Nel VII centenario della morte di Dante: nella sua morte, nella verità della sua vita.

DANTE

TRA IL MONTE DEL PURGATORIO

E LA “SUA” FIRENZE

(DOMENICO DI MICHELINO – 1465)

1

L’evento della morte di Dante

Come e quando morì Dante è ancora oggi avvolto nel mistero, perché le notizie che si hanno non sono univoche. Sembra assodato che già nel 1320 si sia trasferito a Ravenna, ospite del signore locale, Guido Novello da Polenta (1275-1333), che se ne servì per l’ambasceria presso il doge di Venezia, con cui Ravenna era in conflitto per le saline.

Ravenna era da sempre in rapporti piuttosto tesi con la metropoli lagunare, per inevitabili ragioni geopolitiche: i veneziani pretendevano il monopolio di tutte le merci che uscivano dal porto di Ravenna, in particolare una merce strategica come il sale di Comacchio, e i conflitti fra i due comuni, le accuse di contrabbando, gli accordi poi rinnegati o non mantenuti erano frequentissimi. Quell’estate Cecco Oderlaffi, subentrato da qualche anno al fratello Scarpetta nella signoria di Forlì, minacciava di far guerra a Ravenna e Venezia era disposta a finanziarlo; non sappiamo quale fosse il mandato di Dante, ma probabilmente il suo viaggio a Venezia doveva servire a prendere tempo e avvisare la Signoria dell’arrivo, più tardi, di una proposta concreta di accordo, che in effetti venne presentata da una nuova delegazione ravennate il 20 ottobre 1321.

Ma Dante era già morto da più di un mese, e di solito si conclude, tirando a indovinare, che ad ucciderlo sia stata una malaria fulminante contratta pro-prio durante quel viaggio tra le paludi. Rientra nella casistica dell’odio fiorentino per Venezia l’invenzione di Filippo Villani, secondo cui i veneziani, scarsamente preparati a confrontarsi con Dante sul terreno dell’eloquenza e spaventati dalla sua fama, rifiutarono di lasciarlo parlare, e quando il poeta, sofferente di febbri, chiede di poter rientrare a Ravenna via mare, egualmente rifiutarono, per paura che convertisse l’ammiraglio, costringendolo a uno scomodo rientro per via di terra che gli sarebbe costato così caro.

Come per tutto quel poco che sappiamo della sua vita, anche la data di morte di Dante è riferita da fonti contraddittorie. Secondo il Boccaccio morì il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, che corrisponde al 14 settembre, ma gli epitaffi che i letterati fecero a gara a scrivere per l’occasione data la morte del poeta alle idi di settembre, cioè il 13. Siccome uno di questi epitaffi, composto da Giovanni del Virgilio, è trascritto dal Boccaccio stesso, parrebbe che il biografo non ci vedesse nessuna contraddizione; e in effetti basta ricordare che le feste cristiane, in continuità con la tradizione ebraica, cominciano al tramonto della vigilia per concludere che Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero.

(Barbero p. 270-1)

La centralità di Dio nella Divina Commedia

Noi non andiamo ad immaginarlo nell’al di là, dove lui racconta di essere stato in quel giro nell’oltretomba, vissuto nei tre giorni del Triduo pasquale, che la Chiesa considera come se fosse un giorno solo. Andiamo piuttosto a conoscerlo (come lui ha conosciuto i tanti personaggi che popolano la sua “Comoedia”), e cioè in quella verità di se stesso che lo fa considerare al cospetto di Dio per quello che è, e quindi un uomo smar-rito “nella selva oscura” e divenuto libero con la purificazione, e soprat-tutto la illuminazione, che la sua guida, Beatrice, gli procura, come già gli aveva fatto pregustare nell’amore giovanile: lei è la donna-angelo che gli dà “salute”. Ciò che Dante vive non è solo una sua esperienza “mistica”, ma è ciò che, secondo lui, ogni uomo è chiamato a vivere, per non finire nella “perdizione”, dovuta allo smarrimento, che si prova lasciandosi andare agli istinti, ai sofismi, alle basse voglie del cuore e della mente umana. Mettendosi nella prospettiva di Dio, tutto viene rivisitato e ridimensionato, perché la guida diventi lo Spirito, la luce interiore che deriva da Dio stesso. È una visione che potremmo definire tipicamente medievale, perché in quel tempo Dio veniva posto effettivamente al centro, e, su di lui, in lui e per lui, tutto veniva letto e riletto, per elevare l’uomo ad una esistenza davvero migliore. L’amara sua condizione di vita, soprattutto a partire dalla durezza dell’esilio, a lui comminato senza una ragione e senza la speranza di riscatto, non gli impedisce di cercare una via di redenzione, che non è solo sua, ma è per tutti, compresi coloro che pur dannati all’Inferno, il suo, emergono in quell’abisso come figure forti, grandiose, solenni, meritevoli pur sempre di rispetto.

