerso Enrico IV, e sul trono pontificio si succedevano papi poco duraturi nel tempo, la lotta fra potere politico e potere religioso era già in corso ed era sostenuta da persone energiche nel carattere, ma non direttamente responsabili della diatriba. Ildebrando da Soana, Pier Damiani, Umberto di Silva Candida erano i veri leaders dotati anche di idee e di analisi precise delle questioni sul tappeto, anche se non ancora provvisti di decreti e di provvedimenti papali a supporto della lotta da intraprendere.

La questione esplode con l’elezione di Ildebrando a Papa, il quale assume il nome di Gregorio VII in memoria del suo maestro Gregorio VI.

Vasto e organico piano d’azione del Papato, con Gregorio VII e successori! Distrigare la Chiesa dal groviglio in cui era serrata e ridarle una personalità morale e giuridica; sottrarre beni, uffici, persone della Chiesa ad ogni azione, legge, tribunale di laici (“libertà ecclesiastica”) ed esaltarla su ogni altro potere; distogliere i chierici da ogni attività professionale o economica propria dei laici, da ogni studio di materie profane; dare una disciplina sacerdotale, un costume sacerdotale, una coltura sacerdotale al clero, facendo di esso, nettamente distinto dai secolari, specie in ordine al celibato, l’esclusivo interprete dei libri sacri, il solo autorizzato e atto alla predicazione; rivendicar la piena indipendenza della S. Sede dall’Impero, e subordinare al Papa tutta la gerarchia, infrenando ogni velleità autonomistica di Patriarchi e Arcivescovi, dissolvendo le Chiese nazionali, autorizzando esso solo i Concili generali, presiedendoli per mezzo dei suoi Legati, diventando il supremo legislatore della Chiesa e giudice delle cose ecclesiastiche; affermare e far riconoscere che “romana ecclesia nunquam erravit, nec in perpetuum, scriptura testante, errabit” (la chiesa romana mai ha errato e neppure in perpetuo , come attesta la Scrittura, sbaglierà); che cioè essa è infallibile … Ora tale programma riceve il suggello di una potente personalità, come è Gregorio VII. Esso diventa un imperativo categorico, e le rigorose sanzioni tradiscono la presenza di una mano robusta che squassa i dormienti o immemori. L’uomo di Chiesa è rivendicato tutto, con esclusivismo geloso e intransigente, alla Chiesa. La “libertà ecclesiastica” è martellata, come esigenza assoluta, agli orecchi di tutti, secolari ed ecclesiastici. Questi non debbono rinunciarvi, perché non si tratta di diritto loro, ma della Chiesa; quelli non debbono violarla, neanche nelle cose piccole, poiché la Chiesa, come organismo perfetto e perfetta unità, è tutta offesa se una sola parte è offesa. E poi “come possono i cristiani asservire la Madre, che liberò essi stessi dalla servitù del peccato?”. (Volpe, p. 157-158)

GREGORIO VII (1073-1085)

I1

La figura di questo Papa è ben nota e si caratterizza per una forte tempra che lo sorregge in tutte le sue battaglie, non indifferenti, sia prima di giungere al soglio pontificio, sia e più ancora durante il suo pontificato, quando la resistenza al potere civile, e non di meno alle critiche velenose che gli derivavano anche dall’interno della Chiesa, lo fanno diventare una figura gigantesca, nonostante l’immagine finale dello sconfitto, che tuttavia non si piega. Non risulta che avesse fin dai primi tempi chiarezza e organicità nelle sue idee da perseguire, se non che la riforma della Chiesa passa dalla sua libertà, raggiunta togliendosi dalla “cura temporale” per i possedimenti e per la dipendenza dalle autorità civili. Se ne rende conto, cammin facendo, e ingaggia per questo una battaglia senza esclusione di colpi, ricorrendo soprattutto a decreti di natura giuridica che egli stesso elabora ed espone con particolare stringatezza ed essenzialità, lasciando trasparire che questa impostazione della Chiesa risale fino ai tempi apostolici. Occorre tener presente che in questi anni di dibattiti sulla riforma il principio base affermato è quello di tornare ai tempi apostolici; ed anche i Papi che si succedono assumono il nome derivandolo spesso da chi lo aveva portato nel periodo delle persecuzioni.

