Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di Mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dire nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina,a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto barche in acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quella della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarata sul greto, sotto il lavatoio … (I Malavoglia, capitolo I, p. 39)
INTRODUZIONE
Verga e il Verismo
Nelle antologie scolastiche e nelle catalogazioni di carattere scolastico Giovanni Verga (1840-1922) è considerato lo scrittore per antonomasia del fenomeno letterario denominato “Verismo”. La particolare visione dell’uomo e della società che si è sviluppata con alcuni dei suoi scritti, e con autori che hanno seguito la sua scuola, ha portato a voler descrivere la realtà, soprattutto quella sociale, mettendo in evidenza gli aspetti che si volevano assolutamente realistici, obiettivi, e quindi senza l’apporto critico del narratore, che deve scomparire dal suo stesso lavoro, perché esso possa risultare “scientifico”. Ciò che già si era sviluppato in altri paesi europei, soprattutto in Inghilterra e in Francia, allettava ora la letteratura della nuova Italia, appena uscita dai fasti epici del suo Risorgimento. A noi oggi i testi significativi di Verga, che sono il manifesto del Verismo, la concreta attuazione dei nuovi canoni letterari, appaiono come opere dal forte sapore regionalistico, sia perché le storie sono ambientate nel profondo sud, nell’ancor più profonda provincia meridionalistica italiana, sia perché lo stesso linguaggio usato deriva da quell’ambiente molti vocaboli, sconosciuti al fiorentino popolare, ma soprattutto molte espressioni gergali e molte immagini che costruiscono un nuovo linguaggio. Eppure la sua produzione migliore emerge quando egli è lontano dalla terra d’origine, e sa far diventare quel contesto lontano non solo un angolo periferico, ma l’espressione di un mondo, che seppur stantio, conservatore, bloccato nei suoi schemi ancestrali, aspira ad un rinnovamento che è insito nel percorso storico. E questo non è solo l’aspirazione di alcuni, di gente isolata, ma corrisponde a quel processo storico, che va ben oltre la fase risorgimentale.
Questione meridionale, sociale … o un nuovo umanesimo?
Verga vede nella sua giovinezza coronarsi il sogno risorgimentale con l’impresa dei Mille, che attraversa la Sicilia e coinvolge la gioventù di allora. Ma non mancarono le illusioni. Anche se il suo mondo sembrerebbe circoscritto alla sua terra d’origine, perché le sue storie sono collocate in quell’orizzonte, il problema, che lui pone, di una umanità lanciata dalla prospettiva del nuovo e del progresso verso una condizione di vita che si vorrebbe migliore, non riguarda solo una classe sociale, ma tocca un po’ tutti. E questo vale non solo per l’orizzonte nazionale, se si considera che, nel medesimo periodo, anche in altre parti d’Europa, si avverte quel tipo di disagio “umano”, che si pensa di sanare secondo una impostazione “scientista”, “positivista”. Anche questa si rivela di fatto una illusione. Soprattutto negli anni Settanta, quando Verga si trova fuori dalla sua terra d’origine, e di fatto si inserisce, dopo l’esperienza fiorentina, all’epoca in cui la città toscana era la capitale provvisoria del Regno, nella Milano dell’epoca, che sembrava avviata a diventare il motore della nazione un po’ in tanti ambiti. Proprio nella città lombarda lo scrittore produce i suoi capolavori, non senza difficoltà ad essere subito percepito per la sua proposta letteraria, sia in termini di contenuto sia in termini di linguaggio e di stile.
Le novità strutturali e linguistiche del romanzo, che attaccava direttamente la realtà e operava il tentativo di dare dignità letteraria al “dialetto semibarbaro” di una comunità di pescatori siciliani, non mancarono di sconcertare i lettori. L’11 aprile 1881, in una lettera a caldo indirizzata a Capuana, Verga così si sfogava: “I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo … Il peggio è che io non sono convinto del fiasco, e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto”. (Campailla, p. 35)
UNA VISIONE POSITIVISTA
E aveva ragione di non essere convinto che fosse un fiasco, nonostante la scarsa accoglienza di questa sua opera che l’avrebbe reso famoso. Tuttavia non poteva essere diversamente perché si trattava di avviare un nuovo percorso narrativo e un nuovo linguaggio, che non avevano precedenti. E lui stesso non si sentiva del tutto sicuro in questa sua opera.
Il Verga ci si presenta come uno degli scrittori più inquieti e tormentati della nostra letteratura: la sua opera sembra, almeno ad una prima indagine, non avere una precisa coerenza di svolgimento … Una ricerca umana e letteraria così travagliata trova d’altronde almeno parziale giustificazione in motivi d’ordine storico: non è il Verga uno scrittore che rifletta una società e una cultura ormai consolidate, come l’Ariosto, né uno che ha vissuto nella fede salda di certi ideali e ha lottato tutta la vita per concretizzarli … come il Manzoni o il De Sanctis, o che per tutta l’esistenza si è arrovellato a meglio definire una precisa concezione del mondo, scavandola e approfondendola come il Leopardi: è invece il Verga – almeno fino alla piena maturità del Mastro – sempre incerto, alla ricerca di un’ideologia, romantico e positivista insieme, uno scrittore di transizione, insomma … (Luperini, p. 3)
Era finita la fase idealistica, quella che aveva creato la retorica risorgimentale, come supporto ad una fase storica e politica necessaria per costruire non solo la nazione, ma anche l’ideale che l’avrebbe dovuta sorreggere. L’Italia era indubbiamente stata fatta, ma non come da tanti era stata vagheggiata e pensata. Ora però era necessario, secondo la classica formula, “fare gli Italiani”. Tutto questo si riteneva che fosse possibile in un contesto “positivista”, secondo gli ideali filosofici di quel periodo: già si avvertono sull’orizzonte europeo dottrine sociali e politiche che vengono costruite sulla base di una visione scientifica, e questa si rivelava tale nella misura in cui dall’idealismo si approdava al realismo pratico di chi vede certi principi concretamente realizzati, ben oltre certi schemi di natura ideologica.
