INTRODUZIONE: IL MEDIOEVO
Siamo cresciuti in una scuola dove erano rigide le periodizzazioni storiche: a partire da un evento traumatico la data stabiliva quando finiva un certo mondo e ne nasceva un altro. La suddivisione era indubbiamente utile a catalogare i diversi momenti che si succedono senza una particolare soluzione di continuità, ma chi viveva in quel contesto neppure si rendeva conto di un passaggio così netto. Nella rappresentazione delle differenti età si individuava un particolare episodio e una precisa situazione per dire che il mondo cambiava aspetto, anche se ci voleva molto tempo perché ci si rendesse conto di essere in presenza di un episodio da considerare importante e decisivo per il passaggio da un’epoca all’altra. Poi ogni periodo assume un nome che dovrebbe servire a qualificarlo nella successione dei diversi periodi. Ormai noi siamo abituati a pensare al Medioevo, come ad una età particolare che, in base alla datazione tradizionale vogliamo racchiudere tra la caduta dell’impero romano, con la deposizione dell’ultimo Imperatore, avvenuta nel 476, e la data dell’approdo di Colombo sulle coste americane il 12 ottobre 1492. Questa età si snoda per un millennio circa, fino a quando si avverte che la “scoperta” del Nuovo Mondo, poi definito America, apre nuove prospettive e nuove impostazioni. Oggi questa suddivisione non convince più gli storici di questo periodo, e si fanno avanti altre datazioni, non da tutti condivise, perché ciascuno valuta un particolare episodio come il segnale della fine di un’epoca ben caratterizzata da certi fenomeni, quali le invasioni barbariche e la fusione tra la cultura romana e quella germanica, grazie alla mediazione della Chiesa. Anche la denominazione di Medioevo, appare riduttiva o comunque non sufficientemente qualificante questa età molto complessa. Chi ha introdotto questo termine – e lo ha fatto con un certa presa di distanza che ne dà una configurazione negativa – vede questo periodo contrapposto a quello precedente e più ancora a quello seguente, come se ci fosse uno “iato” tra due tempi ritenuti “classici” e quindi molto positivi, perché all’insegna di una luminosità indiscutibile. L’età di mezzo, come di fatto si qualifica, appare oscura e registra una regressione rispetto a ciò che vi era e a ciò che viene ripreso successivamente. Così la parola, usata per definire questo lungo millennio, ha una connotazione negativa che fa ritenere quei secoli come segnati da aspetti oscuri e drammatici che la caratterizzano profondamente.
Uno di questi è il succedersi di “invasioni”, definite con il termine “barbariche”, che prende una accezione totalmente brutale, perché ormai “barbaro” non significa più solamente straniero, come è nella sua origine semantica in greco, ma addirittura distruttivo e rovinoso. Anche per la maniera con cui il fenomeno viene descritto dagli storici e viene avvertito dalla popolazione che lo subisce, dobbiamo pensare che esso non è mai considerato come una emigrazione, una ricerca di spazi migliori per un vivere più dignitoso e più umano, un movimento che nasce dalle mutate condizioni di vita; è invece qualcosa di brutale e di distruttivo. Ed in effetti c’è anche questa componente. Si tende a cogliere questa amara realtà che nelle cronache di allora e nella considerazione della gente locale rivelava un susseguirsi di popolazioni dedite al saccheggio, alla conquista, alla guerra. Ma il fenomeno è indubbiamente molto più complesso. Durando poi diversi secoli e coinvolgendo popolazioni diverse, spesso pure in lotta fra loro, dovremmo dire che la percezione del fenomeno è tale da suscitare ansia, da creare un senso di paura radicata, con la reazione altrettanto violenta che non aiuta a migliorare le condizioni di vita. Le strutture che si inventano e che si costruiscono per arginare il fenomeno sono tali da impedire un assorbimento del fenomeno e da costruire rapporti all’insegna della collaborazione costruttiva: così le guerre e le violenze, invece di arginarsi, dilagano ulteriormente, lasciando traccia di rovine e di impoverimenti sempre più ampi. Anche la costruzione di un nuovo vivere sociale e soprattutto di istituzioni che favoriscono la convivenza diventa più faticosa. Anzi, certi fenomeni, invece di riassorbirsi, conoscono nuove fasi e danno origine a tempi sempre più burrascosi: sembra quasi che sia impossibile riemergere, anche se alcune popolazioni tentano di appropriarsi di quanto lo Stato romano, e con esso l’istituzione della Chiesa, ha lasciato in eredità del passato. Il punto di incontro fra l’eredità latina e ciò che la Chiesa ha raccolto di positivo del mondo antico è rappresentato dal regno carolingio che diventa il Sacro Romano Impero: in esso si riconosce che il mondo “barbarico” eredita la civiltà latina e ciò che la Chiesa ha dato di suo a questa eredità. Ma anche questa struttura non dura a sufficienza; e tuttavia la strada è segnata, se altri subentrano a voler dare continuità al sistema. Arriviamo così a ridosso dell’anno mille, una data che assume un particolare rilievo, come se si dovesse rivelare una sorta di palingenesi (= di rinascita da capo), per cui non si deve temere propriamente una fine distruttiva, ma una ristrutturazione che permette di uscire da secoli oscuri e di vedere dopo il lungo tunnel una luce nuova che fa ben sperare.