DICTATUS PAPAE

Le sue posizioni sono contenute nel testo del “Dictatus Papae”, documento elaborato in quegli anni, comunque mai pubblicato, ma dall’autore ritenuto basilare e indiscutibile, per chiarire in corso d’opera, soprattutto quando la lotta prende la piega di uno scontro da vincere a tutti i costi, che il Papa ha una superiore autorità derivata da Dio stesso e per nulla da condividere con quella dell’Imperatore. È così rifiutata la diarchia sorta all’e-poca dei carolingi, con cui la sacralità del titolo imperiale era riconosciuta e dava così all’Imperatore la qualifica di servire il Papa nel garantirne la missione spirituale. Se già dai tempi di Carlo Magno al Papa veniva garantita l’incolumità e soprattutto veniva riconosciuto nella sua elezione, poi di fatto l’Imperatore ingeriva nelle questioni interne della Chiesa, perché a lui si affidava il compito di tutelare anche con la forza l’unità della Chiesa stessa. Ora questa visione viene abbandonata perché Gregorio rivendica la sua assoluta priorità all’interno della Chiesa dove metropoliti e arcivescovi dovevano dipendere da lui ed essere scelti dal Papa e non dall’Imperatore; e quest’ultimo non è affatto alla pari con il Papa e non deriva da lui la sua autorità. È così in atto un cambiamento radicale, che fa prevalere l’autorità religiosa, anche se il Papa si trova per questo isolato e poi esiliato.

Tuttavia, almeno a livello teorico, si radica il convincimento che proprio a partire da simili concetti, espressi con estrema chiarezza, tale disegno avrà il suo riconoscimento e si affermerà ben oltre i protagonisti dello scontro di questi anni. Se allora non si era trovata una contrapposizione in ambito giuridico sul versante laicale, in altri periodi storici l’analisi di questo conflitto porterà a cercare concetti alternativi e soprattutto a marcare ancora di più lo iato fra le due potestà, soprattutto perché lo Stato possa costruirsi le sue garanzie, tenuto conto dei notevoli cambiamenti che esso ha nel corso dei secoli. La storiografia su questo episodio è particolarmente ricca e va ben oltre la questione che al momento era sul tappeto, sulla quale i libri di storia continuano a puntare facendo risaltare che la Chiesa qui ha trovato la sua libertà, in quanto era vittima di un sistema che l’avrebbe travolta. Anche a sembrare che abbia vinto, la stessa amara conclusione della vita di Gregorio VII ci sta a dire che neppure la Chiesa esce vittoriosa e più florida. Ma certamente ha avuto l’opportunità di liberarsi da guai peggiori.

L’imperatore non è più il fratello del pontefice, il pontefice può perfino deporlo, può permettere ai suoi vassalli di metterlo in stato d’accusa, può sciogliere i suoi soggetti dal giuramento di fedeltà. Il potere laico è così ridotto, di fronte al potere ecclesiastico, in uno stato di assoluta inferiorità che contrasta con quella concezione della sacralità del potere regio che era stato uno dei cardini sui quali aveva poggiato tutta la costituzione politico-religiosa dell’Alto Medioevo. Anche il famoso aforisma paolino relativo alla derivazione da Dio di ogni potere, “omnis potestas a Deo”, è privato da ogni significato da Gregorio VII, poiché solo il re giusto e obbediente al pontefice può, secondo lui, esercitare legittimamente il suo potere. (Morghen, p. 117)

Le sue affermazioni perentorie nel testo citato e divenuto per lui come una specie di Magna Charta circa i rapporti del Papa con i vescovi a lui soggetti e con l’Imperatore altrettanto destinato a rimanergli subordinato, diventano progressivamente un programma politico indiscutibile, che servirà anche dopo a sostenere la supremazia papale.

Rimane in ogni modo certo che il tenore delle dichiarazioni del Dictatus papae circa i rapporti fra il papato e l’Impero corrispondeva esattamente allo spirito di tutto il documento, imperniato … esclusivamente sulla concezione dell’assoluto primato romano su ogni altra potenza, laica od ecclesiastica, della terra. Se gravi erano le dichiarazioni del pontefice che annullavano, a vantaggio della centralizzazione dell’amministrazione della Chiesa, i privilegi secolari dell’episcopalismo, gravissime erano senza dubbio quelle che riguardavano i rapporti del papato con l’Impero.

