La marcia su Roma : 28 ottobre 1922

Mussolini riceve l’incarico dal re

IL FASCISMO AL GOVERNO:

FU VERA RIVOLUZIONE?

PRODROMI DI UNA DITTATURA

NEL DISCORSO ALLA CAMERA

NELLA LEGGE ELETTORALE

 

INTRODUZIONE:

MUSSOLINI, NON IL PNF, AL POTERE

La “marcia su Roma” si concluse con un compromesso fra Mussolini e le forze politiche dello Stato liberale. Episodio in sé modesto, anche come “colpo di stato”, essa non è considerata dagli storici una svolta di grande importanza nella storia dell’Italia contemporanea e dello stesso fascismo: il vecchio ordine non era stato distrutto e il nuovo governo presentato da Mussolini senza speciale ardore rivoluzionario, era simile al risultato di una tradizionale operazione trasformista di collaborazioni temporanee. (…) Piuttosto che una marcia su Roma i fascisti la consideravano simbolicamente una marcia contro Roma … (Gentile (I), p.323)

Fu un vero e proprio colpo di mano? quello che oggi si potrebbe definire un “golpe”? Il potere non venne raggiunto con una prova di forza, come poteva sembrare dalle parole roboanti, dette alla vigilia, e dall’ammassamento di uomini in armi, ma non inquadrati nell’esercito, e incitati a muoversi sulla capitale per una dimostrazione di piazza. Questa però non ci fu. E non ci fu da parte del futuro duce un atto “teatrale” per raggiungere l’obiettivo di assumere le responsabilità di governo. Gli venne, certo, affidato l’incarico di formarlo su esplicita richiesta da parte del Capo dello Stato, il quale non mancò di indicare alcune figure che dovevano entrare nella compagine governativa. Tutto ciò avveniva secondo le consuetudini costituzionali. Perciò non si può parlare di “nascita della dittatura”, in questa circostanza, anche se poi si fisserà questa data come l’inizio di un sistema che è certamente stato “dittatoriale”. Più che fermare l’attenzione sull’episodio in sé, che non ha nulla di clamoroso e neppure di drammatico, si potrebbe dire che ci fu l’avvicendamento da un governo all’altro, tenuto conto che il ministero Facta era già di fatto dimissionario e che la continua ricerca di uomini, disponibili ad assumere l’incarico, era rimasta infruttuosa, anche per i veti incrociati, e soprattutto perché si riteneva che si dovesse cercare un outsider, uno letteralmente fuori del sistema, in grado di evitare gli scontri e di impedirli, vista l’impasse pericolosa che aveva sullo sfondo pulsioni di natura rivoluzionaria. Ma qui la rivoluzione non si prospettava affatto da parte del fascismo, che veniva ritenuto certamente pericoloso e nel contempo si riteneva di poter assorbire, diversamente da quello che stava succedendo sul fronte della sinistra, dove i massimalismi potevano risultare debordanti e di fatto contenibili solo dai mezzi e dai metodi fascisti. 

Da parte del sistema istituzionale, monarchia e Parlamento, non ci si immaginava affatto che Mussolini fosse la soluzione inevitabile per impedire un paventato clima rivoluzionario, mediante il quale ci si figurava qualcosa di analogo a quanto era successo in Russia e a quanto continuava a succedere con quella forma di instabilità che era la guerra civile. Di fatto i fascisti erano avvertiti come mestatori e alla base dei disordini; ma essi potevano essere assorbiti al sistema nella misura in cui potevano essere responsabilizzati dentro il sistema parlamentare. Mussolini, presentandosi in Parlamento avrebbe dovuto smorzare i toni battaglieri e contenere quanti avevano adottato la violenza come sistematica forma di imposizione della propria visione della politica. Se il Re e le forze parlamentari, legati al sistema costituzionale, non temevano la deriva dittatoriale dei fascisti, non si rendevano conto di ciò che effettivamente era quel movimento, ben prima che si presentasse come un partito dentro il sistema dei partiti. Il fascismo, in realtà, si era presentato come altro rispetto ai partiti tradizionali, e perciò in contrapposizione, vanificando la speranza che, assunto il potere, esso potesse rimanere assorbito dal sistema. Questo, in realtà, era morente! Mancava una considerazione più attenta del fenomeno fascista, che alimentato con le violenze, non poteva così facilmente assorbirle o addirittura eliminarle. Nel quadro di quei giorni ciascuno rivelava di voler raggiungere il proprio obiettivo immaginando di riuscire ad assorbire chi si riteneva un ostacolo, senza che in realtà lo fosse veramente. Ciascuno, dunque, giocava le proprie carte, cercando di barare; ma chi risultava il baro “migliore” nel suo gioco era proprio Mussolini: egli metteva in campo quanto poteva servire per avere e per detenere, con il governo, il potere nel Paese. Alle debolezze dei vecchi apparati, incapaci di vedere le vere questioni sull’orizzonte, e più che mai convinti di poter assorbire una fenomeno, evidentemente non capito, si contrapponeva un movimento, che, pur con la convinzione di poter assumere le redini del governo, non era ancora in grado di esprimere lucidità nei suoi obiettivi e persino nei mezzi da usare per raggiungere questi risultati. In questo quadro, dove ciascuno dei protagonisti cerca di farsi avanti dicendo di operare in nome e in favore del popolo, quest’ultimo appariva più che mai stanco dei disordini, reso insicuro dalle violenze incontrollate, incapace di avvertire i reali pericoli che stava correndo una democrazia fragile, come si presentava allora l’Italia. Ovviamente non erano diffusi gli organi di stampa per condizionare o comunque guidare un’opinione pubblica frastornata e per nulla consapevole della posta in gioco. In effetti l’opinione pubblica non c’è ancora e non è debitamente formata per contenere i pericoli sull’orizzonte.