Quanto lui afferma in questo viaggio ideale, deriva dal mondo cristiano, a cui il poeta aderisce con una fede sincera, che non solo non gli frena la poesia, ma addirittura la fa divenire sublime. Ciò non impedisce le reazioni emotive, quelle che lo fanno trasalire di gioia e lo fanno anche sfogare con le invettive più sferzanti, soprattutto quando si tratta di denunciare le bassezze di tanti uomini di Chiesa e le miserie fatte di violenza e di corruzione nell’ambito politico. E c’è spazio nel suo poema non solo per tanti personaggi, diversi ed eterogenei, ma anche per tanti stati d’animo che fanno del suo autore un uomo veramente appassionato e nello stesso tempo molto passionale. Eppure, nonostante i trapassi da volgarità ad espressioni sublimi, da amarezze mal represse ad esaltazioni che danno le vertigini, sia per la poesia sia per la mistica, noi abbiamo un autentico capolavoro, che, alla pari con altre forme espressive coeve in diversi ambiti culturali, sta come una “Summa” di vita, in cui si ha l’incontro fra Dio e l’uomo.

La “Divina Commedia”, come viene definita da Boccaccio e come da allora viene ritenuta tale, è in effetti divina, non solo perché parla del mondo ultraterreno, ma perché ci fa entrare in quella realtà con una visione di Dio, che è davvero il “Motore immobile”, colui che nel suo vivere coinvolge tutta la realtà creata ed anche l’uomo, il quale giganteggia sempre, anche quando, per questioni morali, è meritevole della pena eterna.

Il sommo poeta è indubbiamente tale proprio per l’ineguagliabile capolavoro che lo rende davvero unico nel suo genere. Se per altre opere può apparire ben inserito nel contesto culturale del suo tempo, qui, anche a riflettere perfettamente lo spirito culturale in cui è inserito, di fatto non ha trovato l’eguale e, da quanto ha elaborato, nessun altro sarà in grado di cimentarsi con qualcosa di analogo. Esso è indubbiamente divino, non solo per le tematiche affrontate, ma anche perché lo spirito religioso di cui è intriso, dà la centralità a Dio, a cui l’uomo deve tendere con il suo percorso e non senza la grazia divina che interviene.

C’è chi ha visto nella Divina Commedia, non solo il grande capolavoro della letteratura italiana, già divenuta grande nel suo primo affiorare sulla scena, ma anche un’alta opera di teologia: anche attraverso questa storia “fantastica” si fa affiorare il mondo di Dio e quindi la teologia, perché l’uomo possa “indiarsi”, vocabolo di conio dantesco, con cui si vuol descrivere il percorso che conduce l’uomo dentro Dio, in un tipo di conoscenza che è ben più della conoscenza dottrinale. Naturalmente Dante non scrive il poema per fare una specie di propaganda religiosa, in difesa del suo credo cristiano; ma di fatto non sarebbe adeguatamente compre-so, se mancasse anche quel minimo di conoscenza del mondo religioso.

Anche a non voler fare un’opera teologica, una sorta di trattato che ha per oggetto la conoscenza di Dio, il poema mette al centro il cammino di salvezza a cui è chiamato l’uomo che si è perso dietro il male e che ha bisogno più che mai della illuminazione della grazia divina. Così è inevitabile che il suo poema sia una grande celebrazione di Dio, a cui si dirigono la mente e il cuore umano, e che, dentro quel percorso dell’uomo verso il raggiungimento di Dio nell’empireo, si avverta la sua profonda ricerca di pace e di beatitudine, raggiunta alla fine con l’elevazione della mente “in Deum”. Soprattutto poi nel Paradiso si coglie questa immersione profonda in Dio, perché in quel luogo di santità e di grazia cresce la luce, aumenta la melodia musicale, si fa più viva e più vera la pace interiore, quella che Dante vuol provare e far provare con la sua ineffabile poesia.