Bisognava … rinunciare ad ogni posizione idealistica, assumere un atteggiamento “positivo”, scientifico; nella nuova Italia non c’era più posto per il pensiero, sì solo per la vita pratica: “Non si sogna e non si medita, si opera: il mondo è uscito dalle mani de’ filosofi e dei poeti, e appartiene agli uomini di Stato e a’ guerrieri”, così scriveva già nel 1868 il De Sanctis. (Luperini, p. 5-6)
Insomma, sulla base di queste premesse e di questo comune sentire, in voga in Europa in quegli anni, lo scrittore, ogni scrittore, non deve più mettersi in prima persona nel narrare e non deve far prevalere i suoi stati d’animo o i suoi giudizi, ma deve registrare la realtà nella sua nuda e dura accezione in modo tale che sia il mondo a parlare nel suo dispiegarsi, comprendendo anche quello che non dà gli stimoli migliori, anche quello che non eleva lo spirito, anche quello che non risulta giusto, moralmente corretto. La sua non è comunque una visione spregiudicata, anche perché Verga appartiene per formazione e per stile di vita ad un mondo che noi oggi definiremmo borghese, e che poteva essere invece della piccola nobiltà terriera della profonda provincia siciliana. Tuttavia Verga respira questa nuova temperie culturale, che sta dominando in Europa e che lui in modo particolare conosce e vive quando si sposta al nord, prima a Firenze e poi a Milano. Qui entra in contatto con il mondo culturale francese e viene soggiogato da chi andava per la maggiore in quel periodo nel territorio d’oltralpe. È Zola che allora dominava, e che di fatto, nella Francia umiliata dopo la sconfitta di Napoleone III (1870), doveva riconoscere la superiorità prussiana perché dominata dal realismo politico, quello che bada ai risultati e non alle grandi visioni filosofiche, per nulla realistiche. Ciò che conta sono i risultati, e questi si registrano concretamente nel vivere quotidiano dove non necessariamente vince chi ha maggiormente il senso della giustizia e della verità, ma chi è più furbo o più forte, e come tale può lasciarsi guidare dalla menzogna e dall’uso della forza bruta. Ne deriva di fatto una visione della vita in cui domina il più forte, secondo le leggi deterministiche di Darwin, mentre, per la gran parte, la fiumana della storia non ha altro da fare che tutto travolgere e disperdere. E di qui emerge il relativismo del Verga …
Non per nulla il relativismo del Verga … condurrà poi necessariamente lo scrittore all’accettazione rassegnata e insieme disperata della vita. Quello che importa è il dato di fatto, il risultato (in Italia, si è detto, quello cui era giunto il Risorgimento), la Realpolitik: nella “selezione naturale” e nella “lotta per l’esistenza” (e non è senza significato che questa formula darwiniana compaia nella prefazione dei Malavoglia) trionfa il più forte, il più potente, non il più giusto, il più spregiudicato, non il più onesto: don Silvestro, non padron ‘Ntoni: “La forza vince il diritto”, bisogna accettare questa verità “senza ribellarsi” ammoniva perfino il De Sanctis. L’unico criterio che deve guidarci nella edificazione della realtà starà nella coincidenza degli ideali con i fatti: i primi avranno la loro verifica nei secondi, il loro crisma di validità dalla positività del risultato. “Il faut modifier la théorie pour l’adapter à la nature, et non la nature pour l’adapter à la théorie », scrive Claude Bernard : e Zola sottoscrive l’affermazione dell’amico scienziato. Se la Francia è stata vinta dalla Germania, si è perché questa era organizzata in maniera scientifica, positiva (ed in un suo romanzo lo Zola ci rivela tutta la sua ammirazione per l’organizzazione militare tedesca): la repubblica stessa, afferma lo Zola, sarà naturalistica o non sopravviverà. (Luperini, p. 6-7)
LA GESTAZIONE DEL ROMANZO
L’habitat siciliano
Tenuto conto che il suo non ancora riconosciuto capolavoro “I Malavoglia” compare nella sua prima edizione a Milano nel 1881, quando ormai lo scrittore era approdato alla sua piena maturità, si deve dire che a quest’opera egli arriva dopo una fase di sperimentazioni nelle quali l’ancor giovane Verga si fa conoscere per aver inseguito i moduli “realistici”, andando ben oltre la scuola romantica, che ormai si riteneva adatta per una stagione decisamente tramontata. Si può parlare per lui di una sorta di “conversione”. La gestazione dell’opera è indubbiamente lunga e passa dal ciclo delle novelle, brevi racconti con cui lo scrittore cerca il suo equilibrio compositivo e il suo linguaggio. Le sue Novelle si prestano molto a conoscere e far conoscere il suo mondo, e cioè la realtà siciliana. Da essa poi emergere la sua visione del mondo, che appare legato ad un angolo particolare, per il tipo di umanità che vi si trova; tuttavia poi questo habitat meridionale diventa emblematico e significativo per parlare dell’uomo, delle persone, delle situazioni umane che riguardano tutti. Il mondo verghiano è indubbiamente quello siciliano, con i suoi angoli più riposti, con il suo linguaggio più crudo e più realista; ma nello stesso tempo quella varia umanità, che vi si muove, non è sola di una geografia ristretta. E anche i singoli personaggi che inizialmente sembrano i protagonisti della scena e della storia, poi di fatto si riconoscono ancor meglio dentro un quadro sociale, che li fa essere appartenenti ad una famiglia, ad un paese, ad un mondo.