(Morghen, p. 117)

Alla visione cesaropapista si sostituiva quella teocratica che faceva dell’autorità religiosa il perno unico e assoluto del potere, destinato a confliggere nei secoli non solo con l’Impero, visione unificante che pur consentiva spa-zio per i poteri locali, ma anche con gli Stati o i sistemi politici che sarebbero seguiti al declino dell’autorità superiore esercitata dall’Impero, e così profondamente umiliata in una visione che faceva derivare quel potere da Satana stesso. Per questo motivo il simbolismo delle due spade a cui si rifaceva e continuerà a rifarsi il Papa, citando il testo di Luca negli attimi precedenti l’arresto di Gesù, veniva interpretato a sostegno della tesi che ogni potestà deriva da Dio e passa comunque attraverso il Papa che de-tiene le due spade, come successore di Pietro.

Luca 22,36-38

E Gesù soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli rispose “Basta!”.

L’apostolo Pietro usa la spada, colpendo l’orecchio del servo nel Getsemani, dimostrando così di usarla e di averne il diritto, perché il Signore ha richiesto l’acquisto e poi l’uso della spada. Se il suo successore ne affida una in mano all’imperatore per l’esercizio della giustizia, egli ne ha comunque la signoria e perciò, come la dà, la può pure ritirare. E certamente la ritira, soprattutto se l’autorità civile non è conforme ai suoi doveri. Anzi, sempre più si precisa nel pensiero di Gregorio VII l’idea che il potere politico è intrinsecamente negativo, dominato dal male e dall’autore del male che è satana. Sulla base di una simile concezione non c’è più spazio per una sorta di compromesso …

Se, “ratione peccati”, essi (i re) sono alla pari di ogni altro fedele di fronte all’investitura sovrannaturale del sacerdote, per le prime origini del loro potere essi ripe-tono addirittura la loro derivazione dalla potenza diabolica. Ed è questa una posizione estremista del pensiero di Gregorio VII, sulla quale non si è adeguatamente fermata l’attenzione degli storici, e che, tuttavia, è di fondamentale importanza per comprendere lo spirito e le forme dell’azione politico-religiosa del pontefice.

Chi non sa – egli diceva – che i re e i principi della terra hanno avuto il loro principio da coloro che ignorando Iddio (Deum ignorantes) si sono sforzati, con una passione cieca e con una intollerabile presunzione, di dominare gli uomini

loro pari con l’orgoglio, le rapine, la perfidia, gli omicidi, in una parola con una infinità di delitti, molto probabilmente per l’istigazione del principe di questo mondo, il demonio?

Dove i re, Deum ignorantes, che hanno dato, per istigazione diabolica, principio della sovranità civile, non sono, come si vorrebbe da qualcuno, quegli individui malvagi che, occasionalmente conquistarono il potere con i delitti. Nel passo citato tutti i principi che esercitarono per primi la sovranità appartenevano a un mondo che non conosceva Iddio, e con la violenza e la frode si posero come signori di altri uomini, che Dio aveva creato e voluto loro pari. Solo l’origine del sacerdozio e della Chiesa era dunque per Gregorio divina, mentre quella del regno e dello Stato, che si perdeva nella notte de’ tempi, quando ancora Iddio non s’era rivelato agli uomini, tradiva invece nei suoi caratteri essenziali la sua derivazione diabolica. (Morghen, p. 120-121)