In realtà per la suddivisione storica, che è arrivata fino a noi e che ha segnato profondamente il nostro modo di intendere e di leggere il processo storico, si deve riconoscere che il Medioevo prosegue oltre il Mille; e tuttavia cambia prospettiva, se non altro perché ai tempi duri e distruttivi delle orde barbariche, come venivano definite, si sostituisce un periodo che prospetta una rinascita tutta da capire e da costruire, ma desiderata e per-seguita con forte determinazione. Ci si rende conto che è in atto qualcosa di veramente innovativo, ma ancora non si comprende in quale direzione, con quali prospettive e soprattutto con quali e quanti mezzi necessari alla costruzione di un mondo nuovo, tutto da fare. Attorno al Mille, per il clima di palingenesi che si respira, il Medioevo, che in maniera troppo sbrigativa vogliamo tacciare come tempo di oscurità e di instabilità, si presenta con tutta la sua carica di rinnovamento che è giusto considerare, se si vede in esso il desiderio di radicali novità in grado di far uscire un mondo veramente ricaricato …
LE NUOVE INVASIONI
Con la nascita dell’Impero carolingio che fa sperare in una lunga e duratura pacificazione dei territori al Nord e al Centro dell’Europa, dopo secoli di movimenti di popoli, e con la rinascita “ottoniana” a ridosso del Mille, in un contesto di sostanziale stabilità politica che garantisca anche la insufficiente attività economica, ci si immagina che possano essere finite le turbolenze dovute alle continue invasione barbariche. Ed invece il secolo X, che in tutti i libri di storia viene definito il secolo di ferro con un giudizio impietoso ed estremamente negativo, è caratterizzato da una serie di movimenti che fanno “approdare” (letteralmente, visto che si muovono sul mare) altre popolazioni sui confini, in un ennesimo sconvolgimento, che sembra far naufragare l’Impero occidentale da poco costruito e presentato come l’eredità del mondo classico. Ad eccezione degli Ungari che provengono dalle steppe russe e forse anche dagli altopiani oltre il Caspio, Vichinghi e Normanni si presentano provenienti dal Nord Europa con incursioni per via di mare. Anche nel Mediterraneo ci sono aggressioni di tipo piratesco ad opera dei Saraceni, che non si prefiggono di occupare territori, ma di attaccare le zone portuali, con l’incursione all’interno alla ricerca di ricchezze o di approvvigionamenti. Evidentemente non ci sono efficaci sistemi di controffensiva, sia perché incapaci di reggere il confronto, sia perché mancano poteri adeguati per far fronte ai problemi posti da tali popolazioni.
GLI UNGARI
Come un tempo gli Unni, gli Ungari o Magiari eran comparsi in Europa, quasi all’improvviso; e già gli scrittori del Medioevo, che troppo bene avevano imparato a conoscerli, ingenuamente si meravigliavano che gli autori romani non ne avessero fatto menzione. D’altra parte, la storia della loro origine ci è molto più oscura di quella degli Unni … Anche questi nuovi invasori appartenevano certamente al mondo, così ben caratterizzato, dei nomadi della steppa asiatica: popoli molto spesso diversi per lingua, ma singolarmente simili per genere di vita, imposto da condizioni di esistenza comuni; pastori di cavalli e guerrieri … (Bloch, p. 20)
Le fonti di questo periodo ci mancano, malauguratamente, quasi del tutto. Gli Ungari, come tanti altri popoli, cominciarono a tenere degli annali solo dopo la loro conversione al cristianesimo e alla latinità … Sin dal loro soggiorno a nord del Mar Nero, avevano tentato, a imitazione dello stato dei Cazari, uno sforzo per elevare al di sopra di tutti i capi delle orde un “Gran Signore”… L’eletto fu un certo Arpad … Non senza lotte, nella seconda metà del secolo X, riuscì a stabilire il proprio potere sull’intera nazione. (Bloch, p. 25-26)
S. STEFANO D’UNGHERIA A BUDAPEST
E’ proprio nell’anno 1000 che questa popolazione entra a far parte del mondo occidentale mediante la conversione al cristianesimo dell’erede al trono, il quale, diventando cristiano, impone la nuova religione a tutta la popolazione. Silvestro II, il papa di allora, non solo accoglie la conversione e conferisce il battesimo, ma mediante l’incoronazione riconosce e legittima il potere del nuovo re, Stefano d’Ungheria, che poi sarà addirittura proclamato santo. Anche ad essere una popolazione di origine asiatica, qui diventa l’avamposto del Cristianesimo occidentale, in un’area geografica che il mondo bizantino rivendicava come proprio.
Così le orde che in precedenza facevano paura, sono di fatto assimilate in un passaggio di consegne che permette al mondo latino di sopravvivere. Così quel popolo che sembrava ripetere le stesse imprese di secoli precedenti con tutto il carico di rovine e di morti, diventa in breve non solo la nazione che più facilmente si assimila al mondo occidentale, ma anche come l’antemurale nei confronti di altri popoli confinanti che premono e che vorrebbero dare l’assalto all’Europa. Gli Ungheresi assumono un ruolo notevole nella storia europea, perché, anche a parlare una lingua di derivazione asiatica, sono di fatto i difensori della Cristianità occidentale in cui non solo si riconoscono, ma si ritrovano considerando questa nuova religione come l’elemento più significativo della loro storia. Si può dire che il vecchio millennio tramonta lasciando alle spalle un certo tipo di sommovimento dovuto alle invasioni barbariche, e si apre invece con il nuovo millennio un mondo totalmente rinnovato che lascia intendere come l’Europa sia stata in grado di trovare le modalità giuste per la propria salvaguardia, mediante la giusta assimilazione di chi si poteva temere come una presenza devastatrice.
I NORMANNI
Un fenomeno analogo si può avere con le popolazioni del Nord, legate alla Scandinavia e al mar Baltico, che le fonti storiche descrivono come popoli di fiume, più che di mare, ma di fatto portate a cercare spazio attraverso i mari che stanno lungo la costa del Nord Europa. Qui esse approdano nelle loro scorrerie legate ad un certo sistema economico che prevede lo sfruttamento di ciò che essi vedono costruirsi nelle isole e nelle coste frastagliate, dove la popolazione cerca di migliorare le proprie risorse e i propri commerci. Se all’inizio queste popolazioni appaiono razziatrici, poi però diventano veicoli di attività che ora non si limitano a sfruttare, ma che cercano di imitare e di migliorare. Queste popolazioni nordiche sono innanzitutto quelle che noi identifichiamo nei Vichinghi. Costoro sono originariamente considerati come “pirati”, cioè navigatori che, lungo le coste scandinave, trovando anche rifugio tra i fiordi locali, cercano la propria sussistenza e poi il proprio sviluppo in queste scorribande, che non hanno lo scopo di occupare territori. Alcuni di loro si spingono anche oltre le coste locali, cercando viaggi nel mare aperto fino a raggiungere le coste americane. Non sanno di aver “scoperto” un nuovo mondo, come avverrà secoli dopo, soprattutto con Amerigo Vespucci, e non con Cristoforo Colombo, il quale ancora si illudeva di aver toccato le favolose terre dell’India.