La preghiera nella Divina Commedia

Si aprono così spazi molto belli di preghiera, di canti, di espressione di giubilo, che solo una interpretazione minimalista poteva far sentire meno poetica: nella critica, dominante anche nella scuola, si tende a far credere che, dove la teologia ha il sopravvento, perché la dottrina cristiana deve farsi chiara e sicura, lì manca l’estro poetico o potrebbe sembrare meno riuscita l’ispirazione che è propria della poesia.

Eppure la poesia permette anche la preghiera, che appare quanto mai sciolta, frutto di una elaborazione rispettosa del testo di riferimento e nello stesso tempo rinnovata e adatta alla situazione e al contesto della cantica. Nel brano che prendiamo in considerazione si riconosce la libertà espressiva del poeta, che non disdegna di essere pur sempre ligio al testo di riferimento e alla visione teologica che vi sta sottesa, dimostrando in tal modo di sapersi elevare con una autentico spirito di orazione e con una grandiosa visione mistica, che sa raggiungere il cuore umano per elevarlo a Dio.

IL “PADRE NOSTRO”

(Purgatorio XI, 1-24)

Nella cornice dei superbi

All’inizio del canto XI del Purgatorio, dopo che nel canto precedente sono stati introdotti i primi abitatori del regno della purificazione, cioè i superbi, ci troviamo in presenza della preghiera ben nota, e molto usata, qui messa in bocca ai penitenti della prima cornice. È la preghiera del “Padre nostro”, che viene fatta risalire al Vangelo stesso, e messa in bocca a Gesù, maestro di preghiera per i suoi discepoli. Secondo la versione di Luca questa preghiera compare quando Gesù deve insegnare a pregare o far capire come debba essere la preghiera cristiana nella sua essenzialità. Dante riprende il testo latino e lo rende nella lingua volgare: essa è così la prima traduzione del testo, che in realtà da allora e per altri secoli successivi fu conservato nella lingua latina. Risulta ai più particolarmente strana la collocazione di questa preghiera nel contesto del Purgatorio; e ancora più stupefacente che sia messa in bocca alle anime che si stanno purificando, per le quali soprattutto le espressioni finali risulterebbero non adatte al contesto. L’analisi che tentiamo di fare ci mette anche nella prospettiva di intendere bene questo testo, dove le espressioni usate oggi non sembrano più essere in linea con le espressioni che troviamo nel testo greco e latino, e comunque in linea con lo spirito che ha animato colui che viene considerato l’autore della preghiera, a noi consegnata, per diventare la preghiera dei figli Dio con lo Spirito di Cristo.

Dante ha voluto tentare una sua lettura di quel noto testo evangelico, così fortemente conosciuto e usato un po’ da tutti, anche da quelli che non risultano più osservare la pratica della preghiera e di questa, in particolare.

Dante mette in bocca il testo evangelico, da lui ulteriormente rielaborato, a quella anime che appartengono al mondo di coloro che sono dominati dal primo vizio capitale, e cioè quello della superbia.

I superbi vivono la loro pena secondo la legge del contrappasso: essi, per aver coltivato la superbia, che li voleva a tutti i costi emergere, devono portare pesi enormi, che li fanno incurvare e procedere lentamente mentre si devono picchiare il petto, riconoscendo la loro colpa. E mentre queste anime a fatica procedono, gravati dai massi enormi che li incurvano, dalla loro bocca esce la preghiera con cui inizia il canto XI del Purgatorio.

Dante non si considera certo un superbo, ma indubbiamente è un uomo orgoglioso: e ce ne dà prova in tante occasioni, quando riconosce che lo stesso poema, a cui è legato, lo farà essere “un grande”, gli darà la gloria a cui aspira, con l’incoronazione che lui vorrebbe nel suo bel San Giovanni, il battistero di Firenze. Comunque egli sa bene che la superbia, il primo dei vizi capitali, è un atteggiamento e un modo di essere, oltre che di operare, mediante il quale l’uomo prevarica, presumendo di essere più di quello che è e volendo atteggiarsi ad unico maestro ed esperto, quando altri competono e sorpassano, proprio perché la ricerca cresce e fa crescere. È giusto dunque che se in vita uno vuole ergersi sugli altri come il solo, come l’unico incontrastato maestro, ora sia piegato sotto i massi, che fanno stare con la faccia rivolta alla terra, a quell’humus, con il quale è possibile trovare l’umiltà e coltivare così la virtù, contrapposta al vizio capitale.