Sulla base di una simile visione si giungeva ad uno scontro insanabile, che rimase tale nel periodo in cui i due erano protagonisti della scena. E così fu consegnato pure agli eredi, anche se essi non avevano il carattere indomabile di Enrico IV e di Gregorio VII. Essi sono associati alla questione della Lotta per le investiture, che richiese anni per essere appianata su una linea di compromesso, per nulla possibile quando i due si fronteggiavano. Ma a creare questo insanabile contrasto non c’era solo la questione di chi dovesse scegliere per la consacrazione episcopale uno che poi assumeva la responsabilità politica di un feudo. L’imperatore pretendeva di averne l’esclusiva in ragione del suo schema politico; il Papa invece nel momento della più grave crisi istituzionale, con al vertice nelle diocesi dei simoniaci e dei corrotti, avocava a sé la nomina di figure degne dell’ufficio sacrale. La tensione continua e si arriva ad una composizione con il Concordato di Worms (1122). Di fatto rimase in piedi il contenzioso circa la superiorità del potere religioso rispetto a quello civile, che si trascinò per tutto il resto del Medioevo, fino a quel genere di consumazione che li vede incrinati entrambi, mentre all’orizzonte spuntano altri detentori di potere. Certo, il titolo imperiale rimane, e questo si trascina formalmente fino all’Ottocento, quando chi ne aveva ereditato il titolo viene ridotto ad essere sovrano del proprio territorio in cui è riconosciuto. Così pure il Papa continua ad essere non solo autorità religiosa per la Chiesa e per gli Stati, ma assume la fisionomia di un sovrano, re fra altri re e signore tra altri signori, con un governo temporale in un territorio di sua pertinenza. Così colui che sarebbe potuto diventare l’arbitro nel complesso variegato di Stati, diventa uno del sistema, adeguandosi ad esso. A questo punto i principi enunciati nel Dictatus Papae non hanno alcun valore ..

UN MONDO NUOVO ALL’ORIZZONTE

La nostra lettura storica di quel periodo, soprattutto negli eventi che si susseguono impetuosi, anche per l’impeto dei due che reagiscono l’un contro l’altro armati per il loro stesso carattere forte, va a soffermarsi sulle questioni del momento e cioè sul problema della lotta per le investiture. I singoli episodi che vengono ricordati, (in particolare l’umiliazione di Enrico IV che, sotto la neve, davanti al castello di Matilde di Canossa, attende di essere introdotto e di essere perdonato dal suo rivale, restio a concedergli il perdono) ci dicono la forte tensione in atto, anche se, al momento, forse, non ci si rendeva conto della posta in palio. La questione verrà affrontata dai successori con ben altro animo e con una serie di compromessi a salvaguardia delle reciproche sfere di competenza. Ma nel frattempo la questione di fondo portava progressivamente ad un cambiamento non indifferente del mondo; questo era uscito dal periodo barbarico e dal periodo successivo con la nascita di un Impero erede di quello romano, ma gestito da gente di origine barbarica, con il sostegno della Chiesa che voleva garantire questo passaggio e la continuità con i valori raccolti dalla cultura classica. Ora la Chiesa, che voleva la riforma al suo interno, combattendo la corruzione nell’ambito sessuale e nell’ambito delle ricchezze, con le sue pretese minava la struttura portante dell’Impero, che reagiva volendo affermare i propri diritti. Ciò che poteva essere raggiunto, come succede con il Concordato di Worms, determina però un radicale cambiamento dei rapporti fra le due autorità, almeno teoricamente a tutto vantaggio della Chiesa. Essa rivendica la sua superiorità e porta con i testi di Gregorio VII i fondamenti che danno sostegno alle sue pretese. Eppure se a prima vista la sua rigidità dottrinaria conduce l’Imperatore “a Canossa”, di fatto la lotta che ne seguì lo vide sconfitto e prigioniero addirittura dei Normanni, come già era stato il suo predecessore Leone IX. Era una dorata prigionia, perché in realtà si era rifugiato lui per sottrarsi agli imperiali, ma nel contempo la sua presenza a Salerno serve ai Normanni perché siano riconosciuti nel loro nuovi possedimenti. La struttura medievale fondata sulla diarchia “Papato e Impero” non reggeva più e altri sistemi apparivano all’orizzonte. Le affermazioni di Gregorio utili in quel momento diventano poi una palla al piede per la Chiesa stessa. Ma ne fa le spese il vecchio mondo feudale. Il Medioevo continua, perché ci sono ancora le due colonne portanti, ma esse hanno imboccato una strada che comporta decisamente un sistema diverso, ancora tutto da costruire.

