Fermo e Lucia: pagine a confronto.

LA REVISIONE DEL ROMANZO

La lettura che oggi si fa del “Fermo e Lucia” ha come scopo la verifica del profondo cambiamento che interviene nella stesura del romanzo, la quale risulta definitiva nell’edizione del 1840-42, quella poi divenuta ben nota al largo pubblico, che però non conosce e non legge la prima redazione. C’è indubbiamente un notevole cambiamento, anche se l’impianto della vicenda rimane immutato: gli stessi personaggi cambiano (alcuni persino nel nome, come lo stesso protagonista, Renzo); l’impostazione del percorso appare alla fine più organico, come se l’argomento stesso venisse maggiormente padroneggiato e meglio costruito; più ancora, il lessico e il linguaggio vengono talmente ripuliti da fluire con maggior scioltezza, e ne trae giovamento il racconto; anche il ridimensionamento di storie collaterali contribuisce a rendere più organico il racconto stesso. Il lavoro che ne deriva richiede parecchi anni, e soprattutto uno sforzo non indifferente in diverse direzioni, anche sotto la spinta di amici, che gli suggeriscono quel genere di limatura, che per lui diventerà revisione totale e, per certi versi, anche radicale.

Una volta finita la prima stesura del romanzo, o, come aveva scritto a Fauriel, il “noioso guazzabuglio”, il “grosso fascio di carte”, prima di mettersi a rielaborare il tutto aveva ascoltato e meditato i suggerimenti degli amici. Fauriel arrivò a Milano nel novembre del ’23, progettando un soggiorno fino all’aprile seguente. I suoi consigli furono preziosi, e la ripresa del lavoro ebbe luogo in gran parte dopo la sua partenza. Da allora in poi, tutto seguì con straordinaria sollecitudine. Il 30 giugno, infatti, lo stampatore, che anche questa volta era il Ferrario, inviava al R. I. Ufficio di Censura “il primo tomo del Romanzo storico del Signore Alessandro Manzoni intitolato Gli Sposi Promessi”. È chiaro, visto le date, che in tre o quattro mesi Manzoni aveva dovuto rifare i dieci capitoli di cui era composto il primo tomo. La tecnica era questa: sul margine di sinistra del foglio riscriveva quanto era stato scritto nella colonna di destra che recava la prima minuta (cioè il Fermo e Lucia). Come sempre succede, le correzioni meno importanti erano rimandate al lavoro sulle bozze. Prevedeva di avere pronto tutto il romanzo per la tipografia prima della fine d’ottobre del ’23; anche se, per esperienza, non si faceva troppe illusioni. Nel render conto nell’agosto a Fauriel, ancora a Parigi, di quanto era riuscito fino allora a fare, “in coscienza” Manzoni osservava: “I materiali sono ricchi: tutto ciò che può far fare agli uomini una triste figura c’è in abbondanza, la sicurezza nell’ignoranza, la presunzione nella stupidità, la sfrontatezza nella corruzione, sono ahimè i caratteri più salienti di quell’epoca, fra molti altri dello stesso genere.

Per fortuna ci sono pure degli individui e dei tratti che onorano la specie umana; dei caratteri dotati di una virtù originale in proporzione agli ostacoli, ai contrasti, e in ragione della loro resistenza, o qualche volta della loro abdicazione alle idee comuni. Io ho cercato di profittare di tutto ciò; come, Dio lo sa. Ho ficcato là dentro contadini, nobili, frati, religiosi, preti, magistrati, sapienti, la guerra, la fame, la … ciò che vuol dire avere fatto un libro!”. Si trattava dunque di organizzare e magari di sfrondare. Come sarebbe avvenuto per alcune parti, dopo i suggerimenti di lui e di Visconti. (Ulivi, p. 261-262)

Bisogna riconoscere che lo scrittore si era messo al lavoro con particolare impegno e costanza, dimostrando di avere a cuore che la revisione avvenisse a breve, come se si trattasse di dettagli, di inezie. Ed invece la revisione gli costò parecchio tempo. O, meglio, si ebbe inizialmente la cosiddetta “ventisettana”, quella cioè del 1827, nota come il romanzo che sarebbe dovuto uscire con il titolo “Gli Sposi Promessi”. In effetti uscì, ma neppure questa lo vide soddisfatto. Il lavoro di revisione sembrava limitato ad un problema di lingua e quindi di forma espressiva; ma poi prese il sopravvento anche la miglior definizione di alcuni personaggi, che subirono una notevole trasformazione, anche lasciando intatta la sequenza delle vicende narrate. E tuttavia anche l’esposizione dei fatti subì un tale rimaneggiamento da presentare in alcuni casi una riorganizzazione che comporta una architettura migliore, fatta in modo tale da rivelare un autore che sa ben padroneggiare il suo materiale. Esso è frutto, sì, di fantasia, senza però che sia lasciato al caso. Ne uscirà così un autentico capolavoro. Ma per arrivare ad esso ci vorranno anni di intenso lavoro. Se inizialmente la questione più dibattuta riguardava la lingua, che egli non sentiva sufficientemente “italiana”, imbevuta com’era di lombardismi e di francesismi, poi però si rese conto che con essa era necessario anche una ricostruzione della vicenda stessa nel modo con cui veniva narrata, perché risultasse più organicamente concepita e soprattutto più organicamente intesa da chi si accingeva al faticoso lavoro della lettura.