Se effettivamente i Vichinghi, guidati da Erik il Rosso (940c.-1002), fuggiasco dalla Norvegia per rissa e omicidio e altrettanto dall’Islanda, sono arrivati in Groenlandia, così definita da loro perché ritenuta “terra verde”, si deve parlare di una attività di marineria ben più ampia di quella che si verifica nel Mar Baltico e al largo della Norvegia; ma essa non dà origine a rapporti fissi e produttivi tra le due sponde, come invece succederà nei secoli successivi. Alcuni pensano anche di trovarsi di fronte a saghe nordiche, proprie di racconti popolari, che creano una specie di mito da cui discende anche il susseguirsi di viaggi avventurosi.
Quei Vichinghi , attirati dai campi di saccheggio dell’Occidente, appartenevano a un popolo di contadini, fabbri, scultori su legno e mercanti non meno che di guerrieri. Trascinati, per amore di lucro o di avventure, fuori dei loro luoghi natali, costretti a volte a quest’esilio da vendette familiari o da rivalità tra i capi, sentivano non di meno dietro a sé le tradizioni di una società che possedeva i suoi quadri fissi … Avvezzi ad associare il commercio alla pirateria, avevano creato attorno al Baltico tutta una corona di mercati fortificati; e la caratteristica comune dei primi principati – fondati durante il secolo IX, alle due estremità dell’Europa da qualche loro capo di guerra: in Irlanda, intorno a Dublino, Cork e Limerick; in Russia intorno a Kiev, lungo la grande strada fluviale – fu di presentarsi come stati essenzialmente urbani, che, da una città presa come centro, dominavano la pianura circostante. (Bloch, p. 34-35)
Tra Vichinghi e Normanni non ci possono essere particolari differenze, perché si tratta sempre di popolazioni stanziate nel Nord Europa, tra il Baltico e il Mare del Nord, portate di fatto a navigare lungo tali coste, per approvvigionarsi di ciò che trovano utile avere, non potendo coltivare nel proprio territorio. Ovviamente si tratta di popolazioni diverse, con lingue e tradizioni particolari, ma destinate comunque ad avere un ruolo nella storia europea.
Mentre i Vichinghi appaiono nella storia più come “pirati” per le loro scorribande sul mare, analogamente a ciò che fanno, senza collegamenti fra loro, i Saraceni nel Mediterraneo, i Normanni diventano di fatto conquistatori di terre e quindi, invadendo e occupando, creano nuove strutture non assimilabili con quelle che essi trovano come eredità dell’incontro fra le istituzioni di origine romana e quelle di derivazione “barbarica”. I Normanni non si adeguano a questo, anche quando contrappongono alle istituzioni preesistenti, forme di governo, destinate a dare un assetto nuovo in Europa. Ciò che inizialmente appare periferico in Europa, perché questi navigatori danno origine a Stati e territori gestiti con il loro schema che non ha niente a che vedere con le strutture feudali, proprie del resto dell’Europa, in una fase successiva si rivelerà un sistema di governo affermato che cambia l’immagine dell’Europa intera: nasce proprio con loro un assetto di Stato molto moderno, che appare più simile a ciò che ancora oggi è dominante. I Normanni prendono piede nella Francia del nord, dando origine a quell’area geografica che poi sarà chiamata Normandia, così definita pure oggi. Gli assalti sulle isole britanniche trovano resistenza fino alla conquista definitiva nel 1066. Contemporaneamente abbiamo le scorribande nel sud d’Italia, dove la debolezza delle strutture di governo locali, in mano a governatori di origine longobarda o di provenienza bizantina consentono il sorgere di un nuovo assetto politico, che solo con la prigionia di Leone IX (1053) avrà dal Papa il riconoscimento necessario, perché si trasformi in un governo che gode della “benedizione” e dell’avvallo pontificio. Ci vogliono anni, ma è inevitabile che i nuovi arrivati si impongano e diano origine a forme di governo che superano il sistema medievale, già in crisi attorno al 1000. Ne è ben consapevole Henri Pirenne che nella sua storia d’Europa coglie in pieno la novità introdotta dai Normanni, da lui messi accanto agli Arabi, che in realtà, almeno in questo scorcio del 1000 dobbiamo riconoscere come i Saraceni.
Le invasioni normanne furono ben altrimenti devastatrici ed ebbero dei risultati d’importanza molto maggiore. Esse fanno apparire improvvisamente sulla scena un popolo rimasto fino ad allora completamente sconosciuto, tanto che non esisteva alcun nome per designarlo e che, in mancanza di meglio, gli abitanti delle coste del nord, che furono i primi ad esserne in contatto, chiamarono col nome della regione da cui proveniva: Noord-mannen, Normanni. Non si possono spiegare che con delle ipotesi, d’altronde plausibili, le razzie marittime degli scandinavi. La prima ragione fu evidentemente il bisogno sentito da una parte della popolazione di cercare fuori i mezzi di sussistenza, che il suolo ingrato e povero della patria non offriva più in maniera sufficiente ad uomini energici ed arditi.
Si aggiungano a questo disagio economico le lotte intestine tra i capi locali, la fierezza dei vinti che si rifiutavano di sotto-mettersi ai vincitori e che trascinavano con sé i loro compagni di guerra, la speranza di un ritorno trionfale dopo proficue avventure, e ci si potrà fare così un’idea dei motivi, dopo la fine dell’VIII secolo, hanno spinto a gara sul Mare del Nord, sul Baltico, sulle distese glauche dell’Atlantico settentrionale e fino alle azzurre acque del Mediterraneo, Danesi, Norvegesi e Svedesi.