Il mondo dei “vinti”
Si va delineando così il “mondo dei vinti”, che se, inizialmente sembra circoscritto ad una famiglia e dentro un paese dell’isola, all’estrema periferia del mondo umano, poi si allarga a comprendere una umanità più vasta, nella quale è possibile riconoscere anche chi sembra essersi fatto strada, aver acquisito un prestigio e, insieme alla “roba”, anche una certa ricchezza; ma non per questo uno così va considerato vincente. Questa categoria di persone non è propriamente un ceto o una classe sociale, anche se a leggere il suo capolavoro si potrebbe arrivare a questa conclusione. Ma poiché egli continua “il ciclo dei vinti”, allargando la sua visione a comprendere anche chi è di categorie superiori, si deve concludere che il mondo vede tanta gente, tanta umanità destinata ad essere travolta dal flusso della storia, segno evidente che il cammino “positivo” (ma sarebbe meglio definire “positivista”), per quanto possa essere all’insegna del progresso della scienza non è comunque destinato a promuovere l’umanità. Quella che sarebbe stata una visione più che positiva, si trasforma in una tragedia che tutto travolge. Nello stesso tempo, anche se il ciclo dei vinti viene delineato in anteprima, con l’intento di perseguire questa visione del mondo, poi questo non ha possibilità di andare a compimento: lo scrittore non riesce a proseguire il suo disegno che pur aveva in mente di realizzare. Si è esaurita la vena narrativa? Oppure la stessa visione appare senza sbocchi, e come tale non più proseguibile? Si potrebbe dire che, se con il capolavoro egli raggiunge finalmente l’obiettivo della sua ri-cerca di scrittore, poi però non è più in grado di portare a compimento il suo disegno, già abbozzato in una lettera dell’aprile 1878.
Ho in mente un lavoro, che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano … Il primo racconto della serie, che pubblicherò fra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea … Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti. Il realismo, io, l’intendo così, come la schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa: la sincerità dell’arte, in una parola, potrà prendere un lato della fisionomia della vita italiana moderna, a partire dalle classi infime, dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron ‘Ntoni, e a finire nelle varie aspirazioni, nelle ideali avidità dell’uomo di lusso (un segreto), passando per le avidità basse, alle vanità del Mastro don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia, all’ambizione di un deputato. (I Malavoglia, p. 30)
Così si va delineando in corso d’opera il suo piano, che pur non sarà mai completato, anche ad aver chiari gli obiettivi che si prefiggeva. Si deve ritenere che la chiarezza della folgorazione avuta con la sua conversione ha lasciato spazio in seguito alla consapevolezza che una simile lettura, per quanto suggestiva, non desse alcuno sbocco. Nello stesso tempo, anche ad avere la possibilità di continuare, perché la sua attività conosceva finalmente una certa pausa e l’ambiente ritrovato della sua terra natale poteva sembrare più adatto a comunicargli l’ispirazione, l’ispirazione si incaglia e il ciclo promesso non riesce a lievitare e ad uscire. Sono anche cambiati i tempi e quella visione della vita sembra superata dalle circostanze e dalle prospettive che si potevano aprire dopo la stagione delle illusioni e delle delusioni.
Un nuovo linguaggio
Rimane comunque per quella particolare stagione questo modo di procedere nell’analisi della vita, che ha contribuito certamente a leggere
la realtà nell’intento di offrire una visione più oggettiva, o, come si diceva allora, più “veristica”. Questa particolare analisi della realtà, che non voleva affatto far ricorso alla psicanalisi, come si farà in seguito, e neppure all’indagine di tipo moralistico – religioso, sembrava il più oggettivo possibile, perché dettato da criteri di tipo scientifico – sociologico, ma evidentemente non sembrava esaurire la conoscenza della realtà circostante. Evidentemente è una lettura insufficiente, per quanto possa essere, nel contesto storico in cui è nata, qualcosa di profondamente originale. Essa ha creato comunque una nuova forma narrativa, non solo sotto il profilo dei contenuti, ma anche sotto quello formale, sia nel linguaggio, sia nella strutturazione narrativa. Bisogna riconoscere che Verga ha qui adottato un nuovo modulo, dopo le prime sperimentazioni, derivate dalle letture scolastiche, come si evince nel romanzo di natura epistolare “Storia di una capinera”. Dire che qui egli continua l’eredità foscoliana non sembra affatto plausibile: il contenuto è ben diverso e l’impostazione, ovvia, dell’io narrativo – visto che si tratta di una serie di lettere scritte dalla protagonista della storia d’amore – non può essere considerata simile a quella di Jacopo Ortis, nella cui figura si ravvisava l’autore stesso, anche se il protagonista si uccide, diversamente dall’autore che non arriva a tanto. Questa impostazione di natura autobiografica dà ampio spazio al cosiddetto “io narrante”, mediante il quale la storia viene letta in chiave di introspezione psicologico – sentimentale. Ovviamente tutto questo non può addirsi al sistema in vigore nel naturalismo di origine francese o nel realismo in voga nella letteratura italiana della metà dell’Ottocento. E, dovendo poi sposare l’arte verista che segue quella realista fino ai suoi estremi, Verga giunge ad una forma narrativa che diventa sempre più “oggettiva”, per escludere assolutamente lo stesso narratore dalla sua materia. Non ci possono essere nei suoi racconti “veristi” momenti di riflessione o comunque accenni ad un giudizio che lasci trasparire sentimenti o stati d’animo di chi elabora la storia. Questa invece deve dipanarsi in maniera totalmente oggettiva. Nasce di qui un nuovo modo di scrivere i racconti e i romanzi che si definirà sempre più nella sua “impersonalità”, come se il narratore non ci fosse affatto nel suo racconto, che invece viene dipanato in modo particolare dagli stessi protagonisti della storia. In questo modo abbiamo il prevalere di una forma che sa tanto di teatrale, perché anche quando gli attori non parlano in modo diretto, la esposizione dei fatti sembra comunque appartenere di più a loro, anche e soprattutto per il linguaggio colorito che esso assume nelle sue forme gergali popolari. Ed anche gli episodi cruciali, quelli nei quali la storia conosce lo snodo determinante, appaiono, a chi legge, come se a narrarli fossero gli stessi protagonisti, che li stanno vivendo: così si crea una particolare empatia fra personaggi e lettori, divenuti in quella situazione come spettatori ed essi stessi implicati nella vicenda. Si ha così la sensazione di essere più che mai coinvolti, addirittura presenti e quindi di avvertire come immediata la realtà, e di essere “in medias res” nella verità dei fatti, senza interpretazioni. In realtà questa risulta essere la lettura degli stessi personaggi, più che mai “vinti”, più che mai travolti dagli stessi eventi. La pagina che sembra più rappresentativa di questo modulo narrativo è quella che ci fa conoscere la battaglia di Lissa, scontro navale della III guerra di indipendenza, (20 luglio 1866), in cui muore uno della famiglia Malavoglia, il giovane Luca.