La preghiera evangelica del Padre nostro

Perché Dante immagina che i superbi in atto di purificazione devono recitare il “Padre nostro”? Questa preghiera compare nel vangelo di Matteo, nella forma completa, che è divenuta patrimonio comune nella preghiera liturgica e devozionale, privata e comunitaria: essa viene proposta ai discepoli nell’ambito del “discorso della montagna”, con cui l’evangelista indica la nuova legge scritta dal nuovo Mosè per costituire il popolo nuovo. È un popolo di figli, che tali si riconoscono nella conformità al Figlio di Dio e che proprio per questo imparano a pregare come Gesù: non per nulla nella versione di Luca la stessa preghiera, ridotta, viene suggerita ai discepoli che vogliono imparare a pregare sull’esempio del Maestro. Così essa diventa la preghiera dei figli, che riconoscono la loro dipendenza da Dio come Padre, a cui si rivolgono guardando verso l’alto, verso il cielo nel quale Dio abita. Solo così possono pensare di elevarsi al vivere stesso di Dio.

Il Padre nostro rielaborato da Dante

Così i superbi, che in vita hanno cercato di muoversi con alterigia, pensando di non dover dipendere da Dio, mai negato, e comunque mai neppure invocato, ora nella posizione di chi si trova “umiliato”, cioè con lo sguardo rivolto a terra, riconoscono la propria dipendenza da Dio. Ma per essi la preghiera non è più come quella degli oranti che vivono in terra. I superbi, nella loro penitenza purificatrice, riprendono le parole evangeliche con un lavoro di meditazione e di riflessione interiore, che la fa sentire sempre più vera nel modo giusto di intenderla, e cioè come l’orazione dei piccoli e degli umili che devono ben comprendere il senso di quelle parole e proprio per questo le dicono con l’aggiunta di una ulteriore risonanza interiore. Ecco perché all’affermazione iniziale di ciascuna strofa che richiama il testo evangelico c’è l’aggiunta del poeta che deve riflettere la situazione dei superbi in atto di purificarsi così, non solo con la pena, ma anche con l’accorata riflessione che essi fanno. Trovandosi nella posizione di esseri curvati dai pesi, i superbi hanno la possibilità di meditare meglio sulle parole del “Padre nostro”: la preghiera che essi dicono in quella condizione risulta più vera sulla loro bocca, perché essi sono piegati davanti a Dio e lo riconoscono così come colui che devono desiderare di raggiungere. E così deve essere anche per quanti ancora in vita vogliono fare altrettanto …

Queste anime di superbi … sono costrette a tenere lo sguardo chino: l’atteggiamento di chi medita. Vogliamo dire che queste anime non pregano soltanto, non soltanto dicono le parole della preghiera che Gesù ha insegnato agli uomini, ma meditano su di essa, per mistificazione, per palese e continuo riconoscimento del loro orgoglio terreno; perché anche le più alte qualità di cui fossero state dotate, erano in ogni caso un dono di Dio, che andava accettato con umiltà. L’orazione dominicale, dunque, è recitata dalle anime con la mente attenta al significato delle sue parole: di qui l’origine e il valore della parafrasi e amplificazione che le anime ne fanno: commentarla vuol dire per esse averne compreso il significato in tutta la sua estensione, gustarne e assimilarne il nutrimento spirituale. (Pernicone)

Ciò che leggiamo nel Purgatorio dantesco è così una rielaborazione della famosa preghiera evangelica, in cui alle parole ben note si aggiungono quegli elementi che servono ad adattare la preghiera alla situazione dei penitenti di quel luogo: così essi possono meglio comprendere quanto vanno dicendo e nello stesso tempo aiutare i lettori a fare altrettanto.

Il Padre nostro è l’unica preghiera che nel poema è recitata per intero ed è, anche, la prima traduzione in volgare, ma ridimensionata alla situazione in cui si trovano le anime espianti del Purgatorio … Qui Dante obbedisce all’intento di adattare il Padre nostro alla superbia, “però che, come il peccato della superbia, il quale qui si purga, è radice di tutti li mali, così el nostro Padre, il quale qui in aiutorio chiamiamo, è principio e fonte viva d’umiltade e di tutti li beni. … La quale orazione ha tre parti principali: la prima è invocazione, la seconda è petizione, la terza è desiderio che l’orazione abbia effetto”. La preghiera contiene cinque domande, che le anime, in nome di tutti gli uomini, rivolgono a Dio. I versetti dell’orazione domenicale sono distribuiti al principio di ogni terzina e la preghiera … occupa le prime sette terzine dell’XI canto, che nel numero corrispondono alle sette cornici del Purgatorio, ai sette peccati capitali che vengono qui purgati e alle sette virtù che si oppongono a tali peccati.