(Pirenne, p. 79-80)
I SARACENI
Lo stesso storico mette in rilievo quelle popolazioni del Mediterraneo che egli chiama Arabi, anche se non appartengono a questo popolo che dovremmo circoscrivere nel deserto arabico. Nel Mediterraneo, soprattutto sulle coste africane ci sono popolazioni di religione mussulmana e proprio per questo assimilata agli Arabi. Costoro, per quanto riescano a dominare sui mari e sulla costa, anche quando fanno razzie sui litorali italiani e francesi non per questo si prefiggono di occupare vaste aree geografiche, come succede in Sicilia e in Spagna. Certamente il loro controllo sul mare impedisce agli Europei il commercio sul mare e quindi anche uno sviluppo per l’economia e il territorio europeo. D’altra parte gli Europei non hanno forze adeguate per contrastare il dominio sul mare; quando si cercherà di costruire relazioni commerciali con l’Oriente allora si avverte la necessità di prevalere su questi predoni del mare che comunque continueranno a imperversare.
Già in possesso delle Baleari, della Corsica e della Sardegna, i Mussulmani dominavano ora su tutte le isole del Mediterraneo, che servirono come basi navali e di attacco contro le coste continentali. Dalla Sicilia essi diressero delle spedizioni contro la Calabria, che terminarono con la conquista di Bari e di Taranto. Altre flotte tormentavano le rive dell’Italia centrale. Il papa Leone IV fu costretto a porre ciò che restava di Roma al sicuro dai pirati, che potevano sbarcare, senza nulla temere, alle foci del Tevere. Le bocche del Rodano, altrettanto mal difese, erano anche più esposte. Degli stanziamenti militari furono creati dagli Arabi lungo la Riviera, dove ancora rimangono i loro rifugi. Non ci furono d’altronde tentativi di stabilirsi all’interno. Ai nuovi padroni del Mediterraneo importava solo il dominio delle coste e, poiché non esisteva più commercio cristiano, non si fecero seri tentativi per cacciarli dalle coste, che furono loro abbandonate. La popolazione cristiana si ritirò più lontano e i resti delle città e la regione di Nimes si fortificarono come meglio poterono.
(Pirenne, p. 79)
IL MITO E LE PAURE
DELL’ANNO MILLE
Attorno a questa data si crea una immagine negativa che suscita ansia, paura, angoscia e disperazione. In realtà più che il numero simbolico, con cui si riteneva doversi chiudere un ciclo, incupiva gli animi la prospettiva di una possibile catastrofe propria di una fine inesorabile, sempre minacciata e sempre temuta. Un tale clima era indotto da predicatori che cavalcavano questi stati d’animo con le pagine più drammatiche della Bibbia, facendo credere che fosse in corso una vera e propria “apocalisse”, se questo vocabolo viene interpretato, diversamente da come deve essere inteso, come sinonimo di distruzione totale. Da noi ormai questo vocabolo suscita il terrore di una fine devastante, come se la conclusione del mondo debba avvenire in mezzo alla catastrofe. D’altra parte non ci sono solo i testi biblici, male interpretati e ancor peggio usati, a suscitare questi stati d’animo turbati; ci sono pure situazioni che appaiono occasionali e che si aggiungono a quei movimenti di popoli, la cui notizia aumenta la fobia e il senso di incertezza. Se ad una serie di catastrofi, se a un clima di terrore per la violenza accresciuta, se a guerre e a rumori di guerre, si accompagna anche una predicazione terroristica, è facile che ci si aspetti qualcosa di assolutamente catastrofico e questo non succede solo attorno alla data del 1000, ma anche oltre. Interventi alternativi da parte di organi di governo civile o religioso, magari addotti con tanto di decreto locale o generale, non cambiano di molto la situazione, anche perché il quadro appare, soprattutto in certe aree, davvero molto calamitoso. Occorre, evidentemente una “politica”, cioè una azione da parte delle autorità, che spinga nella direzione opposta, quella che permette la rinascita, indubbiamente perseguita anche con buoni risultati. Ma rimane, soprattutto in alcune zone, un quadro che induce al pessimismo.
Sempre minacciata dalla carestia, la massa oppressa dei cristiani dell’XI secolo vive in uno stato di miseria fisiologica particolarmente pietoso nelle classi inferiori della società. La fame, la cronica sottoalimentazione favoriscono malattie come la tubercolosi, il cancro, le malattie della pelle, determinano una spaventosa mortalità infantile, propagano le epidemie. Il bestiame non ne è immune e le epizoozie aggravano la scarsità dei mezzi di sussistenza e, indebolendo la forza di lavoro animale, portano alle estreme conseguenze la situazione di grave malessere.
Raoul Glaber scrive che durante la grande carestia del 1032-1033, “dopo aver mangiato le bestie selvatiche e gli uccelli, gli uomini si misero, sotto la sferza di una fame divorante, a raccogliere ogni sorta di carogne e di cose orribili a dirsi. Certi per sfuggire alla morte ricorsero alle radici delle foreste e alle erbe. Una fame rabbiosa spinse gli uomini a cibarsi di carne umana. Viaggiatori erano rapiti da uomini più robusti di loro, le loro membra troncate, cotte sul fuoco, divorate …”.
(Le Goff, p. 31-32)
Il racconto poi aggiunge altri dettagli in un crescendo che può apparire delirante. Ovviamente, come spesso succede in questi casi, alcuni fenomeni aberranti e crudeli, sono dati come se questo fosse il sistema, l’abitudine, una modalità diffusa e non una serie di casi circoscritti. Lo stimolo è quello della fame, ma di fatto il quadro è quello della violenza a cui ci si abitua, come se fosse normale vivere così.