In quel crocchio, invece dell’asino caduto, c’erano due soldati di marina, col sacco in spalla e le teste fasciate, che tornavano in congedo. Intanto si erano fermati dal barbiere a farsi dare un bicchierino d’erbabianca. Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi zeppi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche. — Il figlio di Maruzza la Longa ci era anche lui sul Re d’Italia, osservò don Silvestro, il quale si era accostato per sentire. — Ora vado a dirlo a mia moglie! saltò su mastro Turi Zuppiddu, così si persuaderà ad andarci da comare Maruzza, ché i musi lunghi non mi piacciono, fra vicini ed amici. Ma intanto la Longa non ne sapeva nulla, poveraccia! e rideva ed era in festa coi parenti e gli amici. Il soldato non finiva di chiacchierare con quelli che volevano ascoltarlo, giocando colle braccia come un predicatore. — Sì, c’erano anche dei siciliani; ce n’erano di tutti i paesi. Del resto, sapete, quando suona la generale nelle batterie, non si sente più né scia né vossia, e le carabine le fanno parlar tutti allo stesso modo. Bravi giovanotti tutti! e con del fegato sotto la camicia. Sentite, quando si è visto quello che hanno veduto questi occhi, e come ci stavano quei ragazzi a fare il loro dovere, per la Madonna! questo cappello qui lo si può portare sull’orecchio! Il giovanotto aveva gli occhi lustri, ma diceva che non era nulla, ed era perché aveva bevuto. — Si chiamava il Re d’Italia, un bastimento come non ce n’erano altri, colla corazza, vuol dire come chi dicesse voi altre donne che avete il busto, e questo busto fosse di ferro, che potrebbero spararvi addosso una cannonata senza farvi nulla. È andato a fondo in un momento, e non l’abbiamo visto più, in mezzo al fumo, un fumo come se ci fossero state venti fornaci di mattone, lo sapete? — A Catania c’era una casa del diavolo! aggiunse lo speziale. — La gente si affollava attorno a quelli che leggevano i giornali, che pareva una festa. — I giornali son tutte menzogne stampate! sentenziò don Giammaria.
— Dicono che è stato un brutto affare; abbiamo perso una gran battaglia, disse don Silvestro. Padron Cipolla era accorso anche lui a vedere cos’era quella folla. — Voi ci credete? sogghignò egli alfine. Son chiacchiere per chiappare il soldo del giornale. — Se lo dicono tutti che abbiamo perso! — Che cosa? disse lo zio Crocifisso mettendosi la mano dietro l’orecchio. — Una battaglia. — Chi l’ha persa? — Io, voi, tutti insomma, l’Italia; disse lo speziale. — Io non ho perso nulla! rispose Campana di legno stringendosi nelle spalle; adesso è affare di compare Piedipapera e ci penserà lui; e guardava la casa del nespolo, dove facevano baldoria. — Sapete com’è? conchiuse padron Cipolla, è come quando il comune di Aci Trezza litigava pel territorio col Comune di Aci Castello. Cosa ve n’entrava in tasca, a voi e a me? — Ve n’entra! esclamò lo speziale tutto rosso. Ve n’entra … che siete tante bestie!… — Il guaio è per tante povere mamme! s’arrischiò a dire qualcheduno; lo zio Crocifisso che non era mamma alzò le spalle. — Ve lo dico io in due parole com’è, raccontava in tanto l’altro soldato. È come all’osteria, allorché ci si scalda la testa, e volano i piatti e i bicchieri in mezzo al fumo ed alle grida. L’avete visto? Tale e quale! Dapprincipio, quando state sull’impagliettatura colla carabina in pugno, in quel gran silenzio, non sentite altro che il rumore della macchina, e vi pare che quel punf! punf! ve lo facciano dentro lo stomaco: null’altro. Poi, alla prima cannonata, e come incomincia il parapiglia, vi vien voglia di ballare anche voi, che non vi terrebbero le catene, come quando suona il violino all’osteria, dopo che avete mangiato e bevuto, e allungate la carabina dappertutto dove vedete un po’ di cristiano, in mezzo al fumo. In terra è tutt’altra cosa. Un bersagliere che tornava con noi a Messina ci diceva che non si può stare al pinf panf delle fucilate senza sentirsi pizzicar le gambe dalla voglia di buttarsi avanti a testa bassa. Ma i bersaglieri non sono marinari, e non sanno come si fa a stare nel sartiame col piede fermo sulla corda e la mano sicura al grilletto, malgrado il rollio del bastimento, e mentre i com-pagni vi fioccano d’attorno come pere fradicie. — Per la madonna! esclamò Rocco Spatu. Avrei voluto esserci anch’io a far quattro pugni! Tutti gli altri stavano ad ascoltare con tanto d’occhi aperti. L’altro giovanotto poi rac-contò pure in qual modo era saltata in aria la Palestro, — la quale ardeva come una catasta di legna, quando ci passò vicino, e le fiamme salivano alte sino alla penna di trinchetto. Tutti al loro posto però, quei ragazzi, nelle batterie o sul bastingaggio. Il nostro comandante domandò se avevano bisogno di nulla. — No, grazie tante, risposero. Poi passò a babordo e non si vide più. — Questa di morire arrostito non mi piacerebbe, conchiuse Spatu; ma pei pugni ci sto. E la Santuzza come tornò all’osteria gli disse: — Chiamateli qua, quei poveretti, che devono aver sete, dopo tanta strada che hanno fatto, e ci vuole un bicchiere di vino schietto. Quel Pizzuto avvelena la gente colla sua erbabianca, e non va a confessarsene. Certuni la coscien-za l’hanno dietro le spalle, poveretti loro! — A me mi sembrano tanti pazzi, costoro! diceva padron Cipolla soffiandosi il naso adagio adagio. Che vi fareste ammazzare voi quando il re vi dicesse: fatti ammazzare per conto mio? — Poveracci, non ci hanno colpa! osservava don Silvestro. Devono farlo per forza, perché dietro ogni soldato ci sta un caporale col fucile carico, e non ha a far altro che star a vedere se il soldato vuol scappare, e se il soldato vuol scappare il caporale gli tira addosso peggio di un beccafico. — Ah! così va bene! Ma è una bricconata bell’e buona!