In Occidente Gregorio VII conduce una guerra universale contro il particolarismo, tanto laico, quanto ecclesiastico. Sotto questo aspetto egli è il più tremendo distruttore del vecchio mondo feudale, e il più grande creatore di una nuova realtà storica. La riforma è lotta contro la simonia ed il nicolaismo, ed è nello stesso tempo livellamento, accentramento monarchico di tutta la compagine ecclesiastica in Roma. I monasteri furono sottratti in sempre maggiore misura ai poteri dei vescovi, e, con l’istituto dell’esenzione, assoggettati direttamente alla Santa Sede. Altrettanto avvenne rispetto al clero secolare: i poteri locali – primati, metropoliti, vescovi – furono spogliati delle loro antiche prerogative a vantaggio dei legati papali; si impose agli eletti di venire a Roma a ricevere il pallio e si colse ogni occasione per rendere più stretta la subordinazione dell’episcopato, più frequenti le sue relazioni personali col pontefice. Tra gli spettacoli più significativi di questo periodo è la mobilità estrema dei dignitari ecclesiastici, dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, sotto il comando di un’unica volontà, che non sa dar pace, né agli altri, né, tanto meno, a se stessa. Tutto il vasto campo cattolico era dissodato, rotta ogni zolla, spianato il terreno. Ad un regime di particolarismo locale, si sostituiva così un potente accentramento, che, nato con manifestazioni sporadiche dalla necessità di propagare le direttive romane nella lotta contro la simonia e il nicolaismo, s’innalzava alla grandezza di un sistema e rispecchiava nella sua totalità la fondamentale coscienza unitaria del Dictatus Papae. Se dei due aspetti della riforma di Gregorio VII: lotta contro la Chiesa mondana e accentramento papale, il primo richiama più comunemente la nostra attenzione col nome di Lotta delle Investiture, in realtà non si possono scindere fra loro, né subordinare l’uno all’altro per importanza. Il motivo della preferenza starà piuttosto nel carattere eroico e spettacoloso della lotta, nella sua efficacia immediata, nel profondo interesse umano ch’essa suscita in noi.

(Falco, p.248-249)

Non è necessario seguire i dettagli di questa lotta, che già conosciamo dai libri di scuola, dove spesso il giudizio va a tutto vantaggio di Gregorio per aver combattuto a favore di una autentica e radicale riforma della Chiesa, che indubbiamente arriva a recuperare il meglio della sua immagine. Però, così facendo, lui stesso ne viene travolto dando origine a quella fiera opposizione del potere politico che, un po’ dovunque e un po’ sempre, cerca di impedire lo spazio di “libertà” per la Chiesa o cerca di asservirla come “instrumentum regni”. La soluzione tentata da Gregorio VII è quella di uscire dai vincoli con lo Stato imperiale e nello stesso tempo affermando anche la propria superiorità e la soggezione del potere civile a quello religioso, che, anche se affermata, non per questo è raggiunta.

Comunque sui due protagonisti gli storici si dividono e la questione più importante viene radicalizzata perché in ogni periodo non è facile raggiungere l’equilibrio e soprattutto la collaborazione.

A pensare quali interessi erano in giuoco, quanta storia – tutta la storia di ieri e di oggi – si veniva preparando nelle sinodi romane, nelle diete e sui campi della Germania, viene da sorridere che per secoli e fino ai nostri tempi sia durata la polemica tra gli apologeti e i detrattori dei due protagonisti, tra la santità e l’ambizione di Gregorio VII, tra l’eroismo e l’astuzia di Enrico IV. Per il nostro proposito determinato basterà ciò che s’è detto. Non c’è un carnefice e una vittima, un colpevole ed un innocente, fra i quali siamo incaricati di giudicare. Qui si tratta, non del torto o della ragione, della virtù e del vizio, ma del passato e dell’avvenire d’Europa, della più grande rivoluzione del medio evo, della più profonda fede politica e religiosa. Enrico è il campione della sua dinastia, della tradizione imperiale, dell’intero Occidente, che adopera ogni forza e ogni ingegno per la conservazione degli ordini antichi, contro una potenza disarmata e invincibile; Gregorio è la rivoluzione e l’avvenire. Né l’ammirazione per la coscienza altissima del papa dovrà impedirci di comprendere l’umanità del suo nemico. (Falco, p.255)

PASQUALE II (1099-1118)

La lotta per le investiture proseguì per anni, anche oltre Gregorio VII e divenne un problema anche con altri poteri civili, fuori dell’Impero. Le scomuniche e la contrapposizione di antipapi creavano solo caos e un clima di tensione crescente.