LA REVISIONE DI CONTENUTI E DI LINGUA

Questo sforzo di ricerca continuò a impegnare Manzoni. Terminata la composizione del romanzo, egli si mise a lavorare a un libro sulla lingua, che nella sua sostanza è andato perduto … Continuò a vagheggiare l’ideale di una lingua comprensibile (se non usata) da un capo all’altro della penisola …

Questo essenzialmente è il senso generale a cui risponde la revisione linguistica per l’edizione ventisettana del romanzo, revisione che andò di pari passo con quella strutturale e contenutistica. (Suitner, p.50)

La revisione linguistica non è solo una questione formale: attiene piuttosto alla sostanza, perché ne trae giovamento non solo la vicenda che appare più strutturata e organica, ma anche la lettura che ne vien fatta e che costruisce in chi fa questa operazione un modo diverso di intendere e poi di comunicare. In effetti è da tutti riconosciuto che Manzoni, con il suo lavoro di letterato e soprattutto con la notevole padronanza della lingua, contribuisce a costruire negli Italiani una coscienza civica. Comunque per lui questo indefesso lavoro che lo occupa per circa un ventennio, è principalmente legato alla elaborazione di una lingua, che non deve servire solo a migliorare la lettura del romanzo, ma a costruire anche un “uso” della lingua che vada ben oltre la questione tecnica e formale per contribuire alla formazione di quel senso di “popolo” che è alla base dell’opera risorgimentale, non ancora messa in campo, ma già avviata con i diversi tentativi, anche violenti, di porre la questione.

Questo dell’Uso è giustamente considerato il principio-cardine di tutta la linguistica manzoniana, e insieme anche la molla che spingerà lo scrittore alla complessa revisione del romanzo. L’uso effettivo di una lingua deve sempre avere la preferenza sugli astratti principi grammaticali, e deve guidare lo scrittore nella composizione di una lingua moderna, in grado di comunicare generalmente. (Suitner, p. 48)

Di fatto la scelta dovrebbe orientarsi nei confronti di una lingua che, anche secondo le mode del tempo, sarebbe vicina a quella neoclassica. Essa però sa di eccessivamente artificioso e nel contempo è comprensibile da coloro che la potevano coltivare nella lettura di certi libri e persino in un utilizzo riservato comunque solo ad una ristretta cerchia. Di fatto prevale per lui quel linguaggio lombardo, che dovrebbe esser noto più sul versante locale e quindi in linea con le forme dialettali, note nella sua regione e non al di fuori di essa. Di qui la ricerca di una soluzione che doveva comportare per lui una revisione totale e soprattutto radicale.

Scrivo male” confessa lo scrittore. Ma afferma chiaramente che per scrivere bene sarebbe necessario appunto disporre di quella lingua comune o universale, di “parole o frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate.

Fa capire chiaramente il suo scetticismo, perché a proposito di questa lingua comune o universale “il solo cercarla è un gran pregiudizio ch’ella non vi sia” (Suitner, p. 50).

Il lavoro di revisione, inerente la lingua, accompagna tutto questo periodo e di fatto si concentra con l’edizione avviata dal novembre 1840. Accanto a questo impegno che fu indubbiamente indefesso e meticoloso c’è da registrare anche quello di un radicale rifacimento, che riguarda personaggi ed episodi usciti come nuovi o comunque molto diversi dalla prima stesura. Potrebbe bastare la segnalazione che i tre decisivi episodi, che formano l’VIII capitolo nella edizione del 1840, nel “Fermo e Lucia” sono disseminati e quindi impossibilitati a darci una visione unitaria. Questa, con la regia dello scrittore, permette di offrire tre interventi umani, che risultano nel tempo concomitanti, e mancati nei loro obiettivi; ma soprattutto essi appaiono di fatto “turbati” da un disegno divino che vuole altro, vuole, evidentemente una “gioia più certa e più grande”. Ovviamente, in seguito! Di fatto l’introduzione “fraudolenta” in casa di don Abbondio – come la definisce Manzoni – da parte dei due giovani promessi viene descritta al termine del cap. VII del primo tomo e senza l’introduzione celeberrima della lettura da parte del parroco del panegirico su S. Carlo, laddove egli si era arenato in presenza del paragone del santo con Carneade! E l’episodio del tentativo dei Bravi di rapire Lucia è solo adombrato ma non descritto nei particolari che si possono trovare nell’edizione definitiva. Il seguito del burrascoso tentativo di matrimonio si trova nel cap. VIII del primo tomo. Viene così a mancare quell’unità di tempo e di luogo che è uno dei criteri cardine del teatro a cui era abituato Manzoni.