(I Malavoglia, cap. IX, p. 129-131)
Dovremmo qui registrare il racconto storico di una battaglia: si tratta di un evento che ha già una sua oggettività, appartenendo al mondo della narrazione storica, che spesso confina anche in quello epico. Ed in effetti qui sembra di ravvisare qualcosa di epico nel modo con cui se ne parla facendo evocare il fatto a partire da ciò che ne dicono i personaggi del paese. Anche quando è il narratore a parlarne, egli ne rievoca i dettagli a partire da come li vedrebbero gli abitanti del paese, i quali vengono coinvolti di riflesso, solo perché tra i marinai che sono caduti in battaglia ci sta pure Luca, uno di loro. Così lo scrittore sembra scomparire, e il fatto emerge invece dalle parole e dalle forme gergali proprio di questa povera gente, che nel suo linguaggio enfatizza l’evento, dando ad esso una pati-na di epicità.
Per rappresentare questo mondo popolare Verga si basa su una rigorosa documentazione: ha raccolto informazioni e dati concreti sulla vita dei pescatori e dei contadini, su usi, tradizioni, proverbi e modi linguistici del popolo siciliano. Ma la sua scrittura non è documentaria, non ha la freddezza dell’inchiesta sociale: essa vuole offrire di quel mondo un’immagine ricca e intensa, calandosi all’interno dei suoi valori arcaici; la partecipazione al destino dei personaggi esclude però una diretta partecipazione dell’autore. Anche qui lo scrittore realizza il canone dell’impersonalità, dando la parola a un narratore popolare: ma qui la voce tende a coincidere coll’intera comunità dei parlanti di Aci Trezza; gli eventi appaiono tutti proiettati entro un punto di vista collettivo, come se a parlare fosse una sorta di “coro (L. Russo), in cui si intrecciano tutte le voci, gli sguardi e i giudizi degli abitanti del villaggio.
Le vicende dei Malavoglia sono sempre “pubbliche” (o, meglio, in questa comunità non c’è nessuna differenza tra pubblico e privato), e la voce che racconta dà l’effetto di una comunicazione indifferenziata, in cui coincidono anche il presente e il passato, in cui tutto è immediatamente oggettivo.
(Ferroni, p. 423-4)
IL CICLO DEI VINTI
Il romanzo scuote il mondo culturale dell’epoca: esso si discosta dagli schemi consueti e propone la storia di una famiglia del ceto popolare con un particolare alone epico, ma non secondo i canoni classici. Non è una storia a lieto fine e, come tale, ha molto il sapore di una tragedia. Proponendo qualcosa di inedito rispetto a ciò che ci si dovrebbe aspettare in un racconto che vuol essere popolare, lo stesso autore deve premettere una spiegazione per chiarire i suoi intendimenti, che prevedono un ciclo, il famoso ciclo dei vinti. Non andrà oltre i primi due romanzi. Ma nella sua prefazione lo scrittore offre pure i canoni del nuovo mondo verista di cui egli diventa il capofila, il maestro riconosciuto. E tuttavia la stagione del verismo è destinata a nascere e a morire di fatto con lui e con i pochi che ne assumono i canoni. Deciso a far trionfare in maniera positivista quel genere di realismo che vuole l’arte come riproduzione della realtà senza secondi fini, senza prefiggersi ideali o dottrine da sostenere, l’autore indica il suo programma non solo nel delineare le opere che fanno parte del ciclo, ma anche come egli intenda considerare la realtà che lo circonda e il percorso storico che gli sta davanti.
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
(I Malavoglia, p. 37-39)
È un nuovo “umanesimo”?
Come si può ben notare qui non c’è solo un programma di natura letteraria, la spiegazione di una particolare forma stilistica; qui si entra in modo particolare in una concezione di vita che non considera di fatto solo una classe sociale, la categoria dei più deboli, semplicemente perché posti all’ultimo gradino della scala sociale. Se anche parte di qui, Verga non vede solo una famiglia di poveri, di disgraziati, di sconfitti nella vita, soprattutto perché privati di ciò che a loro sembra necessario per vivere e per avere dignità. Si potrebbe dire che il loro caso riguarda tutti e proprio per questo è opportuno verificare come anche altrove si possa sperimentare la medesima condizione di vita, che proprio per questo appartiene al vivere umano, soprattutto quando l’uomo si lascia condurre e trascinare dal vorticoso scorrere della storia, illudendosi che lì ci sia il progresso deterministico, quando in realtà per lasciargli libero corso, molti sono travolti. E questo non succede solo ai poveri sfortunati che appartengono a classi inferiori, ma riguarda tutti i vinti di tutti i ceti sociali. Chi dovrebbe seguire nel ciclo dei vinti (che – ricordiamolo – non sarà mai portato a termine!), appartiene a classi superiori; e tuttavia anche per costoro la vita è amara; anche per essi non c’è spazio per quel tipo di riscatto che fa guardare con speranza e con vivo desiderio di successo il futuro. La lotta titanica per la vita, a qualunque livello sia vissuta, vede sempre e solo dei vinti, che non vanno perciò circoscritti al solo mondo dei diseredati. Del resto, anche la famiglia dei Malavoglia ha una casa, ha “la roba”, e, per conservarla, lotta, seppur inutilmente. Anche per questa particolare visione dei vinti, da non riservare ad una sola categoria sociale, si deve dire che il linguaggio verista non può essere solo quello dei ceti popolari, dei luoghi periferici, delle forme dialettali o gergali, se non perché in queste modalità espressive noi abbiamo il “verismo” narrativo. Così questo fenomeno letterario non è solo dato da testi ambientati nel mondo meridionale e caratterizzati da un linguaggio che è di casa in queste terre. La questione verista è qualcosa di molto più importante rispetto all’ambito letterario, perché qui si ha una particolare visione della vita e dell’uomo.