(Jacomuzzi … p. 161)

Il testo

La struttura è quella consueta del poema: Dante ricorre a terzine (strofe di tre versi endecasillabi), perché anche in questa forma si riconosca il segno “divino” dato dalla presenza dei numeri uno e tre che richiamano l’unità e la trinità di Dio. Il poema è uno solo in tre cantiche; ogni cantica è di 33 canti, più uno iniziale. Il viaggio avviene nell’anno 1300 e nel Triduo pasquale … Tutto, insomma, concorre a richiamare la centralità di Dio, uno e trino, nel quale l’uomo è chiamato a trovare la sua perfezione dopo lo smarrimento, da cui deve risalire mediante la purificazione.

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,

non circunscritto, ma per più amore

ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore

da ogne creatura, com’è degno

di render grazie al tuo dolce vapore.

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,

ché noi ad essa non potem da noi,

s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

Come del suo voler li angeli tuoi

fan sacrificio a te, cantando osanna,

così facciano li uomini de’ suoi.

Dà oggi a noi la cotidiana manna,

sanza la qual per questo aspro diserto

a retro va chi più di gir s’affanna.

E come noi lo mal ch’avem sofferto

perdoniamo a ciascuno, e tu perdona

benigno, e non guardar lo nostro merto.

Nostra virtù che di legger s’adona,

non spermentar con l’antico avversaro,

ma libera da lui che sì la sprona.

Quest’ultima preghiera, segnor caro,

già non si fa per noi, ché non bisogna,

ma per color che dietro a noi restaro”.

PURGATORIO – XI,1-24

La parafrasi

Per meglio comprendere il testo, anche ad essere già di facile lettura, qui si fa la parafrasi, che può meglio far risaltare ciò che appartiene al testo evangelico e ciò che invece risulta aggiunta del poeta.

Padre nostro, che abiti nei cieli,

non da essi limitato, ma per l’amore più intenso

che tu esprimi alle prime creature,

quelle celesti, che lassù tu hai attorno a te,

sia lodato il tuo nome

e la tua potenza, da ogni creatura,

come è giusto che siano rese grazie al dolce tuo Spirito.

Venga verso di noi la pace del tuo Regno,

perché noi non possiamo raggiungerla con i nostri mezzi,

se ella non ci viene da te, anche a metterci tutto il nostro ingegno.

Come gli angeli tuoi fanno sacrificio a te del loro volere, cantando l’osanna,

così facciano gli uomini della propria volontà.

Da’ a noi oggi il nutrimento quotidiano,

senza il quale per questo aspro deserto

va all’indietro chi si affanna di andare sempre più.

E come noi perdoniamo a ciascuno il male che abbiamo sopportato,

anche tu perdona benevolo e non considerare il nostro merito.

Non sperimentare con l’antico avversario la nostra virtù

che si lascia andare facilmente,

ma libera da lui che tenta in continuazione.

Quest’ultima preghiera, signor caro,

non si fa certo per noi, perché non ne abbiam bisogno,

ma per coloro che dietro a noi restarono.

Problemi nel testo: traduzione e commento ad opera di Dante

Potremmo dire che l’essenziale della preghiera evangelica è rimasto, con gli opportuni adattamenti dovuti alle esigenze metriche. E nello stesso tempo, trattandosi di una traduzione, che allora di fatto non si usava sia nella preghiera personale sia nella preghiera liturgica, bisogna riconoscere che Dante ha colto non solo la lettera di quel testo, ma anche e soprattutto lo spirito, come ben si vede nella parte finale, ancora oggi controversa, in riferimento a quanto è stato fatto recentemente con una versione in italiano diversa da quella tradizionale.

Indubbiamente non è facile toccare e modificare un testo, soprattutto quando è entrato nella memoria collettiva.

Anche le aggiunte sue, che sono come una specie di allargamento per meglio intendere, a mo’ di commento, il testo di base, non appaiono solo dettate dall’esigenza di far parlare i personaggi che Dante incontra in quella “cornice” del Purgatorio, in modo tale che lì si veda il riconoscimento della loro passata colpa e il loro ravvedimento. Esse possono anche essere usate nel nostro pregare perché sia meglio inteso il testo nella sua espressione evangelica, ma anche nello spirito che vi soggiace e che spesso viene a mancare, quando le nostre parole risultano molto lontane dal loro etimo originario e soprattutto dall’intenzione che possiamo avvertire nelle parole usate da chi ha composto questa preghiera, entrata, prima ancora che nel testo evangelico, già nell’uso che i primi cristiani potevano fare di essa nei loro incontri.