C’è inoltre da segnalare un personaggio che non ha affatto rilevanza nella vicenda del romanzo, se non perché una delle scene centrali, l’incontro risolutivo tra il Conte del Sagrato e il Cardinal Federigo avviene in casa sua. Si tratta del curato di Chiuso, la parrocchia in cui il Cardinale sta facendo la Visita Pastorale e che è contigua nel territorio con il castello di colui che poi sarà designato come l’Innominato. Ancora oggi si continua ad indicare quella località con le rovine di un castello che stanno sopra l’abitato di Somasca, dove stavano allora e stanno tuttora i figli spirituali di san Girolamo Emiliani. Il parroco di Chiuso, al tempo di Manzoni, era un sacerdote molto popolare e rimasto tale fino ai nostri giorni quando finalmente è stato dichiarato Beato, dopo che la gente del luogo già lo riteneva così. Si tratta del B. Serafino Morazzone, che, divenuto prete a Chiuso, lì rimase fino alla morte avvenuta il 9 maggio 1822.

Quando Manzoni sta scrivendo il suo romanzo gli arriva la notizia e ne rimane turbato perché lo conosceva bene, frequentandolo per la Confessione nei periodi in cui si trasferiva a Lecco. Ovviamente quest’uomo non ha niente a che vedere con la storia collocata attorno al 1630; e perciò non dovrebbe assolutamente figurare fra i personaggi. Tuttavia lo scrittore voleva cogliere l’occasione per tessere l’elogio di quest’uomo che lui ammirava.

Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l’illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch’egli possedeva in un grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess’esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso. (Fermo e Lucia, Tomo III, cap. I)

Si coglie in queste parole l’ammirazione che lo scrittore nutre per questo prete, a lui familiare e che da poco è sparito alla scena di questo mondo. Manzoni coglie, forse, questa occasione per contribuire a dargli gloria, oltre il limitato orizzonte di un paese che è indubbiamente di nome e di fatto … Chiuso. Per correttezza e coerenza, poi nel nuovo romanzo egli deve togliere questa figura, che del resto è già marginale ed è comunque fuori luogo. Rimane pur sempre la mirabile fattura di questo medaglione commemorativo di uno che poi indubbiamente sarà proclamato santo, anche se solo a livello locale. E quindi … beato! Alcune pagine invece rimangono, pur con un rifacimento che ne cambia l’espressione, ma anche i contenuti e le fa divenire un gioiello incastonato nel romanzo, come pagine che vanno considerate addirittura di poesia.

Di queste è opportuno che si faccia un diretto confronto per verificare il lavoro immane che ha dovuto fare Manzoni, sia sul piano formale (in particolare linguistico) sia su quello sostanziale dei contenuti, anche con l’impressione che dica le stesse cose. Qui ne consideriamo due …