Un quadro della società feudale, specialmente nella sua prima età, si condannerebbe a non dare della realtà che un’immagine ben infedele se, preoccupato soltanto degli istinti giuridici, dimenticasse che l’uomo viveva allora in uno stato di perenne e dolorosa insicurezza. Non era, come oggi, l’angoscia del pericolo atroce, ma collettivo e intermittente, inerente a un mondo di nazioni in armi; e neppure – o, per lo meno, non in maniera dominante – il timore delle forze economiche che maciullano l’umile e lo sventurato. La minaccia, quotidiana, pesava su ogni destino individuale: colpiva, al pari dei beni, la stessa carne. Del resto non c’è pagina della nostra analisi su cui non abbiam visto profilarsi le ombre della guerra, dell’omicidio, dell’abuso della forza. Alcune parole basteranno ora a ricapitolare le cause che fecero della violenza il vero distintivo di un’epoca e d’un sistema sociale. “Quando, scomparso l’Impero romano dei Franchi, diversi re prenderanno posto sul trono augusto, ogni uomo non si affiderà più che alla spada”: così, sotto veste di profezia, parlava, verso la metà del secolo IX, un chierico di Ravenna, il quale aveva visto e deplorato il fallimento del gran sogno imperiale carolingio. I contemporanei ne ebbero dunque chiara coscienza: la debolezza degli stati, effetto essa stessa, in larga misura, d’invincibili abitudini di disordine, aveva a sua volta favorito lo scatenarsi del male. Similmente, le invasioni, che diffondendo dovunque l’omicidio e il saccheggio, cooperarono inoltre, con grande efficacia, a frantumare i vecchi quadri del potere. Ma la violenza aveva altresì le sue radici nel più profondo della struttura sociale e della mentalità dell’epoca.
La violenza era nell’economia: in un’epoca di scambi rari e difficili, quale mezzo più sicuro per arricchire del bottino o dell’oppressione ? …
La violenza era nel diritto: a causa del principio consuetudinario che, alla lunga, conduceva a legittimare quasi ogni usurpazione; a causa anche della tradizione saldamente radicata che riconosceva all’individuo o al piccolo gruppo la facoltà o imponeva addirittura il dovere di farsi giustizia da sé. Responsabile di un’infinità di drammi familiari, la “faida” familiare non era la sola forma di esecuzione personale che mettesse costantemente in pericolo l’ordine pubblico …
La violenza era, infine, nei costumi: perché gli uomini – mediocremente capaci di reprimere i loro primi impulsi, poco sensibili, sotto l’aspetto nervoso, alla visione del dolore, poco rispettosi della vita, nella quale vedevano solo una condizione transeunte prima dell’eterno – erano, inoltre, proclivi a mettere il loro punto d’onore nella manifestazione quasi animale della forza fisica … Pure, tutti, in fine dei conti, soffrivano di tali brutalità; e i capi, più di tutti, avevano coscienza dei gravi mali che esse provocavano. Sicché dalle profondità di quell’epoca sconvolta s’innalzava, con tutta la forza di un’aspirazione al più prezioso e inaccessibile tra i “doni di Dio”, un lungo grido di pace … (Bloch, p. 460-461)
La situazione è dunque molto grave, soprattutto per questo quadro drammatico in cui prevale la violenza e l’istinto belluino. E non sembra che ci siano stimoli positivi da coloro che, presiedendo nel governo, dovrebbero avvertire la necessità di un rinnovamento radicale. Quello che emerge soprattutto nella Chiesa, la quale ha nella sua storia il richiamo continuo alla sua riforma, al ritorno alle origini, per purificarsi dalle sovrastrutture da cui spesso si appesantisce, è un forte anelito alla continua conversione, che poi ha dei riflessi anche nella società civile, perché essa con le sue forze rinnovatrici si mette al servizio di un mondo che necessita di riforme davvero radicali.
In tutti i campi l’Occidente cristiano rivela, alla metà dell’XI secolo, debolezze strutturali e gravi deficienze di base: una tecnica e un’economia arretrate, una società dominata da una minoranza di sfruttatori e dilapidatori, fragilità dei corpi, instabilità emotiva, primitivismo degli strumenti intellettuali, predominio di un’ideologia che predica il disprezzo del mondo e della scienza profana. E certo queste caratteristiche essenziali si manterranno per tutto il periodo che stiamo per considerare, e che è pur tuttavia l’età di un risveglio, di uno sviluppo, di un progresso. (Le Goff, p. 34)
RISVEGLIO
DEMOGRAFICO ED ECONOMICO
Il quadro non potrebbe essere più fosco e terribile, segno di un decadimento morale, che esigeva un rinnovamento radicale. E la rinascita arriva, segno di un bisogno più forte del quadro così deprimente: nonostante i segnali negativi che poi profeti di sventura cavalcavano con le loro predicazioni apocalittiche, c’è chi reagisce diversamente per combattere una prospettiva quanto mai costruita ossessivamente su immagini di morte.
Certamente la reazione necessaria era quella di una ripresa della vita, che ha nella crescita demografica il suo punto di forza. Pur senza una politica perseguita dai governi per facilitare la crescita anche numerica della popolazione, proprio il quadro deprimente legato anche alle epidemie, alle catastrofi e soprattutto alle guerre con la presenza di invasori da contrastare, suscita un più forte sentimento nei confronti della vita: ad arginare il quadro di morte e di devastazione è necessario mettere in campo la speranza di vincere tale situazione con il risveglio della vita. Forse anche il fatto di poter tirare un respiro di sollievo nella mancata prospettiva apocalittica di vedere il mondo finire con la data, ritenuta foriera di paura e di angoscia, dell’anno 1000, si ha questa nuova ricarica con un incremento demografico, che poi comporta anche un rinnovamento nella produzione, soprattutto agricola, per rispondere alle mutate richieste, anche in termini numerici, di approvvigionamenti per soddisfare la richiesta. Ciò che prima si produceva in quantità limitata per il territorio e per le esigenze della popolazione locale, senza mai pensare all’accumulo per altri momenti più difficili, ora diventa una priorità: occorre produrre di più, accumulare di più, vendere di più, e, mediante i commerci, dove la richiesta cresceva, cercare sistemi per la conservazione e per l’immissione sui mercati. L’incremento demografico appare così come l’apripista per un’economia in crescita, anche mediante mezzi e metodi migliori di produzione e più ancora di commercializzazione.