Il popolo italiano, ci si potrebbe chiedere, come visse la crisi dell’ottobre ’22, come reagì ad essa? In termini rigidamente politici, non vi è dubbio che il popolo non ebbe parte alcuna negli avvenimenti dell’ottobre. Le forze politiche, i partiti che ne furono i protagonisti lo esclusero deliberatamente dai loro conti e dai loro propositi, si guardarono bene dal fare in qualsiasi modo appello ad esso, dando così una nuova prova di quanto profonda fosse la crisi del sistema liberaldemocratico italiano e di quanto, ormai le “forze politiche”, sia quelle tradizionali sia quelle più propriamente “popolari” che erano nate o si erano particolarmente sviluppate in conseguenza della guerra, fossero distaccate dalla realtà del paese. (De Felice (I), p. 388)

È l’accusa, insistente e insistita, che viene mossa all’apparato dei partiti quando essi perdono il contatto con la realtà, sia perché le idee, se ancora ci sono, sono diventate formule o ideologie, sia perché il linguaggio, da addetti ai lavori, non fa presa sull’ascolto, e soprattutto non aiuta la riflessione ed una presa di posizione più consapevole, sia perché, al di là dei bisogni della gente, non vengono indicati bisogni reali e più confacenti al cosiddetto bene comune. Di solito, poi, nei periodi di crisi, ciò che più sconcerta e ciò che sembra prioritario, è il bisogno di ordine, o comunque la percezione di tranquillità, di equilibrio, di armonia fra le parti: quando l’ordine viene a mancare, perché non c’è più il rispetto della legge, non si arriva ad una giustizia rapida e certa, come pure ad una pena conseguente che sia altrettanto rapida, certa ed efficace, si invoca un governo più fermo nella gestione di questi problemi. In quel frangente chi diceva di voler esautorare il disordine era proprio il fascismo, che in realtà era l’autore “in primis” del disordine. Quando poi il tutore della legge e gli organi, preposti a questo, non intervengono contro i fascisti che fanno ricorso alla violenza, allora è inevitabile che si chieda al fascismo stesso di intervenire. I cosiddetti partiti popolari, che nel suffragio universale maschile godevano di consenso nelle urne, non arrivando a governare, anche per le loro divisioni interne, non potevano dar prova di quello che avrebbero fatto sulla base delle loro proposte. Elevavano una protesta sterile, fatta di scioperi, in cui si scatenava la piazza, senza per questo raggiungere “equilibri più avanzati”. L’establishment temeva la rivoluzione proletaria, che pur non c’era stata, se di fatto in Russia, con il “leninismo”, si erano mossi i soviet militari e non le masse popolari; e però non sapeva coinvolgere nel governo quei popolari che davano voce al ceto medio. L’incubo era dato dai massimalisti, presenti sia nel partito socialista, sia in quello comunista, neonato. In questo marasma, non c’era spazio per una soluzione che desse l’immagine di un governo in grado di reggere nel tempo e soprattutto di rispondere adeguatamente ai problemi.

Un profondo senso di stanchezza pervadeva ormai tutti. La tensione morale, i grandi ideali si erano dissolti e avevano fatto posto ad uno stato d’animo di depressione, di sconforto, di confusione, al quale si sottraevano piccole élites, dalle idee per altro spesso poco chiare … un solo sentimento era chiaro, la stanchezza: succedesse ciò che doveva succedere, purché finisse l’insicurezza, cessassero le violenze, tornassero l’ordine e la prosperità economica. (De Felice (I), p. 389)

In questi frangenti, la democrazia non si esercita solo con il voto, soprattutto se questo si presenta come delega ad altri: non si può pensare di esimere il popolo da ciò che invece è essenziale alla democrazia stessa e cioè la partecipazione fatta di impegno serio e perseverante e di testimonianza credibile che coinvolge altri. Chi allora si presentava sul panorama politico nazionale in maniera innovativa e senza massimalismi, apparteneva al cosiddetto “partito popolare”, che, per quanto ispirato ai valori cristiani, non risultava dominato e guidato dalle istituzioni religiose, ma dichiarava apertamente la sua “laicità”. E tuttavia, anche qui, c’era stato poco tempo a disposizione per creare un gruppo dirigente: negli anni precedenti la guerra, a causa del “Non expedit” vaticano, non veniva concessa la possibilità ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana e molti si erano concentrati sulla gestione di cooperative e di banche popolari, che operavano su un terreno sociale, ma non politico. Così non c’era un’adeguata preparazione per il gruppo dirigente con l’assunzione di responsabilità nelle istituzioni politiche. Era questa una debolezza che apparteneva pure al partito dei “fasci combattenti”: si dimostrava capace di spingere i più facinorosi nelle imprese dove c’era da “menare le mani”, non altrettanto nell’assunzione di responsabilità soprattutto nel fare ordine e nel gestire l’ordine.

IL FASCISMO DOPO LA MARCIA SU ROMA

L’obiettivo di Mussolini in questa fase è di raggiungere il potere. Solo più avanti si sarebbe dovuto trasformare lo Stato e farlo divenire fascista, perché egli non si adattava ad essere un capo del governo come i precedenti. Una delle sue operazioni più problematiche era comunque quella di saper manovrare un partito che aveva contribuito a “caricare” per le azioni violente, che ora avrebbero dovuto cessare. Già nei mesi successivi all’evento della marcia su Roma, si ha il fenomeno che i libri di storia definiscono del “rassismo” e cioè del proliferare dei cosiddetti “ras” di provincia, di cui era composto il movimento fascista: costoro volevano contare nel nuovo assetto governativo, non solo nell’avere un incarico, ma anche nel poter dominare la scena almeno a livello locale.