ADDIO, MONTI …

Nella redazione finale siamo al famoso capitolo VIII (lo è altrettanto nel primo romanzo), quando, dopo una serie di episodi drammatici, in cui la tensione esplode e i disegni umani vanno in fumo per lasciare libero corso al disegno più certo e più grande della divina Provvidenza, si avvia una nuova fase, per la quale le vie dei due si dividono e le loro vicende si avvitano terribilmente, perché il passaggio, fatto di passione, approdi là dove lo vuole condurre il progetto di Dio. E’ indubbiamente una pagina meditativa e svolge la medesima funzione che noi troviamo nei cori, compresi quelli delle tragedie manzoniane, che devono aiutare lo spettatore, sempre più coinvolto nella vicenda, a trovare un senso alle cose che capitano. Per questo motivo il brano, che, in un testo di prosa, non può essere affidato al coro, svolgendo comunque questa funzione, si eleva e diventa una pagina di raffinata poesia. Per arrivare a questo risultato, però, è necessaria una profonda revisione del primo abbozzo, che viene affidato al “Fermo e Lucia”: anche qui si avverte che lo scrittore vuole elevarsi nel tono, perché lui stesso si sente coinvolto, ripensando ai tempi nei quali era stato costretto ad abbandonare quei luoghi familiari per muoversi nella città tumultuosa e quindi dentro un vivere più tormentato. Di qui l’anelito ad un vivere più composto e più rasserenante, proprio mentre, in realtà, l’esistenza prende strade impreviste e imprevedibili. Nella sua prima stesura ha il sopravvento ciò che si agita nel cuore dello stesso scrittore, che vuol lasciare spazio ai suoi ricordi. Ora si rivelano come tempi e problemi vissuti in mezzo a tante preoccupazioni, quando questi stati d’animo, in un giovane, agitato dai movimenti d’oltralpe, forse neppure c’erano. Così le riflessioni appaiono essere il disagio suo, che a distanza d’anni vuol mettere davanti al lettore, come l’argomento fondamentale di questa pausa riflessiva. Poi avrà più spazio ciò che invece si agitava in Lucia, la sola protagonista; e proprio per questo il tono si fa più elegiaco.

In Fermo e Lucia quell’addio prendeva più spazio. Rivelava un fondo autobiografico diretto, come fu notato (“cime ineguali, conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi”).

Le espressioni erano più dense, i colori più romantici, nordici (“monti posati sugli abissi delle acque …”). Preso l’avvio dal pianto di Lucia, l’autore vi si sostituiva a poco a poco, dimenticando il personaggio e abbandonandosi a una di quelle digressioni liricheggianti e morali tipiche dei romanzi epistolari o autobiografici francesi … Non risparmiava un’esaltazione della vita semplice nella natura, sui monti familiari, di contro alla città, con gli “edifici che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra …”, e “l’afa immobile …”, con il montanaro “divenuto timido e delicato” quanto il cittadino e che “passa le ore intere nell’ozio malinconico”.

(Macchia, p. 181-182)

Addio, monti posati sugli abissi dell’acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all’aspetto l’uno dall’altro i suoi famigliari, valli segrete, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi vi conosce dall’infanzia! quanto è nojoso l’aspetto della pianura dove il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato addietro, dove l’occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo d’un quadro su cui l’artefice non abbia ancor figurata alcuna immagine della creazione. Che importa che nei piani deserti sorgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra. Le vie, che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano valli troppo anguste, l’afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido e delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole, non riposava che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore intere nell’ozio malinconico ripensando alle sue montagne. Ma questi sono piccioli dolori. L’uomo sa tormentar l’uomo nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei momenti passati lietamente affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all’afflitto una certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente trasformata. Dolore speciale: la contemplazione della perversità d’una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile.

Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa nella quale sedendo con un pensiero s’imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d’un’orma desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chie-sa dove nella prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire, Chiesa, dove era preparato un rito, dove l’approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all’ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta talvolta vicino all’abitazione dell’uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l’uomo il quale ad ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e parte. E l’uomo pure caccia talvolta l’uomo sulla terra come se gli fosse destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.

(FERMO E LUCIA – Tomo I, Capitolo VIII)

Nella scrittura successiva, soprattutto nella edizione finale, lo scrittore lascia spazio a emozioni e stati d’animo, che non debbono essere scopertamente suoi, ma devono apparire più coerenti con il personaggio che li esprime in quel momento. Se solitamente, come è la funzione del coro dentro le tragedie, è qualcuno al di fuori che fa le sue considerazioni, qui occorre che abbia il sopravvento la protagonista, anche se queste parole non appaiono come un discorso diretto di Lucia, bensì riflessioni che l’autore pensa adatte in quel momento alla ragazza che è rattristata dal corso degli eventi e nel contempo non dispera, anche ad essere dolente.

L’“addio ai monti”, che non esce dalla bocca di Lucia ma canta per Lucia e per gli altri fuggiaschi, supera in realtà il loro lessico e il loro ideario, così come il coro sulla morte di Ermengarda supera quelli della vittima. Ne è ben consapevole il narratore, che spenge il canto dissipando, con sommessa ironia, le insorte perplessità dei lettori: “Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia”. (Nencioni, p. 89)