Anche a partire da questo commento che arricchisce il testo di base e soprattutto a partire dall’uso che se ne fa dentro la cantica del Purgatorio, dobbiamo riconoscere che Dante si rivela un buon teologo, sia come esegeta del testo biblico, sia come maestro di dottrina che vuol introdurre al testo sacro per coglierne lo spirito sotteso.

Qui evidentemente c’è un condensato di dottrina teologica, che non manca comunque di spirito poetico: così la dottrina, sicura e chiara, non impedisce che risulti vivo il Dio qui invocato nella preghiera, e soprattutto siano più che mai vivi e disposti con animo filiale gli esseri umani ben disposti alla preghiera e alla elevazione dell’animo, nonostante il peso gravoso delle proprie colpe.

Analisi del testo dantesco nelle singole strofe

1.

Si parte con l’immagine del Padre, che non è circoscritto neppure in quei cieli dove dimora attorniato dagli spiriti celesti: qui Dio è visto, come da sempre e come un po’ ovunque, in un mondo che è altro rispetto a quello abitato dagli uomini; e tuttavia, anche ad appartenervi per quella sua natura che lo fa essere “altro” dal nostro mondo, egli non vi rimane rinchiuso, proprio perché esprime la sua paternità nei confronti degli esseri umani da lui creati. E chi sta dicendo una simile orazione vuol rimarcare che egli “sta”, perché proprio quella sua stabilità permette al vivere umano di aspirare ad un vivere più sicuro, più solido, più stabile.

2.

La seconda espressione, che traduce la “santificazione” del nome di Dio, vede il poeta chiamare a raccolta la Trinità, a partire dal “nome” che evoca il Padre, per passare al “valore” che fa pensare al Figlio da lui generato e della sua stessa sostanza, per giungere al “dolce vapore” che fa risaltare lo Spirito. Così questa terzina diventa come una glorificazione di Dio nella comunione di vita delle persone che compongono la Trinità, ben oltre il testo evangelico che propriamente non lascia trasparire questo riconoscimento e questa esaltazione della vita trinitaria.

3.

E anche nella richiesta della venuta del Regno, Dante aggiunge il riferimento alla pace che caratterizza questo Regno, perché in esso si raggiunge il disegno divino di una famiglia umana finalmente unità e concorde nella comunione con Dio Padre, passando dal Figlio, il quale ci unisce tutti nell’unico Spirito. È quella pace che evidentemente è l’aspirazione suprema degli uomini nel loro cammino, fatto di miserie, soprattutto a partire dalla superbia che li contraddistingue, e che risulta essere un dono di Dio e non la costruzione dei soli uomini, incapaci, del resto, da soli, di realizzare questo disegno. Il Regno di Dio in effetti è in costruzione, ma come grazia divina, non senza il contributo umano, che è propriamente quello di esprimere la disponibilità all’accoglienza di ciò che discende dall’alto come dono divino.

4.

Nel proporre il riferimento alla volontà paterna che si chiede sia “generata” “come in cielo, così in terra”, Dante si discosta dal testo, e forse anche dallo spirito, della preghiera riportata nel vangelo. Qui addirittura si chiede che venga fatto “il sacrificio” della propria volontà, allo stesso modo con cui ne fanno sacrificio gli angeli, obbedienti in tutto a Dio nell’esercizio della loro missione. Evidentemente questo sacrificio è l’offerta di sé che fa accogliere il disegno di Dio perché diventi in tutto quello de-gli uomini nel loro vivere. Non sembra che il vangelo si spinga fino a questo punto. E tuttavia la cosa appare “logica” nel contesto di uomini peccatori che proprio perché superbi, devono fare il sacrificio della loro volontà per conformarsi alla volontà divina in tutto, in modo tale che possano essere salvi grazie a questo loro sacrificio. 