In effetti i guai maggiori per Mussolini provenivano proprio dalle fila del suo parti-to, e non dal sistema “liberale”, che lo aveva coinvolto nella gestione del potere, magari anche pensando di poterlo contenere, addomesticare, e poi, magari, anche disfarsene, o per incapacità, o per esaurimento della sua funzione. Qui Mussolini rivela le sue doti di leader. Nel suo partito invece serpeggiava il malcontento per il modo con cui era stata realizzata la marcia su Roma, che di fatto non era avvenuta, non si era verificata come ci si poteva aspettare.

Le altre forze politiche e la grande maggioranza degli italiani, stanchi della lunga crisi, si erano rassegnate ad assistere all’esperimento di un governo Mussolini, convinti che l’uomo fosse migliore del suo partito, e che le difficoltà del potere avrebbero costretto il fascismo ad abbandonare i metodi violenti e illegali, inducendolo ad entrare nelle vie consuete della politica parlamentare, dove avrebbe forse dimostrato maggior energia degli altri governi e uno spirito di sincera devozione alla patria. Siffatta soluzione, se andava incontro ai desideri delle forze conservatrici che appoggiavano Mussolini e trovava consenso negli esponenti della destra fascista, non era affatto soddisfacente per la grande massa dei fascisti, i quali videro nei risultati della “marcia su Roma” una rinuncia ai programmi rivoluzionari e sentirono la collaborazione con gli avversari come un tradimento delle loro ambizioni. Nelle masse fasciste vi era “nostalgia dell’azione”. (Gentile (I), p.325)

Serpeggiava nel partito un malumore, che in qualche caso diventava anche sfiducia nei confronti di Mussolini: costui poteva ritenersi soddisfatto per essere diventato il capo del governo, mentre la gran parte dei suoi spalleggiatori si trovavano con niente in tasca. Occorreva allora dominare la gran parte delle “teste calde”, e far presente che l’ordine raggiunto doveva essere assolutamente conservato, perché i piani dei fascisti venissero realizzati in un clima più positivo e costruttivo. Ci volle non poca abilità, sia nell’assegnare posti di comando nell’amministrazione periferica, come prefetti e questori, sia nel controllare i gruppi di tipo paramilitare, sempre pronti all’azione e alle violenze.

Delusioni e rancori che in seno al gruppo dirigente centrale si trasformarono tosto in molteplici accuse a Mussolini di eccessiva longanimità verso le altre forze politiche partecipanti al governo, di scarso senso del partito e addirittura di tradimento della “rivoluzione” …

Frustrati sia nei loro confusi propositi rivoluzionari sia nelle loro ambizioni personali, i capi fascisti – spesso privi di una propria condizione professionale ed economica – si rifiutarono di rientrare nell’ombra, di rinunciare al potere in cui avevano sperato e a quello che avevano sino allora detenuto in virtù della forza. E l’Italia, soprattutto quella settentrionale e centrale, si trasformò in una serie di rassati, impermeabili o quasi alla disciplina di partito e in polemica più o meno aperta con l’autorità dello Stato …

(De Felice (I), p. 405)

Già da queste sommarie segnalazioni, dovremmo dire che il partito fascista, nato come movimento e in primis come “fasci di combattimento”, quasi si potessero riscontrare diverse compagnie e diverse esigenze, era in realtà una sorta di accozzaglia, per qualcuno anche una sorta di feccia, dove trovavano spazio le anime più diverse e gli spiriti più ribelli. Questi, al momento, potevano servire per fare massa da esibire nelle tante prove di forza; poi però era necessario saper governare per evitare che negli eccessi di furore distruttivo, questi non facessero più danno del dovuto. E c’erano anche i cosiddetti “ras” locali, quelli che erano in grado di mettere in piazza gruppi violenti e di condurli nelle spedizioni punitive, senza riuscire spesso ad arginarli, come avrebbe voluto Mussolini, il quale doveva imporsi sia sui ras, sia su questi gruppi rissosi.

Il fascismo era tutt’altro che un partito saldamente costituito ed organizzato, in modo da poter assumere le responsabilità di governo, senza lasciarsi confondere e sopraffare dalle difficoltà di volta in volta insorgenti delle situazioni reali o dalle situazioni prodotte dal contrastarsi e sovrapporsi di concezioni e valutazioni diverse dei compiti che spettavano ad un governo presieduto dal capo di un partito che si considerava rivoluzionario e mirava, nei suoi gruppi più attivi, ad una conquista integrale del potere, cioè, in pratica, alla fine della democrazia parlamentare. (Gentile (I), p.327-8)

Insomma, il fascismo si presentava “plurale”, cioè con tendenze diverse, seppur con l’unico scopo di travolgere il sistema parlamentare per dare origine a qualcosa di assolutamente diverso. La “marcia” sotto questo profilo sarebbe dovuta diventare un vero sovvertimento del sistema, con una prova di forza. In realtà così non fu, non perché il sistema l’avesse contenuto o addirittura vinto e imbrigliato, ma perché il fascismo stesso, almeno nel suo leader, si era fatto assorbire dal sistema parlamentare, diventando l’ennesimo capo del governo, su mandato del re e con ministri presi anche al di fuori del fascismo.

Si dovrebbe dire che Mussolini lasciandosi investire dal Re si era lasciato assorbire dal sistema e questo non poteva andare bene all’anima più rivoluzionaria del partito. Di qui la necessità di un chiarimento che spettava a colui che poi sarebbe stato il Duce.

E MUSSOLINI?