Lo scrittore si lascia andare a questo affascinante saluto rivolto al paese natio, ai luoghi familiari, a quel mondo che uno sente come suo, proprio perché fin dalla nascita in quel contesto ha derivato la sua natura e perciò se lo sente come parte integrante del suo vivere, come componente essenziale della sua stessa persona. Questi pensieri, come poi dirà lo scrittore, sono quelli che si possono immaginare nel cuore e nella mente di Lucia, ma di fatto, per il tono poetico che assumono, possono diventare universali, e, avvolgendo i lettori con questo andamento, diventano un’autentica elegia, un componimento che ciascuno può sentire come suo, perché la propria vita, non solo quella di Lucia, è qui trasfusa ed è qui emergente. Sembra che il passaggio del fiume diventi l’emblema di un passaggio dell’esistenza, che, condotta per vie traverse nella direzione, solo evocata e non ancora sicura, conduce ad “una gioia più certa e più grande”. Si avverte un forte afflato poetico, che prende la mano e il cuore dello stesso scrittore, il quale, nella lettura, obbliga a quelle pause e a quelle riprese che sono proprie di una cadenza poetica, realizzata dai particolari accenti che egli ha creato con il suo “cursus”. Qua e là, se non ci sono delle rime, si percepiscono delle assonanze: lo scrittore tende a produrle e a farle avvertire come delle suddivisioni che fanno pensare ad una specie di versificazione. Naturalmente è la lettura che può creare questa impressione: essa fa trasparire la musicalità poetica di un testo di notevole intensità e di pregevole fattura. Qui viene dato il testo come lo si dovrebbe leggere rispettando una sorta di versificazione …

Addio,

monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo;

cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi,

e impresse nella sua mente,

non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari;

torrenti, de’ quali distingue lo scroscio,

come il suono delle voci domestiche;

ville sparse e biancheggianti sul pendìo,

come branchi di pecore pascenti;

addio!

Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!

Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente,

tratto dalla speranza di fare altrove fortuna,

si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza;

egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere,

e tornerebbe allora indietro,

se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso.

Quanto più si avanza nel piano,

il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme;

l’aria gli par gravosa e morta;

s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose;

le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade,

pare che gli levino il respiro;

e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero,

pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese,

alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo,

e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli

neppure un desiderio fuggitivo,

chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire,

e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa!

Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini,

e disturbato nelle più care speranze,

lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti

che non ha mai desiderato di conoscere,

e non può con l’immaginazione

arrivare a un momento stabilito per il ritorno!

Addio, casa natìa,

dove, sedendo, con un pensiero occulto,

s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni

il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore.

Addio, casa ancora straniera,

casa sogguardata tante volte alla sfuggita,

passando, e non senza rossore;

nella quale la mente si figurava

un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa.

Addio, chiesa,

dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore;

dov’era promesso, preparato un rito;

dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto,

e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo;

addio!

Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto;

e non turba mai la gioia de’ suoi figli,

se non per prepararne loro una più certa e più grande.

(I PROMESSI SPOSI – Capitolo VIII)

Entrando nella considerazione del testo letto, si possono ravvisare tre momenti, quasi siano tre strofe di un’unica elegia poetica.

C’è l’ADDIO iniziale che fa una rapida scorsa sul paesaggio, partendo dall’alto dei monti, i quali sono presentati emergenti dalle acque, come se si rispecchiassero nelle onde. Poi si va a planare sul pendio, insieme con i torrenti che vi scorrono, e riconoscere lì le abitazioni.

L’ADDIO evoca naturalmente la partenza dai luoghi familiari:

è il distacco di chi si allontana perché obbligato in duplice maniera:

  • C’è chi va in cerca di fortuna,

ma con il dispiacere di staccarsi dalle cose care

  • C’è chi va perché costretto da “una forza perversa”

In entrambi c’è la nostalgia dei luoghi cari e il desiderio del ritorno.

C’è l’ADDIO finale che va diretto ai luoghi cari:

  • La casa dove si è vissuto il passato

  • La casa dove si vuol costruire il futuro

  • La chiesa nella quale

si è sempre pregato e cantato le lodi del Signore,

ci si aspettava di celebrare il rito nuziale

l’amore era destinato a divenir santo.

Proprio da questo pensiero all’amore benedetto, l’ADDIO si eleva, per una sorta di gioco di parole, “a Dio”, colui che rimane comunque dappertutto e che ha in serbo “una gioia più certa e più grande”.

Si vede così una costruzione davvero perfetta nel finale d’un capitolo che pure si presenta dominato da un valido architetto, Manzoni, il quale sa ben disporre gli elementi pur burrascosi della sua storia.