È la terzina che più si allontana dalla lettera, e, se non c’inganniamo, anche dallo spirito del testo evangelico. In questo la volontà di Dio è naturalmente invocata e pacificamente accettata; nella preghiera dei superbi tale accettazione è sentita come alto sacrificio della volontà delle creature di fronte alla volontà del creatore: per essi che in vita non conobbero altra volontà che la propria, alla quale cercarono di piegare la volontà altrui, questo è il sacrificio più grande, lo sforzo più arduo. Intesa in questo senso, non diremo che qui la parafrasi è più “fiacca”, come ha scritto il Momigliano. Invece, ci lascia perplessi il fatto che i superbi parlino degli angeli e degli uomini non di se stessi, giacché è evidente che non è possibile intendersi inclusi nell’espressione “li uomini”. E’ avvenuto che, mentre lo spirito della parafrasi riflette apertamente il carattere di quelle anime, la lettera del testo evangelico, che parla soltanto di uomini e di angeli (“sicut in coelo et in terra”), ha fatto trascurare al poeta proprio quel che più importava che fosse esplicito nella preghiera dei superbi, il sacrificio cioè della loro volontà.

(Pernicone)

5.

La preghiera continua con la richiesta del pane quotidiano, che evidente-mente risulta compatibile con coloro che ancora vivono in questo mondo, non certo come una esigenza di quanti sono già nel mondo ultraterreno. Evidentemente il riferimento alla manna biblica fa pensare ad un nutrimento di carattere spirituale, necessario per chi si affanna a muoversi, come sta succedendo ai superbi in via di purificazione. Se la richiesta del pane terreno non appare adeguata ai peccatori che qui si muovono, rimane pur sempre vero per loro la necessità di un cibo “spirituale”, come quello che di per sé sembra dato dal pane che il testo evangelico definisce “sostanziale” e non propriamente quotidiano, come da sempre noi abbiamo tradotto. Nel pane sostanziale molti hanno visto il richiamo al pane eucaristico, a cui rimanda, come figura, il termine biblico di “manna”. Ed è ben comprensibile che tale nutrimento sia necessario, pensando all’aspro deserto, quello percorso dagli Ebrei nel loro Esodo, quello percorso dagli uomini nella loro “valle di lacrime”, quello percorso dai peccatori penitenti nella cornice prima del Purgatorio.

6.

La richiesta successiva del perdono, plausibile nella preghiera del Signore per gli uomini mortali che hanno bisogno di perdonare a partire dal perdono ricevuto, non sembra aver senso nel Purgatorio, dove i peccatori, per quanto ancora penitenti, sono già in possesso della prospettiva di godere poi l’eterna beatitudine, e quindi di poter beneficiare del perdono di Dio; ma qui è necessario un atto di umiltà per chi è stato superbo, e questa umiltà si deve riscontrare nella capacità di alimentare in sé il perdono attingendo a quello ricevuto in dono da Dio. E’ giustamente il perdono totalmente gratuito proprio perché non si appoggia ad alcun genere di merito che si possa accampare per avere il perdono, quello di Dio, totalmente gratuito, perché espressione della grazia divina.

7.

Anche la chiusura dovrebbe essere considerata fuori luogo, perché ormai non ha più senso per quei peccatori essere sottoposti alla tentazione diabolica, che invece imperversa nella vita mortale. In effetti i penitenti devono rettificare o spiegare la loro richiesta, che corrisponde al testo del “Pater” come l’hanno appreso dal vangelo e l’hanno pregato nella vita terrena: se dicono quello che anche noi siamo soliti dire, lo fanno per coloro che, ancora in vita, hanno più che mai bisogno di essere tenuti lontano dal maligno (non solo dal male) e di non sperimentare la tentazione che costui continua a fare, mettendo a dura prova la virtù, che appare quanto mai fragile.

La conclusione di Dante

Questa preghiera viene definita da Dante come una “buona ramogna”. Questo termine ha fatto impazzire i commentatori che non hanno trovato comunque una sua plausibile spiegazione. Secondo alcuni sarebbe un termine dialettale appartenente all’antico astigiano o addirittura al francese per significare che in quel parlare dei penitenti sta la loro pulizia o purificazione (ramoner = pulire), espressa con una sorta di lamentazione o di brontolamento (ramogner = brontolare, lamentarsi), anche perché sono sottoposti ad una dura penitenza. Dai penitenti dell’oltretomba essa deve passare a divenire sempre più la preghiera dei figli di Dio, che vivono ancora nel cammino peregrinante, gravati dai tanti pesi che la vita riserva. Dante si augura – anche questo significato sembra essere presente nel vocabolo inedito di “ramogna” – che la preghiera, particolarmente frequente sulla bocca dei cristiani, diventi qualcosa di sempre vivo, di più vivo … Ecco perché lui stesso aggiunge …

Se di là sempre ben per noi si dice,

di qua che dire e far per lor si puote

da quei c’hanno al voler buona radice?