Se presenta numerose debolezze e deficienze, l’Occidente cristiano medievale dispone anche di stimolanti e di punti di forza … Il più spettacolare è l’espansione demografica. Da molti indizi ci è dato vedere che nella prima metà del secolo XI la popolazione occidentale è in continuo aumento. La durata di questa tendenza dimostra che la vitalità demografica è tale da compensare ampiamente sia le perdite dovute all’endemica fragilità costituzionale sia le ecatombi operate dalle epidemie e dalle carestie; ma il fatto più importante e più favorevole è che lo sviluppo economico è più rapido di quello demografico, la produttività della popolazione superiore al suo consumo.
(Le Goff, p. 35)
Anche il fatto che le invasioni, ritenute ancora “barbariche”, ma non più tali, a causa di popolazioni nuove e soprattutto provenienti dal mare e stanziali sulle coste, portano nelle zone interne dell’Europa un diverso approccio alla questione demografica e soprattutto economica.
Se nel Medioevo alto si tendeva a fuggire dalle città dove le incursioni barbariche arrivavano per depredare, e la gente cercava luoghi in alto per sfuggire a queste incursioni, privilegiando così le abbazie benedettine, o i castelli signorili, attorno ai quali si produceva il solo necessario per la provvidenza, ora invece si ha un ritorno ai centri abitati e al territorio circostante, soprattutto in pianura, dove è possibile una coltivazione più intensiva che ha bisogno di mezzi e di metodi nuovi: bisogna tenere presente che aumenta la richiesta di prodotti agricoli, essendo cresciute le bocche da sfamare. Anche solo a pensare al caso di Milano, si assiste in questo periodo ad un risveglio della città e del suo territorio con una politica che di fatto la rinnova profondamente.
ARIBERTO DI INTIMIANO (980c-1045)
È l’arcivescovo di Milano a ridosso dell’anno 1000, che dopo aver rivelato doti non comuni di abile amministratore nel canturino, sua terra d’origine, costruisce una politica di governo in grado di risvegliare le energie a Milano, perché la città torni a risplendere in un contesto nuovo. Se nel sistema feudale i vescovi ricoprivano cariche politiche a servizio dell’Impero, ora nella crisi sempre più preoccupante della figura imperiale che non riesce a imporre la sua autorità, alcuni vescovi non rispondono più alla figura centrale dell’Imperatore o del Papa, ma si rivelano completamente autonomi alla ricerca di una autorità non più derivata da altri.
Ariberto è uno di questi, ma deve cercare una sua totale autonomia anche sotto il profilo economico e finanziario. Con lui, determinato a dare peso alla sua autorità e, proprio per questo, per nulla incline a sottomettersi ai sistemi di tipo feudale con i signorotti locali, che avevano prestigio a partire dai propri ca-stelli, ma non avevano risorse economiche da accampare, abituati come erano ad un regime di sola sussistenza, comincia un mondo nuovo che orienta il vescovo a cercare alleanze con quella che è destinata a diventare la borghesia, cioè il ceto predominante del borgo. Nella guerre per difendere la sua autorità nel territorio milanese, Ariberto si allea con i cittadini, rivelando di fare i loro interessi, mentre costoro cercano mezzi con l’attività produttiva non limitata alla sola sussistenza, per creare invece le basi sempre più ampie della commercializzazione. Il mondo sta cambiando anche per questo perché nelle città e nei loro dintorni si nota il fermento di un produzione sempre più ampia e soprattutto una commercializzazione più estesa. Così Ariberto non sente più il bisogno di dipendere dal sistema feudale e la cittadinanza ha scoperto che con lui può cavalcare un sistema rivolto ad una produzione sempre più aperta. Chi vive arroccato nei castelli, non si rende conto della novità in corso e chi vive in città ha modo di vedere dove è possibile trovare uno sviluppo veramente efficace. Il rilancio di un mondo nuovo viene da una Chiesa che, sempre più consapevole di una necessaria riforma radicale al suo interno, fa ricorso a forze diverse rispetto a quelle da cui si è sentita appoggiata finora e a cui deve rispondere. E questa esigenza di rinnovamento per la Chiesa non viene propriamente da chi ha potere nella Chiesa ma da quella base che ha a cuore un nuovo sistema di vita. Ariberto si appoggia a quei laici da cui è possibile avere la riforma di un clero, che invece non ne vuole sapere. In questi medesimi anni di Ariberto e più ancora in quelli successivi si ha un attivismo notevole della cosiddetta “Pataria”, fatta di laici, così definiti perché portavano la “patta” e quindi il sistema dei calzoni e non delle vesti fluttuanti proprie dei nobili. Erano definiti così con una punta di sarcastico disprezzo da parte di un apparato che pensa di conservare il suo potere, nel momento stesso in cui fatica a gestirlo. La lotta a Milano è feroce e fa le sue vittime: S. Arialdo (1010c-1066), uno dei capi della pataria viene ucciso perché il suo anelito alla riforma venga disatteso. Ma quelle istanze fanno strada e trovano sbocchi per un autentico rinnovamento. Esso si realizza mediante la giusta intesa che si crea tra le istanze di un vescovo che ha a cuore la crescita della sua città e le nuove forze sociali che superano gli schemi feudali per un reale rinnovamento voluto dalla base.