Il motivo elegiaco che, come si direbbe con linguaggio musicale, formava il sottofondo delle pagine precedenti, trova in questo addio la sua piena espressione lirica. La sensibilità poetica dell’artista si sovrappone alla accorata mestizia di Lucia per universalizzarla in un sentimento di malinconia di tono quasi leopardiano. C’è tuttavia, in questa contenuta tristezza, qualche cosa che nettamente la distingue da quella del poeta recanatese: la fede. E’ la fede che mitiga l’angoscia dell’abbandono e fa’ sì che i ricordi non aprano la via della disperazione, ma addolciscano il cuore con la speranza del ritorno. Con la sensibilità che gli è nota, il Momigliano ha scritto che questa pagina è “troppo inconsueta alla nostra prosa, troppo pura … troppo concentrata perché il più dei lettori la possa capire.

Anche sotto i particolari più definiti mormora una sommessa musica di dolore; la frase scorre, quasi silenziosa, come sopra un fondo d’erbe; e l’atteggiamento finale di Lucia, di mesto abbandono e di segreto pianto, sembra già delinearsi via via nella pittura del paesaggio, quando incomincia l’“Addio”, sembra che il motivo nascosto venga fuori limpido e tranquillo a dominare tutta la sinfonia. L’anima di Lucia, prima trasfusa in tutto il paesaggio, ora lo ha assorbito in sé; sicché il suo “Addio” ha le linee serene di quella notte di luna. Il cielo, i monti sorgenti dalle acque, e Lucia sono ormai una cosa sola: un respiro solenne di malinconia.

(Messina, p. 199)

LA MADRE DI CECILIA

L’episodio, noto con il nome di “La madre di Cecilia”, è un quadretto che ben si incastona nella tragedia della peste: è pur essa una tragedia, anche se non riguarda un personaggio di questa storia. Anzi, viene introdotta una figura, davvero mirabile, che appare e dispare, lasciando però un segno profondo in chi legge, perché chi ne scrive si trova, egli pure, come soggiogato da essa. C’è da pensare che si tratti di un episodio a parte, davanti al quale si resta soggiogati: in effetti attorno ad esso si crea come una sorta di silenzio o di musica di sottofondo. Il tono che l’autore usa lascia tutti sospesi e nel contempo attratti da questa immagine, diafana nelle forme esteriori per la consunzione che ne ha fatto la malattia, ma nel contempo forte nei suoi tratti caratteriali, anche per la dignità manifestata, che la debolezza fisica non mortifica assolutamente. Dalla penna di Manzoni esce una donna ammirevole, che, pur nel suo breve passaggio, lascia una impronta indelebile. L’autore ha buon gioco a introdurla e poi a lasciarla andare, affidandola a Renzo, il quale sta gironzolando nella città ammorbata, non senza avvedersi di alcune figure di rilievo: davanti a questa rimane immobile a seguire la scena. Così la cornice invoglia chi legge ad assumere lo stesso sguardo estasiato in presenza di una donna, per la quale la prosa eleva il suo tono e si fa poesia, mirabile componi-mento in cui la morte lascia il posto all’immortalità.

Nella versione che ci viene offerta con la prima stesura ci si trova davanti un’immagine ben rifinita e che avrà solo da migliorare e divenir sublime nelle successive versioni, dove cambia poco nell’essenziale della scena, delle parole usate, e del clima che è stato creato. E tuttavia ci si rende conto che il “cursus” con cui è necessario leggere il testo, deve ancora trovare un andamento più sciolto, più capace di far affiorare la sublimità della scena e della figura di questa donna. Manca, certo, la scorrevolezza delle parole e l’incanto degli accenti, sempre dosati ad offrire una parola “piana”, ma si coglie che le “pennellate” o levigature del materiale usato hanno già abbozzato un capolavoro, che pur sempre deve essere rifinito.

Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che brilla nel sangue lombardo. I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i vestigi degli antichi zampilli. V’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che raffigurava al di fuori un’anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sé gli sguardi anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse una sì rara pietà. Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani l’avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un premio. Né era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le spalle della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente l’affetto che si dipingeva su quello che era ancora animato. Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo. Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso; ma pure con una specie d’insolito rispetto, con una esitazione involontaria. Ma la donna, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete». E così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese. Poscia continuò: «promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s’attenti di farlo, e di porla sot-terra così. L’avrei ben posta io; ma ella deve riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v’è lassù chi mi aspetta». Mentre la donna parlava il mo-natto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova riverenza, che pel gua-dagno, aveva fatto sul carro un po’ di luogo al picciolo cadavere.