In un contesto, nel quale lo Stato, nei suoi rappresentanti istituzionali, ha accreditato Mussolini, chiamandolo ad assumersi responsabilità di governo, mentre questo viene contestato all’interno del fascismo per il modo con cui è stata attuata la tanto auspicata “rivoluzione”, colui che poi si farà dittatore e che già qui si sente investito del potere, deve cercare il più possibile un ulteriore accredito presso gli organi di stampa, presso il mondo produttivo e, se possibile, anche presso l’opinione pubblica. Così appare in interviste anche su giornali di opinione e non di partito; così partecipa agli incontri con gli imprenditori per farsi conoscere meglio, così si rivela all’opinione pubblica nelle questioni di politica estera, dove l’Italia in quel periodo, pur avendo vinto la guerra, non sa trarre profitto dalla vittoria ottenuta. Con questa sua immagine interviene in Parlamento, davanti alle forze politiche che lo appoggiano e che lo avversano, per verificare se effettivamente può governare. Va rilevato che, nei mesi precedenti certe sue impennate, certe sue affermazioni al di sopra delle righe, certi suoi interventi accesi e violenti nei toni, lo avevano mostrato nelle sue componenti peggiori e tali da giustificare in molti la sfiducia e la comprensibile avversione. Poi, però, avvicinandosi la prospettiva di esercitare il potere, la sua immagine aveva assunto una fisionomia molto di-versa: essa induceva a sperare e lasciava presagire la possibilità di essere “digerito” dall’ambiente. Anzi, avanzava un’immagine inedita dell’uomo Mussolini, che si riteneva più affidabile del suo stesso partito, e, di questa lettura del personaggio, si facevano garanti anche gli organi di stampa, che pur avevano avuto in precedenza una certa presa di distanza.

stava sorgendo il mito dell’uomo Mussolini. Di lui molti italiani critici e nemici talvolta del fascismo erano portati a fidarsi. Le stesse vicende, così clamorose, della sua vita politica, le sue stesse contraddizioni, le sue stesse impennate tendevano a essere giudicate positivamente, o, almeno, ad autorizzare speranze più o meno assurde. E poi … c’erano i grandi giornali d’informazione che – salvo casi rarissimi – per un verso o per l’altro, accreditavano il fascismo e il governo Mussolini, li indicavano come l’unico mezzo – sia pure transitorio – per risolvere una situazione senza uscita, per ridare ordine e pace al paese e risanare l’economia.

Certo, chi prima chi poi, quasi tutti i maggiori quotidiani avrebbero molto presto incomin-ciato a criticare sempre più aspramente il nuovo governo Mussolini e a denunciarne le tendenze autoritarie e, al tempo stesso, la debolezza … (De Felice (I), p. 390)

Al momento, il fascismo non è ancora digerito, in quanto viene riconosciuto come il focolaio degli scontri e delle violenze, che di fatto continuano ad esserci, non perché guidati dal partito, ma perché ideati e realizzati a livello locale da quanti erano abituati a “menar le mani” contro i cosiddetti sovversivi. In compenso cresce l’aspettativa nei confronti di Mussolini, dal quale si desidera un intervento risolutivo del clima di guerra civile che serpeggia nel Paese. Lo attendono al varco quanti appartengono alla classe dirigente che fin qui non sono stati in grado di incanalare il malcontento diffuso; lo attende allo stesso varco anche il mondo imprenditoriale e quello finanziario, che ha il problema della riconver-sione da una economia di guerra ad una di pace, augurandosi un clima migliore per una attività lavorativa che possa consentire questo passaggio e soprattutto la competitività sul mercato internazionale. Evidentemente la situazione finanziaria appariva molto precaria, come del resto succedeva un po’ ovunque, e in modo ancor più tragico in Germania. Qui si voleva vedere come Mussolini avrebbe affrontato la questione economica, essendo ben noti i suoi “giri di valzer” da uno che era cresciuto nelle dottrine socialiste, ed ora invece appariva in antitesi totale con il socialismo, ma non ancora deciso a puntare sul liberismo economico.

di mutamenti di fronte il fascismo ormai ne aveva fatti tanti che uno di più certo non avrebbe imbarazzato Mussolini, ma … dato il modo con cui era pervenuto al potere e il tipo di opinione pubblica che lo sosteneva, Mussolini non poteva – anche volendolo – perseguire un’altra politica economica che non fosse quella liberista produttivistica. (…) Ma, quel che più conta, una vera alternativa non vi era neppure per gran parte dell’opinione pubblica, alla quale, in quel momento, importava soprattutto sentirsi dire che la crisi del bilancio sarebbe stata sanata e che il paese sarebbe andato incontro ad una ripresa economica. (De Felice (I), p. 399-400)

L’ESORDIO GOVERNATIVO

E IL DISCORSO DEL BIVACCO

Il governo che viene formato all’indomani della “marcia su Roma” è da ritenersi costituzionale, se non altro perché riceve il mandato dal Re, vede la presenza di esponenti che non appartengono al fascismo e quindi va ritenuto di coalizione, si presenta alla Camera per ricevere l’approvazione o meno;e la Camera accorda una votazione largamente favorevole all’esecutivo messo in campo da Mussolini. Ciò che invece non può essere considerato positivo è il discorso da lui tenuto in quella circostanza. Già in esso si devono riconoscere i tratti inconfondibili di un sistema dittatoriale, perché il presidente del Consiglio non ha alcun riguardo per la Camera se non il formale atto che gli è richiesto dallo Statuto e dalla prassi parlamentare. Il 16 novembre 1922 Mussolini si presenta alla Camera con un discorso inequivocabile nei toni e nei contenuti circa la sua volontà di esercitare di fatto una dittatura e di tenerla ben ferma per anni …

Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l’ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. (…)

Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll’intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare. Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari: ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso non ricordare con simpatia l’atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva o passiva solidarietà.

Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del po-polo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell’ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria. Prima di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene gli uomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà. La politica estera è quella che, specie in questo momento, più particolarmente ci occupa e preoccupa. Ne parlo subito, perché credo, con quello che dirò, di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti, perché, anche in questo campo, preferisco l’azione alle parole. Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i trattati di pace, buoni o cattivi che siano, una volta che sono stati firmati e ratificati, vanno eseguiti. (…) Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione. (…) I cittadini, a qualunque partito siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate: la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.

Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l’eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione. Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia. Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. (…) Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende. Vogliamo fare una politica estera di pace, ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione, e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passag-gio al potere. Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori, dalle più fresche generazioni italiane. Non v’è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto.

La patria italiana si è ritrovata ancora una volta, dal nord al sud, dal continente alle isole generose, che non saranno più dimenticate, dalle metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell’Adriatico. Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi. Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria. Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.

Lo dice chiaramente: è solo un atto di deferenza formale! A Mussolini non interessa il programma (di cui dice solo alcune cose molto generiche) né quella sede dove non si decide nulla. E nonostante questo volgare modo di presentarsi che non appare neppure “deferenza”, egli riceve l’approvazione che, secondo le regole di uno Stato costituzionale, gli dà agio di poter governare. Quello che gli è stato conferito egli ora lo vuole esercitare a modo suo. Non ci sono ancora le leggi che possono essere considerate “liberticide”: queste verranno dopo. C’è già però un governo che ritiene di poter fare a meno del Parlamento, dicendolo esplicitamente. Se l’approvazione c’è, vuol dire che chi siede in Parlamento, avendo ricevuto il mandato per suffragio popolare, o non comprende esattamente che cosa ci sia in gioco – ma il discorso nel suo linguaggio è molto chiaro ed esplicito – oppure non vuole rendersi conto che qui ci sono tutte le condizioni per la cancellazione della democrazia, già superata nella misura in cui il Parlamento eletto viene assolutamente ignorato. Non mancano, certo, le voci dissenzienti …

Debole e divisa, l’opposizione non interrompe il pedagogo che si arrogava di poter “castigare” il 93% degli eletti dagli italiani, se non per gridare degli evviva a un Parlamento che già dimostrava di non essere più vivo. Grido isolato, dal settore socialista, e contraddetto dall’“abbasso il Parlamento!” gridato dai comunisti. Con la sicumera e la jattanza di un “golpista” – voce dal sen fuggita – il parvenu Mussolini riprende, contrastato solo da Filippo Turati: “Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani, si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere”. Modigliani, Cocco, Ortu e il popolare Mauri tentano invano di far parlare Giolitti, chiedendo un suo intervento in qualità di più anziano dei deputati. Egli risponde: “Questa Camera ha il governo che si merita!”. De Gasperi, intervenendo sulle tracotanti dichiarazioni, corresponsabilizza il Re e dice: “I popolari non possono accogliere il giudizio rivoluzionario dato sulla Camera da Mussolini. Essi hanno la coscienza d’essere entrati in questa Assemblea per rappresentare legittimamente la Nazione.

Se la Camera fu talvolta sorda e grigia, seppe pure accogliere l’eco delle più sincere istanze del Paese e fu spesso testimone e animatrice di sforzi tenaci per sanare moralmente e materialmente la Patria straziata dal lungo travaglio del dopoguerra. Il PPI non accetta il metodo d’azione politica violento e diretto del PNF: altri sono i suoi criteri etici e politici. Peraltro, ora che la Corona ha sanato l’illegalità, i popolari collaborano nella speranza e col proposito che l’istituto parlamentare, conquistato quale patto d’alleanza fra il Re e il suo popolo, debba rimanere e rinvigorirsi a presidio della libertà dei cittadini e per la grandezza d’Italia. Né può supporsi in alcuno il proposito di ritornare ai governi paterni e illuminati, riducendo il Parlamento ad una funzione meramente consultiva”. I deputati, fra i quali – come si è detto – i fascisti erano solo il 7%, concedono la fiducia a Mussolini con 306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astensioni.

(Bianchi, p. 239-240)

In occasione della “marcia” si è scritto e si è detto che lì non c’è ancora la dittatura, se non altro per il fatto che il governo viene assegnato dal Re a Mussolini, secondo la prassi costituzionale, anche se certamente ci sono state pressioni di natura psicologica, più che di natura militare per arrivare a quella soluzione. Il sistema assorbe di fatto colui che in realtà voleva distruggere quel sistema. Ci volevano comunque atti di governo che mettessero in sordina lo Statuto, anche se formalmente questo rimane in auge, se non altro perché la prima autorità dello Stato rimane il Re. Presentandosi alla Camera il capo del governo riconosce il Parlamento, per quanto ne parli per sola deferenza di galateo e non di rispetto della democrazia, essendo la Camera il luogo naturale per la democrazia, se ci sono gli eletti dal popolo. Mussolini non vi entra con prove di forza, come se lo dovesse conquistare “manu militari”: vi parla, invece, presentandosi per avere l’approvazione del suo programma, e ricevendo comunque il consenso per governare. Formalmente è tutto corretto e non c’è nulla che possa essere definito affermazione di potere che prevarica ed esautora di fatto il Parlamento, perché questo può ancora reagire. Tuttavia alla lettura del discorso si deve riconoscere che li ci sono parole sprezzanti: esse non lasciano dubbi circa la natura di quel governo e le finalità che esso si pre-figge. Eppure si deve aspettare quello del 3 gennaio 1925 per poter dire che Mussolini ha esautorato il Parlamento, ed ha ormai accentrato tutto nelle sue mani. Ma se questo diventa possibile, anche senza che altri organi possano intervenire per evitare simile deriva, lo si deve al fatto che nel frattempo vengono introdotte riforme che danno un altro assetto all’Italia.