PURGATORIO – XI,31-33

Se le anime del Purgatorio pregano sempre per noi,

da parte nostra, che siamo di qua, che cosa possiamo dire e fare per loro,

sempre da parte nostra, che abbiamo una buona radice al volere,

cioè una buona disposizione a fare la volontà di Dio?

La “buona ramogna”, l’augurio di bene spirituale, espresso dalla loro preghiera, è, come commenta subito il poeta, nello stesso tempo per essi morti e per noi vivi; e in questo accumunare vivi e morti nella stessa preghiera consiste l’originalità e nobiltà della concezione della perifrasi dantesca. Ho detto: “della concezione”, intendendo ben distinguere la concezione dall’esecuzione, che è quale abbiamo cercato di mettere in rilievo. Perché anche noi siam d’accordo con tutti i commentatori, antichi e moderni, i quali unanimemente (anche i giudici più severi) han riconosciuto che Dante – volesse, o no, cimentarsi nel “genere letterario” delle parafrasi dell’orazione dominicale, assai diffuso nel medioevo romanzo e latino – ebbe felicissimo intuito psicologico e poetico nel porre proprio sulle labbra dei superbi l’umile orazione della fiducia, dell’abbandono in Dio, facendola accompagnare da un commento insistente e dolente, quale poteva essere fatto da quelle anime mortificate e rese consapevoli dalla meditazione. Senonché il poeta si trovò davanti ad un testo obbligatorio, che in parte si adattava o poteva anche adattarsi alla condizione di quelle anime, in parte (e, quest’altra, maggiore) no. Il Pater noster evangelico è preghiera di vivi per vivi, peccatori soggetti a peccare, sospesi tra la salvazione e la perdizione. La preghiera dei superbi, invece, si svolge indecisa, un po’ come meditazione propria di spiriti purganti, e un po’ come petizione propria dei viventi: ora credi che parlino per noi, e invece parlano per sé (“lo mal ch’avem sofferto”, ecc.), ora che parlino per sé (“nostra virtù”), e invece parlano per noi. L’artista, messosi nell’impegno di seguire il testo integralmente, non riuscì a eliminare le incongruenze sor-genti dal contrasto tra il testo stesso e le condizioni di fatto delle anime purganti. Forse era un’impresa disperata; e bisogna ammirare come tuttavia il grande artista era riuscito a salvare la coerenza tonale della preghiera, che è costantemente di umana disillusione e di melanconico anelito a Dio: coerenza che non appaga soltanto l’orecchio, ma, scaturendo schietta dall’anima 

del poeta, scende all’anima del lettore con quella sua meditata insistenza sulla pochezza delle forze umane e sul bisogno che l’uomo ha dell’aiuto divino. (Pernicone)

Conclusione

Sembra quasi che Dante avverta la formulazione di una simile preghiera come capita spesso di udirla, ripetuta, ribadita, riformulata, senza che forse ci si renda conto del valore che ha il testo e soprattutto dello spirito che vi si trova. Essa appartiene al cuore della preghiera cristiana ed è, più che una formula, la modalità migliore per trovare in Dio il Padre e in quella preghiera la nostra coscienza di figli. Proprio perché Dante la colloca qui e la fa dire ai penitenti curvati dai pesi che devono, anche fisicamente, richiamare l’esigenza della vera umiltà, dovremmo pensare che egli ci aiuti ad entrare nel genuino spirito della preghiera dei figli, perché nel ripeterla, abbiamo ad assumere la medesima postura, non fisica, ma interiore, che ci fa umili oranti davanti a Dio, lui pure piegato su di noi, come Padre misericordioso. Anche a dire le parole ormai note, non dovremmo mai trascurare quella specie di commento che Dante ci dà, che è come una parafrasi del testo evangelico, perché esso sia colto in tutta la sua profondità e ricchezza.

Con questo atteggiamento entriamo nel cuore del mistero divino, perché qui ci riconosciamo per quello che siamo noi di fronte a Dio stesso, ma più ancora riconosciamo che lui è davvero un padre e lo è sempre più vicino a noi, curvato su di noi, che andiamo curvi sotto i tanti pesi di una esistenza gravata dai mali. Ma proprio la sua presenza in questo modo ci fa sentire più sollevati, perché Dio è davvero tutto per noi!

BIBLIOGRAFIA

1.Alessandro Barbero, DANTE, Laterza – 2020

2. Vincenzo Pernicone, IL CANTO XI DEL PURGATORIO – Cappelli – 1953