Soffermandoci solo sui Malavoglia (i personaggi di questa famiglia, che dovremmo definire sfortunata, perché tutti i suoi protagonisti vivono momenti drammatici), dovremmo concludere che essi sono i vinti per eccellenza. Eppure proprio per questo motivo essi appaiono “protagonisti”, gli eroi del romanzo, le figure di primo piano di una storia, quella umana, che appare implacabile con chi non ha la volontà di lottare per uscire dall’ineluttabile. Non per nulla essi sono definiti “Malavoglia”, con un termine che è già un giudizio nei loro confronti. Anche chi cerca disperatamente di venirne fuori, cercando fortuna altrove, senza rimanere an-corato alla terra, alla casa, alla “roba”, in generale, è comunque risucchiato da questo tragico vortice, di cui l’episodio della tempesta è il segno illuminante e costituisce il punto “vertice” del romanzo stesso.
Ma a quel giuoco da disperati si arrischiava la vita per qualche rotolo di pesce, e una volta i Malavoglia furono a un pelo di rimettercela tutti la pelle, per amor del guadagno, come Bastianazzo, mentre erano all’altezza dell’Agnone, verso sera, e il cielo era tanto fosco che non si vedeva più neppure l’Etna, e il vento soffiava a ondate che pareva avesse la parola. — Brutto tempo! diceva padron ‘Ntoni. Il vento oggi gira peggio della testa di una fraschetta, e il mare ha la faccia come quella di Piedipapera quando vuol farvi qualche brutto tiro. Il mare era del color della sciara (vocabolo siciliano con cui si indica l’accumulo vulcanico della lava), sebbene il sole non fosse ancora tramontato, e di tratto in tratto bolliva tutt’intorno come una pentola. — Adesso i gabbiani devono essere tutti a dormire; osservò Alessi. — A quest’ora avrebbero dovuto accendere il faro di Catania, disse ‘Ntoni, ma non si vede niente. — Tieni sempre la sbarra a greco, Alessi, ordinò il nonno, fra mezz’ora non ci si vedrà più peggio di essere in un forno. —
Con questa brutta sera e’ sarebbe meglio trovarsi all’osteria della Santuzza. — O coricato nel tuo letto a dormire, non è vero? rispose il nonno; allora dovevi fare il segretario, come don Silvestro. Il povero vecchio aveva abbaiato tutto il giorno pei suoi dolori. — È il tempo che muta! diceva lui, lo sento nelle ossa io. Tutt’a un tratto si era fatto oscuro che non ci si vedeva più neanche a bestemmiare. Soltanto le onde, quando passavano vicino alla Provvidenza, luccicavano come avessero gli occhi e volessero mangiarsela; e nessuno osava dire più una parola, in mezzo al mare che muggiva fin dove c’era acqua. — Ho in testa, disse a un tratto ‘Ntoni, che stasera dovremmo dare al diavolo la pesca che abbiamo fatta. — Taci! gli disse il nonno, e la sua voce in quel buio li fece diventare tutti piccini piccini sul banco dov’erano. Si udiva il vento sibilare nella vela della Provvidenza e la fune che suonava come una corda di chitarra. All’improvviso il vento si mise a fischiare al pari della macchina della ferrovia, quando esce dal buco del monte, sopra Trezza, e arrivò un’ondata che non si era vista da dove fosse venuta, la quale fece scricchiolare la Provvidenza come un sacco di noci, e la buttò in aria. — Giù la vela! giù la vela! gridò padron ‘Ntoni. Taglia! taglia subito! ‘Ntoni, col coltello fra i denti, s’era abbrancato come un gatto all’antenna, e ritto sulla sponda per far di contrappeso, si lasciò spenzolare sul mare che gli urlava sotto e se lo voleva mangiare. — Tienti forte! tienti forte! gli gridava il nonno in quel fracasso delle onde che lo volevano strappare di là, e buttavano in aria la Provvidenza e ogni cosa, e facevano piegare la barca tutta di un lato, che dentro ci avevano l’acqua sino ai gi-nocchi. Taglia! taglia! ripeteva il nonno. — Sacramento! esclamò ‘Ntoni. Se taglio, come faremo poi quando avremo bisogno della vela? — Non dire sacramento! che ora siamo nelle mani di Dio! Alessi s’era aggrappato al timone, e all’udire quelle parole del nonno cominciò a strillare — Mamma! mamma mia! — Taci! gli gridò il fratello col coltello fra i denti. Taci o ti assesto una pedata! — Fatti la croce, e taci! ripeté il nonno. Sicché il ragazzo non osò fiatare più. Ad un tratto la vela cadde tutta di un pezzo, tanto era tesa, e ‘Ntoni la raccolse in un lampo e l’ammainò stretta. — Il mestiere lo sai come tuo padre, gli disse il nonno, e sei Malavoglia anche tu. La barca si raddrizzò e fece prima un gran salto; poi seguitò a far capriole sulle onde. — Da’ qua il timone; ora ci vuole la mano ferma! disse padron ‘Ntoni; e malgrado che il ragazzo ci si fosse aggrappato come un gatto anche lui, arrivavano certe ondate che facevano sbattere il petto contro la manovella a tutt’e due. — Il remo! gridò ‘Ntoni, forza nel tuo remo, Alessi! che a mangiare sei buono anche tu. Adesso i remi valgono meglio del timone.