E questo succede a partire da istanze di natura religiosa, come si vede fare nella Pataria milanese, ma nello stesso tempo coinvolge anche altri ambiti, che garantiscono il reale sviluppo delle nuove istanze. L’autonomia del territorio, perseguita dall’Arcivescovo Ariberto contro il sistema feudale e altrettanto ricercata dalle forze cittadine, solidali con lui, si raggiunge nella misura in cui anche il fattore economico si rinnova, garantendo ciò che prima era assicurato dal sistema feudale e che ora viene promosso dalle nuove energie della società. Il Comune di Milano che è ai suoi primi passi, ha bisogno che il territorio circostante sottratto alla feudalità improduttiva, deve essere messo nelle condizioni di fornire nuova ricchezza, sprigionando tutte le potenzialità che in esso si trovano. C’è dunque un fermento di vita che porta ad una rinascita reale e profonda, capace di scardinare un sistema bloccato e di aprire nuove prospettive. Questa rinascita coinvolge in modo particolare il contado da cui la città è circondata e che mira a sostituire le castellanie e i feudi dove l’economia ristagna, se si limita ad una produttività di semplice sussistenza, per costruirne una che ha di mira molto di più e che si apre ad un mercato più ampio. Così nasce un nuovo Medioevo, dove ai castelli, ai feudi, si sostituisce l’economia cittadina.
UNA NUOVA ECONOMIA
Che cosa è avvenuto, che cosa avviene in mezzo alla società feudale e contadinesca, che noi conosciamo, seminata di piccole e non bene distinte città, quasi acefala, agitatissima negli strati superiori, torpida e lenta negli strati profondi? Certamente, anche gli stati profondi si stanno mettendo in moto ed ormai cominciano ad apparire in piena luce; certamente, le energie spirituali che abbiamo visto esprimersi nella più fervida religiosità di tutti, nella passione con cui anche il popolo ha partecipato alla lotta della Chiesa per la sua riforma, investono la intìera vita medievale e la trasformano … Evidenti sono, attorno al 1000, anche dai dati estremamente frammentari delle carte private, i segni di una agricoltura che riprende vigore e cerca nuova terra da coltivare e la contende al bosco e alla palude. I grandi complessi fondiari, più o meno frammentati, discontinui, senza interni nessi da principio, specialmente quelli delle Chiese, a cui si donava anche da lontani paesi, hanno acquistato ora, per mezzo di offerte, compre, permute, bonifiche e magari usurpazioni, maggiore unità e organicità.
Ed organica unità è divenuta la curtis o villa, o hof, con al centro le case di abitazione e gli edifici dominicali e le piccole officine e le terre tenute ad economia; attorno attorno, la zona parcellata e messa nelle mani di famiglie coloniche, di varia condizione giuridica, che corrispondono censi in natura e denaro, donativi, prestazioni d’opera, qualche prodotto di industrie domestiche (tessuti, arnesi agricoli, tegole, ecc.); infine, boschi e pascoli, elemento essenziale di una economia così fatta, per i bisogni di tutta l’azienda, che deve, all’ingrosso, bastare a se stessa. (…) Nel X e XI secolo, questa proprietà fondiaria è anche essa agitata, come l’aristocrazia che la detiene. Oggetto di discordia fra i signori secolari, fra essi e i Vescovi e Abbati sono, essenzialmente, le terre … E’ frequente la notizia di patrimoni mona-stici e di Chiese vescovili rovinati e dispersi per causa delle guerre e usurpazioni, tra-mandataci da quelle stesse bolle pontificie e da quegli stessi diplomi imperiali e da quelle deliberazioni conciliari che vorrebbero portarvi rimedio e che, col loro vano ripetersi, sono eloquente documento di impotenza. (Volpe, p. 171-173)
È interessante seguire il corso della storia in questo secolo, dove lo sviluppo demografico – come già detto – favorisce un processo economico positivo, che mette in moto una reale trasformazione della società. La stessa riforma della Chiesa, che pur sembrerebbe una questione tutta interna, almeno per un certo periodo, favorisce la libera azione dei laici, che stimolano il rinnovamento del clero, liberandolo dalle occupazioni terrene per rivolgere la loro attenzione alla cura spirituale, propria e degli altri. Così è possibile vedere, in modo particolare a Milano, con il fenomeno della Pataria, la quale, successivamente, forte del proprio successo, diventa un elemento di disturbo all’autorità religiosa, che ha buon gioco ad accusarla di essere diventata un covo di eresie, quando la sua contrapposizione con il clero si trasforma in guerra aperta. Inizialmente essa concorre al risveglio della città, che dimostra in campo economico tutte le sue potenzialità per accrescere il patrimonio locale e la sua posizione nell’insieme delle diverse realtà produttive, sviluppate in altre aree d’Europa. È dunque un fenomeno che qua e là produce frutti molto positivi …
Naturalmente, sta crescendo la popolazione, già radissima, causa ed effetto del crescer della produzione. Ed è un apparire di uomini dove non erano mai stati, od un loro ritornare dove solo negli ultimi secoli essi erano scomparsi: così in molte plaghe della penisola italiana … Dove erano selve e paludi, fanno la loro apparizione i Frassineto, i Carpineto, i Bosco, i Rovereto, i Ronchi o Roncaglia, gli Anguillara o Palù, i Cervera o Falconara. La bonifica di terre incolte e abbandonate, per l’interesse sempre più vivo dei proprietari di sfruttar la loro inerte ricchezza; il permanente stato di guerra feudale; lo sviluppo del feudalesimo e la moltiplicazione e divisione dei vari rami delle grandi famiglie; le continue scorrerie di Ungheri e Slavi e Saraceni lungo le coste italiane o per il varco delle Alpi Giulie o fino nel centro della Germania, spiegano questo pullulare di villaggi e castra che rappresentano in parte accrescimento assoluto, in parte spostamento e concentrazione di abitanti … Sviluppandosi e moltiplicandosi i vecchi e nuovi agglomerati cittadini e rurali, si sviluppano e moltiplicano i bisogni, le attività e le attitudini, si differenzia la popolazione