Non abbiamo un colpo di Stato, ma si potrebbe dire che di colpo abbiamo un altro Stato già nella scelta da parte del Re di incaricare Mussolini perché formi un governo e più ancora nel suo modo di presentarsi al Parlamento dove il consenso della Camera non è richiesto, e, se anche viene dato, non è ritenuto di valore. Quanto viene attuato in seguito è solo l’utilizzo della posizione di potere per fare di esso non più un servizio allo Stato, ma per cambiarne radicalmente la natura. Ciò che sconcerta in tutto questo è la scarsa reazione che se ne ha un po’ in tutte le sedi istituzionali. Anche le voci di coloro che pur si rendevano conto del processo in corso non hanno avuto un seguito e neppure sono state in grado di far riflettere sulla piega che stava avendo il Paese: ci si illudeva che fosse nato un governo come gli altri, proprio perché raccoglieva ministri di diversa provenienza; ci si illudeva che esso servisse a calmare le acque per avviare una ripresa del dibattito politico. Eppure le violenze continuano, e proprio in questo periodo abbiamo le vittime più illustri, che non sono da attribuire ad una volontà in tal senso del capo del fascismo, ma si sono avute per le schegge impazzite del sistema. Il delitto Matteotti fu un evento che mise a dura prova Mussolini, ma anche di qui uscì rafforzato nelle sue convinzioni di dover imporre il suo disegno politico esautorando le voci dissenzienti, ma anche controllando i più facinorosi della sua parte.

Nella presa del potere Mussolini e il fascismo erano stati indubbiamente favoriti, a livello di opinione pubblica, da un generale clima di stanchezza: iniziato con tre anni e mezzo di guerra, era proseguito con due anni di violenze “rosse!” e altri due di reazione fascista, ce n’era d’avanzo per auspicare un periodo di pace e rimettersi a chiunque la procurasse e in qualsiasi modo. In effetti qualche miglioramento non sarebbe tardato sia nel campo dell’ordine pubblico sia, molto più lentamente e settorialmente, in quello economico; quanto bastava, comunque, per far passare in secondo piano i motivi di scontento, vecchi o nuovi che fossero; o per non far riflettere sul prezzo di quei miglioramenti. Le maggiori difficoltà, almeno all’inizio, a Mussolini e all’azione del suo governo non vennero dall’esterno, ma dal fascismo stesso, da quegli squadristi per i quali lo sbocco della Marcia su Roma era stato assolutamente insoddisfacente. Contrari a qualsiasi “costituzionalizzazione” e “parlamentarizzazione” del fascismo, gli intransigenti criticavano la collaborazione a livello governativo, con i “vecchi” partiti (soprattutto i popolari) e il fatto che, in periferia, fossero rimasti al loro posto i vari questori e prefetti compromessi con il vecchio regime. Non solo crearono quindi resistenza all’ordine di smobilitazione, ma diedero il via a una serie di violenze incontrollate contro veri o supposti avversari, assumendo posizioni che dalla semplice indisciplina sarebbero spesso sconfinati nella dissidenza.

(De Felice (II), p. 20-21)

Il discorso tenuto è indubbiamente molto generico nei suoi contenuti programmatici e come tale non suscitò reazioni forti e scandalizzate, anche se i toni iniziali parlavano chiaro circa le intenzioni del futuro dittatore. Pur con la forte maggioranza di voti, Mussolini non si sentiva sicuro, per il fatto che non aveva del tutto in mano neppure il suo partito e tra i partecipanti al suo governo i popolari apparivano al loro interno molto divisi.

Il voto di fiducia dei popolari alla Camera era stato determinato in larga misura – lo si è accennato – più da incertezza e da opportunismo che da vera convinzione; convinti veramente erano stati solo i deputati clerico-moderati della destra; degli altri, alcuni al momento del voto si erano allontanati dall’aula, uno, l’on. Merizzi, aveva addirittura votato contro. Questo comportamento era stato in parte certo conseguenza del disorientamento generale, del modo con il quale era stata a suo tempo decisa la partecipazione popolare al governo e del desiderio di non mettere in una situazione insostenibile Cavazzoni, Tangotta e gli altri popolari che facevano parte del ministero; in parte era stato però anche il risultato dell’azione di don Sturzo e della sinistra del partito che nei quindici giorni trascorsi dalla “marcia su Roma” avevano riguadagnato parte del terreno perduto e si accingevano ad iniziare una vasta azione per una revisione della politica di collaborazione. (De Felice (I), p. 485-486)

LA NUOVA LEGGE ELETTORALE

Al momento di insediarsi come Presidente del Consiglio, Mussolini avrebbe voluto una sorta di carta in bianco per poter indire nuove elezioni: l’esigua minoranza che aveva in Parlamento, come pure la gestione non facile del suo partito, nel quale i ras locali pretendevano di contare su un uomo che non aveva raggiunto il potere mediante un colpo di Stato e quindi con una prova di forza, lo obbligava a cercare un più ampio con-senso da tradurre in un peso politico maggiore sia nelle istituzioni sia nel fascismo. Il Re non gli voleva concedere la sua prerogativa di sciogliere la Camera, anche perché lo voleva vedere alla prova dei fatti. E Mussolini stesso non voleva presentarsi alle elezioni con un sistema, quello propor-zionale, che non lo avvantaggiava affatto. Di qui la necessità di una nuova legge che gli permettesse di avere un più largo consenso, se non a livello popolare, comunque a livello parlamentare. E qui lui fa bene i suoi calcoli, politici ed elettorali, per riuscire nell’intento di raggiungere i suoi obiettivi. La legge, elaborata e presentata al Parlamento dal suo sottosegretario, Giacomo Acerbo, fu approvata il 21 luglio 1923 con 223 voti a favore e 123 contrari.