La barca scricchiolava sotto lo sforzo poderoso di quel paio di braccia. E Alessi ritto contro la pedagna (termine marinaresco che descrive le traverse di legno dell’imbarcazione su cui poggiano i rematori), ci dava l’anima sui remi come poteva anche lui. — Tienti fermo! gli gridò il nonno che appena si sentiva da un capo all’altro della barca, nel fischiare del vento — Tienti fermo, Alessi! — Sì, nonno, sì! rispose il ragazzo. — Che hai paura? gli disse ‘Ntoni. — No, rispose il nonno per lui. Soltanto raccomandiamoci a Dio. — Santo diavolone! esclamò ‘Ntoni col petto ansante, qui ci vorrebbero le braccia di ferro come la macchina del vapore. Il mare ci vince. Il nonno si tacque e stettero ad ascoltare la burrasca. — La mamma adesso dev’essere sulla riva a vedere se torniamo; disse poi Alessi. — Ora lascia stare la mamma, aggiunse il nonno, è meglio non ci pensare. — Adesso dove siamo? domandò ‘Ntoni dopo un altro bel pezzo, col fiato ai denti dalla stanchezza. — Nelle mani di Dio, rispose il nonno. — Allora lasciatemi piangere, esclamò Alessi che non ne poteva più. E si mise a strillare e a chiamare la mamma ad alta voce, in mezzo al rumore del vento e del mare; né alcuno osò sgridarlo più. — Hai un bel cantare, ma nessuno ti sente, ed è meglio starti cheto, gli disse infine il fratello con la voce mutata che non si conosceva più nemmen lui. Sta zitto che adesso non è bene far così, né per te, né per gli altri. — La vela! ordinò padron ‘Ntoni; il timone al vento verso greco, e poi alla volontà di Dio. Il vento contrastava forte alla manovra, ma in cinque minuti la vela fu spiegata, e la Provvidenza cominciò a balzare sulla cima delle onde, piegata da un lato come un uccello ferito. I Malavoglia si tenevano tutti da un lato, afferrati alla sponda; in quel momento nessuno fiatava, perché quando il mare parla in quel modo non si ha coraggio di aprir bocca. Padron ‘Ntoni disse soltanto: — A quest’ora laggiù dicono il rosario per noi. E non aggiunsero altro, correndo col vento e colle onde, nella notte che era venuta tutt’a un tratto nera come la pece. — Il fanale del molo, — gridò ‘Ntoni, — lo vedete? — A dritta! gridò padron ‘Ntoni, a dritta! Non è il fanale del molo. Andiamo sugli scogli. Serra! serra! — Non posso serrare! rispose ‘Ntoni colla voce soffocata dalla tempesta e dallo sforzo, la scotta è bagnata. Il coltello, Alessi, il coltello. — Taglia, taglia, presto. In questo momento s’udì uno schianto: la Provvidenza, che prima si era curvata su di un fianco, si rilevò come una molla, e per poco non sbalzò tutti in mare; l’antenna insieme alla vela cadde sulla barca rotta come un filo di paglia. Allora si udì una voce che gridava: — Ahi! come di uno che stesse per morire. — Chi è? chi è che grida? domandava ‘Ntoni aiutandosi coi denti e col coltello a tagliare le rilinghe (termine locale?) della vela, la quale era caduta coll’antenna sulla barca e copriva ogni cosa. Ad un tratto un colpo di vento la strappò netta e se la portò via sibilando. Allora i due fratelli poterono sbrogliare del tutto il troncone dell’antenna e buttarlo in mare. La barca si raddrizzò, ma padron ‘Ntoni non si raddrizzò, lui, e non rispondeva più a ‘Ntoni che lo chiamava. Ora, quando il mare e il vento gridano insieme, non c’è cosa che faccia più paura del non udirsi rispondere alla voce che chiama. — Nonno, nonno! gridava anche Alessi, e al non udir più nulla, i capelli si rizzarono in capo, come fossero vivi, ai due fratelli. La notte era così nera che non si vedeva da un capo all’altro della Provvidenza, tanto che Alessi non piangeva più dal terrore. Il nonno era disteso in fondo alla barca, colla testa rotta. ‘Ntoni finalmente lo trovò tastoni e gli parve che fosse morto, perché non fiatava e non si moveva affatto. La stanga del timone urtava di qua e di là, mentre la barca saltava in aria e si inabissava. — Ah! san Francesco di Paola! Ah! san Francesco benedetto! strillavano i due ragazzi, ora che non sapevano più che fare. San Francesco misericordioso li udì, mentre andava per la burrasca in soccorso dei suoi devoti, e stese il suo mantello sotto la Provvidenza, giusto quando stava per spaccarsi come un guscio di noce sullo scoglio dei colombi, sotto la guardiola della dogana. La barca saltò come un puledro sullo scoglio, e venne e cadere in secco, col naso in giù. — Coraggio, coraggio! gridavano loro le guardie dalla riva, e correvano qua e là colle lanterne a gettare delle corde. — Siam qui noi! fatevi animo! — Finalmente una delle corde venne a cadere a traverso della Provvidenza, la quale tremava come una foglia, e batté giusto sulla faccia a ‘Ntoni peggio di un colpo di frusta, ma in quel momento gli parve meglio di una carezza. — A me! a me! gridò afferrando la fune che scorreva rapidamente e gli voleva scivolare dalle mani. Alessi vi si aggrappò anche lui con tutte le sue forze, e così riescirono ad avvolgerla due o tre volte alla sbarra del timone, e le guardie doganali li tirarono a riva. Padron ‘Ntoni però non dava più segno di vita, e allorché accostarono la lanterna si vide che aveva la faccia sporca di sangue, sicché tutti lo credettero morto, e i nipoti si strappavano i capelli. Ma dopo un paio d’ore arrivò correndo don Michele, Rocco Spatu, Vanni Pizzuto, e tutti gli sfaccendati che erano all’osteria quando giunse la notizia, e coll’acqua fresca e le fregagioni gli fecero riaprir gli occhi. Il povero vecchio, come seppe dove si trovava, che ci voleva meno di un’ora per arrivare a Trezza, disse che lo portassero a casa su di una scala. (I Malavoglia, cap. X, p. 146-150)
L’impersonalità narrativa che si tende a sottolineare come elemento qualificante della narrativa verghiana e verista, emerge anche in questo passo, dove la potenza descrittiva e narrativa insieme è lasciata non tanto all’autore che dall’esterno considera i suoi personaggi, ma proprio ai personaggi stessi che sembrano raccontare loro le diverse situazioni con la loro partecipazione emotiva. Sono a confronto due diverse generazioni e tre diversi modi di guardare alla tragedia di una storia che tutto sconvolge e tutto trascina via con sé. Eppure dentro questo flusso tempestoso, ognuno di questi personaggi e la famiglia nel suo insieme emergono come figure epiche, come personaggi di grande rilievo, dove la disgrazia che tutto travolge su quella nave chiamata (ironicamente?) “Provvidenza”, anche a vincere e a spazzar via, non impedisce a queste figure di delinearsi, di avere una propria personalità. Insomma, è ancora l’uomo il grande protagonista della storia: anche a venire travolto, su di lui si concentra l’attenzione, ma è anche lui, sono anche loro, come singoli e come famiglia, a “salvarsi”, per quanto tutto vada a catafascio.