e il suo lavoro, si formano o rinsanguano categorie sociali nuove o già anemizzate. Molta gente si sottrae un poco alla ferrea dipendenza dalla terra su cui e di cui vive: quindi, per vivere, compra e, poiché compra, vende. Quindi, artigiani e mercanti, vicino e in mezzo a contadini; e contadini che vedono formarsi non lontano un luogo di smercio per le loro derrate e di acquisto per i manufatti; e industria domestica che decade, perché meglio provvede a certe esigenze della famiglia l’artigiano o il mercante girovago o il mercato mensile o annuale che si viene diffondendo sempre più; e chiusa economia della corte che si rompe, lascia penetrare e lascia uscire merci e derrate e uomini; e denaro che circola con qualche maggior abbondanza, consentendo un diverso tenore di vita a signori e principi, aumentando il loro lusso e quindi il lavoro di chi deve soddisfarlo, preparando nuovi sistemi tributari e nuove relazioni fra governanti e governati, rianimando le finanze del Re, non più costretto, come prima in molti luoghi avveniva, a vivere nomade con la sua corte, di castello in castello, fino a consumazione delle risorse locali. Dato tutto questo, anche la condizione delle persone si avvia a mutamenti profondi. La servitù della gleba è urtata e scossa: e si vede, nelle grandi aziende agrarie, diminuir il numero dei servi e crescer quello dei liberi; ridursi la terra coltivata ad economia col lavoro servile, ed aumentar quella data a conduzione autonoma. Il maggiore sforzo produttivo, che si chiede o si impone ai contadini, si risolve in maggior libertà, limita lo sfruttamento incondizionato e arbitrario, sostituisce patti bilaterali ai vecchi rapporti di dipendenza assoluta e di impero, determina una ripartizione di prodotti più favorevole ai coltivatori, accresce il loro diritto su la terra. (Volpe, p. 174-176)
LA RINASCITA NELLA CAMPAGNA FUORI DELLA CITTA’
CONCLUSIONE
Il Medioevo che “scoppia” attorno all’anno 1000 è di gran lunga diverso dall’alto Medioevo che lo precede, laddove si mettono le basi di una realtà nuova in perenne gestazione: il succedersi di avvenimenti vorticosi non consente del tutto l’assimilazione e la realizzazione della eredità romana mediata dalla Chiesa e assorbita dai diversi regni barbarici, che si succedono, senza mai realizzare una entità nuova e duratura. Secondo una certa storiografia il Medioevo è l’età nella quale le strutture dell’Impero romano, fatte decadere dall’urto non più contenibile delle invasioni barbariche, vengono raccolte grazie all’intervento della Chiesa che tenta di gestire i diversi regni barbarici, anche se non tutti si riconoscono in essa. La Chiesa cerca, dunque, di divenire il collante fra la romanità e il mondo barbarico variegato, che trova una sua sintesi con la vittoria del popolo dei Franchi, capace di far coesistere popolazioni diverse. L’impero carolingio, poi rinato con la breve parentesi ottoniana, nella quale prevale la componente germanica, svolge dunque il compito di sintetizzare quanto si era tentato di costruire nei secoli precedenti. La struttura che ne nasce, quella di un Impero ritenuto unificante, non è affatto ciò che si pensava dovesse essere e cioè l’erede dell’Impero romano, di cui rivendica la esclusiva eredità l’Impero bizantino. E tuttavia viene indicata una strada difficile da perseguire, anche per il contrasto insanabile che le due autorità della “Res publica christiana” pretendono di avere l’una sull’altra. La stessa struttura feudale, che si crea per un governo più vicino alla realtà locale, presenta strutture che mal si compongono con il tentativo di dare unità ad un mondo come quello che si riteneva fosse all’epoca dell’Impero romano. Proprio attorno al 1000 si verifica la fragilità della costruzione messa in piedi e a partire da quella data non è più possibile mantenere quanto era stato costruito. Si imprime così un cambiamento che non fa nascere di fatto un periodo storico ritenuto nuovo: prosegue il Medioevo, anche perché si vorrebbe insistere su quelle strutture che faticosamente erano state messe in piedi, ma ciò che ne sortisce è qualcosa che ha bisogno di ulteriori adattamenti e trasformazioni. Il 1000 diventa una sorta di spartiacque fra alto Medioevo e Medioevo basso. Nel primo caso le strutture di governo sono piramidali. Nel secondo si vorrebbero conservare, ma la pressione dal basso e quindi dal popolo minuto, che diventa la borghesia rampante, fa incamminare nella direzione di un sistema che non può più reggere su una visione imperialistica e universalistica, come quella che Chiesa e Impero vorrebbero creare, gestire e conservare.
Certamente si forma un mondo decisamente nuovo, anche se il passaggio richiede ancora molto tempo e avrà come esito il ridimensionamento di Impero e Papato, per far nascere realtà locali, come i regni che noi definiamo nazionali, o Signorie regionali. Sullo sfondo il Papato e l’Impero si conservano, ma devono essi adeguarsi alla nuova realtà che non è più verticistica, e deve tener conto di nuove energie sprigionate dal basso. Sotto questo profilo il Giubileo del 1300, espressione di una richiesta popolare avanzata al papa, rivela con estrema chiarezza che il mondo è cambiato e che il papa deve adattarsi, così come deve aprirsi alle nuove realtà nazionali che si impongono sulla scena, come succede con il re di Francia e l’offesa fatta a Bonifacio VIII. Siamo, insomma, in presenza di un equilibrio da costruire fra esigenza di universalismo, proprio dell’Impero e del Papato ed esigenze individuali e locali proprie di una base che mal sopporta ingerenze da poteri ritenuti lontani. Per certi versi, stiamo ancora faticosamente costruendo quella Res publica, che immaginiamo nell’Europa da unire, salvaguardando nello stesso tempo le giuste esigenze nazionali o locali.
BIBLIOGRAFIA
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Dalle invasioni al XVI secolo
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IL MEDIOEVO
Sansoni – 1978
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