La donna diede un ultimo bacio alla figlia, la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse: «ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di qua stasera, salite a prender me pure, e non me sola». Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con un’altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto quell’altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la pianta s’inchina col fiore appena sbocciato, al radere della falce che, dove passa, agguaglia tutte l’erbe del prato. Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime. «O Signore!» diss’egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella travagliata l’uscire di tanti guai… Una ventura! E Lucia!» (FERMO E LUCIA – Tomo IV, Capitolo VI)

Forma espressiva e contenuto si sostengono vicendevolmente e ne esce un quadro di ammirevole fattura: il tono languido e dolente, necessario a stagliare questa madre addolorata, degna di stare alla pari con la Pietà, non impedisce di definirla come una donna forte e solenne, che smuove anche i monatti, adusi a metodi brutali e a gesti senza pietà. Il testo può essere suddiviso in diversi momenti, di cui due, segnati da un andamento elegiaco, sembrano voler elevare il tono per rappresentare al meglio questa madre, affranta dal dolore, ma non prostrata nei suoi affetti.

1. C’è la descrizione del suo incedere verso il carro dei monatti, mentre attorno si crea il vuoto per stagliare meglio questa nobile figura. Per essa l’autore ricorre ad espressioni adatte a cercare i tocchi giusti per dare dignità e nobiltà, pur nel contesto di uno sfinimento. Con lei appare anche il corpo della bambina, che la madre sembra voler ancora riscaldare con il suo amore, pur consapevole della sua morte. L’autore, nel tocco finale, le unisce ancor di più per la somiglianza dei visi e per la comune sventura che le pareggia, come dirà poi nello stupendo paragone.

2. Segue l’intervento del monatto e il tono si fa più narrativo, come se vo-lesse creare una pausa tra il presentarsi della donna e i gesti quasi rituali di accomodare Cecilia sul carro.

3. Riprende il tono poetico, quando lo scrittore deve ancora parlare della madre e della bambina: i gesti e le parole, veramente dignitosi, solenni, composti, conferiscono al momento una parvenza di ritualità naturale e dignitosa insieme.

4. La scena si conclude con il rientro in casa della donna che segue con lo sguardo e con il cuore la piccola che si allontana, mentre sul petto ne tiene un’altra, pronta al sacrificio.

Qui la poesia è raggiunta con il mirabile paragone dei fiori pareggiati al passaggio della falce. Il richiamo ai testi classici non impedisce a Manzoni di offrire una bella immagine, qui originale, nell’appaiare il fiore rigoglioso con il fiorellino ancora in boccia.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci,

e veniva verso il convoglio, una donna,

il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa;

e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta,

da una gran passione, e da un languor mortale:

quella bellezza molle a un tempo e maestosa,

che brilla nel sangue lombardo.

La sua andatura era affaticata, ma non cascante;

gli occhi non davan lacrime,

ma portavan segno d’averne sparse tante;

c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo,

che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.

Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie,

la indicasse così particolarmente alla pietà,

e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta;

ma tutta ben accomodata,

co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo,

come se quelle mani l’avessero adornata per una festa

promessa da tanto tempo, e data per premio.

Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio,

col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva;

se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte,

con una certa inanimata gravezza,

e il capo posava sull’omero della madre,

con un abbandono più forte del sonno:

della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede,

l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due

ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “No!” disse: “Non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese.

Poi continuò: “Promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.” Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina.

La madre, dato a questa un bacio in fronte,

la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò,

le stese sopra un panno bianco,

e disse l’ultime parole: “Addio, Cecilia! riposa in pace!

Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.

Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.”

Poi voltatasi di nuovo al monatto, “Voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.” Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambi-na più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’u-nica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fio-re già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato. “O Signore!” esclamò Renzo: “Esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abba-stanza! hanno patito abbastanza!”. (I PROMESSI SPOSI – Capitolo XXXIV)

Nei tratti elegiaci si può riconoscere una musicalità diffusa, seppur languida, resa bene dal ricorso a un susseguirsi di accenti che consentono di poter seguire il passo di questa donna (si può notare l’uso cadenzato di continue parole piane, con l’accento sulla penultima sillaba): chi legge ha l’impressione di essere portato, insieme con la madre, a muovere i passi che sono lenti, ma sicuri. Il ricorrere di lettere sibilanti e liquide lascia trasparire il languore e lo sfinimento. La descrizione della donna è fatta con aggettivi diversi, sempre attenuati da altri: così la sofferenza non impedisce affatto che affiori la fierezza, e allo stesso modo la forza dignitosa viene smorzata dalla debolezza incalzante. La brutalità della morte, che ha già travolto il fiore in boccia, viene attenuata dai tocchi delicati, con cui è descritta la bambina. Essa, a prima vista, sembrerebbe come addormentata: l’aggettivo, che la dà per morta, deve essere letto come staccato, quasi con il dispiacere di doverla rappresentare così. Poi però riprende a descriverla con tutti i dettagli che la vogliono bella, messa in ordine, addobbata come per una festa.