Per Mussolini era la vittoria completa e clamorosa, resa anche più importante da quello che stava accadendo in campo popolare: tra espulsioni, dimissioni, allontanamento il PPI stava perdendo la sua ala destra, mentre si cominciava a parlare della prossima costituzione di un nuovo partito cattolico di orientamento nettamente filofascista …

(De Felice (I), p. 535)

Il dramma che si consuma in questi mesi è tutto interno al mondo cattolico che qui rivela la sua totale fragilità nella gestione di un passaggio decisivo. Anche in questo caso, come già con le scissioni a sinistra, con i rigurgiti massimalisti nei due partiti di sinistra, il comunista e il socialista, si deve riconoscere che il fascismo ha trovato il suo spazio anche in presenza di gravi errori di valutazione dei cosiddetti partiti popolari del tempo: più della contrapposizione che demonizza l’avversario, è sempre necessario avanzare proposte più costruttive che non abbiano il sapore di voler agire sulla base della sola reazione, anche puramente ideologica, verso chi è sulla barricata contrapposta. Bisogna riconoscere che invece Mussolini ha saputo gestire al meglio queste divisioni degli “avversari” politici, costruendosi un sistema che appariva inoppugnabile, perché costruito “legalmente”, seppur con forzature e intimidazioni, seppur con quegli accorgimenti elettorali, che anche dopo si tenteranno con la nomea della “legge truffa”. Lo scopo da raggiungere è quello di avere un governo stabile e sicuro, in un Parlamento addomesticato, che poi alla fine sarà anche totalmente esautorato.

Per vincere la battaglia per la nuova legge elettorale Mussolini si era servito di tutti i mezzi offertigli dalla sua consumata abilità di tattico e dai punti deboli dell’opposizione e non aveva avuto scrupoli e remore a usare, direttamente e soprattutto indirettamente, le minacce e la violenza vera e propria. (…) A legge elettorale approvata (il voto del Senato era scontato) e in vista di prossime elezioni, la tattica della divisione delle parti non poteva più costituire la molla del giuoco politico mussoliniano. Con ciò non vogliamo dire che Mussolini pensasse di rinunciare a servirsi della forza. Al contrario questa era e rimaneva una componente essenziale del suo potere e della sua politica. Solo che essa doveva passare ora in secondo piano, costituire l’estrema riserva nel caso che ogni altro mezzo per assicurarsi il consenso si dimostrasse inefficace. Tranne che per difficoltà insormontabili, le elezioni dovevano essere fatte all’insegna della ricerca del più vasto consenso. Solo così il loro esito poteva essere sicuro, per un successo non solo quantitativo, ma politico, in riferimento cioè alle forze (la monarchia, l’esercito, il mondo economico e finanziario, la Chiesa) colle quali doveva fare i conti il potere di Mussolini; solo a questa condizione l’appoggio di queste forze – ancora caute nell’esporsi in prima persona – sarebbe diventato effettivo, e Mussolini, forte anche del consenso popolare, avrebbe disposto di una sufficiente autonomia per trattare con esse da una posizione più sicura e vantaggiosa di quella sinora posseduta.

(De Felice (I), p. 536)

Fatta la legge e ottenuta l’approvazione, le cose per Mussolini e il suo governo non cambiano affatto, come per incanto. Potremmo dire che a questo punto comincia la vera marcia, mediante la quale il fascismo diventa un apparato che Mussolini può esibire come sua creatura e come “falange” voluta dal popolo: anche in questo modo Mussolini e il popolo nel suo insieme trovano con i fascisti, voluti dal capo ed eletti dal popolo, il punto di incontro che diventerà col tempo una realtà comune, corrispondente a quello che pure in Germania diventerà il nazismo. Lì, dietro un capo, sta tutto un popolo, e questo, con il suo capo, può costituire un Reich, cioè un impero, anche se il regime si presenta “repubblicano”. Bi-sogna dunque aspettare le elezioni per poter avere in Parlamento una forza che accredita il capo presso le istituzioni. Così del resto succede. E da questa esibizione di numeri, ben diversi da quelli che ha con il primo governo, Mussolini può procedere verso quel sistema totalitario, che di-venta una realtà a partire dal discorso del 3 gennaio 1925. Questa data dovrebbe essere considerata “storica”, per veder nascere la dittatura in Italia. Ma sulla storia ha il sopravvento il mito con una narrazione “epica” della “marcia su Roma”. Questa è indubbiamente databile il 28 ottobre 1922, e però la sicura conquista viene ottenuta a partire dalla Legge Acerbo, a cui seguono le elezioni, mediante le quali può ricevere, oltre all’incarico da parte del Re, la conferma da parte del popolo.

Se dal discorso generale si passa a quello particolare e contingente, si deve però constatare che se vi fu un momento nel quale Mussolini credette di poter tentare la grande operazione trasformistica di “fascistizzare” le forze “nazionali” per la via del consenso, senza prenderle apertamente di petto e senza limitare troppo scopertamente la loro libertà, questo momento fu proprio nel 1923-24, dopo l’approvazione della Legge Acerbo e in occasione delle elezioni politiche. (…) Nella prospettiva di sollecitare attorno alla propria persona il più vasto consenso (nelle elezioni dell’aprile 1924 lo sforzo di Mussolini fu teso ad ottenere un voto non tanto al PNF ma al proprio governo e al proprio fascismo) bisogna vedere un po’ tutto l’operato di Mussolini dall’indomani del voto della Camera sulla legge Acerbo sino al voto del 6 aprile 1924 e, ancora, sino all’inizio della nuova legislatura e al delitto Matteotti, la sua azione nei confronti del PNF, dei partiti fiancheggiatori, dei cattolici e della Chiesa, dei confederali, delle forze economiche, delle grandi organizzazioni combattentistiche e gran parte della sua stessa politica estera.

(De Felice (I), p. 538-9)

Eppure quello che sembrava vincente, allora poteva ancora essere quanto meno contenuto, se non addirittura vinto e rigettato, perché il fascismo stesso appariva diviso, come lo erano le altre forze rappresentate in Parlamento. E Mussolini non sembrava in grado di tenere insieme una accozzaglia di gente abituata a picchiare teste più che a pensare con la propria testa. Occorreva però far fronte comune e non invece coltivare divisioni sia all’interno dei singoli partiti di massa, sia nei rapporti fra loro.