La tempesta costituisce – come l’affare dei lupini e poi il processo – uno dei nodi del romanzo, uno di quei momenti in cui il Verga s’impegna a fondo e davvero riesce a porre in piena luce tutta l’umanità dei suoi personaggi, riscattandoli dal loro destino di vittime, di creature destinate ad una rassegnata sconfitta. Sempre, quando lo scrittore si trova di fronte all’eroismo individuale o al mito dell’amore, sempre si commuove, e allora partecipa alle vicende dei personaggi con un impeto, un abbandono che ricordano, nonostante la maggiore capacità di controllo del Verga maturo, quello dei romanzi giovanili. (Luperini, p. 84)
Sembra quasi che l’autore, togliendosi di mezzo dalla sua opera con il ricorso all’impersonalità, voglia però far emergere la personalità dei suoi personaggi, che anche ad essere vinti, non per questo sono meno “eroi”, meno “viri”. Essi sono piuttosto uomini dotati di quelle virtù che il processo o il progresso storico sembra voler ignorare o addirittura comprimere o “deprimere” come irrilevanti. In questo modo l’impersonalità del narratore fa trionfare coloro che sono certamente i vinti della storia e che tuttavia sono i veri eroi, che un certo mondo vorrebbe in realtà ignorare, tacere, offuscare. Lo stesso scrittore si troverà nella condizione di non po-ter proseguire nel suo ciclo, così come risulta sopravvivere a se stesso con una maturità e una vecchiaia che diventerà sempre più “improduttiva” rispetto al lavoro svolto in precedenza. Ma bastano questi suoi personaggi a lasciar intendere che, nel ciclo di una storia spinta all’inverosimile in un progresso, anche tecnico, sempre più travolgente, chi deve essere considerato, e non lo è, è proprio la persona umana nella sua dignità individuale.
La logica dei Malavoglia è sì dominata dal fattore economico: ma il successo pratico non vuole essere da loro conseguito a scapito dei principi morali: e per questo è tanto più difficile da raggiungersi in un mondo dove l’onestà è considerata minchioneria. Pure questo ambiente di smaliziati e di pratici non è mai condannato dal Verga; esso rappresenta, in piccolo, la società del tempo, una società che lo scrittore è incapace di giudicare, ma semplicemente vuole riconoscere e accettare. La mancanza di tale condanna – implicando un agnosticismo morale, che parte da una concezione della vita secondo la quale ciascuno deve badare solo a fare il proprio interesse, e tutto il resto … è “chiacchiera” – porta lo scrittore ad accettare egualmente il bene e il male in una rassegnata Weltanshauung che costituirà uno dei limiti del mondo artistico verghiano. È questa gente che fa la storia, che tiene in mano le redini del potere locale, che condiziona le stesse possibilità di vita dei paesani e soprattutto di coloro che, come i Malavoglia, non sanno porsi sul loro medesimo piano di spregiudicatezza. Basti osservare l’affare dei lupini, niente altro che un inganno escogitato da Campana di legno e attuato da Piedipapera ai danni dei Malavoglia, più onesti ma più ingenui: i lupini sono avariati, ma essi se ne accorgono solo dopo che l’affare è concluso e “quel che è di patto non è d’inganno”; eppure, proprio per questi lupini avariati, padron ‘Ntoni contrae un debito che impegna moralmente la intera famiglia per tutta la vicenda del romanzo; cosicché, quando, dopo il consiglio dell’avvocato, i Malavoglia avrebbero la possibilità legale di non pagarlo, essi si rifiutano di compiere questo atto per loro disonesto e si rassegnano piuttosto a perdere la casa del nespolo. Il destino di sconfitti che li attende è quindi già implicito in queste pagine iniziali dell’affare dei lupini, nel fatto cioè che essi devono combattere con armi impari contro l’ambiente che li circonda e li determina (ecco, di nuovo, il “milieu” di Zola) e che può usare degli strumenti di lotta – l’inganno, la calunnia – che essi rifiutano con dignità.
(Luperini, p. 85-86)
BIBLIOGRAFIA
1.
Giovanni Verga, I MALAVOGLIA (a cura di Sergio Campailla),
Newton Compton, 2021
2.
Romano Luperini, PESSIMISMO E VERISMO IN GIOVANNI VERGA,
UTET, 2009
3.
Giulio Ferroni, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, Vol. III,
Elemond, 1991