Ma i cedimenti dall’una e dall’altra parte venivano male interpretati e creavano ulteriore tensione. Il successore non immediato di Gregorio VII, Urbano II (1088-1099) viene preso nel dramma dei cristiani massacrati in Terra Santa ad opera dei Turchi (1087) e dalla necessità di suscitare una reazione armata che diventerà, anni dopo, la prima Crociata (1096-1099). Non per questo in Europa si era esaurita la questione delle Investiture. La proposta più audace venne da Pasquale II …

Pasquale II … riteneva che la Chiesa se vuole conservarsi nella sua libertà, e quindi se vuole conservare la possibilità di adempiere al suo ufficio per portare gli uomini alla santificazione, deve separarsi dalle cose del mondo, e, in modo tutto particolare, dalle ricchezze. Sicché il disegno di Pasquale II è l’ideale della povertà nella Chiesa portato ai vertici della Chiesa stessa, affermato da un pontefice un secolo prima di Francesco d’Assisi. È un’audace proposta che la Chiesa in quel momento non recepisce, e che consiste essenzialmente in questo: la Chiesa accetta di essere povera per essere libera. (Zerbi I, p.87)

L’accordo … era veramente rivoluzionario, perché riduceva le Chiese episcopali, esclusa la romana, a vivere di oblazioni, di decime, e di quelle poche proprietà che non avessero ricevute dall’impero. Era quindi indubbiamente un appello alla povertà, che le chiese in quel momento dimostrano di non essere capaci di accettare; ma c’è un altro aspetto ugualmente terribile del piano: esso scardinava l’alta feudalità ecclesiastica, che costituiva il nerbo dell’amministrazione imperiale. I vescovi e gli abati che ottenevano beni dall’impero erano vincolati alla fedeltà verso l’imperatore, come alti vassalli, e diventavano i primi tra i funzionari, gli unici colti tra i membri della corte del re, sicché rinunciare ad essi voleva dire scardinare tutta l’amministra-zione imperiale: Enrico V si rendeva perfettamente conto che accettando il progetto di Pasquale II avrebbe compromesso il fondamento stesso del regno. Il piano era dunque anacronistico, fuori della realtà politica e storica, e si nutriva solo di una sua altezza spirituale. (Zerbi I, p.89)

CONCLUSIONE

La Lotta per le investiture è da sempre considerata un episodio centrale del lungo Medioevo: avviene nel cuore di esso e nello stesso tempo è il segnale evidente che l’impostazione medievale, relativamente da poco costituita con i carolingi, sta già lasciando il posto ad altre realtà. E quindi anche con questo episodio possiamo dire che è in corso un lento ma progressivo cambiamento. Il fatto che si arrivi ad un Concordato, bene evidente nei termini lì espressi, come se si fosse cercato un compromesso, per evitare indebolimenti peggiori ai due protagonisti del Medioevo, dice con chiarezza che un nuovo equilibrio è stato cercato e raggiunto.

Non siamo ancora alla struttura dei Concordati che in secoli successivi e ancora oggi vengono siglati fra la Santa Sede e gli Stati che vogliono disciplinare le questioni sulle quali ci sono gli interessi dello Stato e della Chiesa cattolica. E tuttavia il termine usato ci fa capire che si è trovata una forma o una formula per sistemare le questioni che riguardano il foro civile e quello religioso. Così anche questo documento storico che è limitato a dover disciplinare una materia così delicata, diventa nel tempo una modalità, ancora in uso, per dirimere certe questioni. Il dibattito sull’argomento è ancora in corso e ci sono posizioni molto diverse anche all’interno dei due schieramenti, segno che la disciplina sulle questioni in comune non è sempre così malleabile, ma soprattutto che non si è ancora finito di discutere circa i rapporti Stato-Chiesa con una reciproca stima, un vicendevole rispetto, una piena e armoniosa collaborazione a beneficio di coloro che sono insieme cittadini e credenti di una istituzione riconosciuta.

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