La maggioranza che aveva legalizzato l’azione illegale del fascismo fino alla sua ascesa al potere non era fascista ma eterogenea, e non avrebbe continuato a dare la sua fiducia al duce di un partito che continuava la pratica della violenza anche contro i militanti dei partiti che collaboravano con il governo, come i popolari. Ed eterogenea, riteneva Sturzo, sarebbe stata anche la nuova maggioranza che il duce mirava a procacciarsi con la riforma elettorale di maggioranza, che non gli avrebbe comunque garantito il consenso della maggioranza del paese: “In tal caso – concludeva il segretario del PPI – il parlamento potrà servire a crear leggi e a dare voti di fiducia, e il governo di partito potrà continuare a illudersi di poter esprimere la vita del paese; ma il tentativo o farà cadere il paese nel collasso o sboccherà nella dittatura”

(Gentile (II), p. 55)

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

È quanto mai necessario rileggere le origini di un fenomeno, come quello del fascismo italiano, ben oltre certi schemi ideologici di parte, da qualsiasi parte. E tuttavia ancora oggi si fatica, perché l’argomento è ancora divisivo. D’altra parte i fatti che si succedono nel primo dopoguerra hanno indubbiamente dato origine ad una forma di Stato che non possiamo non definire dittatoriale. Questa va certamente imputata a Mussolini e al suo agire politico di quei mesi. Tuttavia, se lui è il protagonista, lui non è il solo attore: le responsabilità di ciò che è successo sono da addebitare a più parti, anche a coloro che poi sono le vittime di quel sistema. Qui c’è poi da avere attenzione per l’opinione pubblica, a cui si tende, anche oggi, ad attribuire, non colpe o responsabilità, ma quelle forme di ragione che si riconoscono, quando, intervenendo o meno al voto, essa prende posizione e, decidendo a chi attribuire il suo voto, indica per il futuro la strada da prendere. Votando – si dice – il popolo ha sempre ragione. Diciamo che quanti votano o non votano esprimono le proprie scelte, che non necessariamente si rivelano quelle più opportune.

Renzo De Felice nella sua analisi insiste a dire che vi fu in quel periodo un senso di “stanchezza” – usa proprio questo termine – per cui si pretendeva ordine e, insieme, uno che ne fosse il garante, sempre con quelle deleghe, che ap-partengono al sistema del voto popolare. Votando, l’elettore designa chi lo deve rappresentare, anche se poi, chi è eletto, rappresenta – si dice – tutto il popolo e non solo una parte: in questo atto di designazione viene riconosciuta la democrazia, per la quale è il popolo ad avere l’autorità, nominando i suoi rappresentanti. Spesso poi questa delega si trasforma nel trasferimento ai deputati del potere di legiferare e di eseguire quanto è stato decretato, esimendo o esautorando il popolo da ogni altra forma di partecipazione, perché occupato con altri interessi, spesso personali o di parte, che vengono prima del cosiddetto bene comune. Eppure la democrazia ha bisogno non solo del voto popolare, ma anche della partecipazione diretta del popolo, che si ha non solo con interventi sulle decisioni politiche generali, ma anche sul modo stesso con cui ciascuno svolge il suo compito nella società. Esimersi da questo o addirittura non rendersi conto del venire esautorati, crea discapito alla democrazia, che in tal modo langue ed è destinata a morire. Perciò la partecipazione, vissuta nella passione e nel senso di responsabilità, è alla base della democrazia. La ricerca dell’ordine, indubbiamente necessario in mezzo a tanto marasma che non viene sedato e che continua a crescere, come avvisaglia di una guerra civile, non può essere considerata una specie di capriccio e non si può pensare che esso sia solo un fenomeno da affidare a leggi più severe e ad organi di polizia, o addirittura dell’esercito, perché sia raggiunto e mantenuto. Se aumenta il fenomeno del ricorso alle armi per scatenare episodi di violenza folle, certamente bisogna intervenire a limitarne la produzione e l’uso e l’abuso, e tuttavia non ci si può ridurre a questo genere di provvedimenti. È sempre necessaria una formazione della coscienza e del senso di responsabilità, perché la democrazia stessa non sia solo appannaggio dei partiti o di chi si interessa della politica, così come non si può pensare di arginare le forme di violenza solo con la limitazione delle armi, pur necessaria. È sempre da privilegiare e da ac-compagnare un lavoro di formazione e di educazione, perché il popolo nel suo insieme e nelle singole persone sia in grado di operare scelte più intelligenti al momento opportuno e di saper far sentire la propria opinione nei momenti importanti e decisivi. Il popolo nel suo insieme e i singoli in modo particolare, perché si sentano sempre più cittadini e non sudditi, partecipi e non indifferenti o refrattari, hanno bisogno di chi aiuti a pensare e a decidere con una visione più ampia e chiara dei problemi.

Amendola tratteneva appena lo sdegno che provava nei confronti degli italiani che non si rendevano conto della gravità della situazione e della condizione di esistenza servile nella quale erano costretti a vivere, per scuoterli mettendo loro in faccia la realtà com’era (…). E come a voler costringere gli italiani a guardare in faccia la realtà, Amendola insisteva nel descrivere cosa era il regime fascista: “Questa soltanto è la caratteristica del regime: che un determinato numero di cittadini, chiamati a proteggere l’esistenza a tempo indeterminato del governo fascista, possa armarsi a volontà, possa vivere militarmente dietro il paravento della milizia, e che l’ordine, la pace, la libertà, la sicurezza di tutti gli altri cittadini, inermi, restino alla mercé degli istinti e del sentimento degli armati, delle più o meno torbide manipolazioni che taluno, cui giovi, possa farne”. (Gentile (II), p. 157)

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