In effetti, siamo ad un funerale, ma la grande dignità di quella donna e il bell’addobbo fatto per la sua Cecilia elevano il momento tragico ad un livello elegiaco, e fanno diventare i due personaggi una gruppo marmoreo che rimane a perenne ricordo.

Ritratto sobrio, tracciato con mano delicata, con senso tutto manzoniano della misura, che traduce in calma composta e solenne, in umana e delicata gentilezza, l’affanno, la disperazione profonda della madre per la perduta sua creatura, la mortale stanchezza della donna che il male consuma, e fa risaltare la fede consolatrice, la sola capace di dare con la fiducia la tranquillità interiore. Il Momigliano finemente annota: “Queste parole che, dipingendo l’atteggiamento della madre di Cecilia, fermano così bene la fisionomia di quell’episodio sereno ed angoscioso, definiscono anche la tristezza del Manzoni intento alle sventure umane”. (Messina, p. 742)

LA FOLLIA DI DON RODRIGO

Una delle ultime immagini grandiose, presente nel Fermo e Lucia, è quella di don Rodrigo, che sembra risorgere dal suo letto di morte e poi si vede scorazzare in modo folle con un cavallo: l’autore lo rappresenta animato da una “confusione di passioni”, che lo vorrebbero animare nel suo desiderio di vendetta. Se Lucia è impaurita, non altrettanto lo sono i due uomini, Fermo e fra Cristoforo, sui quali l’impazzito vuole scatenare le sue passioni. Di qui la sua fuga a cavallo. E lì appare come il cavaliere dell’Apocalisse, che passa su quella scena di desolazione e nello stesso tempo ne esce, quasi a suggellare la fine dell’epidemia e a dare origine ad una specie di risurrezione. Questa scena drammatica ha forse l’intento di dire che il male continua ad esserci nel mondo e che, però, di esso non si deve aver paura, come raccomanda il frate ai due. Lo scrittore però farà scomparire questa scena dalla redazione finale del suo romanzo.

Ritto sul mezzo dell’uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l’attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due.

Quell’infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sé, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l’antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s’era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s’internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto. Entratovi anch’egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s’era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s’era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero all’incanto; quando Lucia s’accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso quell’infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s’abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un romore si levò all’intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s’inalberava, e scappava vie più verso il tempio. (FERMO E LUCIA – Tomo IV, capitolo IX)

CONCLUSIONE

Quello che può apparire come un lavoro di natura formale, tutto dedito ad una lingua nuova e migliore, come pure ad una sapiente regia che sa padroneggiare i personaggi e i fatti, come in effetti succede con l’edizione finale, non può comunque limitarsi a qualcosa di esteriore per un’operazione di tipo estetico. C’è piuttosto una ricerca di notevole spessore, perché chi scrive e chi legge, insieme, possano far emergere una visione più profonda dei fatti, in generale, non solo di quelli narrati nel romanzo. Ognuno deve attrezzarsi e abituarsi ad operare una simile lettura che richiede continuamente fatica, passione, apertura d’animo. Ovviamente la lettura dei fatti non si limita ad essere semplicemente una analisi “logica” della storia, che ha indubbiamente una linea razionale, appunto perché ci sono le persone con i loro progetti di vita. Alla razionalità, talvolta fredda e calcolatrice, si deve associare anche quella passionalità, spesso istintiva: la loro combinazione non necessariamente produce il bene che è negli obiettivi degli esseri umani. Occorre associare una visione più alta, che naturalmente Manzoni attinge dalla sua fede, ma che lui avverte possibile anche a chi non ha la fede cristiana, e coltiva sempre il sogno di un vivere migliore, di un vivere più umano. Proprio per questo è necessario che i singoli soggetti, sempre segnati anche dalla propria miseria, si muovano alla ricerca di un vivere che li esalti, che faccia emergere quel bene che è in ciascuno la scintilla di un vivere da Dio! Ecco: proprio questa ricerca va riscontrata nell’operazione non solo tecnica di migliorare il romanzo.

BIBLIOGRAFIA

1 Alessandro Manzoni, I PROMESSI SPOSI (a cura di M. Messina)

D’Anna, 1964

2 Alessandro Manzoni, FERMO E LUCIA

Mondadori, 1985

3 Ferruccio Ulivi, MANZONI

Rusconi, 1984

4 Franco Suitner, I PROMESSI SPOSI, UN’IDEA DI ROMANZO

Carocci, 2012

5 Giovanni Nencioni, LA LINGUA DEI PROMESSI SPOSI

Il Mulino, 2012

6 Giovanni Macchia, MANZONI E LA VIA DEL ROMANZO

Adelphi, 1994

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